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mercoledì 4 giugno 2014

The Melancholic Youth of Jesus - Gush

#PER CHI AMA: Alternative, Shoegaze, Jesus and Mary Chain, Yo La Tengo
The Melancholic Youth of Jesus è il moniker dietro il quale si cela prevalentemente la creatività del portoghese Carlos Santos, che calca le scene dai primissimi anni '90, tanto da diventare un nome di culto nell’underground europeo. Dalle “scarne” informazioni rintracciabili in rete, si evince che questo 'Gush' sia una sorta di raccolta di singoli, b-sides o rarità usciti negli ultimi anni nei formati più disparati, che mai avevano trovato spazio su album ufficiali. Santos fa quasi tutto da solo, scrivendo e suonando praticamente tutta la musica incisa in questo lavoro, salvo qualche piccolo aiuto qua e là. Il sound dei TMYOJ è ben radicato in quello dell’alternative di matrice prevalentemente chitarristica che ha caratterizzato buona parte degli anni '80 e '90, da entrambe le parti dell’Atlantico, prendendo come riferimenti tanto lo shoegaze dei Jesus and Mary Chain, quanto il suono stratificato degli Yo La Tengo. Pur senza mai raggiungere le vette compositive dei modelli, Santos mette in mostra una grande capacità di creare melodie zuccherose e ritornelli catchy, ben nascosti sotto strati di chitarre grattugiate e sprazzi elettronici di buon impatto. La prima metà della scaletta mette in fila una serie di brani estremamente orecchiabili e dal potenziale molto elevato, come "Paralized" e "Sugar", doppietta che apre l’album, vicina alla psichedelia sfacciata dei Dandy Warhols. Il gioco riesce bene anche con "Detroit" (drum machine inesorabile, feedback chitarristici e basso distorto) e "Insensitivity" (sorta di ibrido tra il paisley underground velvettiano dei Dream Syndicate e i Placebo). Una canzone come "Theme for Ambition" poi, potrebbe aver venduto qualche milione di copie una ventina di anni fa, con quella atmosfera sospesa tra Billy Idol e Dinosaur Jr. Da "Computer Girl" e fino alla fine del disco, emergono elementi diversi come un uso piuttosto massiccio dell’elettronica che sporca le ritmiche e la voce, rendendo l’aria improvvisamente più scura, come la notte che cala di colpo, senza preavviso. E proprio questi ultimi quattro brani sono quelli meno convincenti, nel loro voler rimandare ad atmosfere synth-gothic un po’ fuori tempo e fuori contesto. In definitiva un disco degno di attenzione da parte di un personaggio meritevole di grande rispetto, che pare sia già al lavoro su nuovo materiale. (Mauro Catena)

(Ethereal Sound Works - 2013)
Voto: 65

36 Stanze - Mattanza

#PER CHI AMA: Thrash groove, Sepultura, RATM
Ritmi frenetici si manifestano maestosamente nei primi secondi de "San La Muerte", opening track di 'Mattanza', opera dei piacentini 36 Stanze. Le tracce sono un susseguirsi di chitarroni granitici e batteria supercompressa, accompagnati da un cantato urlato o pulito, costantemente veloce, che a volte sfiora il rappato, sempre e piacevolmente in italiano. La situazione si raffredda un poco a livello ritmico nelle successive "Ottobre Uccide" e "Figlio di un Cane", dove emerge, oltre a una voce melodica e tranquillizzante, anche una chitarra pulita che ben presto si tramuterà nei sopracitati ricorrenti stilemi. Il disco rispetto al genere è abbastanza vario, dato che incorpora vari elementi del thrash/groove, nu metal, rapcore e i testi, seppur tremendamente bassi e scontati, danno comunque l'impressione di una buona ricerca a livello strutturale, dato che le voci riescono sempre ad armonizzare i vari contesti con le emozioni trasmesse dalle tracce. Sicuramente un lavoro ben curato, anche dal punto grafico, corredato poi da un packaging inusuale. Il tocco di stile riguarda poi ricorrenti chitarre acustiche e parentesi melodiche che raramente si ritrovano in un genere come questo. Bravi! (Kent)

