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domenica 30 maggio 2021

Gojira - From Mars to Sirius

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Death, Meshuggah
In un periodo in cui c'è attesa per la recensione del neo arrivato 'Fortitude' in casa Gojira, noi andiamo controtendenza andando a ripescare le parole del vecchio 'From Mars to Sirius', terzo lavoro per la band francese, fuori per la Listenable Records nel 2005. Dopo il pesantissimo 'The Link' del 2003, ecco arrivare un disco assai ambizioso, per portare una ventata di freschezza in un panorama death metal all'epoca un po’ stantio. E direi che i Gojira riescono quasi nell’impresa di far uscire un piccolo gioiellino: un cocktail di sonorità che pescano qua e là dal repertorio di Devin Townsend, Fear Factory, Meshuggah e Darkane, aggiungendo alla fine un discreto tocco di personalità. Il platter che ne viene fuori, risulta essere una bella bomba ad orologeria pronta ad esplodere nel vostro stereo. I pezzi sono tutti belli incazzati con ritmiche debordanti, grazie anche ad una batteria martellante, su cui s’impiantano chunky riff e arrangiamenti groovy. I Gojira sono dei maestri nel creare un muro sonoro impenetrabile: "Where Dragons Dwell" ne è una testimonianza palese, in cui una colata lavica di riff pesantissimi creano un'atmosfera asfissiante. La successiva "The Heaviest Matter of the Universe" sembra parafrasare lo stile musicale del quartetto francese, quasi che sia realmente la materia più pesante dell’universo; in questo brano poi all’influenza palese dei Fear Factory si affiancano echi di Morbid Angel e addirittura degli Arcturus. Penserete che sia un pazzo, però vi garantisco la genuinità e la genialità, in alcuni suoi passaggi, di quest'album e di una band pronta a fare (che farà) il grande salto di qualità. E ancora: "Flying Whales" parte molto atmosferica per poi incanalarsi su un un mid tempo ossessivo, quasi ipnotico. Altre songs da segnalarvi: la straripante "Backbone" e le alternative "World to Come" e "Global Warming". Ragazzi, cos’altro dire, quest’album mi è piaciuto parecchio, nonostante i primi ascolti si siano rivelati di difficile lettura, d’altro canto la proposta dei Gojira non è poi cosa semplice d’affrontare. Estremi, ma con gusto. (Francesco Scarci)

(Listenable Records - 2005)
Voto: 75

https://www.facebook.com/GojiraMusic

giovedì 15 aprile 2021

Orecus - The Obliterationist

#PER CHI AMA: Groove Death
Ci hanno impiegato ben 10 anni gli svedesi Orecus a maturare il loro full length d'esordio. Era infatti il 2011 quando il quartetto si formava nei sobborghi di Stoccolma ma solo in questo 2021, 'The Obliterationist' vede finalmente la luce. C'è da dire che i nostri si sono presi una lunga pausa di riflessione tra il 2016 e il 2020 quando poi sono ritornati per prepararsi al massacro contenuto in questo disco. Le dieci tracce incluse nel platter sono fondamentalmente votate ad un death metal ricco di groove anche se il riffing bello massiccio dell'opener, nonchè traccia che dà il titolo al disco, paga un forte tributo ai conterranei Meshuggah. E quindi fiato alle trombe e via per farci maciullare le ossicine da un sound compatto, a tratti serratissimo, in cui a mettersi in luce è sicuramente il vertiginoso lavoro alla batteria da parte di Elias Ryen-Rafstedt (peraltro anche chitarrista) e la prova al microfono del ruggente Philip Grüning, che in passato abbiamo apprezzato negli Apathy Noir. Detto questo, se la prima canzone era dinamica e carica di groove, la seconda "Distress Signal" appare un filo più monolitica e meno apprezzabile per il sottoscritto, mentre la terza "The Destruction Path" cattura in assoluto per una ritmica frenetica, con la voce del frontman a rimbalzare tra un growling possente e qualche urlaccio qua e là. L'indemoniato rifferama spacca che è un piacere, con le chitarre gonfie come le nubi cariche di pioggia in uno scenario apocalittico. Nella quarta "Blodvite", ecco la prima ospitata: Chad Kapper (cantante americano dei Frontierer, A Dark Orbit e When Knives Go Skyward) si affianca al bravissimo Philip in una song che potrebbe evocare nelle parti ritmate i Pantera (soprattutto quando a cantare è un Chad in un pattern vocale vicino a Phil Anselmo). Poi la song è sicuramente più affine ad una carneficina metallica, anche se non mancano momenti di oscurità e angoscia. Con "Omnipotent" si torna a respirare l'aria incendiaria del groove death metal dell'opening track, in cui rimane in evidenza la caratura tecnica dell'uomo dietro alle pelli, in un brano bello dritto nello stomaco, di quelli che fanno piegare inesorabilmente le ginocchia. Ma questo è il marchio di fabbrica degli Orecus che ci danno la loro visione di un suono che non puzza ancora di stantio per quanto siano 30 anni che lo sentiamo in giro. Forse perchè lo fanno con passione, sincerità, non ne ho francamente idea ma per quanto esso sia derivativo, mi ha conquistato. E il massacro prosegue con "Below the Threshold" e la seconda ed ultima guest star fa la sua comparsa, sempre dietro al microfono. Sto parlando di Fredrik Söderberg, corrosiva ugola degli svedesi Soreption, che ben si presta per questa proposta musicale a tratti annichilente, a tratti malsana nella sua stravagante interpretazione. Detonante in questo frangente il basso di Martin Maxe, uno che quando c'è da picchiare sulle quattro corde del suo strumento, non si tira certo indietro. L'incipit di "Unborn, Reborn" mostra il lato più melodico dei quattro svedesi con la chitarra di Francis Larsson a creare visioni cinematiche vicine alle cose meno intransigenti dei Fallujah, ma la pacchia dura giusto quel tempo che i nostri si rimettono in sella al loro potente cingolato e riprendono a far danni, assestando colpi davvero micidiali. La band scandinava sa certamente il fatto suo e la dimostrazione sta in "My Manifest", un brano più rallentato che palesa ottimi arrangiamenti in un pezzo comunque dal piglio abrasivo. La manina gli Orecus non la tirano certo indietro, continuando a deflagrare colpi su colpi ben assestati: si senta la violenza che divampa in "Become the Nihilist", un brano che unisce nuovamente accelerate mortifere con rallentamenti più ragionati. In chiusura, "Extinct" con le sue divagazioni jazzate, pone la classica ciliegina sulla torta, ma non fatevi prendere per il naso perchè star dietro alle sciabolate delle due asce, al basso tonante e all'infervorata voce del frontman, non sarà certo una missione facile. Se avete voglia di un ascolto adrenalinico, fate pure, i cardiopatici siano davvero cauti. (Francesco Scarci)

