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venerdì 24 aprile 2020

El Abismo - El Arbol Negro

#PER CHI AMA: Prog Psych Doom, Black Sabbath, Candlemass
In questo mio momento di perlustrazione della scena sudamericana, ecco imbattermi nei peruviani El Abismo e in quello che è il loro album di debutto 'El Arbol Negro'. Considerato che l'albero è da sempre riconosciuto come simbolo della vita, sarebbe interessante sapere la simbologia dell'albero nero. La proposta del combo di Lima, abbraccia heavy, sludge e doom, il che è piuttosto strano considerata la militanza dei vari membri in passato, in realtà prettamente death e black. Tuttavia la title track, che apre proprio il disco, prende completamente le distanze dai generi estremi appena menzionati e ci racconta piuttosto il desiderio dei nostri di intraprendere un nuovo percorso musicale, volto all'esplorazione di suoni passati. Quello che mi sorprende sin da subito, è il cantato cosi pulito ed efficace di Daniel Roncagliolo (in stile Paul Chain), uno che fino a non troppo tempo fa, vomitava nel microfono, tanto per capirci. Ma è su quel sound di scuola Black Sabbath che ben mi ammalia nei primi cinque minuti, che i nostri si lasciano andare a qualche retaggio passato con un'accelerazione death con tanto di voce growl incorporata. Tempo di una vorace fuga estrema, che i nostri rientrano nei ranghi di un doom psichedelico. Il sound mantiene comunque una scarsa pulizia di fondo, che sembra quasi volutamente prodotta, una sorta di ponte tangibile con il passato. "Necrópolis", non solo mi sorprende per l'eccellente apporto vocale (quello pulito sia chiaro, il growl è quasi da censura) del suo frontman, ma più che altro per l'inatteso utilizzo del violoncello, che arricchisce non poco la musica dei nostri, che hanno purtroppo il brutto vizio di scadere ogni tanto in inutili accelerazioni death, quando in realtà la band dà il meglio di sè nei momenti più riflessivi e in taluni tratti dotati di risvolti progressivi. Ma l'incedere è assai mutevole con rallentamenti doomish e una valida sezione solistica. Bella scoperta, devo ammetterlo, soprattutto a fronte della mia diffidenza iniziale. "Asmodeo" è il classico intermezzo acustico tipico del post-rock, che ci accompagna a "Los Abismos", ove riemergono forti gli echi (ancor più) seventies di Ozzy e compagni, ma dove la ritmica si rivela stantia e deboluccia, ammiccando in un paio di frangenti anche ai Candlemass, un vero peccato considerato poi l'assolo da urlo che sfodera il bravo Carlos Hidalgo in chiusura. Con un titolo come "Catacumbas" invece cosa aspettarci? Niente di buono mi verrebbe da dire cosi di primo acchito, e non ci vado troppo lontano visto che salverei poi tanto da una song dove mal tollero il cantato sia in pulito che in growl, e dove la musica sembra raffazzonata alla bell'e meglio. Come al solito, a levare le castagne dal fuoco, ci pensa l'ascia di Mr. Hidalgo che risolleva una song, che per il sottoscritto stava andando letteralmente a puttane, prima lo fa con una parte acustica e poi con un assolo in stile Pink Floyd, da brividi. Certo, poi il finale riprende il tema iniziale e rovina tutto, ma pazienza. A chiudere il disco arriva "Lilith", un brano che ancora una volta vede nel chitarrista la vera star della band tra giochi in chiaroscuro, una combinazione chitarra acustica/violoncello da favola che viene interrotta da una dirompente violenza estrema che qui ci sta alla grande e poi ancora una serie di assoli a dir poco spettacolari. Insomma, 'El Arbol Negro' mi mette in difficoltà come poche volte mi è capitato nel corso della mia carriera da recensore, contenendo cose al limite dell'eccezionale e altre al limite della decenza per cui, visto che la verità sta nel mezzo, mi limiterò ad un voto che non penalizzi ma neppure esalti la prova del trio sudamericano, confidando però in una futura prova a dir poco maiuscola, ove auspico l'eliminazione di tutte le sbavature contenute in questo lavoro. Ci conto, perchè a quel punto potrei essere il primo sostenitore degli El Abismo. (Francesco Scarci)