(Self - 2012)
Voto: 70

domenica 1 giugno 2014

Sheol - Sepulchral Ruins Below the Temple

#FOR FANS OF: Death Metal, Incantation, Autopsy, Cruciamentum
Despite the funky lettering that constitutes their given name, the band refers to themselves as Sheol and hail not from the Middle East as expected but rather London, England, in the UK, and while this geography lesson has nothing to do with the music within, the fact remains that this is some pretty deep and intense old-school sounding Death Metal. This is decidedly obvious Incantation style worship from the first minutes as the band plays with that ever-familiar ‘Cavernous’ style of Death Metal filled with simple rhythms, blasting drums and deep, deep growls that are so reverb-laden it produces the effect of being recorded in a cavern below the ground, and with the sludgy guitar patterns, blasting drumming and slimey, wet bass-lines that fill this one so well from the get-go, it produces that old-school sound in rather simple fashion as the continuous assaults from the band generate few other points of inspiration. The Autopsy influence comes from the rather filth-ridden guitar lines that have more sonic clarity than Incantation ever attempted, and resonate with more technical flow as well that again recalls the secondary practitioner of this style, and when it’s all wrapped into that sprawling mass of reverb and charging tempos, the result becomes competent-if-not-exactly original fare this time around for it doesn’t really do anything special with this style that other bands have already been playing with and perfecting for years now. Perhaps this has to do with the overall shortness of the EP for this legitimately only has three original tracks to play with as there’s the cover and two instrumentals among the six tracks, leaving only three proper songs to really give any sustenance to the bands’ original style and it comes off with the same feelings that many others have already. Among the two instrumental cuts, intro "Spiritual Desiccation" really generates a far more appropriate feel and vibe of the music with the eerie droning and gradual build-up of the churning guitars and blasting drumming that really sets an intense, dark stage for the rest of the music, while "Katachthomb" is more Middle Eastern rhythms, chanting and melodies that serves as a fine mid-album breather if a twenty-five minute album could be said to require a breather. The first two full-songs, "Deluge of Tehom" and "Perpetual Descent into She’ol" offer pretty much what the band’s really like, with tight, raging guitars, blasting drums and a series of riffs that sound gigantic and muddied with the production issues that charge forth nicely amid a series of sweeps and dives that alternate tempos nicely and show a lot of potential here. As far as their original cuts goes, though, the best is undoubtedly the title track which recalls their cavernous riffing approach only melded to the intense blasting and frenetic pacing of Blackened Death Metal act Cruciamentum, no small feat with their shared members but this extreme blast of Death is certainly worthwhile and shows there’s something potentially interesting about the bands’ burgeoning sound in the years to come. The final song, a cover of DarkThrone’s seminal "Cromlech" retains the intensity and tight riffing but seems to be out-of-place with its lighter atmosphere and doesn’t offer the riffing patterns that fit in with their style attempted here as the tremolo-picked melodies don’t translate too well for this sludgy, down-tuned offering. Again, this is certainly competent material when it comes down to it, but it’s just a misguided teaser when it’s equaled by other factors here that should be ironed out and ready to destroy come the next release. (Don Anelli)

