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domenica 14 febbraio 2016

Under The Ocean - Dark Waters

#PER CHI AMA: Deathcore, At the Gates, The Black Dahlia Murder
Abrasivi. Fine. La mia recensione si potrebbe chiudere tranquillamente qui. Descrivere il sound macinato da questa band di Parma è abbastanza facile: un mastondontico deathcore, un rullo compressore che non si ferma davanti a nulla e asfalta qualsiasi cosa gli si pari davanti. 'Dark Waters' è un EP di 20 minuti, che in quattro brani, dà prova dell'energia di cui questi cinque giovani sono dotati. Un suono senza compromessi che sarebbe facile etichettare con un modo di dire abbastanza abusato ultimamente, "un sound che non fa prigionieri". Un principio culturale della politica americana, in cui la sostanza è che gli avversari devono essere distrutti con ogni mezzo. Altrettanto fanno gli Under the Ocean, che da "The Leper Town" alla conclusiva "The Creeper", ci offrono tonnellate di riff sparati in faccia alla velocità della luce, con un batterista che deve essere uscito dal circo per i numeri che riesce ad offrire con la sua tecnica e velocità, mentre i chitarristi provono a tessere qualche melodia di scuola death svedese (At the Gates) ma anche americana (The Black Dahlia Murder), corredata da stop'n go, begli assoli (interessante quello di "The Bell Tower" che mi ha richiamato i Sepultura di 'Arise'), break acustici e ritmiche decisamente, fortemente serrate, mentre il vetriolico vocalist sbraita nel microfono. Inusuale l'inizio di "The Riverbank", la traccia che forse di più si distanzia dalle altre e che, nel suo incedere a tratti marziale, rappresenta anche la mia preferita dell'EP, per quel suo mood più asfissiante delle altre. A chiudere, le vertiginose e aggrovigliate ritmiche di "The Creeper", che sanciscono la fine di questo EP niente male, ma che necessita ancora una revisione nel proprio sound per poter emergere dalla massa di band che offrono questo genere. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2014)
Voto: 65

https://drownwithinrecords.bandcamp.com/album/dark-waters

Svartelder - Askebundet

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal, Ancient
Nostalgia nei confronti del black metal norvegese? Ho la soluzione che fa per voi. Vi presento i norvegesi Svartelder, band formatasi nel lontano 2005 per mano di Doedsadmiral (Nordjevel, Doedsvangr) e nelle cui fila militano anche AK-47 e Cobold, due loschi individui che hanno fatto parte o sono ancora membri, tra gli altri, di In the Woods, Carpathian Forest, Blood Red Throne, Ewigkeit e Den Saakaldte. Questo per dire che questo quartetto di Indre Arna, non è certo l'ultimo arrivato. E la nostrana Dusktone Records ci ha visto lungo, mettendoli sotto contratto e facendoli esordire con il loro EP 'Askebundet'. Quattro canzoni, 30 minuti di durata, fatto di suoni black mid-tempo rancidi, malefici e sinistri. La matrice ritmica è quella tipica norvegese: chitarre ronzanti, melodie orecchiabili, qualche tocco di synth in stile Burzum, fin dalla lunga title track che apre le danze. La voce di Doedsadmiral poi è in linea con le produzioni norvegesi, la associerei a quelle di Immortal e Ancient per timbrica e abrasività. I 10 minuti di "Askebundet" scorrono via piacevoli, tra qualche frangente che puzza di già sentito e qualche apertura più varia. Più interessante invece, la seconda "Bleeding Wounds", forse meno monolitica della opening track, e con qualche soluzione strumentale più fresca e ariosa, anche se mi rendo conto che questi due aggettivi potrebbero far storcere il naso ai puristi del genere, però voi dateci un ascolto e potrete anche riscoprire un che dei Satyricon degli esordi o un pizzico di epicità dei Bathory. "Ingen Vet Jeg Var...", la terza song, è più potente grazie a suoni più profondi e a un uso ancor più incisivo delle keys, sebbene il flusso sonico mantenga comunque l'intransigente glacialità degna del black. Incredibile la presenza di un melodico assolo nella sua seconda metà, laddove il sound dei nostri sembra richiamare anche quello dei conterranei God Seed. L'ultima traccia del dischetto è una versione demo di "Black He Stands", un brano che sinceramente non so da dove salti fuori, ma che comunque mostra l'intenzionalità da parte di Doedsadmiral e compagni di abbinare black old school con inquietanti tastiere e qualche sperimentazione anomala per il genere. Per ora accontentiamoci di 'Askebundet', un lavoro sicuramente gradevole, ma che non aggiunge grandi novità al verbo nero. Sia chiaro pertanto che dal futuro mi aspetto qualcosa di ben più convincente. (Francesco Scarci)

giovedì 11 febbraio 2016

CONTEST RUSTY PACEMAKER


I vincitori del contest "Rusty Pacemaker", che hanno risposto correttamente alle domande poste e vincono una copia dell'ultimo cd, 'Ruins', dell'artista austriaco sono:
The winners of the "Rusty Pacemaker" contest, that answered correctly to the questions and win a copy of the last album, 'Ruins', of the Austrian musician, are:

Caterina M. (Trezzo sull'Adda - Italy)
Michela M. (Coldrerio - Switzerland)
Piero S. (Breganzona - Switzerland)
Diego C. (Bardolino - Italy)
Giulio D.G. (Creazzo - Italy)

Malke - Days After Tomorrow

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal, Russian Circles
Regnano sovrane la decadenza e l’introspezione nel mondo dei Malke, act proveniente da Barcellona. Il trio post rock strumentale è formato da David (chitarra), Mario (basso), Albert (batteria). Nel 2014 i catalani escono per la prima volta allo scoperto con "Santos", un singolo allucinato e surreale, in free download su Bandcamp. Il disco d’esordio 'Days After Tomorrow' viene invece pubblicato nel Novembre del 2015: qui il suono è oscuro e spettrale, a tratti maestoso, a tratti impalpabile. Tuttavia non mancano estatici spiragli di luce che conferiscono all’opera un respiro spirituale e profetico. La fantasia inizia a correre già guardando la copertina, una scelta a dir poco azzeccata! Una luna nuova ed un freddo cielo notturno fanno da sfondo ad un magnifico falco che plana ad ali spiegate tra i grattacieli di un’oscura città, probabilmente disabitata da centinaia di anni. In questo paesaggio post apocalittico un’umanità decimata dalle forze della natura si rifugia nel sottosuolo, sopravvivendo tra stenti e sofferenze e combattendo per ricostruire la civiltà. Aprendo il digipack in cartoncino, scopro stampato sul disco il muso del falco che mi fissa con i suoni tre occhi. Come il rapace vola muto sulle rovine della civiltà anche 'Days After Tomorrow' fa volare l’ascoltatore tra paesaggi surreali e sentieri inesplorati, il tutto senza proferire una parola. I dischi strumentali a volte riescono ad essere più suggestivi proprio perché esulano dal significato delle parole e permettono di immergersi completamente nelle sensazioni che la musica trasmette; i Malke di sicuro hanno fatto proprio e messo in pratica egregiamente questo concetto. I nomi dei brani contribuiscono a rendere più credibile lo scenario di desolazione e tenebre, uno su tutti "Reise Nach Dachau" (Recarsi a Dachau), probabilmente un invito a visitare il campo di concentramento nazista e magari riflettere su come l’uomo sia in grado di infliggere dolore e morte a se stesso. Quasi un avvertimento profetico quello dei Malke, ci esortano ad evolverci e a guardare dentro noi stessi, forse l’unico modo per evitare di dover vivere sul serio nel mondo descritto da 'Days After Tomorrow'. Parlando strettamente di suono è sicuramente da notare il metodo di registrazione, cioè quello della presa diretta live. Sicuramente questa scelta è a favore dello spirito dell’opera che risulta molto diretta e senza fronzoli. L’esecuzione a volte non è perfetta ma è questo il fascino esercitato dalla registrazione live, si sente chiaramente la componente umana, con il disco che sembra suonato davanti all’ascoltatore. La scelta dei suoni di chitarra non eccessivamente saturi, permette alla melodia di prevalere rispetto alla ritmica seppure il disco presenti interessanti cambi di metrica che rendono le canzoni movimentate e dinamiche. Si percepisce chiaramente l’attenzione posta nella composizione della musica più che alla sua “estetica”, in questo primo disco dei Malke prevale la ricerca del significato e dell’espressione ma anche dell’equilibrio spirituale. Il disco inizia con "1402 – 1923", song il cui nome sembra evocare una data, confesso di aver provato a cercare il significato ma il mistero si è rivelato più fitto del previsto. Comunque il pezzo offre un ambiente psichedelico ed etereo, rotto a metà del suo sentiero da un guizzo di pazzia distorta. Poi modula ritmica e intensità fino al termine creando un senso di insicurezza ed instabilità ma anche infondendo un certo grado di coraggio e determinazione, quella che serve per esplorare un posto sconosciuto in una notte d’inverno. La seconda traccia, "Alfas", richiama lo stile dei Russian Circles, ma con suoni più diretti, taglienti e senza fronzoli. Gli strazianti arpeggi distorti della chitarra di David coronano il brano dipingendo scenari di desolazione ed inquietudine. Il corposo basso di Mario crea degli ambienti mistici e spaziali, che ricordano band come i My Sleeping Karma o i Monkey3. Il brano presenta un buon equilibrio tra l’oscurità delle parti distorte e quelle più eteree e risulta in generale godibile e ben costruito. Segue la crudezza di "Maskirowka" che ci riporta a volare un po’ più in basso verso il tartassato suolo terrestre, dove la chitarra e il basso tracciano dei profondi solchi nell’asfalto dissestato mentre l’ipnotica batteria di Albert mantiene l’incantesimo. Arriviamo quindi a "Nebula" che inizia con note sognanti incalzate da una leggera ritmica, come fosse il falco che si posa sulla guglia di un palazzo in rovina che guarda la desolazione sottostante e d’un tratto, decida di spiccare il volo. Dall’alto guarda le strade e osserva la desolazione in cerca di qualche piccolo animale sopravvissuto che serva da sollievo alla troppa e intensa fame. Dopo un intenso intenso viaggio tra le anime delle vittime dei campi di concentramento di "Reise Nach Dachau" possiamo lasciarci cullare dalla coda "Tro", uno splendido regalo d’addio che i Malke ci regalano. Il falco oramai stanco per l’estenuante ricerca della preda si concede qualche ora di riposo al sicuro nel suo nido, sotto una grondaia di un edificio in frantumi, per cercare di raccogliere le energie prima che i morsi della fame tornino a farsi sentire. (Matteo Baldi)