(Thrashirts - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Elabismoband/

giovedì 23 aprile 2020

Ecnephias - Seven - The Pact Of Debauchery

#PER CHI AMA: Gothic/Dark, Moonspell, Burning Gates
E dopo dodici anni, eccomi a recensire il sesto lavoro della band potentina; mi mancano i primi due dischi, compensati però da un EP, 'Haereticus' nel 2008, e poi mi potrei tranquillamente considerare un fedele devoto alla causa Ecnephias. A parte gli scherzi, non posso negare la mia stima nei confronti dell'italica creatura, capace nel corso della propria carriera di mutare pelle, adattarsi a situazioni complicate, lottare caparbiamente contro tutto e tutti (mulini a vento compresi) e arrivare oggi a rilasciare questo settimo sigillo, intitolato 'Seven - The Pact Of Debauchery'. Nove nuovi brani per saggiare lo stato di forma di Mancan e soci, cercando di capire come il sound dei nostri sia evoluto dopo le dipartite di Sicarius Inferni e Khorne, presenti nel precedente 'The Sad Wonder of the Sun'. Ebbene, quella trasmutazione verso il gothic rock che citavo come completata nella vecchia release, qui è ormai assodata e la band non fa altro che esplorare ed ampliare il proprio raggio d'azione. Se l'inizio di "Without Lies" chiama ancora in causa i vecchi Moonspell, con la voce del buon Mancan a rappresentare il marchio di fabbrica per il nerboruto trio, quello che mi convince davvero in questa song è la componente solistica forte dell'ottimo lavoro del bravo Nikko, con le chitarre qui dotate di un eccellente taglio classicheggiante, peccato solo per la loro esigua durata. I temi legati alla magia, al paganesimo e all'occultismo non mancano nemmeno in questo cd e "The Night of the Witch" lo conferma a chiare lettere a livello lirico, laddove a livello musicale invece, sono le ormai consuete atmosfere sinistre venate di una discreta aura malinconica a farla da padrona. Il riffing è pacato, le keys dipingono paesaggi che mi ricordano da lontano Rapture, Enshine e Slumber, mentre quello che mi esalta sempre un sacco sono decisamente i cori, cosi evocativi, epici e coinvolgenti, tanto da ritrovarmi alla fine del brano con il pugno volto al cielo. Arriviamo anche alla traccia che non necessita di sottotitoli, "Vampiri", con quel suo mood dark new wave che mi evoca una band nostrana, i Burning Gates. Pur trovando che il cantato in italiano caratterizzi maggiormente la proposta del trio lucano, capisco di contro che la possibilità di esportazione del prodotto Ecnephias fuori dai confini nazionali, potrebbe divenire più complicato. Spettacolare intanto l'assolo sciorinato in questo brano dal sempre bravissimo Nikko, in quello che forse alla fine dei conti, risulterà essere anche il mio pezzo preferito. "Tenebra Shirt" è una traccia piuttosto lineare nella sua progressione, non tra le più memorabili inserite nella discografia degli Ecnephias, ma comunque un onesto episodio di fine atmosfera. Molto meglio l'inquietante incedere ritmato di "The Dark", che nel suo break centrale, cerca di coglierci di sorpresa con uno stralunato fuori programma, giusto una manciata di secondi per disorientarci dallo stato di intorpidimento in cui stavamo per cadere, si perchè talvolta la proposta dei nostri sembra un po' depotenziata, insomma col classico freno a mano tirato. L'incipit di "Run" mi ha fatto pensare per una frazione di secondo alle operistiche partiture dei Therion, ma tranquilli nulla di tutto ciò viene poi qui esplorato, anche se Mancan alterna il proprio growling ad un cantato molto pulito, ma niente paura perchè è giunto il momento anche dello spazio etnico grazie all'utilizzo di percussioni che non mi fanno tanto pensare al Mediterraneo, piuttosto al voodoo africano. Un sintetico incipit ci introduce a "The Clown", la traccia sicuramente più ricca di groove e mi verrebbe da dire anche quella più canticchiabile (mi scuserà Mancan) con quel suo coretto "I saw a clown..." che si stampa nella testa; ottima poi la melodia di fondo su cui si staglia l'ascia sempre vigile di Nikko. L'apertura de "Il Divoratore" nasconde nelle sue iniziali percussioni melliflue (eccellente anche Demil dietro alle pelli) un che del misticismo di Twin Peaks, a cui fa seguito l'arpeggio della sei corde qui a braccetto con le tastiere, e il cantato di Mancan qui particolarmente carico di emotività, a rafforzare la mia ipotesi che in italiano la proposta degli Ecnephias renda molto di più. E per chiudere in bellezza, ecco che anche la conclusiva e arrembante "Rosa Mistica" ci concede gli ultimi minuti di punk dark wave cantata in italico lingua, in quella che fondamentalmente è la song più violenta del disco, e che sembra quasi una bonus track a prendere le distanze da tutto quello ascoltato fino ad ora. Per concludere, a parte quella sensazione percepita in un paio di occasioni di un sound talvolta privo di incisività, la settima release degli Ecnephias va assaporata con una certa calma e armonia dello spirito. Detto questo, la mia stima nei confronti della band rimane immutata per carisma, professionalità e una certa ricerca di originalità. Per il resto, è sempre una certezza e un piacere aver a che fare con i nostrani Ecnephias. (Francesco Scarci)