(Iron Bonehead Productions - 2013)
Score: 70

Amouth - Awaken

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna 
L'abito non farà di certo il monaco, ma quando tra le mani mi sono ritrovato un box in legno intagliato a mano, devo ammettere di esserci rimasto di sasso ed essere già partito da un rate di valutazione che sfiorava la sufficienza piena e senza aver ancora ascoltato il lavoro. Allora, vediamo se il mio non soffermarmi all'apparenza, darà comunque i suoi frutti... Faccio partire 'Awaken', EP di debutto dei toscani Amouth. La direzione musicale dei nostri si palesa immediatamente, dopo l'intro "Il Neige", con "Awake", in quanto fortissimo è l'eco dei Cult of Luna a diffondersi nell'etere. Post-metal quindi per il quartetto di Arezzo, che ha nei suoi mid-tempo costellati da nubi minacciose, il suo punto di forza. Nessuna novità tuttavia per questo ormai inflazionatissimo genere: qualche bella malinconica linea di chitarra qua e là, i classici break ambient, il vocione mai troppo pulito che arriva a sfiorare il growl. Con "The Priest", la componente più criptica dell'ensemble italico prende il sopravvento e, pur rasentando a più riprese la matrice musicale dei gods di Umeå, dimostra quanto siano bravi i nostri nel catalizzare l'attenzione di chi ascolta. Forse le strazianti melodie, il limaccioso e ribassato sound delle sei corde o l'aura funerea che ammanta il brano, alla fine ne rendono l'ascolto godibilissimo, nonostante i suoi quasi undici minuti. "City of Gold" scorre più nervosa fino alla sua inevitabile interruzione arpeggiata, un must per il genere, che i nostri sembrano seguire talvolta, troppo pedissequamente. Forse ancora un po' troppo scolastici gli Amouth; tutti i dettami del genere sono del resto stati rispettati anche nella conclusiva "Departure", una song non certo memorabile, che si farà ricordare più che altro per un tremolo picking che rapisce la scena ad un ingresso musicale piuttosto in sordina e prosegue con linee sonore crescenti in intensità. Comunque sia, la band mostra ampi margini di crescita dopo i numerosi commenti (positivi e negativi) piovuti su questa release. Sono certo che i quattro di Arezzo saranno in grado di recepire il meglio da quei commenti e sfoderare la prossima volta, una prova di grande qualità e personalità. C'è da scommetterci, la sufficienza piena è stata del resto raggiunta anche senza la valutazione dell'incredibile packaging, che vale di per sé l'acquisto. (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 65 

Blaze of Perdition - The Hierophant

#PER CHI AMA: Black/Death, Marduk, Haemoth, Hypocrisy, Hate Eternal
Premesso che scrivere di un ottimo album uscito nel 2011 e ricordare che esattamente il 3 novembre 2013 la stessa band in Austria per un concerto, alle 6:30 del mattino è rimasta vittima di un grave incidente stradale che ha portato al decesso del bassista e al ferimento grave degli altri tre membri, non può che averci lasciato frastornati e demotivati. Decidiamo quindi di ricordare la sfortunata band polacca, attiva sin dal 2004 col nome Perdition e passata ad nuovo moniker nel 2007, parlando di questo secondo full lenght intitolato 'The Hierophant', uscito per la Pagan Records appunto nel 2011. Il sound della band è chiuso negli stilemi del genere, ferale, freddo, infinitamente tecnico e decisamente black. Quel black metal della grande scuola Marduk o Bathory ma con un'identità propria e un'attitudine visionaria con spunti verso sonorità più moderne. Veloce, carico di spiccata e violenta destabilizzazione, un po' Hypocrisy e un po' God Dethroned, decisamente Haemoth, anche se alla fine, i Blaze of Perdition risulteranno più pesanti e violenti con una sonorità buia e underground in stile Hate Eternal. Una voce maestosa governa il tutto rendendo il disco apocalittico, nervoso e scurissimo. L'album è velocissimo e ben strutturato, ben suonato e altrettanto ben registrato, con una buona grafica di copertina fatta di immagini ricercate ed impressionanti. Potrebbe essere un must nella vostra discografia del metal sotterraneo, un lavoro degno di lode che cavalca molti degli stili usati nel genere e che mantiene saldo la sua identità, una band che non va lasciata cadere nel dimenticatoio, una band che ha incontrato un'enorme sfortuna, ma una band che merita sicuramente il vostro ascolto. (Bob Stoner)

