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sabato 28 giugno 2014

Humulus - S/t

#PER CHI AMA: Heavy Stoner Doom
Ho ascoltato gli Humulus per la prima volta grazie alla 'Desert Sound Compilation' e devo dire che mi avevano colpito positivamente. Poi li ho visti in concerto all'E20 di Montecchio, come opening act dei Corrosion of Conformity, uno dei concerti più deliranti di quest'anno dove hanno confermato l'idea che mi ero fatto. I tre di Bergamo sono degli assatanati che sprigionano decibel a suon di heavy-stoner-doom, suoni ricchi di basse frequenze e distorsioni fuzz, come insegna la vecchia scuola. Aggiungo io che il trio bergamasco produce anche un'ottima propria birra dal nome omonimo, un binomio perfetto tra due passioni che accomunano molti di noi. Quest'album di debutto è marchiato Godown Records che va ad aggiungere un'altra interessante band al loro rooster, già ben fornito. Tornando alla musica, devo dire che il cd è fedele ai suoni e all'energia sprigionata dagli Humulus sul palco e questo è un punto a suo favore. Album iper elaborati che poi non rispecchiano per nulla il sound della band, hanno ormai stufato la gente e svuotato le tasche dei fan. "The Liar Priest" è un brano classico per il genere, granitico e non troppo veloce. Una bella scarica di adrenalina a livello ritmico e riff come se piovesse. Le doti tecniche della band sono indiscutibili e il brano, che scorre via facilmente, è pure godibile. "Banshee" è sempre basata sui riff di chitarra che guidano la trama del brano, incastrandosi perfettamente con basso e batteria. La struttura è semplice, qualche break per cambiare velocità e riprendere la struttura precedente. Un breve assolo di chitarra (un po' in secondo piano) arricchisce il contenuto e poi si va con l'ultima cavalcata che vi porterà fino alla fine del pezzo. "Humulus" inizia con il basso che detta il tempo a questo brano potente e grezzo, come una pietra che aspetta di diventare preziosa . I synth in sottofondo sono un'ottima idea e avrebbero potuto dare una marcia in più se solo fossero riusciti ad emergere dal muro di suono. Il cantato probabilmente è l'elemento che permette di riconoscere il gruppo dopo pochi secondi di ascolto, ma questo dovrebbe essere possibile anche dalla sezione strumentale. Se si vuole emulare i classici suoni del genere ben venga, ma allora bisogna lavorare sulla composizione dei brani, ritmica, etc. Gli Humulus hanno comunque le carte in regola per crescere e sono sicuro che il prossimo album farà tesoro di tutta l'esperienza che i nostri stanno acquisendo in questo periodo. Molti sono i concerti fatti dal lancio di questo lavoro, e spesso a fianco di vere e proprie icone musicali, quindi quale miglior scuola per dei musicisti che vogliono crescere? Studiare tra una birra e un riff sarà un piacere e non vi nascondo che li invidio. Molto. (Michele Montanari)

(GoDown records - 2012)
Voto: 70

Crypt Of Silence – Beyond Shades

#PER CHI AMA: Death Doom, My Dying Bride, Esoteric
Lode decadente e gloria funerea alla Solitude Productions, al solito direi! Evviva chi sponsorizza e promuove (non sbagliando un colpo se mi permettete il commento) chi propone lavori d’esordio prima di tutto sentiti e pregni di emozioni, non importa quale sia il loro colore. E questo è il caso: gli ucraini Crypt of Silence imbastiscono quattro tracce per quasi 50 minuti di death doom che molto deve a maestri quali My Dying Bride, Esoteric ed in secondo piano Pantheist, ma aggiungerei anche un certo sentore gotico ammiccante ai primi Theatre of Tragedy. Qua non si scherza: un album freddo e pessimista, che canta di vuoto, di assenza di prospettive e desiderio (recondito) di un momento, anche uno solo, di speranza, trattata quasi come un’ombra, un abbaglio sfuggevole che ci perseguita solo per scherno, per beffarci e non farsi afferrare mai. Dal punto di vista musicale, ci si presenta alle orecchie un sound basato sui riffoni portanti delle due chitarre, ripetuti e riverberati, che rappresentano la spina dorsale di ogni pezzo, ben abbelliti da una sezione ritmica cadenzata che non contempla accelerazioni (dimenticatevi doppi pedali e quant’altro) e inserti di basso che spuntano come funghi. Il vocalist (che è pure il bassista) alterna un growl “genuino”e poco effettato (almeno così sembra alle orecchie di chi scrive), a validissime clean vocals. Nonostante la relativa semplicità dei pezzi, la noia non è di casa tra queste note. Da segnalare l’opening track ed il brano conclusivo, vera perla dell’intero album anche solo per la sua intro arpeggiata. Più volte si è detto e scritto che in questo genere è molto difficile inventare qualcosa, per sua stessa natura, pertanto spesso quello che si sente non è altro che una rivisitazione della “lezione principale”, girata e sfumata a sentimento di chi si lancia a comporre musica melanconica. Sarà anche così, ma ben venga aggiungere sfumature e toni di grigio alla tavolozza ostica e meravigliosa della musica del destino. Molto bene ragazzi. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 75