Hyperia - Insanitorium

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, Over Kill
Da Calgary ecco arrivare gli Hyperia con tutto il loro carico death thrash contenuto nel loro full length d'esordio 'Insanitorium'. Se vi state già chiedendo quali possano essere le peculiarità di una band in un genere che ormai ha detto proprio tutto, potrei partire col dirvi che il vocalist è una donna ad esempio, che si dipana tra un cantato pulito ed un growling bello corposo. Niente di nuovo qualcuno di voi potrebbe obiettare, visto l'esempio degli Arch Enemy, un nome diventato famoso per la sua frontwoman Angela Gossow, e in effetti non potrei controribattere. E allora proviamo a dare un ascolto attento all'opening track "Mad Trance", una song che mette in luce immediatamente le qualità compositive e distruttive dell'ensemble canadese. Ottima la verve ritmica e melodica del quintetto, potente la furia chitarristica, anche a livello solistico, faccio fatica semmai a digerire la voce di Marlee nella sua veste pulita (e più urlata) che sembra prendere spunto da quella degli Artillery ma con un effetto meno convincente, un qualcosa su cui lavorerei un po' di più in ottica futura. Dove la compagine sembra convincere maggiormente è invece la componente musicale, visto che i nostri sanno come fare male e dove colpire al cuore l'ascoltatore. Lo dimostra assai bene "Starved by Guilt", con un uno-due ben assestato e udite udite, una componente vocale che si presta ad essere ben più convincente nelle tonalità più baritonali. Il disco suona però come un tributo al thrash metal anni '80 e non solo per una cover che rimanda a quegli anni, ma in generale per un rifferama che chiama in causa gli Slayer nell'incipit di "Asylum", le cavalcate dei primi Testament ("The Scratches on the Wall") o ancora gli Exodus, sfoderando proprio come quei mostri sacri, ottime prove strumentali. Interessante a tal proposito il bridge proprio della già citata "Asylum", cosi come quel suo chorus di scuola Over Kill, periodo 'Under the Influence' (lo si apprezzerà anche nella conclusiva e scoppiettante "Evil Insanity"). Insomma, per uno come me, cresciuto musicalmente negli anni '80 a botte di thrash ed heavy metal, è facile e inevitabile fare tutta una serie di confronti con gli originali. In "Unleash the Pigs", ci sento anche del power metal cosi come del melo death scuola Children of Bodom, tutte influenze che si fondono alla velocità della luce e scorrono altrettanto velocemente tra cambi di tempo, accelerate e cavalcate varie dal forte sapore heavy, per un disco senza tempo che farà la gioia di tutti i thrashettoni che hanno amato, come il sottoscritto, i grandi classici (dimenticavo di citare anche i Metallica di 'Kill'em All', gli Anthrax o i Megadeth nell'emblematica "Fish Creek Frenzy") o più recentemente, act quali gli Skeletonwitch. Che altro dirvi per invitarvi a questo "back to the past" con gli Hyperia? Un ascolto datelo, datemi retta.  (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2020)
Voto: 70