(Pagan Records - 2011) 
Voto: 70 

martedì 27 maggio 2014

Brave the Vertigo – Oppenheimer Quoting Vishnu

#PER CHI AMA: Rock Progressive, Audrey Horne, Katatonia, Camel
La band di Burlington, nel Vermont, esce autoproducendosi un cd di quasi quaranta minuti diviso in soli quattro episodi di stupendo rock progressivo dal forte sapore vintage ma dall'anima forgiata nelle sonorità più moderne. Una produzione con i fiocchi, un tiro esagerato, una costruzione musicale equilibrata che dà spazio a tutti i componenti del quartetto e che giustamente mette in evidenza la chitarra e la voce del suo inventore, Francis Andreas. La sua voce ha la timbrica oscura del miglior Danzig solista, il taglio pop del Joy Ramone più elaborato (quello di 'Pet Semetery' per intenderci) e il fascino di Ian Astbury dei The Cult, quelli maturi degli ultimi anni e suona proprio come una delizia alle nostre orecchie. Musicalmente ruotiamo intorno alle atmosfere del metal più melodico e cupo in stile Katatonia, anche se il loro sound è più caldo e aperto, con suite di calma apparente e aperture alla Queensryche di 'Tribe', sempre in splendido equilibrio e senza mai cadere in eccessi. La pulizia del suono è basilare e come da più parti riconosciuto, i nostri ricordano in maniera strepitosa la musica dei Camel, in una veste rock/metal evoluta nel ventunesimo secolo. "Fat Man Schematic" e "Yena" presentano una linea vocale irresistibile che si estende sicura anche negli altri brani del disco, epica e maestosa senza mai cadere nei cliché di un certo epic metal di maniera. In "Yena" la band si lascia andare e nel finale dà libero sfogo ad una coda progressive godibilissima. Le chitarre indiscutibilmente fanno la parte del leone in tutti i brani, che siano acustiche o elettriche, emergendo sempre con melodie ancestrali, magnetiche, cosi come lo erano quelle degli Electric Light Orchestra al tempo o quelle degli Audrey Horne dell'album 'Le Fol'. Un vero album, completo in tutto, che farà felici molti ascoltatori alla ricerca di un lavoro ben curato, studiato, suonato con passione e stile, un album di tutto rispetto! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 75

Throne of Molok - Beat of Apocalypse

#PER CHI AMA: Cyber Death/Black, The Kovenant, Aborym, Plasma Pool
Parental Advisory: l'ascolto di questo cd potrebbe danneggiare seriamente il residuo del vostro cervello. Questo è quanto mi sarei aspettato di trovare sullo splendido digipack dei palermitani Throne of Molok, che con 'Beat of Apocalypse' giungono al terzo lavoro in studio. Sinceramente non conosco le precedenti performance dei nostri, ma me le andrò a cercare di sicuro; certo che quando la title (e opening) track fa la sua comparsa nel mio stereo, vengo investito da un cyber death a dir poco malefico. Sebbene questi due termini stridano quando accostati tra loro, il risultato che ne deriva è spaventoso: non so poi se sia dovuto all'effetto dei synth che accompagnano la fragorosa e serratissima ritmica dell'ensemble siculo o le diaboliche vocals di Morg, fatto sta che 'Beat of Apocalypse' ha un che nel suo incedere che puzza anche di velenoso black metal. Qualche beat cibernetico introduce "Something Black", un'altra cavalcata di acidissimo death metal dotato di un suono meccanico e malvagio, che sembra trarre parte della sua linfa vitale dall'arroganza musicale dei mostruosi Impaled Nazarene. Sfrontati, rabbiosi e fottutamente incazzati con il mondo, i Throne of Molok introducono "Atm:ind:inferno" con sonorità al limite tra l'EBM degli Hocico e le sonorità malate dei Plasma Pool di Attila Csihar. Potrete pertanto intuire quali siano le deviazioni musical-mentali di questi musicisti nostrani, che tra cyber divagazioni alla The Kovenant e sfuriate electro black alla Aborym, hanno tutto il tempo di massacrarci i timpani e deviarci la mente verso lidi a dir poco malsani. "Tuned by Holocaust", la mia traccia preferita, non solo mostra l'attitudine cibernetica del quartetto siculo, ma mette in mostra una ritmica che ha anche il tempo di strizzare l'occhiolino ai Morbid Angel. Si continua con i battiti di "Sentinel Possessed", un cingolato portatore di morte che spazza via quanto sia riuscito a sopravvivere fino ad ora. Rasoiate di chitarra (sembrerebbe un assolo quello che introduce un inaspettato break ambient) inducono un headbanging sfrenato prima della devastazione conclusiva a cura di "Obscure Emotions", la punkeggiante "Evil Invader", vera song al fulmicotone e la ruvida "Walking Death", ultimo atto in cui la voce al vetriolo di Morg riesce a mettersi in luce. A chiudere l'album ci pensa infatti la strumentale "Final Output", una scheggia impazzita di black death dalle tinte industrial che sancisce di fatto, l'eccelsa qualità di questo combo italico e della loro proposta. Un battito animale! (Francesco Scarci)

