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giovedì 20 aprile 2017

The Chasing Monster - Tales

#PER CHI AMA: Post Rock, If These Trees Could Talk
Non mi capita spesso che un album colpisca la mia attenzione esclusivamente per la sua copertina: in questo caso però, essendo un appassionato di astronomia, non potevo non rimanere affascinato dalla cover dei The Chasing Monster, che vede la silhouette di due persone con uno splendido cielo stellato in background, peraltro con colori viranti ad una tonalità arancione per l'uscita digitale e verde-blu per il cd. Ma veniamo ad analizzare gli aspetti più contenutistici che puramente estetici. 'Tales' rappresenta il disco di debutto dei The Chasing Monster, quintetto di Viterbo che narra qui la storia di Emm e Oliver all'alba del loro ultimo giorno sulla Terra, attraverso sette gemme dedite ad un sognante post-rock. Chi siano i due personaggi non mi è dato di saperlo, però la passione del combo italico per sonorità criptiche e decadenti, si palesa immediatamente nell'opener "Itai", che ci consegna un suono cristallino, un must per questo genere. La song, interamente strumentale, lascia trasparire tutta la vena malinconica che imperversa nelle note dei quattro laziali con suoni dilatati e nostalgici, una sorta di colonna sonora per quando il nostro sguardo volge verso un panorama all'orizzonte ma in verità non lo sta realmente guardando, è da tutt'altra parte, raccolto con i suoi pensieri. E questo sarà il filo conduttore di un disco che cresce attimo dopo attimo, si gonfia, innescando un caleidoscopico ventaglio di emozioni. Lo si evince dalla successiva traccia, "The Porcupine Dilemma", una song che, oltre ad affidarsi a delle interlocutorie spoken words, con i suoi arpeggi va salendo d'intensità, e in modo inversamente proporzionale, la sua elettricità va dirigendosi verso un mood più disperato, provando a trascinarci in un vortice emozionale in bilico tra il depressive e il post rock (alla fine si rivelerà la mia song preferita). Solo il parlato conclusivo ci salva da una commovente esplosione di lacrime. "The Girl Who Travelled the World" affida il suo incedere alla narrazione di una voce femminile - chissà se si tratti proprio della ragazza che ha viaggiato per il mondo e chissà se quella ragazza è Emm, - a chitarre tremolanti e ad un drumming lento, a tratti tribale, in un mix tra post rock e shoegaze che, seppur in una forma molto (ma molto) più leggera, mi ha evocato addirittura sentori proveniente da 'Brave Murder Day' dei Katatonia. La narrazione, questa volta maschile, prosegue in "Albatross", un pezzo in cui il ruolo di protagonista accanto alla chitarra, è assunto da una batteria profonda che scandisce il tempo del brulicare dei nostri pensieri, ma che apre prima ad un etereo cantato e poi ad un bell'urlaccio, in grado di innescare un riffing più pesante, orientato al post-hardcore (retaggio degli esordi della band), permettendo poi al sound di aumentare il proprio vigore energetico. "La Costante" è un breve brano strumentale che vede comparire come guest star alla chitarra, Theodore Freidolph degli inglesi Acres, nell'ennesima scalata emozionale di quest'intrigante 'Tales', la cui edizione digitale ingloba peraltro i dialoghi completi tra i due protagonisti. "Creature" affida il suo flusso emotivo al basso e poi alla voce femminile, con il tremolo picking in sottofondo che va ad armonizzarsi successivamente e offrendo calde melodie avvolgenti, pregne ovviamente di quella malinconia che preannuncia l'arrivo consapevole della parola fine, la fine di un amore, di un'amicizia, di una vita, non lo so. Quel che è certo è che quella consapevolezza sembra conferire una certa serenità che con "Today, Our Last Day on Earth" va a concretizzarsi attraverso un ultimo malinconico atto, l'ultima parola, l'ultima carezza, un ultimo sorriso, "l'ultimo addio come la fine di un viaggio", esaltando definitivamente la prova di questi cinque musicisti di casa nostra, pronti a prendere il volo come l'albatro da loro narrato. Bravi, bravi davvero. (Francesco Scarci)