(Violent Groove Music Group - 2021)
Voto: 74

https://orecus.bandcamp.com/album/the-obliterationist 

martedì 23 marzo 2021

Helestios - Your Pain Tastes Good

#PER CHI AMA: Thrash/Groove
Devo ammettere che l'inizio di "Sacrifice", traccia d'apertura di 'Your Pain Tastes Good', non mi ha fatto esitare un secondo: ho pensato che gli Helestios fossero una band greca. Si perchè il sound sciamanico, evocativo e mediterraneo del quartetto mi ricordava un che dei Rotting Christ. Non ho sbagliato completamente, visto che l'ensemble comprende musicisti provenienti da Lettonia, Paesi Bassi e Grecia (avete visto che un po' di orecchio ce l'ho ancora?), tutti di base però in UK nella sconosciuta Basingstoke, poco distante da Londra. Ebbene, come anticipato, il sound del quartetto ingloba sicuramente influenze elleniche che si miscelano ad un riffing tradizionale thrash, una grande dose di melodia, ma anche un pizzico di atmosfere, come quelle che si apprezzano nell'opener. Un bel biglietto da visita direi, completato da un'eccellente sezione solistica ed un buon songwriting che rende il tutto davvero fluido e fruibile. Queste le prime impressioni di cui ho potuto beneficiare nell'ascolto della traccia d'apertura. Proseguendo con la breve e più compassata "Black Storm", potrei evidenziare la voce graffiante di Henrijs Leja, non del tutto growl, ma comunque con un suo perchè visto che s'innesta alla grande nella sezione ritmica di stampo chiaramente classicheggiante, che la song propone. Ancora tempi controllati nella terza "Downgraded World" che vede una variazione proprio nella voce del frontman, qui più pulita e ruffiana, ma comunque sempre convincente. Le chitarre nel frattempo si divertono a tessere granitiche linee ritmiche, per non parlare poi dell'ennesimo assolo da urlo con cui i nostri ci deliziano, quasi da stropicciarsi gli occhi, o forse sarebbe meglio dire sturarsi le orecchie. La band riparte piano anche in "Back to Where It Starts", senza rinunciare comunque ad improvvise accelerazioni e al grido della sei corde di Stelios Aggelis che improvvisamente squarcia il cielo con un'altra sciabolata delle sue, da leccarsi le dita. Se dovessi trovare il classico pelo nell'uovo e francamente me lo eviterei, mi verrebbe da dire che a parte il terribile artwork di copertina, avrei preferito una maggiore dinamicità a livello ritmico, evitando pertanto di privilegiare quei mid tempo nelle tracce iniziali. Ovviamente vengo subito smentito dalla title track che si apre con un bell'arpeggio a cui segue una ritmica più movimentata su cui si colloca la voce di Henrijs, qui in versione pulita ma un po' meno convincente. Ciò che balza all'orecchio qui, oltra ad un altro fantastico assolo, è invece un rifferama grondante groove da tutti i suoi pori che sembra addirittura pagare tributo ai Pantera nella prima parte, prima di incupirsi nella sua seconda metà, con un sound più malinconico. Se dovessi azzardare un paragone per la band penserei ad una fusione tra Nevermore, Scar Symmetry e Pantera, il tutto avvolto da un'aura oscura di stampo ellenico soprattutto in un brano tirato come "All Attack", scritta a supporto del popolo biellorusso schiacciato da una pesante dittatura politica. Più fresca e diretta invece "You Are Free", dove a mettersi in evidenza, non che in precedenza non l'abbia fatto, è l'abilità percussiva di Ian den Boer, mentre le chitarre sembrano evocare un che degli Iron Maiden, a sottolineare comunque dove le influenze dei nostri affondano. Le vocals invece ammiccano qui più che altrove, ad un certo power metal. Più ipnotica invece "Return to Baalbek", un terremotante inno thrash metal con echi mediorientali che potrebbero essere una sorta di rivisitazione thrash dei Melechesh. Il brano ci catapulta indietro di quasi trent'anni spingendoci ad uno sfrenato headbanging senza tempo, prima dell'ultimo grande assolo del talentuoso chitarrista greco che in questo disco mi ha fatto davvero divertire. Ben fatto ragazzi! (Francesco Scarci)

(Self - 2020)
Voto: 75

https://helestios.bandcamp.com

sabato 7 novembre 2020

Hell:On - Scythian Stamm

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Nile, Melechesh
Bombaaaa... e non stiamo certo parlando della hit di King Africa, ma del nuovo lavoro degli ucraini Hell:On, il sesto per essere precisi. 'Scythian Stamm' è un attacco frontale di death thrash senza tanti fronzoli ma con un'intensità davvero come pochi. Ragazzi io sono ancora frastornato dalla furia annichilente dell'opener "Spreading Chaos" (e dal suo brillante coro), un pezzo che lanciato alla velocità della luce, ha un effetto frantuma ossa, nonostante il quantitativo esagerato di melodia che sgorga dai suoi riff. Per non parlare poi degli spettacolari arabeschi che qua e là emergono lungo il brano. Pazzeschi. Una sorta di Melechesh del death metal con una minor influenza mediorientale ma con una intelligenza musicale ben superiore a mio avviso. E non è solo legato al primo pezzo perchè il tutto si conferma anche nelle note della seconda "The Architect's Temple", forse anche meglio. La tempesta ritmica che si abbatte sulle nostre teste è granitica ma comunque attenuata dalle melodie onnipresenti, che in fase di assolo assumono le sembianze di un heavy classico da URLOOOOOO. Ragazzi, smettete di ascoltare qualsiasi altra cosa e concentratevi su questo 'Scythian Stamm', mi sa che siamo in odore di top album dell'anno per il genere, almeno per il sottoscritto. Album memorabile di cui ne prescrivo obbligatoriamente l'ascolto. E le cose sembrano migliorare di brano in brano con la terza "Ashes of Gods" che sembra più imbrigliata di sonorità Middle East in una sorta di riproposizione degli Orphaned Land più ispirati. Mi piace il tiro delle chitarre (qui più compassate), l'amalgama con basso e batteria e ovviamente anche il ringhio del vocalist, nonchè il lavoro eccelso dei synth a costruire spettacolari parti atmosferiche. Citavo inizialmente l'eccelso livello dei cori, e "Under The Protection From Beyond" oltre a livello musicale, si conferma accattivante soprattutto a livello corale. Certo che poi quando gli axemen decidono di fare i fenomeni della sei-corde non ce n'è davvero per nessuno. Tutto passa in secondo piano e rimango assorbito dal fascino miracoloso dei cinque musicisti di Zaporizhia che in questa song oltre ad inglobare influenze di Nile, Melechesh, Vader, Morbid Angel, sento anche un che dei Pestilence di 'Testimony of the Ancients'. Ma lo spettacolo non finisce certo qui perchè "Movements of the Godless" sfodera quantitativi esagerati di epiche orchestrazioni scuola Xerath/Dimmu Borgir, fate voi, anche se poi la ritmica somiglia più al suono di un cingolato con il drumming in particolare, vicino alla velocità della classica contraerea, con un suono peraltro frastagliato e detonante. Potrei utilizzare decine di righe per descrivere la qualità eccelsa di questo brano ed in generale dell'intero lavoro, ma ve le risparmio e a questo punto mi limito a darvi gli ultimi consigli per un ascolto accurato. Se "The Denial Of Death" sembra configurarsi come un classico del death metal, beh non fatevi fregare perchè le colate chitarristiche potrebbero ricordarvi gli inglesi Akercocke mentre per la componente sinfonico orchestrale, i richiami potrebbero andare ai nostrani Fleshgod Apocalypse, con la sola differenza che io preferisco gli Hell:On, vi basta questa come referenza? C'è comunque ancora tempo per farsi sorprendere dall'inquientante incedere di "B.S.B" e dall'utilizzo di una strumentazione più mediterranea (mi sembra addirittura di sentire uno scacciapensieri) che sembra ritornare anche nell'effervescente "Whispers Of The Past Yet To Come", un altro pezzone a mio avviso forte sotto ogni aspetto melodico strumentale. Mi ero ripromesso di non fare un track by track, eppure 'Scythian Stamm' sembra non lasciare scampo, indi per cui posso ammettere che se avessi potuto fare a meno di una song, quella sarebbe stata "Roaring Silence", meno avvincente delle altre, che in un qualunque altro album però farebbe la sua porca figura, soprattutto a livello solistico (mostri i due chitarristi). In chiusura la deflagrante "My Testament" che obbliga il sottoscritto ad ascoltare l'intera discografia degli Hell:On e se necessario fare incetta dei loro dischi. Ah, l'obbligo è valido anche per tutti voi, sono stato sufficintemente chiaro? (Francesco Scarci)