(Consouling Sounds - 2015)
Voto: 75

martedì 9 febbraio 2016

Nepalese Temple Ball – Arbor

#PER CHI AMA: Psych/Post Hardcore, Fugazi, Neurosis
Strano disco, questo. Strana band, anche. Da un gruppo che si fa chiamare come un leggendario tipo di hashish, ti aspetteresti musica rilassata o comunque un qualcosa che ti accompagni nei tuoi “viaggi” rendendoli piú piacevoli e consapevoli. Non certo un monolite oscuro, pesante e malsano fin dall’artwork (invero molto curato) che potrebbe rischiare di farti incontrare i tuoi mostri e indurti a perdere la testa per sempre. Perchè la musica dei Nepalese Temple Ball (NTB), quartetto inglese di Bournemouth, è un gigante barbuto e feroce, coi piedi ben piantati nel noise rock di matrice AmRep e due teste, una fieramente hardcore, l’altra dallo sguardo post-metal disturbato e folle. 'Arbor' risulta quindi un’impressionante opera prima che coniuga stili e influenze in modo tutt’altro che grezzo o ingenuo ma che anzi colpisce per maturità e riesce ad infondere un costante senso di minaccia lungo tutti i suoi 63 minuti. Molto merito va ascritto al peculiare utilizzo delle voci (spesso al microfono si altrenano un cantato di stampo piú classicamente declamatorio, alla Fugazi, e uno di scuola screamo) e di un suono che sembra come ricoperto di una patina di sporcizia, il che è un complimento, se capite cosa intendo. Per la gran parte del tempo mi sono trovato a gridare al miracolo, ci sono momenti in cui i NTB sembrano il figlio segreto nato dall’unione tra Fugazi e Neurosis, definitivamente conquistato dall’incompromissoria potenza dei riff, dalle percussioni furibonde e ritualistiche, come in “A Snake for Every Year”, monumentale cavalcata che apre il disco col suo furioso crescendo, o la maestosa e ipnotica “Gas Bird”. Splendide anche l’imponente (quasi) strumentale “Desert Baron” con le sue formidabili accelerazioni, “Astral Beard”, e le raggelanti urla di “The Axeman”, percorsa da folate psych su un incedere tribale, che chiude il disco come meglio non si potrebbe. Questi sono i passaggi che preferisco, quelli in cui il progetto sembra piú a fuoco e centrato, e quelli per cui (se fossero gli unici in scaletta) questo 'Arbor' potrebbe essere un vero capolavoro, rispetto ai brani in cui la violenza scream prende il sopravvento (“Knee Deep”), o all’anomalo psych death doom di “Statues in the Garden of Death”, che – per quanto validi - vanno forse un po’ a rovinare la coesione di fondo. In definitiva 'Arbor' è un esordio davvero importante, di quelli che fanno (o dovrebbero fare) molto rumore. Segnatevi il nome dei Nepalese Temple Ball e ascoltate questo disco, ne rimarrete conquistati. (Mauro Catena)