mercoledì 19 aprile 2017

Trollband – In the Shadow of a Mountain

#PER CHI AMA: Pagan Black/Folk, Wardruna, Otyg, primi Vintersorg
Senza togliere nulla al lavoro più recente dei Trollband, datato 2013, ritengo che l'ispirazione che ha portato alla creazione del loro primo full-length, sia di quelle folgoranti, che non capitano sempre nella carriera di un artista. Di quest'album se ne è già parlato a suo tempo, quando uscì nel 2011, e oggi vede la luce in ristampa tramite la Vegvisir Distribution, che saggiamente ha pensato di rimetterlo sul mercato per non farlo finire nel dimenticatoio. Infatti, questo disco merita molto rispetto, perché pieno zeppo di riferimenti cari a generi come il pagan metal, il folk metal, il black metal sinfonico e, il suo carattere istrionico all'interno di queste vesti del metal estremo, lo rendono originale e dinamitardo. Seppur ovviamente derivativo dal sound di band più blasonate, bisogna ammettere che di personalità questo pugno di canzoni ne ha da vendere e su tutte spunta il fatto che l'album si faccia ascoltare senza remore né lacune, in un continuo sorprendere l'ascoltatore con il suo profilo cinematografico, ideale per essere la colonna sonora per un documentario sui vichinghi. Lo scambio tra strumenti moderni, melodie e suoni antichi rappresenta un'apoteosi mistica (da ascoltare la title track "In the Shadow of a Mountain" degna dei Wardruna). L'atmosfera è quella sciamanica della divina Hagalaz Runedance: ancestrali leggende senza tempo si fondono con la ferocia di un tipico combo black metal (complice una voce affascinante e maligna) quando c'è da far tremare le menti assopite del mondo moderno e farle tornare ad un passato crudo e violento ("Heathen Blood") con il tutto che rimanda ai bei momenti dei Forsth, degli Otyg, dei Waylander o di Vintersorg della prima maniera. Nel loro sound c'è spazio per alcune forme di classic metal ed è una cosa che si sposa perfettamente con la componente black più veloce e guerriera, i brani sono molto variegati e niente è lasciato al caso, ben curate le ariose parti di tastiera e le suite folk pensate alla perfezione e ben suonate ("We Live"), con la voce narrante e un suono generalmente grezzo ma avvolgente e stranamente caldo, che risultano centratissimi. La copertina è perfetta per il loro stile mitologico e fantastico, bisogna poi sottolineare che a dispetto della comunanza del genere, la band canadese non ha nulla a che vedere con il sound festaiolo e alcolico dei Korpiklaani (senza nulla togliere al mito della band finlandese) ma vive di musicalità più introspettiva e sinistra. Riascoltato a distanza di qualche anno, quest'album suscita ancora tante arcaiche emozioni offrendo una proposta variegata e assai valida nel vasto ed inflazionato mondo del folk metal mondiale. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

Holocausto - War Metal Massacre

#FOR FANS OF: Black/Thrash, Sarcofago, early Sepultura, Sodom
In the eighties, Brazilian metal had a lot of provocative bands, but Holocausto was for sure the one that stood out the most in that area. With their constant references to the Nazi regime in their image and lyrics, it didn’t take long for them to be accused of being nazis, even if they expressed that they only adopted those symbols to express the horror of the Holocaust. And their music was as extreme as their image, because 'Campo de Extermínio' ('Extermination Camp'), their debut from 1987, still sounds as brutal and violent as it was at that time, with their sloppy technique, their blastbeats, monstrous vocals, and simple but effective thrashy riffs.

This period of rawness ended up being a little short-lived, as Holocausto decided to start changing their sound in their follow-up 'Blocked Minds', where they left the nazi image and Portuguese lyrics, and adopted a crossover thrash sound in the vein of Suicidal Tendencies. The following albums saw Holocausto with the same approach to songwriting as fellow Brazilian bands Sepultura and Sarcófago, never releasing the same album twice and experimenting with more technical riffs and some industrial and noise influences, but unlike those bands Holocausto never managed to capture the same impact of their debut. Internal turbulences and a constant change of members didn’t helped, and they split-up at some time in the mid nineties. Although they reunited in 2005 to record the hardcore-tinged 'De Volta Ao Front' ('Back to the Front'), they didn’t do a lot more.

That is why 'War Metal Massacre' is so welcome as an addition to Holocausto’s discography. With all the members that recorded 'Campo de Extermínio', with the exception of the drummer Armando Sampaio, and a cover that reminds of the one in that album, the intention is very clear and simple: they want to go back to their roots.