(Hell Serpent Music - 2020)
Voto: 88

https://hellonband.bandcamp.com/album/scythian-stamm

sabato 27 giugno 2020

Before the Common Era - Anthropologic

#PER CHI AMA: Prog Death/Groove
I Before the Common Era sono un quintetto originario di Londra che con questo 'Anthropologic' varano il loro debut assoluto nel mondo metallico. La proposta offerta dai cinque British in questo EP è all'insegna del death progressive. Questo si evince dal bombardamento ritmico di "Sol", il piccolo gioiellino posto in apertura che indica la via seguita dal quintetto, che si muove tra influenze di meshuggana memoria e rimandi a Devin Townsend e Tesseract, motivo questo per cui i nostri hanno avuto una immediata presa sul sottoscritto. Le melodie sono interessanti, la classica poliritmia di matrice svedese fa il resto con le vocals del frontman che si muovono tra il growl e il pitch pulito, stile ampiamente sfruttato soprattutto nella seconda "Hadeharia". Certo non siamo al cospetto di nessuna novità stilistica, però mi piace poter segnalare nuove band che approcciano da poco il mondo musicale, sperando un domani di aver avuto ragione nel sottolinearne le qualità. La band continua a macinare riff carichi di quel groove che gronda da tutti i pori e "Repudiation" è il manifesto di buoni propositi in termini di belligeranza, esposto dal rifferama caustico e serrato della band. A chiudere questo primo capitolo, ecco "The Tenth Dimension" un brano che miscela in modo bilanciato melodia e violenza in questo primo EP targato Before the Common Era, che meritano di una chance più lunga e strutturata per un giudizio finale meglio delineato. (Francesco Scarci)

mercoledì 29 aprile 2020

Mahavatar - Go With the No!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Metal
Un’energia che non ha bisogno di nulla se non di se stessa per sopravvivere… Immortalità fisica e spirituale… Questi sono i Mahavatar, band proveniente da New York, creatura messa sotto contratto dall'italica Cruz del Sur Music. La prima particolarità che balza all’occhio di questa band è che, ai tempi della presente uscita, la line-up comprendeva due signore, la chitarrista Karla Williams d’origine giamaicana (si avete letto bene, la patria di Bob Marley) e l’altra, la cantante Lizza Hayson, israeliana, supportate ottimamente da tre session. Le due girls, animate dal desiderio di libertà e d’esplorazione della mente attraverso la musica, hanno cosi partorito quest'album dallo strano titolo e da una anche più difficile assimilazione. 'Go With the No!' è in grado però di coniugare, in una commistione di stili ed emozioni, i più svariati generi musicali, riuscendo nell’intento di catturare l’attenzione anche di chi non ama il metal. Gothic, punk, hardcore, dark, jazz, doom e stoner metal si fondono in questa release, debut assoluto della compagine statunitense, attraverso lo scorrere di un sound oscuro, melodico e tribale, sorretto dalle pesanti e malinconiche chitarre di Karla e accompagnato dall’ipnotica voce di Lizza (che presenta una voce accostabile alla nostra Cadaveria,). I Mahavatar sono bravi a spingerci sul bordo del precipizio con le loro musiche psichedeliche e poi a trascinarci giù nei meandri dell’inferno per poi riuscirne con le sue selvagge e melodiche suggestioni in un caleidoscopico giro di emozioni. Bellissima l’ultima e introspettiva “The Time Has Come” con il suo liseergico incedere, quasi a voler scandire i secondi che ci restano da vivere. Lasciate aperta la porta del vostro cuore e date modo ai Mahavatar di toccarvi l’anima. (Francesco Scarci)

(Cruz del Sur Music - 2005)
Voto: 72

https://www.facebook.com/mahavatarHQ

venerdì 1 novembre 2019

Eigenstate Zero - Sensory Deception

#PER CHI AMA: Death sperimentale, Edge of Sanity, The Project Hate
Stoccolma, da sempre centro strategico da cui brulicano band di ogni tipo, dal death metal degli Entombed al pop degli ABBA. Gli Eigenstate Zero sono gli ultimi arrivati e rappresentano il solo-project di Christian Ludvigsson, uno che deve essere cresciuto a pane, Entombed ed Edge of Sanity, il che vi dà immediatamente la dimensione in cui andremo ad immergerci oggi con questo fantastico 'Sensory Deception', debut della band. E qui tutti i nostalgici delle band che ho citato poco sopra (a parte gli ABBA) andranno sicuramente a nozze, visto che già dall'opener "Fringe", verremo investiti da un treno impazzito recante un bel carico di death metal svedese di vecchia scuola stoccolmese. Non pensiate però che il buon Christian abbia preso il copione degli act storici e ce l'abbia riproposto tale e quale; fortunatamente, il mastermind di oggi ha buon gusto, buone idee e per questo, già dalla successiva "1984.2" va ad abbinare il death old school con una forma interessante di cyber metal, cosi come una forte componente sci-fi emerge dalla lunghissima "The Nihilist", una traccia di oltre 11 minuti che se non sviluppata decentemente, rischierebbe di annichilire anche il più preparato dei fan death metal. Pertanto, ecco che un sound in stile At the Gates viene "sporcato" da deliranti influenze elettroniche che rendono la proposta estremamente varia ed interessante, nonchè vincente. Rimane sicuramente il marchio di fabbrica svedese, ma poi si va ben oltre (e per fortuna), sciorinando vertiginosi riff e assoli in un contesto oscuro e malato che sembra evocare anche, in ordine sparso, Between the Buried and Me, Devin Townsend, gli australiani Alchemist, Dillinger Escape Plan, Fear Factory, Dream Theater, Dismember, Nile, Carnival Coal, Gorguts, Lost Ubikyst In Apeiron, Opeth, in un tumultuoso tourbillon sonoro davvero notevole, come quello che accade nella più breve ma altrettanto efficace "Eigenstates". Comunque quando c'e da fare male, il polistrumentista scandinavo prosegue nella sua opera distruttiva: è il turno della deflagrante "Zentropic", devastante ma ricca di molteplici sfumature e pregna di groove. Christian alla fine mette in fila una serie di saette affilate che da "Communion" arrivano alla conclusiva "Fringe", passando da episodi più o meno rilevanti e parecchio lunghi e complicati: "Godeater" sembra un tributo ai Morbid Angel, la lunga (oltre 10 minuti) "Strangelets" nei suoi sperimentalismi mostra accanto al death metal molteplici e stralunati risvolti di carattere jazz, space e prog rock. È decisamente nei pezzi più lunghi che Christian dà il meglio di sè visto che manca ancora "Transhuman", altri dieci minuti in cui l'artista svedese ne combina ancora di tutti i colori, scatenando l'incredibile dose di melodia a servizio di una brutalità di fondo quasi perennemente presente, il che avvicina maggiormente il nostro eroe di quest'oggi ai connazionali The Project Hate. Insomma, che altro devo dirvi per invogliarvi all'ascolto di questo "inganno sensoriale"? Fatelo vostro e basta! (Francesco Scarci)