https://hyperiametal.bandcamp.com/album/insanitorium

mercoledì 22 aprile 2020

Horda Profana - Beyond the Boundaries of Death

#PER CHI AMA: Death/Black Old School
Devo ammettere di aver sempre piuttosto snobbato la scena sudamericana perchè da sempre imperniata su sonorità estreme old school. Non ne sono ovviamente immuni gli Horda Profana, band black death originaria dell'area di Buenos Aires, che lo scorso anno ha rilasciato il secondo lavoro, 'Beyond the Boundaries of Death'. E dopo pochi secondi di musica, si arriva alle mie conclusioni assai alla svelta, semplicemente dopo aver ascoltato l'iniziale "Summoning", la più classica delle song death black degli anni '80, un po' come se i Celtic Frost in compagnia dei primissimi Sepultura, sotto la supervisione dei Black Funeral, si siano ritrovati per una serata tra amici. Ritmiche sparate a mille, voci blasfeme e fortunatamente un epilogo un po' rallentato. "Absent of Light" sembra anche peggio, però a parte la scontatezza della proposta del combo argentino, ho potuto apprezzare una componente ritmica davvero devastante in grado di innalzare un muro sonoro invalicabile dove ho trovato il gracchiare mefistofelico al microfono di Nephilim, particolarmente in linea con la musica proposta. E non nascondo anche la mia sorpresa nel ritrovarmi a scuotere il capo di fronte alla violenza distruttiva di questa song, dotata addirittura di una certa vena melodica. Di vena creativa ce n'è invece ben poca traccia e quindi mettete in conto di ritrovarvi nelle orecchie un qualcosa che verosimilmente avete già sentito in mille forme differenti negli ultimi 30 anni e passa. Tanta furia distruttiva quindi, certificata dalle performance dell'arrembante (e punkeggiante) "Reaching Primordial Darkness", dalla tonante "Words of Immortal Fire", fino ad arrivare, senza particolari sussulti, alla devastazione finale di "A Coldness Curse". Si potevano impegnare un pochino di più e infilarci chessò un assolo, un riffing più ricercato, niente, solo puro estremismo sonoro rimasto ormai a uso e consumo di pochi adepti. (Francesco Scarci)

V:XII - Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina

#PER CHI AMA: Industrial/Drone
Trattasi di una one-man-band quella dei V:XII, compagine dark industrial svedese creata da Daniel Jansson, uno che milita (o ha militato) in una serie di altri progetti, tra cui i Deadwood, la cui storia si è interrotta nel 2014 e per cui ora, il buon Daniel, ne vede la reincarnazione (ed evoluzione musicale) nei V:XII, nella fattispecie di questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina'. Il lavoro si apre con le visioni oscure e angoscianti di "The New Black", sei minuti e più di suoni asfissianti che poggiano su un unico beat sintetico ripetuto allo sfinimento e sul quale s'installa il growling del factotum scandinavo. Sembra essere sin da subito questa la ricetta dei V:XII, visto che anche in "Maðr" ci vengono propinati suoni dronici alienanti su cui poggiano le vocals distorte del buon Daniel cosi come altre spoken words in sottofondo. I campionamenti si sprecano e cosi il drone paranoico di "Twining Rope" mi costringe a dondolarmi avvinghiato a me stesso, rintanato in un angolo della mia stanza. È un disco decisamente sconsigliato in periodi di quarantena questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina' in quanto il rischio di subire effetti disturbanti o distruttivi per la psiche dell'ascoltatore, è assai elevato. Atmosfere lugubri e malsane contraddistinguono la sinistra "Djävulsögon - Deconstructing the Bloodwolf", un mix tra il suono proveniente dalla canna fumaria di una nave, delle catene di un castello infestato e il frastuono della sala macchine di una centrale nucleare, il tutto ovviamente corredato dalle onnipresenti vocals filtrate del mastermind svedese. Se non vi siete ancora suicidati o il cervello non vi è andato in pappa, c'è tutto il tempo di lasciarsi stordire dalle note marziali di "Ururz", o essere investiti dal nichilismo sonoro della spaventosa "B.A.H.F", la traccia che più ho preferito del disco o dalla conclusiva ed ambientale "Vánagandr", che segna, fortuna nostra, la fine di un percorso musical-dronico-rumoristico davvero complicato e consigliato a soli pochissimi eletti. (Francesco Scarci)