The most interesting part of this six-song EP is in the last three songs, the ones that Holocausto composed for this release. It’s complicated to talk about them individually because there isn’t much difference between them, but what they don’t have in variations is compensated with an incredible display of force: “Eu Sou a Guerra” (“I Am the War”), “Corpo Seco / Mão Morta” (“Dry Body / Dead Hand”) and “War Metal Massacre” show Holocausto going back where they feel like a fish in the water, with blastbeats, punchy riffs and lyrics about the horrors of war. Sometimes they sound like 'Obsessed By Cruelty'-era Sodom, but with much better sound. If sometimes critics have used terms like “war metal” and “noise metal” to describe Holocausto’s style, this are songs thet justify those claims.

“Massacre”, “Destruição Nuclear” (“Nuclear Destruction”), and “Escarro Napalm” (“Napalm Sputum”), the three other tracks from this EP, are re-recordings of songs that the band released in their first years. And here they’re present in their best versions: even if there aren’t a lot of changes, with the exception of a short rainy “Black Sabbath”-like intro, the musicians playing them, have improved their technique and the better quality sounds manages to make that the rhythms of Nedson “Warfare” Conde, who was the first drummer of Holocausto, sound as violent as they’ve to be. To “go back to their roots” is something that not a lot of bands manage to do, because a lot of times they end up sounding like tired versions of what they used to be. But with “War Metal Massacre” these Brazilians manage to combine the search into the band’s origins with the experience they’ve gained along these years. I don’t know if a lot of people were expecting new material by Holocausto, but it’s a great surprise nonetheless. There isn’t a single bit of filler in 22 minutes of music, and it’s a perfect comeback for a band that deserved a lot better. Will they manage to get that with the release of an LP? We’ll only have to wait. (Martín Álvarez Cirillo)

(Nuclear War Now! Productions - 2017)
Score: 80

https://nuclearwarnowproductions.bandcamp.com/album/war-metal-massacre

martedì 18 aprile 2017

Infernal Angels - Ars Goetia

#FOR FANS OF: Black, Dark Funeral, Mgła, Belphegor
Italian melodic black metallers Infernal Angels feature plenty of glimpses of pure aggression that are blended into parts of mournful, disturbing sonic extremity with sudden melodic grafts throughout here which produces a fine Scandinavian angle to the music. The album is based mostly on tight, ferocious tremolo riffing that produces a strong, thunderous base for the rest of the music to offer the frantic tempos and patterns featured throughout here. Generating plenty of intensity with the blistering drumming while remaining firmly aware of the tight, frantic buzzing melodies blazing alongside the raging music featured here, and overall there’s a solid amount of work displayed here that makes for a wholly enjoyable time. The one main problem with this one arrives in the fact that there’s just not a whole lot of deviation in the music which has a ton of opportunities to express any kind of variance here yet it doesn’t really offer that here. It’s all pretty much the same general buzzing tremolo melodies and rather tight, same-sounding rhythms for the most part, and that does tend to lower the impact of the album when it’s almost impossible to figure out where on the album you are. Still, the tracks here aren’t all that bad here. Once this gets past intro ‘Amdusias: The Sound of Hell,’ there’s quite a lot to like here as ‘Vine: Destroyer of the World,’ ‘Purson: Matter and Spirit’ and ‘Bael: The Fire Devour Their Flesh’ feature these in rather impressive, explosive manners. As well, ‘Asmoday: The Impure Archangel’ and ‘Paimon: The Secret of Mind’ drop a lot of the intensity and go for more mid-tempo melodies to really give this a bit of variation. Still, that doesn’t detract from the main flaw in this one. (Don Anelli)