sabato 28 settembre 2019

The Arcane Order - The Machinery of Oblivion

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Melo Death, Raunchy, In Flames
I The Arcane Order nacquero nel 2005 come valvola di sfogo del chitarrista Flemming C. Lund degli Invocator, qui coadiuvato da Kasper Thomsen (voce dei Raunchy), Boris Tandrup (bassista dei Submission e degli Slugs) e da Morten Løwe Sørensen (batterista dei già citati Submission, Slugs e degli Strangler). La band danese rilascia un anno dopo questo piacevole debutto, 'The Machinery of Oblivion', punto d’incontro tra il metal passato e futuro di quei tempi. Il quartetto scandinavo è bravo infatti nel miscelare sonorità tipicamente death (le ritmiche sono belle toste e incazzate) con le influenze alternative di cui risentiva in quel periodo, complici le derive degli In Flames, lo swedish death (un certo groove di fondo sembra infatti ammorbidire un lavoro che altrimenti risulterebbe troppo monolitico). La Metal Blade ci vede lontano e confeziona un buon cd, da ascoltare tutto d’un fiato, e scatenarsi in mosh frenetici, pogare come assatanati e sbattere come invasati contro le pareti. Se avete amato le uscite di Soilwork, In Flames e Darkane, dovete assolutamente dare un ascolto anche a questo interessante disco. Badate bene, gli ingredienti del cd sono sempre i soliti del genere, però qui ben amalgamati tra loro: chitarre belle potenti disegnano gradevoli linee melodiche, che si inseguono lungo le dieci tracce; la voce di Kasper (già ottimo nei Rauncy) è sinonimo di qualità e anche qui sfoga tutta la sua rabbia repressa; fantastica poi la componente solistica. Comunque sia, il livello tecnico-qualitativo della band è assai elevato; il rischio semmai, in dischi come questi, è che alla fine sia la noia a prevalere per una certa somiglianza di fondo tra i vari brani. A me gli Arcane Order non dispiacciono affatto e ancora oggi a distanza di anni, mi piace potergli dare un ascolto. (Francesco Scarci)

(Metal Blade - 2006)
Voto: 70

https://www.facebook.com/thearcaneorder

domenica 20 gennaio 2019

Revolutio - Vagrant

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Nevermore, In Flames
A volte le copertine degli album hanno il potere di invogliarne l'ascolto. Ho provato quest'esperienza con i bolognesi Revolutio: quando ho visto la cover di 'Vagrant' infatti, ne sono rimasto affascinato e cosi mi sono avvicinato alla band. 'Vagrant' rappresenta il debutto sulla lunga distanza per i quattro musicisti nostrani, dopo l'EP d'esordio uscito nel 2013. Dopo un lustro di messa appunto, i nostri tornano con dieci pezzi nuovi di zecca che si aprono con le sirene dall'allarme di quella che immagino essere un'esplosione nucleare. Ciò che successivamente deflagra nei vostri impianti hi-fi con "Meek and the Bold", è una canzone iper pompata all'insegna di un thrash metal ultra carico di groove, che in fatto di sonorità mi ha ricordato un ibrido tra Nevermore, Overkill, In Flames e Gojira, mentre a livello vocale, la voce del frontman, si presenta assai graffiante. Quello che mi prende è comunque la carica energetica che i nostri sanno generare con le loro rincorse metalliche. Bella la cavalcata in "What Breaks Inside", che mette in mostra le abilità nei cambi di tempo del quartetto italico. Meno esagitata invece "The Oracle", ben più ritmata e ricca di cambi di tempo, con la voce di Maurizio Di Timoteo a mostrare le sue molteplici sfaccettature, dall'urlato, all'accenno di un cantato in growl, alle spoken words di inizio brano e molto altro ancora, a ricordarmi peraltro la performance di un vocalist, quello dei Rage, che non sentivo da quasi vent'anni. Insomma c'è un po' di tutto in questa centrifuga sonora, che ha anche il merito di sciorinare un bell'assolo di classica scuola metallica ed un break che evoca un che anche dei Pantera. Si torna a pestare sull'acceleratore con "Ozymandias", una traccia che definirei in classico stile Revolutio, che sfoggia un altro bel solo di scuola rock, con il sound che diviene via via sempre più possente. Più malinconica invece "Eclipse" un pezzo strumentale, dove la chitarra sopperisce adeguatamente all'assenza della voce. Un bel basso metallico apre "Silver Dawn", dove la voce cupa e sofferta di Maurizio, viene accompagnata da ottime percussioni e da un riffing oscuro di chitarra, in quella che è la song più stralunata del lotto che suona come una sorta di semi-ballad. Dall'orrorifico break centrale con tanto di riferimenti ai King Diamond, ad un'ascesa ritmica di matrice Metallica (e questa volta lo scrivo maiuscolo per indicare nei Four Horsemen il chiaro riferimento). Una chitarra acustica apre "Requiem", un pezzo che potrebbe essere accostabile ad una "Nothing Else Matters" o "The Unforgiven", con la voce di Maurizio che ammicca, pur non arrivandoci, a quella di James Hetfield. Ottimo il lavoro del chitarrista solista, che nella successiva "Daydream" sembra lanciarsi in atmosfere di settantiana memoria che si miscelano alla grande con l'irruenza dei nostri. La sensazione che mi ha colpito è però quella di stare ascoltando un album totalmente diverso da quello delle tracce iniziali, e questo assolutamente non è un male, perché alla fine di 'Vagrant' mi ha colpito la sua eterogeneità. Quello che invece ho trovato incomprensibile, più che altro per l'estenuante durata - quasi 15 minuti, è il finale affidato a "The Great Silence", che sembra essere il rumore di fondo che rimane dopo l'esplosione atomica, beh ecco, di una decina di minuti ne avrei fatto volentieri a meno. Ci resta alla fine una buona prova di una band che, pur essendo agli esordi, mostra già una certa maturità tecnico-compositiva. (Francesco Scarci)