giovedì 26 giugno 2014

Cecilia::Eyes – Disappearance

#PER CHI AMA: Post Rock, Shoegaze, Mono, Joy Division, Loop
Prendete i Boards of Canada, gli Explosions in the Sky, i Mogwai (quelli di 'Come on Die Young'), slavateli con la buia lucentezza dei Joy Division (quelli di 'Atmosphere' – ascoltate il brano "Lord Howe Rise" a tal proposito e ditemi cosa ne pensate) ma non pensate ad un normale post rock. La base new wave fa da padrona ma in realtà dietro c'è una volontà ipnotica, magmatica che esalta doti di apnea emotiva eccezionali e quindi inevitabilmente incastreremo la band belga nell'universo post rock, anche se veramente qui il suono ha qualcosa di magicamente '80s, di psichedelia lisergica ed atmosfere allo zolfo che poche band si possono permettere. Considerando "Lord Howe Rise" un apice irripetibile che vale da solo l'intero album, una sorta di Echo and the Bunnymen calati nei panni dei Joy Division a suonar cover di 'Disintegration' dei The Cure con il soffio orchestrale dei Mono, questo lavoro risulterà devastante a livello emotivo. Una posizione estatica continua, tra il drammatico e il volo angelico, suoni cristallini e distorsioni desertiche dal riverbero abissale, le lunghissime composizioni creano malati cocktail anfetaminici di malinconia che cullano la nostra voglia di evasione; tutto è così sonico e diligente, corrosivo e contenuto, devoto nel trattenere tutta la carica esplosiva interiore in una sorta di luce autolesionista (ascoltate la Pink Floydiana "Swallow the Key"). Ci sono i Loop di 'A Gilded Eternity' solo più liquefatti, nelle chitarre si respira il suono di "Fade Out (Loop)" ma in maniera semplicemente delicata, diversamente docile, in uno stile che lacera lentamente, un dolore al riverbero psichedelico, un mantra all'arsenico che esalta parentela nel sound con i migliori Curve rivisitati a rallentatore. Come una prigione dorata nel cosmo, come un volo verso l'infinito, sette brani per cinquanta minuti circa di pura ipnosi psichedelica. Impegnativo e geniale! Consigliatissimo (quasi obbligato) l'ascolto! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