(My Kingdom Music - 2017)
Score: 80

https://infernalangels.bandcamp.com/

lunedì 17 aprile 2017

Raptor King - Dinocalypse

#PER CHI AMA: Metalcore/Math
C’è chi costruisce elaborati concept album per raccontare serissime vicende personali, viaggi fantascientifici o futuri distopici. E poi ci sono i Raptor King, che si presentano con un packaging imbarazzante, un video in cui un tizio vestito da dinosauro con gli occhiali da sole viene in faccia ad una sosia di Rey dall’ultimo 'Guerre Stellari' ed una storia quanto mai improbabile e ridicola. In questo secondo EP 'Dinocalypse', si racconta di King Raptor V, un dinosauro potentissimo e senza rivali, che governava il mondo 74 miliardi di anni fa. Grazie ad un portale interdimensionale, King Raptor V viaggia nel tempo e arriva nella periferia parigina nel 2015. Assolda due improbabili scagnozzi (il chitarrista illusionista Nightsmoke e il batterista Don Coco) e decide di conquistare il nostro mondo fondando una band: i Raptor King appunto. Musicalmente parlando, siamo di fronte ad un frullato di generi e stili difficilissimo da catalogare. L’opening è affidata alla title track “Dinocalypse”, un assalto deathcore di casse e rullanti, su cui un basso tossico e le chitarre in palm-mute, costruiscono un groove intricato sullo stile dei The Dillinger Escape Plan. Pregevole il lavoro alla voce, gorgogliante e brutale. Cala la luce in “The Witch”, guidata da un riffing lento e oscuro, sabbathiano, quasi doom in certi versi, capace però di inaspettate aperture in blast-beat e accelerazioni metalcore. Sulla successiva “The Long Way To Rock (Pom Pom Pom Pom Pom)” non potrete non muovere la testa: un mid-tempo perfetto e un groove contagioso a cavallo tra rock e metal fanno da tessuto ad una canzone in grado di dare spazio alle capacità tecniche di ciascun membro. “Fight’n’Roll” accelera nelle corde di un metal più contemporaneo, violento e potente, dove King Raptor urla come un punk fatto di adrenalina, ma si ammorbidisce sui ritornelli più catchy. Chiude “Lonesome Raptor”: un blues lento e malato, melodicamente impeccabile, con una voce rauca che ricorda Tom Waits. Un lavoro talmente eterogeneo e sconnesso da spaventare, ancor di più se consideriamo l’assurda ironia dei testi e dell’intero concept. Ma i Raptor King sanno suonare, eccome: se cercate un approccio competente ma ridicolo al metalcore contemporaneo, questo gruppo fa per voi. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.raptorkingrocks.com/

Sekhmet - Spiritual Eclipse

#PER CHI AMA: Black/Death, Unanimated
Sembra che i cechi Sekhmet abbiano dovuto tribolare un pochino per il rilascio del loro ultimo 'Spiritual Eclipse', a quanto pare per vicissitudini legate alla registrazione. Sono dettagli che comunque non inficiano il risultato finale di quest'uscita, la quinta sulla lunga distanza da parte del quintetto di Děčín, in una discografia che include anche sei split. Concentriamoci però su quest'ultimo lavoro che ha da offrire il proprio inno a Satana attraverso otto (+ intro) tracce devote ad un black metal ferale, ispirato e melodico. Con "Religious Infection" entriamo nel mondo di questi guerrieri votati ad un sound maligno di derivazione scandinava che si muove tra accelerazioni nevrotiche, blast beat, screaming vocals davvero convincenti (sebbene l'arrivo di un nuovo vocalist, che ben si è inserito nella formazione ceca), supportate da più rari ed epici vocalizzi. Inusuale il lavoro dietro le pelli (una piacevole costante del disco) nella esplosiva "The Greatest Deception", song dall'incedere belligerante che si muove su pattern ritmici che li avvicinano piuttosto al suono di una contraerea, pur non disdegnando sprazzi di melodia, rallentamenti funesti e udite udite, anche un brevissimo assolo. "Enforced Discipline" sembra uscita da un disco black'n roll dei Darkthrone grazie a quella sua vena punk contrappuntata da un drumming bello tirato, chitarre assai corrosive e le arcigne vocals del frontman Agares a disseminare il proprio odio. È ancora una volta il lavoro affidato alle asce (in tremolo picking nel finale) a garantire momenti di goduria con un altro assolo taglia aria. I nostri non sono certo degli sprovveduti e lo si evince nella loro capacità di sciorinare riff deflagranti ("Die for Your God", una song che in alcuni squarci di chitarra mi ha evocato gli Slayer) piuttosto che atmosfere più infernali, come nell'incipit sinfonico di "Fanatical Worship", pezzo mid-tempo dotato di un riffing di scuola svedese (Unanimated) e di magnifiche melodie evocanti anche i primi Dissection. Martellante è "The Doctrine Falls", song selvaggia che evidenzia un bel lavoro al basso ad opera di Mephisto e un dicotomico approccio vocale affidato a vocals epiche e altre disumane. "Death is the Law" rappresenta la summa di 'Spiritual Eclipse', muovendosi in un saliscendi viscerale di accelerazioni black, vocalizzi accostabili ai Mayhem, partiture death, un breve intermezzo elettronico e per concludere, anche un bell'assolo di chitarra che sancisce la consacrazione di una band che vive nell'ombra dell'underground ma che meriterebbe ben altri palcoscenici. Se proprio devo trovare un neo all'album, potrei affermare che il songwriting è ancora migliorabile, ma c'è tempo di nuovi accorgimenti in un nuovo futuro album. Ah dimenticavo, l'ultima song è "Funeral Bitch", cover dei Marduk, riletta in chiave Sekhmet. (Francesco Scarci)