(Inverse Records - 2018)
Voto: 70

https://revolutio.bandcamp.com/

lunedì 7 gennaio 2019

Inira - Gray Painted Garden

#PER CHI AMA: Death/Groove/Djent, Meshuggah, Tesseract, In Flames
Nel 2018 il metal nostrano è andato alla grande anche al di fuori dei confini italici. Peccato solo che i friulani Inira abbiano dovuto firmare per l'etichetta ucraina Another Side Records (sub-label della Metal Scrap), per rilasciare il loro 'Gray Painted Garden', secondo atto dal 2005 a oggi per i nostri. Avessi avuto la mia label, avrei puntato alla grande sulla fresca proposta della band del Vajont, che tra echi meshugghiani a livello ritmico, un cantato graffiante (e un altro in versione growl) condito da chorus di sapore "in flamesiano", un background tipicamente a cavallo tra metalcore e post-hardcore, hanno reso la loro proposta davvero gustosa da ascoltare. La title track, posta in apertura, conferma immediatamente le mie parole con un pezzo dritto, piacevole, carico di groove (ottime le keys a tal proposito) e melodie ruffiane quanto basta per mantenere comunque intatta l'esplosività intrinseca alla musica dell'act italico. Ancora meglio "Discarded", con quel suo riffing a cavallo tra Gojira, Mesghuggah e Tesseract, ad individuare solo alcune delle influenze dell'ensemble friulano. Le vocals più pulite suggeriscono infatti un altro filone da cui i nostri traggono ispirazione, ossia quello più "mainstream" di Architects e Bring Me the Horizon, ma non fatevi fuorviare da queste mie parole, gli Inira sapranno coinvolgervi con sonorità belle intense, moderne e avvincenti. Bella scoperta, visto che le undici tracce qui incluse, sono tutte delle potenziali hit: detto delle prime due, "This is War" ha un approccio più oscuro (sulla scia dei primi Tesseract) nelle note introduttive acustiche, che la rendono solo in apparenza meno orecchiabile rispetto le precedenti. Si torna a far male con le sghembe melodie di "Sorrow Makes for Sincerity", un brano più cattivo che vede in Meshuggah ed In Flames i punti di contatto più evidenti per i quattro musicisti nostrani. Si prosegue con la più ritmata e malinconica "Venezia", una song in cui le chitarre ultra ribassate dei nostri, sembrano maggiormente echeggiare nei miei timpani, e in cui la porzione solistica ci rende testimoni dell'ottima prova alla sei corde di Daniele "Acido" Bressa. L'unica cosa che mi fa storcere il naso è quanto diavolo canta qui il buon Efis Canu Najarro. L'approccio oscuro evidenziato in "This is War", riemerge più forte in "Zero", una song davvero potente che ci prepara alla più alternative "The Falling Man", in cui emerge qualche affinità con i Deftones, cosa che si ripeterà anche nelle successiva "The Path", la più delicata, suadente ed ipnotica del lotto, a rappresentare anche il pezzo più erotico dei quattro giovani musicisti, sebbene la tensione vada lentamente aumentando sul finale. Analoga come sonorità anche "Universal Sentence of Death". Decisamente più interessante è l'iper ritmata "Oculus Ex Inferi": ottime melodie, coinvolgenti le atmosfere e niente male le sferzate ritmiche che accrescono l'incandescenza dei contenuti. Si giunge, madidi di sudore a "Home", ultimo atto di questo ottimo 'Gray Painted Garden' che ci ha riconsegnato, dopo un bel po' di anni, una band pronta a dire la sua nell'iper saturo mercato musicale. Ben tornati ragazzi. (Francesco Scarci)

domenica 7 ottobre 2018

Aeolian - Silent Witness

#PER CHI AMA: Folk/Death/Black, Amorphis, Insomnium
Siete fan dei Dark Tranquillity, degli In Flames o forse degli Opeth? Avete detto che vi piacciono anche Dissection, Amon Amarth e Amorphis? Siete incontentabili, ma anche tanto fortunati perché oggi arrivano in vostro aiuto i maiorchini Aeolian, che convogliano tutte le influenze di cui sopra, in questo interessante 'Silent Witness', un concentrato di death black folk assai melodico. L'incipit è da urlo visto che "Immensity" ingloba un po' tutte le band citate con una certa eleganza che si concretizza in ottime linee di chitarra, pregevoli growling vocals e assoli da paura che valgono da soli il prezzo del cd. Le melodie folkish a la Amorphis o nella vena dei primissimi In Flames, si materializzano in "The End of Ice", song assai matura che vede sul finale esplodere un altro brillante assolo con dei vocalizzi epici davvero intriganti. Insomma, ci siamo già capiti, a me quest'album mi prende e non poco. Un rifferama stile Nevermore irrompe in "Chimera", un bel pezzone thrash che mi ha rievocato una sfortunata ma altrettanto brava band di fine anni '80, gli Anacrusis, votati ad un thrash progressivo veramente speciale. Questa song ha echi di quell'ensemble, anche se poi ovviamente i nostri nuovi eroi di Palma di Mallorca prendono una strada differente che ammicca anche agli Insomnium. Tanti i punti di forza dell'album per cui eviterei un track by track per soffermarmi invece su quei brani che più mi hanno sconfinferato, a partire dall'intro acustica di "Return of the Wolf King" e da una traccia che segue i dettami degli Amorphis in modo piuttosto personale, coniugando il folk con intemperanze black e divagazioni prog. Bravi, ben fatto. Se l'inizio devastante di "Going to Extinction" mi ha ricordato, per quel suo urlaccio, i Cradle of Filth, la song comunque conferma quanto di buono ascoltato sin qui. Ancora un bel folkish thrash death con "Elysium", cosi come entusiasmante è l'altra intro austica di "Wardens of the Sea" che con il esotismo, evoca gli Orphaned Land, per poi tramutarsi in una più normale canzone death, sicuramente carica di un buon groove. "The Awakening" è la classica quiete prima della tempesta scatenata da "Black Storm", dirompente blackish song tra incessanti ritmiche tiratissime e splendide melodie. Ci sono ancora un paio di brani ad attendervi per il gran finale dove a mettersi in luce sono le ottime linee di basso e un sound che strizza l'occhiolino agli Opeth ("Witness") e in parte ai Cradle of Filth ("Oryx"), per quel suo screaming che si alterna con tutte le linee vocali sin qui godute, in una song oscura ma parecchio variegata. Diavolo, mi ero detto di evitarmi il track by track, ma ci sono cascato in pieno e allora visto che ho saltato solo "My Stripes in Sadness", sappiate che si tratta di un buon brano che vede una rilettura da parte del quintetto delle Baleari, degli insegnamenti degli Insomnium. Alla fine che dire, se non che 'Silent Witness' è un lavoro ben fatto, ben curato, ottimamente prodotto (ma qui c'è lo zampino di Miguel A. Riutort Cryptopsy, Hirax e The Agonist), di cui ne posso solo fortemente consigliare l'ascolto. (Francesco Scarci)

(Snow Wave - 2018)

domenica 23 settembre 2018

Hellyeah - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Metal
Il primo album del supergruppo formato dal campione rionale dei mangiatori di hot dog dei Mudvayne, dal taroccatore di marmitte dei Nothingface, dallo spacciatore di pasticche di Lexotan dei Bloodsimple e dal rivenditore di cessi a muro militante nei Damageplan e prima nei Pantera, e il cui nome corrisponde all'esclamazione che fareste al venerdì sera se foste anglofoni e un amico vi invitasse fuori per una birra (cit. Vinnie Paul), esprime bandane, pizzetti lunghi sotto il mento e un groove metalloso anni '00 poco alt e molto ortodosso, tra certi grattugiosi melodismi grunge ("Thank You", "Star") planet-carovanate ("In the Mood"), compressioni old-school-nu-metal ("GodDam", "Nausea" et many al.) e una certa, malamente sopita, predilezione southern ("Alcohaulin' Ass" o la stessa title track in apertura). Esattamente quel che ci vuole per un ascolto sguaiato al venerdì sera in auto coi finestrini abbassati mentre raggiungete un amico al pub per farvi una birra. (Alberto Calorosi)