Vanhelgd - Relics of Sulphur Salvation

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal, Entombed, Grave, Fleshcrawl
The third full-length from Swedish Death Metal band Vanhelgd, this is prime-era early-90s worship that manages to be quite faithful to the sound and origin of the scene without doing anything really new or distinguished that would’ve set them apart. This is really Swedish paint-by-numbers style of Death Metal where the band seems to be going through the checklist of what needs to be included, which means we get that unmistakable churning, grinding buzzsaw guitar patterns and loud, thumping bass working throughout the whole album which augments the hoarse, raspy growls quite well which inevitably starts sounding quite similar to the retro-sounding “cavernous” vocal approach that many modern Death Metal bands employ in an attempt to sound “Old-School.” Thankfully, it’s not as common as that approach but remains more faithful to their forefathers which adds a defined old-school approach to their music which really sells their influences quite well and endears them to the old-school crowd if only to really make them devoid of their own identity. This is mostly due to the rather restrained tempos on display here as the band doesn’t really get up in the faster realm all that often and tends to meander around in the mid-tempo more often and only infrequently preferring to speed things up, and while this makes for a fine round of heavy riffing, pounding drum-work and the welcome amount of melody within, the identity of the band tends to get lost in a sea of mid-paced patterns and plodding rhythms that really could’ve come from any band in the genre and don’t really put them through any unique or creative patterns beyond the more Black Metal-influenced melodies it starts playing with the later in the album it goes. This results in many of the songs having a sprawling, churning pace to them that manages to compliment the attack well surprisingly, for the lack of speed in the compositions initially comes to help them in providing a natural foundation to hang the slow, droning crawls that tend to pop up through most of the tracks here and really brings up the album in places as the two elements go well together. Intro "Dödens Maskätna Anlete" pretty much gives the listener what to expect from the outset with grinding buzzsaw rhythms, pounding drums and hoarse screaming vocals that wind through multitudes of tempos from speedier sections to more down-beat, atmospheric patterns that through in some melodic buffers by nature of their downbeat tempo against the faster sections. Follow-up "The Salt in My Hands" is actually one of the better numbers when it slows down the tempo in favor of stylish tremolo-picked rhythms and a chugging rhythm section that plods along quite nicely but knows when to pick up the energy in spurts even if it spends most of the time heavily chugging away. "Where All Flesh is Soil" tends to be even more restrained and down-tempo with a lot of plodding, sluggish sections driven by the tremolo-picked riffs and blasting drum-work that becomes more influenced by Black Metal as it goes along without too much of the traditional Swedish-styled riffing. The sprawling epic "Ett Liv I Träldom" gets it right with a sparkling mixture of chugging riff-work, tremolo-picked melodies and sprawling tempo changes that keep the tight, brutal riffs in check while furthering the attempts at including the faster tempos into the epic, sprawling music and comes off incredibly well because of that. The album’s best track, "May the Worms Have Mercy on My Soul," seems to encapsulate everything about the album in a defined package, offering charging buzzsaw riffing, tight drumming and thunderous paces alongside sprawling tempos and slower melodies, a relatively fine mix that puts everything together in one place for a truly enjoyable track. Many of these elements find themselves repeated in the title track which causes this to become a secondary highlight and form a devastating back-to-back-to-back threesome of great tracks in the middle of the album. As well, "Sirens of Lampedusa" is another mixture track that highlights the more slower sections with fine up-tempo riffs and the final rattling closer "Cure Us from Life" is one of the harder tracks with an absolutely furious approach and stellar assaults. In the end, while it doesn’t really do much to isolate itself from the community their attack manages to sound decent and oddly engaging for many listens, creating a rather enjoyable if indistinguishable mark. (Don Anelli)

(Pulverised Records - 2014)
Score: 75

mercoledì 25 giugno 2014

Devlsy - A Parade of States

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Neurosis
Che diavolo ci fa una band lituana con un'etichetta giapponese? Segno che la globalizzazione ormai regna sovrana. Oggi vi presento i Devlsy, quintetto di Vilnius, attivo dal 2011, che lo scorso novembre ha rilasciato questa release in formato usb. Si, avete letto bene, 'A Parade of States' è uscito su chiavetta. Il sound della band baltica deve aver poi attratto l'attenzione della MAA Productions, che in questo 2014, ne ha rilasciato il formato fisico. Veniamo al lavoro, un sei pezzi che si apre con "Phases", song mid-tempo che coniuga un black dalle tinte apocalittiche con un sound che strizza l'occhio ai Neurosis. Interessante l'esperimento dei nostri che sicuramente sarà di gradimento sia per chi è un fan del post metal (belle ed inquietanti le linee di chitarra) e chi del nero metallo (arcigno lo screaming). "By Design" ha un incedere grooveggiante, e di black ne resta probabilmente traccia solo nell'acida performance di Vytautas alla voce. Le ritmiche si muovono con grande pigrizia ma con un fare assai minaccioso di grande impatto emotivo. Ascolto dopo ascolto, il mio interesse in questo lavoro aumenta e ne riscopro nuove particolarità, che ad un primo assaggio non avevo colto, indice che i nostri devono avere non poche ambizioni. Tuttavia, questi musicisti non inventano nulla che non sia già stato detto, ma la rilettura offerta dalla band lituana del genere cosiddetto "post-black", si rivelerà non poco accattivante. "You Again" apre arpeggiata, ma sono i suoi cambi di tempo bizzarri a stimolare la mia attenzione. Serve tuttavia un ascolto attento per non etichettare facilmente 'A Parade of States' come uno fra i tanti lavori che escono ogni giorno in questo ambito. Lavorando un po' più sulle vocals (in "I Am no More" i nostri ci provano anche), attenuandone il loro carattere aspro e corrosivo, si potrebbero guadagnare più fan in territori post-, cosi come pure ingentilendo quei suoni più spigolosi dell'album (ascoltare a tal proposito "(Cold Glow of) Her Domani"). I Devlsy hanno grandi potenzialità e mi sorprende che nessuno in Europa abbia puntato su questi ragazzi, c'era la possibilità di ritrovarsi in casa i nuovi Neurosis o gli eredi dei Cult of Luna. Il basso ipnotico di "The Surge(ry)", la sua forza tribale dirompente, il mood shoegaze e la sua anima sperimentale, chiudono un lavoro intenso e quanto mai inatteso, che mi fa ben sperare per il futuro di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(MAA Productions - 2014)
Voto: 75