domenica 19 aprile 2020

King SVK - New Æon

#PER CHI AMA: Experimental Death Metal, The Project Hate, Carnival in Coal
Dall'incipit mediorientaleggiante di "Ozymandias", mi sarei aspettato origini più esotiche per la band di quest'oggi, in realtà i King SVK sono un duo proveniente dalla Slovacchia (da qui deduco l'acronimo SVK nel moniker). 'New Æon' è il terzo album dal 2000 quando Ivan Kráľ (tastiere e synth) e Norbert Ferencz (chitarre), fondarono questa stravagante compagine. Il duo propone infatti un death metal moderno, melodico con tematiche incentrate sulla mitologia dell'antico Egitto, fuse con la filosofia di Friedrich Nietzsche. Da un punto di vista musicale, aspettatevi invece tonnellate di cyber death metal fatto di ritmiche belle pesanti ma comunque grondanti groove da tutti i pori, vocals che si dipanano tra il growl ed un cantato pulito un po' meno convincente (e da rivedere), ottimi cambi di tempo e quintalate di synth. "Hymnus Aton" è la seconda traccia che apre ancora con riferimenti arabeschi, per lasciare presto il campo ad un riffing a cavallo tra Meshuggah e Fear Factory e un incedere comunque sempre parecchio orecchiabile che forse travalica qui nel viking grazie all'utilizzo di alcuni cori epici. "Chant Of Praise Of Nimaatre" sembra invece provenire da qualche disco circense dei Pensées Nocturnes, ma la sensazione dura solo per pochi secondi, visto che la vigorosa band slovacca torna a sfoderare un rifferama bello compatto sul cui sottofondo sembrano collocarsi delle strane trombette. Lo spettro circense però torna a riaffacciarsi in più casi nell'irruenza fragorosa del brano. Con "Seeking of Being", song strumentale, ci lasciamo ammaliare dai suoni di un organo che fa da apripista al saliscendi chitarristico che trova anche in un break acustico, l'attimo ristoratore utile a darci la carica e ripartire di slancio con la musica dei King SVK, qui più che mai sperimentale, quando ampio spazio viene concesso al suono di quella che parrebbe una spinetta, e prima che i nostri si lancino in una rincorsa prog rock. E bravi i due musicisti, che devono avere un pedigree di tutto rispetto viste le qualità tecniche. Ciò è confermato a lettere cubitali anche dai successivi pezzi: "Homeless" in primis, dove sottolineerei una schitarrata iniziale in stile "death metal from Stockolm", a cui segue l'imprevedibile e abbondante utilizzo delle clean vocals che qui doppiano il growling maligno del frontman, in un esperimento riuscito ahimé solo a metà, colpa esclusivamente della voce pulita davvero fuori posto. Che peccato maledizione, perchè la cosa avrebbe avuto risvolti decisamente interessanti, ma potrebbe anche essere che le vostre aspettative non siano cosi alte quanto le mie e possiate anche passarci sopra. Io francamente faccio un po' fatica e me ne dispiaccio particolarmente perchè in queste note percepisco la forte volontà da parte dei due musicisti slovacchi di mettersi in gioco, rischiare il tutto per tutto con la carta della creatività e andando assai vicino a compiere il miracolo. Niente paura, ci riprovano anche nella ancor più stralunata "Venetian Night" dove è una (o più?) voci femminili a provare a sostenere il riffing brutale dei nostri in un esperimento affine a quello degli svedesi The Project Hate; tuttavia anche qui la componente vocale non si rivela all'altezza. I nostri comunque non si perdono mai d'animo, vanno avanti nella loro strada pur ricascandoci in "Sea in the Soul" (da rivedere quindi il casting per la voce), visto che le dolci donzelle mal si adattano ad un sound robusto che prova qui anche la strada delle orchestrazioni. Bene da un punto di vista musicale, c'è ancora da sistemare qualcosa in quello vocale. "After Swimming", con un bel po' di immaginazione, potrebbe somigliare col suo coro fanciullesco ad "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd, con la song che comunque ha un forte piglio prog fatta esclusione per le ritmiche possenti. Ma la ricercatezza in trame elaborate fa parte del duo slovacco, anche nella più schizofrenica "With Horus in the Sky", quando i nostri ritornano sulla strada maestra dei primi pezzi e si lanciano in rincorse chitarristiche qui ancor più complicate che in apertura, ma con un occhio puntato sempre alla tradizione egizia. Il viaggio con i King SVK si completa con "The Age of Aquarius", una song che mi ha richiamato alla memoria un che dei Carnival Coal, sia a livello vocale che musicale. Ora, dopo aver speso tre quarti d'ora in compagnia dei King SVK, senza ascoltarne la musica, potrete solo lontanamente immaginare quali siano i margini di follia di questi due personaggi. Dategli un ascolto, fatevi un favore. (Francesco Scarci)