(Third I Rex - 2015)
Voto: 80

Vinnie Jonez Band - Supernothing

#PER CHI AMA: Stoner/Post Rock/Heavy
La via dello stoner continua ad abbracciare nuovi proseliti e altre band si aggiungono al già nutrito stuolo nazionale e non. I Vinnie Jonez Band (VJB) sono un quartetto romano (Palestrina per la precisione) nati dalle ceneri di band locali, che nel corso del 2015 hanno fondato la band e registrato questo EP. Cinque brani per raccontare la loro storia che si ispira a mostri sacri come Queens of the Stone Age, Mastodon, Deftones, ma anche a Mogwai, God is an Astronaut, Karma to Burn e Tool, con il mix che ne esce alquanto variopinto. A livello compositivo i ragazzi ci sanno fare, giocando spesso su cambi di ritmica, riff potenti e break che mantengono abbastanza alto il livello di attenzione dell'ascoltatore. Dico abbastanza perché spesso alcuni arrangiamenti sono frettolosi e il livello di qualità risulta scostante, una cura maggiore avrebbe sicuramente alzato il tiro e regalato un EP degno di nota. "Rose" ha la responsabilità di essere la prima traccia e porta con sè quanto detto fino ad ora. Il sound ricorda il grunge e l'alternative rock con un'attitudine punk, un mix che può convincere se sviluppato con cognizione, in realtà nei centocinquanta secondi il quartetto mette troppa carne al fuoco, come quell'assolo tipicamente heavy finale. Dopo questo turbinio un po' confuso passiamo a "To the Mountains" che ha un forte sapore Southern rock, che poi si appesantisce con sfumature metal e ritorna all'alternative sentito in precedenza. Il vocalist affronta la sfida, cerca di superare i propri limiti, l'esito è poco convincente. Gli strumentisti sono invece all'altezza anche se si sente la mancanza di un leader che mantenga le fila della composizione musicale in sede di scrittura. Il finale del dischetto conclude invece alla grande e fa dimenticare le precedenti incertezze. "Bleach" è la cavalcata finale che sale e scende, scorre fluida e si fa ascoltare con piacere con una chiusura prog/nu metal che stuzzica l'orecchio e conferma che i VJB hanno le capacità per fare buone cose, ma devono maturare una maggiore coscienza in se stessi che gli permetta il salto di qualità a cui sembrano mirare e che possono meritare. Ultima nota per la qualità audio dell'EP, discreta, non sacrifica né esalta le doti della band; piacevole anche la copertina che mostra uno stralcio del satellite lunare in un gradiente di giallo un po' vintage. Ora attendiamo fiduciosi il full length. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 65

domenica 7 febbraio 2016

Raventale - Dark Substance Of Dharma

#PER CHI AMA: Black Doom Esoterico
La Solitude Productions compie 10 anni e dagli esordi accompagna la mia maturazione musicale in ambito black/death/doom. Sono centinaia i dischi che abbiamo recensito qui nel Pozzo dei Dannati provenienti dalla label russa, band che ho visto passare e sbocciare, altre che dopo un solo disco si sono perse. Una band però mi è rimasta particolarmente nel cuore, forse perchè l'ho vista nascere e crescere lavoro dopo lavoro, sto parlando dei Raventale, da sempre guidati dal solo Astaroth Merc, che con questo 'Dark Substance Of Dharma', giunge al traguardo del settimo cd. Da parte mia nel corso di questi anni, ho cercato di fare la cronaca più o meno puntuale dei suoi lavori ufficiali o dei suoi side project. Eccomi quindi al cospetto del nuovo disco, che include sette nuovi brani e che vedono il mastermind di Kiev abbracciare forse una nuova religione (credo sia la dea Calì quella nella cover cd), incorniciata questa volta dal colore arancione. Faccio questa constatazione anche sulla base di quanto riportato nel titolo del lp, "Dharma", un termine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati ("dovere", "legge", "ordine cosmico" oppure più semplicemente "religione"). Questa nuova direzione si riflette anche nei contenuti del disco che, muovendosi sempre nei territori del black doom, concede più spazio alla componente atmosferica, come certificato da "Destroying The Seeds Of Karma", che segue la classica intro. Il pezzo è un ottimo mid-tempo dove trovano collocazione evocative derive etniche e chorus che sembrano arrivare direttamente da qualche tempio tibetano. Suggestivi non c'è che dire, anche quando il ritmo si fionda su velocità più sostenute come nella title track, ma sono solo brevi attimi perchè poi l'intensità dei bpm rallenta per far posto a sognanti ambientazioni, ove sarà la vostra fantasia a guidarvi, se sugli impervi pendii dell'Himalaya, lungo le rive del Gange o semplicemente sotto un albero a meditare. Io ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato condurre dalle tastiere ispirate di Astaroth, mentre la sua voce abrasiva come sempre, narra appunto delle religioni orientali. Non fatevi però ingannare dalle mie parole, non siamo al cospetto di un lavoro di musica spirituale, stile Buddha Bar o quelle nenie che accompagnano l'arte dello yoga, qui avrete a che fare con black metal, però intriso di melodia, parti solenni e sognanti, ma anche di brevi ed epiche cavalcate ("Kali's Hunger" e "I Am the Black Tara"), fino a giungere alla perla finale di “Last Moon Fermata”, un pezzo aperto da un suadente pianoforte che vi permetterà di raggiungere il vostro karma, una song dotata di un refrain che guarda a sonorità gotiche. 'Dark Substance Of Dharma' è il nuovo passo di Astaroth Merc verso la rinascita della sua anima e l'espiazione delle colpe. Io, un ascolto attento lo darei. (Francesco Scarci)