sabato 21 giugno 2014

Der Weg Einer Freiheit - Unstille

#PER CHI AMA: Black/Epic, Windir
Black metal di una certa caratura quello dei Der Weg Einer Freiheit (la cui traduzione sta per La Via della Libertà); mi spiace solo essere arrivato con incolpevole ritardo (2 anni) alla scoperta di questo 'Unstille', ma si sa che l'underground è sconfinato e io non riesco a monitorarlo completamente. Mi limiterò quindi ad informarvi che esiste un terzetto bavarese, di Würzburg per l'esattezza, che a luglio 2012 ha fatto uscire un lavoro per la Viva Hate Records, appunto il qui presente 'Unstille'. Album che consta di 6 tracce, che partendo da "Zeichen" fino a "Zerfall", propongono una personale visione del genere estremo, feroce, glaciale ma dotato di un certo feeling sperimentale e malinconico. La lunga opening track (12 minuti), dopo un flebile intro, irrompe con il selvaggio drumming di Tobias Schuler, una sassaiola massiccia, accompagnata dalle harsh vocals di Tobias Jaschinsky e dalla chitarra di Nikita Kamprad in tremolo picking, stile Windir. Dodici minuti in cui dovrete essere abili a districarvi tra assalti furiosi di blast beat, ferali vocals, intermezzi acustici, splendide linee di basso e malinconiche melodie. "Lichtmensch" ha un impatto ancor più devastante della precedente traccia, dove ben poco spazio viene lasciato ai frangenti più soft, per cosi dire, della band. "Nachtsam" è una song strumentale che evidenzia pregi e difetti della band teutonica, uno su tutti la mancanza della voce in un pezzo di questo tipo. "Zu Grunde" ci offre altri quattro minuti di debordate furiose che mantengono tuttavia una componente epica nella linea delle sue chitarre, mentre le ritmiche rischiano a più riprese di deragliare dai binari. Con "Vergängnis" ci avviciniamo al lato più introspettivo dell'ensemble bavarese, con un'intro acustica e una song che, su un pattern tipicamente black, inserisce rarefatti passaggi post, segno che c'è un discreto margine di manovra nella proposta dei Der Weg Einer Freiheit, che potrebbe spingerli verso nuovi orizzonti nell'immediato futuro. E arriviamo ai 10 minuti finali di "Zerfall" che mostrano ancora una volta come si possano abbinare divagazioni post rock con la furia cieca del black; il tutto mi lascia presagire che con il prossimo album, ne potremo sentire davvero delle belle. E per questo motivo, lascio volutamente il voto di 'Unstille' mezzo punto più basso, pur trattandosi di un album consigliatissimo, di cui esiste anche una versione con ben due bonus track, tutte da scoprire. (Francesco Scarci)