sabato 18 aprile 2020

Hangatyr - Kalt

#PER CHI AMA: Black, Shining
Hangatyr è uno dei molteplici nomi utilizzati per identificare Odino, la principale divinità norrena. Per tributare la sua figura, il quartetto della Turingia ha adottato questo stesso moniker, rilasciando dal 2006 a oggi tre album. Detto che la prolificità non deve essere proprio il punto forte della band teutonica, accingiamoci oggi ad ascoltare il nuovo arrivato 'Kalt', lavoro autoprodotto da poco rilasciato dai nostri. L'album include otto song che irrompono con la furia glaciale di "Niedergang", un pezzo che gela immediatamente il sangue nelle vene, per quella sua bestialità ritmica e vocale (uno screaming efferato in lingua germanica), giusto un breve accenno ad un black atmosferico ma poi, quello che si configura nelle mie orecchie, è quanto dipinto nella cover dell'album, ossia quell'uomo che cammina sotto una fitta tempesta di ghiaccio. Lo stesso ghiaccio che imperversa nelle note della successiva "Entferntes Ich", un brano più mid-tempo oriented, ma comunque contraddistinto dagli aberranti vocalizzi di Silvio e Ira, e da una componente atmosferica che rimane sempre relegata in secondissimo piano. La bufera prosegue con le melodie agghiaccianti di "Firnheim" e una prestazione a livello vocale che mi ricorda quello del buon Niklas Kvarforth nei suoi Shining, mentre il drumming risuona invasato ed insano, soprattutto nella seguente "Blick aus Eis", quando la velocità del drumming si fa ancor più sostenuta e le chitarre ancor più taglienti. "Kalter Grund" è un pezzo decisamente più controllato, con le sue melodie che ricordano da vicino le release del periodo di mezzo dei Blut Aus Nord, cosi sinistre e malefiche, e per questo eletto anche come mio pezzo preferito, soprattutto per la sua capacità di non eccedere in facili estremismi sonori e per la più preponderante valenza melodica ed una certa ricercatezza sonora. Un malinconico intermezzo strumentale, "...Kalt", e si arriva agli ultimi due brani del cd, "Mittwinter" e "Verweht", quindici minuti affidati ad una tormenta sonora che come il vento sferza i nostri volti con soffi d'aria gelidi, l'act tedesco, con le sue plumbee chitarre, genera atmosfere rarefatte ma comunque dotate di una certa intensità epico-emotiva. 'Kalt', per concludere, è un album complicato, non certo facile da digerire di primo acchito, ma che richiede semmai più ascolti per essere apprezzato nella sua veste cosi distante e glaciale. (Francesco Scarci)