lunedì 21 maggio 2018

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

venerdì 30 marzo 2018

Drone - Head-on Collision

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Pantera, Fear Factory
Se non avessi letto la biografia, mai avrei immaginato che i Drone fossero tedeschi, dato che il loro sound richiama fortemente tutto il giro americano di band dedite al nu-metal, sporcato da un thrash molto "Panteroso". Egregiamente prodotti da Andy Classen, il quartetto teutonico ha rilasciato nel 2007 questo buon debutto: potenti ritmiche thrash metal costituiscono l’intelaiatura di 'Head-on Collision', accompagnate da sofisticati arrangiamenti e dall'eccellente voce (sia in versione clean che growl) di Mutz Hempel che, fatti suoi gli insegnamenti del vocalist dei Fear Factory, dà prova di essere un cantante già dotato di carisma e personalità. Tutti i pezzi mostrano una band dalle idee ben chiare, capace sia tecnicamente che dal punto di vista compositivo. Gli 11 brani hanno un elemento comune: oltre ad essere tutti belli incazzati, hanno una componente melodica, data da degli arrangiamenti, che stemperano questa furia e con le backing vocals di Marcelo e Martin che inevitabilmente ci invogliano a cantare con loro. Non posso non sottolineare poi la prova del batterista Felix, tecnico e fantasioso, abile a dettare i tempi per tutta la band e a garantire, con i suoi muscoli, un esito finale davvero soddisfacente. Se dovessi segnalare un brano, vi suggerisco “Jericho”, vero connubio tra la scuola thrash americana ed i suoni cibernetico-industriali dei Fear Factory. Dopo questo lavoro, la band sassone ha rilasciato altri tre dischi, che forse un ascolto lo meritano eccome. (Francesco Scarci)

(Armageddon Music - 2007)
Voto: 70

https://www.facebook.com/DroneMetal

mercoledì 21 marzo 2018

Colonnelli - Come Dio Comanda

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, IN.SI.DIA
Dopo il successo rimediato (anche su queste pagine) nel 2015 con il debutto 'Verrà la Morte e avrà i Tuoi Occhi', tornano i toscani Colonnelli con un altro potentissimo esempio di thrash arricchito di groove come in Italia siamo soliti produrre. Questo in soldoni 'Come Dio Comanda' (chissà se ci sono poi delle interconnessioni con il libro omonimo di Ammaniti o il film di Salvadores): 11 tiratissimi pezzi a cavallo tra il sound dei nostrani IN.SI.DIA e quello prodotto nella Bay Area da tizi del calibro di Testament e ultimi Metallica, tanto per citare un paio di nomi a caso. Parte la brevissima intro ed è già tempo delle ritmiche infuocate di "Amleto", song che non arriva nemmeno ai tre minuti ma che ha quella giusta tensione per tirarti dentro al vortice creato dai tre ragazzoni di Grosseto che, sfruttando l'utilizzo della lingua italica, hanno di sicuro parecchio appeal all'interno dei confini nazionali. Sfibrato dal primo assalto, ecco giungere la title track, grossa e incazzata a livello ritmico ma con l'approccio vocale che a me continua a ricordare i bresciani IN.SI.DIA. Non male i cori, ancor meglio la caustica componente solistica, peccato solo per la durata esigua inferta dalle acuminate sei corde. La scelta di offrire pezzi di breve durata riguarda un po' tutti i brani: dai tre minuti scarsi della dinamitarda "V.M. 18", ai tre e mezzo della più ritmata "Festa Mesta" (peraltro cover dei Marlene Kuntz, ormai datata 1994) che è stata peraltro il singolo apripista dell'album, lo scorso agosto 2017. Una sola eccezione per ciò che concerne le durate, quella della conclusiva "Lochness", che in ben oltre otto minuti, mostra una veste inizialmente più controllata e decisamente alternativa per Leo Colonnelli e soci, ma che poi si lancia in una coda assai feroce che trova un punto di interruzione in una trentina di secondi che precedono una sorta di ghost track autocelebrativa. Mi fa sorridere la scelta di alcuni titoli dei brani: "Sangue ad Alti Ottani" ad esempio, dove il testo recita "ho bisogno di te sabato sera per picchiarti a sangue o macchiar le lenzuola", in un qualche modo mi riporta indietro di una buona ventina d'anni. Ancora, "Demoni e Viscere" o "Il Blues del Macellaio" denotano una certa originalità e ricercatezza a livello di liriche. La musica continua poi con quel suo sostrato thrash metal, su cui si stagliano virate di tempi, rasoiate solistiche e ritornelli ruffiani, per un album che alla fine sembra suonare senza tempo. (Francesco Scarci)

((R)esisto Distribuzione - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/ICOLONNELLI/

giovedì 8 marzo 2018

Death Rattle - Volition

#FOR FANS OF: Groove Death/Thrash, Lamb of God
Death Rattle has returned after nearly six years with a fresh full-length album of very worthy groove and metalcore. Continuing down a well-trodden path, the band seems set for success so long as it simply follows each curve to a tee, however Death Rattle's sure-footedness ensures a smooth example of modern groove metal while meeting each crag and rock in this second outing with a finesse that shows a few fresh tricks hidden up the band's sleeve. Newly fronted by Trey Holton of the hardcore band 12 Step Program, and forging ahead with a fresh confidence, the northern New England outfit has finally received the studio it deserves in the Brick Hithouse and has done it the honor of giving an incredible performance worthy of its perfect production.

Death Rattle proudly sports its primary influence like ink tattooed under its sleeve, an armband encircling a bicep that devotedly honors a modern metalcore institution. Many moments in this album, including the opening lyric in “Love and War”, sound exactly like Lamb of God while retaining enough signature energy and personality as to remain a proprietary product. Some segments of songs are so astonishingly similar in production and attitude that they have me wondering whether this band has perfected the cloning process and is hiding from the world court in a low profile metal band. There must be some sort of atrocity going on here because a beheaded chicken in the name of voodoo can't be the only explanation for such on-the-ball resemblance. The addition of Trey Holton on vocals greatly enhances the delivery of Death Rattle's early songs, however the lyrics display apparent differences. Unlike the past lineup with Donnie Lariviere, this new vocalist does a great job of getting the lyrics out through a range of gruff yells and long drawn out screams, but the content of some of these new lyrics is more vague and distant from reality than the songs comprising the reprisal segment of 'Volition'. Where there is a direct and obvious object of one's anger to confront in songs like “Snake in the Grass” or “Sociopath”, the lyrics to a song like “Adrenalize” focus more on an internal boiling over as rage precludes destruction. This is best displayed in “Internal Determination” as the song describes how “you'll see the past of a psychopath” while invoking metaphysical manifestations of mayhem.

There is a marked improvement in quality from Death Rattle's first foray. The proficiency in the guitar riffing and the cohesion of the ensemble between the songs from the previous album bring this new iteration in 'Volition' into full bloom. This band would be a good Lamb of God clone on a bad day but such fresh and original arrangements in songs like “Sentenced to Hell”, “Adrenalize”, and “From Blood to Black” show that Death Rattle is in top form with more than a cursory sense of its direction. Meaty breakdowns between headbanging runs, chunky guitars full of reverb like blenders overloaded by intermittent power surges, and grooves that drive with every needle riding a red line make this album worthy of any enthusiasm it receives. Ryan VanderWolk and Jimmy Cossette round out their lead and rhythm guitars incredibly well, creating an ideal interplay between industrial machinery sticking to its protocol and sentience screaming out for recognition. The intricacies of guitar in “Adrenalize” accelerate and twist around Chris Morton's deceptively steady drumming rhythm through hypnotic churning that grows like barbed vines deliberately digging into flesh, bleeding its prey while weaving a bed of thorns that tears into the meat of an immobilized deer. This glacial but cutting pace denotes waves of aggression in fits and bursts, perpetuating the motion of a fiery and intricate mechanism, interconnecting each sharp tooth of its clockwork gears with laser precision.