(Viva Hate Records - 2012)
Voto: 70

Lucertulas - Anatomyak

#PER CHI AMA: Noise/Rock
Nel lontano 2003 nasce a Venezia un trio (che si arricchirà anche di un secondo chitarrista per live) che ha all'attivo tre album e che dopo vari cambi di line-up finisce per perdere il prefisso "Super" per arrivare all'attuale nome della band. Insomma, come una lucertola che perde la coda per sopravvivere ai predatori. I Lucertulas navigano tra mari noise/punk/rock con sfumature psichedeliche, ammorbando la mente di chi li ascolta e trascinandolo in una mirabolante corsa contro il tempo. I suoni sono curati, la parte ritmica ha un taglio standard e permette di cogliere tutte le sfumature del bravo batterista, gran percussore di fusti e piatti. Le chitarre hanno distorsioni volutamente noise e scariche di basse frequenze che vengono lasciate al buon vecchio basso, ogni tanto vittima dello stesso trattamento stilistico. Azzeccato per il genere, non fraintendetemi. Il cantato è sempre bello tirato e furioso, quel giusto mix che per non perdere la folle corsa dei colleghi musicisti, non manca comunque di momenti più melodici che danno tregua a chi ascolta. "A Good Father" esplode immediatamente e in poco più di tre minuti ci presenta lo stile furibondo e velocissimo della band, un biglietto da visita difficile da dimenticare. A metà della traccia c'è spazio per un breve break che serve a scatenare nuovamente il muro sonoro e un cantato ansioso e ripetuto. Uno spruzzo di elettronica (leggasi synth) avrebbe forse personalizzato ulteriormente il brano, ma se non è nelle corde dei Lucertulas, non c'è problema. Non potrete non amare "Sickness" dove il cantato prende libero spunto dai Beastie Boys di 'Sabotage' e i primi RATM, un brano che dal vivo deve sicuramente causare distruzione ed esaltazione. Un riff introduttivo costituito da un basso distorto e da chitarre smembrate a livello molecolare e ricostruite ad hoc, rendono il sound caratteristico. Nota di merito al Dirtysound Studio e al fonico per aver creato il giusto mix musicale senza snaturare troppo gli strumenti. Un pezzo carico di groove e che ha tiro da vendere, "7" è un brano strumentale ben articolato, che inizia con un crescendo pieno di angoscia e smarrimento, spazzati via violentemente da un'esplosione sonica, che diventerà il tema della restante traccia. Ogni singola battuta e nota trasmettono la forza e il vigore insito nel trio veneziano. Le nostre lucertole si rivelano un'ottima band che non ha mollato la presa nei momenti difficili, sopravvivendo ai tempi con una continua crescita personale e artistica. Quindi massimo rispetto da supportare acquistando il vinile o il cd. Quest'ultimo è peraltro disponibile in versione limitata con case in alluminio; anche questo fa intuire la voglia di distinguersi dei Lucertulas. Bravi! (Michele Montanari)

(Macina Dischi / Robotradio - 2014)
Voto: 85

venerdì 20 giugno 2014

Blastasfuk - Super Fun Happy Slide

#FOR FANS OF: Grind, Nasum, early Napalm Death
The second release from this Australian act, this is a rather typical output and really serves to be appealing for the hardcore fans of the genre. As is typical of the kind of music usually produced here, it’s a blinding wall of noise that rips through intense, chaotic patterns that usually recall the early hardcore punk scene in terms of sheer chaotic energy and random guitar wailing is being undertaken. Still, the focus on the Death Metal roots here in terms of the rhythm section and how dexterous the rhythms become allows this one to stay more in tune with the truer side of Grindcore than most other types of bands like this, as there’s a rather more profound attempt at incorporating blastbeats and guttural Death Metal growls into the music that are a part of the general Grindcore scene. In this sense, the band certainly sets out on notable paths accomplishing this feat pretty well, but there are several problems with the album. The DIY approach to the production leaves the whole thing sounding way too thin and under-produced in comparison to more traditional Grind acts, making it plainly obvious in regards to the drumming that this is an amateur effort by clattering away on what sounds like a homemade drum-kit instead of professional-sounding equipment. There’s no power or punch in the blastbeats, which should be the most extreme part of the whole album but come nowhere close to the devastation wrought by upper-echelon bands. The repeated samples that have nothing to do with the track as a whole is another big issue, making them seem distracting rather than integral to the song as a whole, and the croaking-frog like vocals that repeatedly show up here are nothing more than a general embarrassment that it made it to tape and thought it sounded good. That just leaves the fact that the whole album is barely a half-hour with none of the tracks reaching a minute and half and having so many on here to begin with that it really could’ve gone through longer stretches of extending the songs since hardly any of them stand-out at all and don’t leave much of an impression at this excessively short length. This one really could’ve been given the time and space to stretch itself out instead of just constantly blaring through the indecipherable patterns through the awful production and then a minute later you’re stuck on another track and you can’t tell where you’ve been as the whole thing is so scattershot and disorganized that it leaves the feeling of bewilderment rather than out-and-out pummeling. As for Grindcore fans in general, this is good stuff and plays into the scene quite well with all these points about the genre proving the there’s still quality old-school Grindcore still being made, and should therefore add onto the total score below. That’s mainly for the more mainstream metal fans to follow. (Don Anelli)

(Lesstalk Records - 2014)
Score: 40