Abeyance - Portraits of Mankind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Ah, ma c'è ancora qualcuno nel mondo che suona death melodico che chiama in causa i vecchi Dark Tranquillity? L'ho scoperto solamente oggi, con l'arrivo sulla mia scrivania dell'EP di debutto dei milanesi Abeyance, uscito sul finire del 2019 per la Sliptrick Records. 'Portraits of Mankind' è il lasciapassare dei nostri per farsi conoscere ad un pubblico più ampio. Dicevamo EP e Dark Tranquillity: cinque tracce quindi per un sound fresco e scorrevole come solo la band di Gotheborg riesce ancora a creare. Si parte in tromba con la title track e un riffing serrato che mette in mostra una bella melodia di sottofondo come da insegnamenti di Mikael Stanne e soci. E poi un saliscendi dinamico di chitarre, breakdown, rallentamenti e finalmente degli assoli interessanti. L'attacco della successiva "In Falsehood Dominion" sembra un estratto da un qualsiasi disco dei Dark Tranquillity, anche se proseguendo nell'ascolto, il muro ritmico si fa più violento, con i vocalizzi del frontman piuttosto radicati nel growling death metal, quello comprensibile però. Poi un'altra frenata e la song s'incanala dalle parti di un mid-tempo, prima della sassaiola finale molto più vicina al post-black che al death metal. Un pianoforte introduce "Mine Are Sorrow and Redemption" (quante volte l'hanno fatto anche i nostri idoli svedesi?), giusto una manciata di secondi e poi via con il muro di chitarre, stop'n go, spoken words in sottofondo, i motori si scaldano per partire a mille, ed eccomi accontentato. Probabilmente il canovaccio è piuttosto scontato, ma il risultato non è affatto male in termini qualitativi. E forse la prima considerazione che farei su questo dischetto in ottica futura, è proprio quella di lavorare sull'imprevedibilità della musica, aumentando in questo modo la longevità d'ascolto della band meneghina. Le qualità per fare bene infatti ci sono tutte e questo è dimostrato anche dall'assolo progressive in coda a questo pezzo. Poi, ascoltando le successive "Innerscape" e "Secretly I Joined Dark Horizons", non posso che apprezzarne i contenuti, sebbene si tratti di un paio di pezzi un po' più classicheggiante nel loro incedere e quindi troppo ancorate a stilemi che forse andavano di moda una ventina d'anni fa. E qui arriva la mia seconda considerazione: cerchiamo di lavorare maggiormente in termini di creatività e personalità, mettendo da parte gli indottrinamenti dei maestri. 'Portraits of Mankind' è sicuramente un bel rodaggio, ma in futuro mi aspetto grandi cose dagli Abeyance, quindi attenzione, che vi tengo sott'occhio! (Francesco Scarci)
 

Hermon - Blackest Night

#PER CHI AMA: Black/Punk, Darkthrone, Celtic Frost
Era addirittura il 1993, quando i qui presenti Hermon si formarono nella elegante Buenos Aires. Tre anni insieme, nessuna release ufficiale, probabilmente tanto divertimento, birre nello scantinato di una qualche casa, li a strimpellare insieme. I tre musicisti argentini dal 1996 in poi, si sono dedicati ad un'altra miriade di progetti (Windfall, Xenotaph, Artes Negra tra gli altri) prima di riflettersi sul da farsi e tornare insieme solo nel 2018, per dare voce al progetto iniziale Hermon. E finalmente, nel 2019, vede la luce 'Blackest Night', un disco che forse sarebbe dovuto uscire 25 anni prima, vista una proposta a cavallo tra punk, black e death. Questo ci dice infatti l'opener "About the Dark Hours", una traccia che poteva essere stata rilasciata tranquillamente dai Darkthrone negli anni '90. Poi, con "Funeral Black Winter" si scatena l'inferno: ritmica cingolata lanciata a tutta forza, con un mood a metà strada tra i primi Mayhem e ancora con la band di Fenriz e compagni. La proposta, come potete immaginare, è assai oscura, ma ovviamente non aggiunge nulla alle forze del male del passato, a cui aggiungerei altri tre nomi per chiudere il cerchio e dare una giusta connotazione al sound della compagine argentina, ossia i primi Celtic Frost, i Venom e i Bathory. I primi due per la loro aura spettrale e qualche influenza che si ritrova a schizzi nell'album, la terza band per una certa vena epica che si riscontra qua e là nei vocalizzi di Nan "Noctambulo" Herrera. Poi, parliamoci chiaro, dai due minuti di "Thinking to Kill" in avanti, per concludersi con "Black Celebration", il disco potrebbe suonare come una celebrazione della carriera dei Darkthrone, ma per quelli è sempre meglio ascoltare gli originali. Insomma un bel salto indietro nel tempo con questa "Notte più Profonda" che ci porta dritta agli albori del black metal. (Francesco Scarci)

(Sons of Hell Prod. - 2019)
Voto: 66

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