With a thrashing start, “Sentenced To Hell” charges its way into a fantastic breakdown, a melee that runs right into “Blood of the Scribe” territory with tinkling cymbals joined by punchy bass kicks, crashing this riff into roaring drum fills that pummel a heart into submission in endurance of an eternal sentence in headbanging perdition. An orgasmic bluesy solo rounds out the album in “From Blood to Black” that persists through a dozen rounds of the drum rhythm. These moments of soloing ecstasy are exactly what anyone would want to experience live and bring a final punishing end to this album as the guitars wail in pleasure-pain throughout this drawn out climax. Improving on the template established in the first album, 'Man's Ruin', Death Rattle has made the discovery of more intricate flowing guitar grooves that maintain an aggressive tone throughout each song a paramount concentration to its groundwork while venturing farther from this foundation with finesse.

Rerecording the singles “Snake in the Grass”, “Sociopath”, “Order Within Chaos”, and “Doomsday” from 'Man's Ruin', as well as reworking “Vicious Cycle” into the new song “Unfinished Business”, displays the leaps and bounds that this band has made in tightening up its delivery and crystallizing its intonation. The run after the solo in “Sociopath” sounds spectacular and proves that this recording truly achieves the aim that the first album attempted but never truly reached. The dropping strings, riding the waves churned by Kevin Adams' bass, throughout the elaborate solo section sounds like a seventh string strung to stretch a neck and beautifully rejoins the run with a pummeling punch, as though dozens of victims of a diabolical overlord are beating the hanging tyrant like a piñata.

“Unfinished Business” takes another crack at the sound started by “Vicious Cycle” on 'Man's Ruin'. The song is streamlined with more focus on the leading riff before swirling, in the second verse, a blending melody in New England metalcore style and beating it furiously with percussion. While I would have preferred to have heard the drum interlude reprised to open the song, it seems that the percussion has been reigned in a bit tighter than entirely necessary as Morin's drumming has become far sharper and well-timed but is also lacking in inventiveness. Rather than cascade each cymbal clink throughout a fill to drive the tone of a song like “Unfinished Business” into the deepest pit, the tripling on the double bass helps to up the ante but the top of the percussion stays too uniform to truly grab you and shake things up. Meanwhile, the guitars slope down into a murky marsh of melody in the chorus that magnificently satisfies a metalcore mania. Though all the cylinders may not be firing with fury, there is still plenty of roar in this engine to top out at breakneck speed.

As much as Death Rattle will inevitably end up compared to Lamb of God due to the Virginia stalwart's heavy inspiration and similarity, this newcomer shows its ability to thrive as it strays from the derivative. A template formed on the aggression of 'As the Palaces Burn' combined with the crisp refinement of 'Ashes of the Wake' makes Death Rattle achieve its production aims throughout 'Volition'. However, it is in approaching its early offerings with fresh ideas where the band has revitalized its previous pieces. The newest songs on this album greatly expand the aims and scope of the band's ambition, riding its own waves of sound off of coattails and into its own atmospheric layer. Considering the new normal presented in 'Volition', Death Rattle has a bright future ahead of it. While the band is not out to replace any established brand or define a new cultural direction, the band shows itself as a confident and competent outfit with plenty of personality to boot. (Five_Nails)

sabato 18 novembre 2017

Decatur - Badder Than Brooklyn

#FOR FANS OF: Heavy/Groove/Thrash Metal
With a logo reminiscent of what adorns the average Marvel comic book shining in the night's sky above an otherwise empty street, save for the buckets of blood soaking the pavement, Decatur attempts to cover lot of ground in this first album of rough-and-tumble heavy metal. Though “Internal War” immediately shows off an aggressive North American metal band, this Toronto trio brings a bit more breadth to its sound than only thrashing guitars and grooving rhythms. Somewhere along the line this band got on a Judas Priest kick and couldn't shake it off when it came time to record a debut album.

“Into the Night” has a great guitar sound to it that takes note of the prickly pace of “Stained Class” era Judas Priest and ups its ante with a fuller thrashing string compliment before it becomes a drawn out verse-chorus singalong. The lyrics, especially in the 'we believe' chorus hit with the sharp cheddar that will make you cringe enough to turn the volume down though the guitars will make you want those decibels to rise. Some bands just have a tougher time getting away with their cringy moments, but what comes after this song deeply cuts into one's personal sense of shame and drags it out for all the world to see. The guiding riff in “Vegas Girl” has a bit of Pantera's “Walk” flair while playing a fist-pumping NWOBHM sort of song that would give Jezz Torrent and Love Fist a run for their money. In spite of its catchiness, “Vegas Girl” is a song that I'll continuously skip due to the cringe of the vocal delivery where every line comes out as though the vocalist is just yelling 'one, two, three, four, five' over and over. This weird wedgie of down-home heavy metal nestled between two thick sets of bouncing grooves greatly changes the pace and mood of this album as the title track drips with more melty mozzarella in its by-the-numbers hard rock delivery. It's funny how the songs that Decatur chooses to lead with are so out of the general element of this album. Of ten tracks, three are of this oldschool ilk and though they're not as satisfying as the majority of the album, they do stick out like the sore thumbs they are.

Though the band broadens its approach in those seemingly ill-fitting songs, most of this album takes influence from modern groove, metalcore, and thrash sounds in songs like “Worst Enemy”, “Bottled Inside”, “Abaddon”, and “Shatterproof” which kick with a taste of Lamb of God while searching for the right amount of aggression to shake out their grooves. A lick in “Abbadon” will remind you just how ready the twin axe treatment is to split its force and strike from separate directions while rumbling rhythms with small cymbal clinks throughout “Shatterproof” tone back the aggression of “Blood of the Scribe” as they continuously maintain the kit's vicious punch. Even though the break-beat throughout most of “Bottled Inside” comes across as par for the course, the soloing at the end gives the song its memorable moment.

That is a common aspect of 'Badder Than Brooklyn'. The album, for the most part, isn't all that much to write home about but each song has a moment, a standout few seconds that will perk your ears up and make the time worth your while. In “Tear You” it comes at the beginning with a gripping riff before falling to the atonality of anger while “Worst Enemy” ramps up a rolling momentum. Most proficiently done is the instrumental closer, “Internal War pt. 2” where there is not a second wasted or note out of place. When it comes down to it, the vocals just aren't helping to hold down this band's sound throughout the majority of this album with drawn-out choruses that repeat clichéd phrases like 'cross my heart' in a voice that is singing but gravely and not very aggressive but still trying to grab you and rattle you around. The vocals and songwriting definitely do need work and some of the great ideas throughout this album can effectively be expanded on while eschewing some of the less original surplusage.