Abaton - We are Certainly not Made of Flesh

#PER CHI AMA: Sludge/Postcore, Fyrnask, Neurosis, Altar of Plagues
Sono certamente toni tetri e minacciosi quelli che si celano nel secondo capitolo della discografia dei forlivesi Abaton, 'We are Certainly not Made of Flesh'. Dopo quattro anni (fatto salvo uno split con i Viscera///), il quintetto romagnolo rompe il silenzio con un lavoro sporco, intriso di rabbia e avvolto da una coltre di caligine che induce il soffocamento. Il nuovo album è una brutta bestia d'affrontare, uno di quei serpenti costrittori che ti avvolge tra le sue spire, stringe e stringe fino a che non sopraggiunge la morte per asfissia. Il suono dei nostri fa altrettando con una rarefazione a livello sonoro che non lascia scampo. Nove pezzi, anche piuttosto brevi visto il genere, devoto al doom sludge più cupo, ma in cui ovviamente non si disdegnano fughe in territori più estremi. "[I]" apre le danze con il suo fangoso mood, fatto di una sezione ritmica in cui si riconoscono chiaramente le sue chitarre morbose e un basso ipnotico che guidano la proposta dei nostri in una direzione che richiama, in certe disarmoniche linee di chitarra, anche Deathspell Omega. Sebbene la traccia duri poco meno di quattro minuti, la sensazione è quella di essere sprofondati per una eternità negli abissi desolanti dell'inferno. "Ananta" è miele per le mie orecchie, per cui quella sensazione di annaspare nell'acqua svanisce quasi del tutto: la song ha un cupissimo flavour sinistro che mette i brividi, è lenta, atmosferica, delicata, ma si capisce che presto accadrà qualcosa, deve, per forza. La voce di Silvio viene fuori, graffiante come sempre, vetriolo urticante che si amalgama alla perfezione con il sostrato musicale che soggiace nelle tenebre. Malsani e suggestivi, non c'è altro da dire e lasciarsi trasportare dal flusso che conduce a "[II]", un altro brevissimo pezzo (meno di tre minuti), in cui un drumming marziale e chitarre roboanti, coesistono alla grande in un frammento di follia omicida. Un breve intermezzo e poi l'acredine di matrice post black (Deafheaven, Fyrnask e Altar of Plagues, giusto per citarne alcuni) incendia l'aria con una serratissima ritmica che farà ben presto posto ad anfratti insalubri di suoni ondivaghi lenti e austeri, il cui unico fine è partorire ansie primordiali. E gli Abaton ci riescono alla grande. Ancora mistero con lo pseudo noise di "Flesh", a cui seguono gli interminabili minuti di "[IV]" ove compare alla voce in qualità di guest (presente anche in "Nadi"), Sean Worrel dei Nero di Marte. La preparazione è formidabile, la band ci cucina a puntino con una serie di suoni destrutturati, pregni di angoscia e alienazione sonica. È drone, doom, sludge, funeral, noise, post-core, ambient, black, psichedelia, crust, hardcore? Non mi è dato saperlo e francamente me ne frego in questo caso di etichette, lasciandomi intrappolare nel delirio perpetrato da questi stralunati ragazzi che a scuola hanno studiato Neurosis, Cult of Luna e Locrian. Delle inquietanti atmosfere si addensano anche nelle conclusive "Eco" e "[V]", altri due episodi di somma catarsi che segnano l'eleganza e la grandezza degli Abaton. Tanta roba, complimenti! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records/Unquiet Rec/Martire - 2015)
Voto: 85

https://abaton.bandcamp.com/album/we-are-certainly-not-made-of-flesh