(Werewolf Productions - 2016)
Voto: 70

http://sekhmetczech.bandcamp.com/

venerdì 14 aprile 2017

Tunguska - A Glorious Mess

#PER CHI AMA: Dream Pop/Shoegaze, Sonic Youth
Rugginosità youth-soniche potenziometriche, coniugate a tentazioni indie-pop di ispirazione anni-novanta-vs-beatles ("Scratch Your Name Upon my Skin" vs. "Anywhere but Here"). Gennaro Spaccachitarre si controlla sicuramente le scarpe quando suona la chitarra, e canticchia con modesto cipiglio billycorgan/iano. Il songwriting appare calibrato, ma la produzione riverberante e forse eccessivamente ovattata ammorbidisce e uniforma un po' troppo, nell'umile opinione del sottoscritto. Possibile rilevare i The Cure più chiaroscurali, vale a dire quelli dei primi album, i Sonic Youth meno autoindulgenti, vale a dire quelli di 'Daydream Nation' e 'Sister', i Royal Trux meno digrignanti, vale a dire nessuno. Ma anche certi easy-melodismi iniziottanta alla Orchestral Manoeuvres in the Dark ("Enola Gay" vs. "Everything you Know is Wrong"), anche se risulta evidente che il duo di Forlì non lo ammetterà neanche sotto tortura. (Alberto Calorosi)

Brieg Guerveno - Valgori

#PER CHI AMA: Prog, Opeth, Porcupine Tree
Se cercate nell’ambito folk, è piuttosto facile trovare band che usino il proprio dialetto nei testi. Allargando la ricerca al rock e al metal, il cerchio si stringe a pochi artisti. Tuttavia, è la prima volta che sento cantare in bretone. Il compositore Brieg Gurveno (autore di tutti i testi e le musiche) ha davvero le palle: sia per la capacità di costruire una poetica interessante con una lingua così difficile, sia per il più che discreto lavoro di songwriting e produzione. Il genere di riferimento è quel neo–prog contemporaneo, tinto da colori metal e misurate spruzzate di elettronica; il tutto è orientato ad una composizione malinconica, scura, vagamente epica. Sussurrano gli Opeth — ma scordatevi il growl e le sfuriate di doppia cassa — in certi utilizzi di suoni e alcune scelte melodiche (“En Desped” e “Pedenn”), ma anche quando Brieg Guerveno vira verso l’epico e il death-prog (l’inquietante “An Hizivenn”). È forte anche il richiamo ai primi Porcupine Tree (“Poltred” e la title-track “Valgori”), specie nelle aperture di archi. Sembra di sentire persino degli echi lontani di certi anni ’70, in particolare dei Pink Floyd e dei King Crimson più sperimentali (“Hirnez” o i cori sul finire di “Kelc’h”). Voce e melodia sono sempre squisitamente al centro dell’ascolto: ci sta, considerando che l’autore ha scelto il bretone come lingua. Musicalmente ho sofferto una certa ripetizione dei suoni (strings e synth sono, francamente, gli stessi per tutto il disco) e dei tempi ritmici, pur con la capacità di alzare e abbassare l’asticella dell’emozione per mantenere il lavoro scorrevole nel suo complesso. L’assenza di ogni riferimento all’universo folk rock rende questo lavoro comunque interessante: c’è un sapore quasi medievale nel cantato — antico, incomprensibile e per questo magico — ma il tutto è riletto musicalmente con gusto contemporaneo. L’unico rischio? La noia, per oltre un’ora di melodie trasognanti e tappeti di chitarre e archi. (Stefano Torregrossa)

(Paker Prod - 2016)
Voto: 65

https://briegguerveno.bandcamp.com/