Decatur's 'Badder Than Brooklyn' is an unusual and somewhat disjointed album on your first listen. Mixing your average heavy metal sound with a thick layer of cheese in the title track, and sprinkling that throughout the first part of the album, stands in stark contrast to the more aggressive groove metal that makes up the majority of this release. In spite of these disparate and disorienting moments, the overall ability of these musicians and their self-awareness to put a spotlight on the hints of greatness they reach in each song that proficiently pull this album together without leaving the listener too far out in the cold. There is plenty of room for improvement but there is also an unmistakable potential here that, with some introspection, can result in a great sophomore album. For now, 'Badder than Brooklyn' stands as a solid beginning. (Five_Nails)

lunedì 30 ottobre 2017

Mason - Impervious

#FOR FANS OF: Thrash/Groove Metal, Testament
Mason from Melbourne, Australia is exactly what I would describe as modern thrash. Through a mix of the expected big crunchy guitars, ripping riffs reminiscent of major thrash mainstays, and embracing more of the modern groove style popularized by the 2000s American metalcore scene, this band absolutely captures the energy and ethos of thrash metal while balancing its aggressive and nuanced approaches that give headbangers plenty to think about while wrecking their necks.

Playing to a chorus reminiscent of Testament's “Over the Wall”, the opening riff of “Burn” starts you off on the short fuse of the '80s thrash and dash style before giving way to a long series of solos in its second progression. This movement from restless tearing guitars into a lumbering metal behemoth's groove shows a versatility that harnesses the texture of its more modernized approach while still shredding into the meat of oldschool thrash metal malice as it wraps you in the harmonic helix created by noodly classical notes.

This album shows a sophisticated evolution of its thrash elements into metalcore and groove movements throughout complementary songs that, without compromising intensity, push past the primitive plateaus found in the seminal works of one of heavy metal's most aggressive and vibrant eras. The album cover expands on the content's vivid and lively sound with a blend of impressive colors washing a swath of impressionism across the canvas as the muted mixture captures a moment of a hulking beast of burden bearing severed heads, sloshing skull-fulls water along a dangerous path. Like the band plays on the knife's edge between the modern metal style and the classic thrash conventions, the horse is spurred on by youth towards the brink of brutality before bucking back against that notion lest it lose its direction.

Throughout 'Impervious' there is a lot of rolling from a very robust drum kit that accentuates energetic guitars swirling spirals of chaos, loosening up a neck to spin throughout “Tears of Tragedy” as treble rises into the most utterly glorious soloing section in these thirty-six minutes. “Cross this Path” takes the role of your traditional '80s style thrash offering with the saw of guitars swinging across the top of the rhythms before expanding into an almost Gothenberg scope of harmonies with the fun energy of All That Remains engulfing the listener in a twist of treble that is as beautiful as its extending tendrils are deadly. Alongside the aggression of the blasting opening to “The Afterlife”, and the Skeletonwitch sort of anthemic sound with a Slayer vocal delivery to “Sacrificed”, these songs create a quality core composite of strong b-side singles while the title track takes center stage. Running around its melodic main riff well through its chorus, this title track experiments with a more mobile groove and a 21st Century American metalcore sound that has me thinking of a more mechanical and harder hitting The Autumn Offering. Bits of All that Remains in the song with that metalcore style of anthemic and harmoniously uplifting tenacity reach out to caress your inner headbanger and show a strong spirited songwriting strength as Mason hammers home its prestige piece.

Throughout 'Impervious' is a consistently quality delivery that shows the aptitude of this modern thrash troupe in fashioning a sturdy bridge between the old and the new, between headbanging aggression and gorgeous soloing, and between crunchy groove and compelling metalcore. Mason is truly a force to be reckoned with as it keeps the fires of thrash alive with bellows from the bowls of hell. (Five_Nails)

martedì 26 settembre 2017

Non Human Level - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Darkane
Attenzione, questo album è una bomba, maneggiare con cura!!!! Dovrebbe sicuramente riportare queste indicazioni la custodia esterna di questo cd, che per chi non lo sapesse rappresenta il side project di Christofer Malmström, chitarrista dei Darkane. Il cui presente cd racchiude infatti, le idee mai espresse da Christofer fin dal debutto del ’99 della sua band madre. Così, accompagnato dall’ex bassista dei Meshuggah, Gustaf Hielm, dal suo fido compagno nei Darkane, Peter Wildöer (alla voce) e dal batterista della band di Devin Townsend, Ryan Van Poederooyen, Christofer ha dato vita al progetto Non Human Level, dal titolo di una canzone della sua band precedente, gli Agregator. I quattro baldi ragazzoni suonano un’esplosiva miscela di death/thrash con chiare influenze di matrice scandinava unita al dinamitardo thrash stile Bay Area e ad un certo techno death “made in Florida” (Death e Atheist vi dicono nulla?). Questo album si abbatte sulle nostre teste come una scure affilata, maciullandoci le ossa e spingendoci all’headbanging più frenetico, ma allo stesso tempo, è anche in grado di stupirci con trovate sorprendenti come l’utilizzo di un organo da chiesa in “Istincts”o il riarrangiamento di una tipica ballata folk svedese in versione metal o ancora, con intermezzi di chitarra acustica. Ma ciò che vi balzerà immediatamente alle orecchie, così come è accaduto al sottoscritto, è l’eccellente livello tecnico-stilistico dei musicisti, udibile soprattutto nelle debordanti ritmiche e nei talentuosi guitar solos, a cura dello stesso Christofer, responsabile, tra le altre cose, anche dell’eccellente produzione presso i Not Quite Studios di Helsingborg. Bravi e decisamente intensi, i Non Human Level sicuramente potranno piacere ad una vasta schiera di metallari, da quelli più intransigenti, legati al puro death agli amanti delle contaminazioni, fino ad arrivare ai fans più legati ad Iron Maiden ma anche Dream Theater. Ragazzi non esitate un solo secondo nell’ascoltare quello che è stato l'unico lavoro di musicisti che sanno sicuramente il fatto loro. Sorprendenti, brutali, melodici, veloci, ultra tecnici ed emozionanti, questi sono i Non Human Level. (Francesco Scarci)

sabato 2 settembre 2017

Zuul Fx - Live Free or Die

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Industrial Thrash, Fear Factory, White Zombie
Gli Zuul Fx si sono formati grazie al leader Zuul, ex membro dei No Return. Il genere proposto dai francesi si muove sin dagli esordi tra le maglie di un sound industrial e groovy thrash, dalle sonorità moderne, caratterizzato da un ottimo songwriting, che si rifà palesemente al sound di band “alternative” quali Fear Factory e White Zombie, non disdegnando qualche capatina in territori swedish death, cari a Soilwork e compagnia. La musica dei transalpini poggia su una ritmica devastante e veloce, ma sempre assai melodica e grooveggiante. Undici tracce, con un riff portante davvero pesante, sulle quali si staglia la voce di Zuul, bravo ad alternare il classico growling con clean vocals, spesso abbastanza ruffiane, tanto da aver temuto più volte, l’ascolto di brani dal “vago” sapore commerciale. Alla fine, il quartetto francese non si lascia più di tanto andare a divagazioni commerciali; senza ombra di dubbio, talvolta strizzano l’occhio agli Slipknot e altre band nu-metal, ma cosa volete farci, il risultato finale è godibile e si lascia ascoltare tranquillamente. Niente di originale, sia ben chiaro, tuttavia un ascolto lo darei; se sono stati nominati metal band rivelazione nel 2005, un perché ci sarà anche stato. (Francesco Scarci)

(Equilibre Music - 2007)
Voto: 65

http://zuulfx.net/