(Eternal Tombs Records - 2013)
Voto: 80

lunedì 26 maggio 2014

Wijlen Wij - Coronachs of the Ω

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Fortunatamente (è eufemistico) la band si è sciolta dopo questo massacrante album: parlo dei belgi Wijlen Wij, che suonano un funeral doom ultra viscerale, ma talmente viscerale che dopo 10 minuti d’ascolto si sente un estremo bisogno di chiudersi in bagno per non uscirne mai più. 'Coronachs of the Ω' è l’ultimo full-length registrato dalla band che poi ha giustamente dato le dimissioni. Questo disco è di una noia mortale: la monotonia e l’assenza di soluzioni lo rendono quasi del tutto inascoltabile, l’unica cosa che ha di buono è la registrazione, profonda e grezza e la prima canzone “...boreas" che, se anche non un capolavoro, si lascia ascoltare contenendo una buona dose di ispirazione. Il resto dell’album (più di 50 minuti!!!) è assolutamente una palla: riff da 2 accordi corredati da accompagnamenti monocorde che anche un bambino di 2 anni riuscirebbe a concepire, voce gutturale con testi ripetitivi e banali al massimo, cose simili a: “God is Dead” ripetuto all'infinito fino allo sfacelo neuronale, una tastiera che si fa sentire di tanto in tanto ma solo per far da tappeto sonoro e rendere il tutto ancora più piatto e lineare, mentre la batteria non fa praticamente null'altro che seguire i riff in maniera accademica ed impersonale. Dopo la seconda canzone gli occhi arrivano ad incrociarsi, la testa a pendere in avanti e si comincia a non sentire più le braccia, tanto meno le gambe, le tapparelle come per magia scendono da sole mentre cerchi di rimanere sveglio ma è difficile, un'impresa direi… non oso immaginare come questi belgi siano riusciti a concepire un simile lavoro, suonarlo e registrarlo per intero senza addormentarsi sui loro stessi strumenti. Forse quest’album funeral doom è davvero per i morti, ma voi che siete vivi e non siete recensori, potete risparmiare 60 minuti della vostra vita!!! Un consiglio: statene alla larga, andate a farvi due passi nel bosco o nel parco, sarà più stimolante. Album consigliato a chi è già passato a miglior vita e ai bradipi che si aggirano attorno ai cimiteri brasiliani. (Alessio Skogen Algiz)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 50

Spatial – Silence

#PER CHI AMA: Death/Doom
Fresco fresco di stampa giunge tra le mie mani questo dischetto, prodotto di una band polacca attiva dal 2010 e dedita a una sorta di bel mix tra death, doom e metal classico. Gli Spatial, lo dico subito, riescono a farsi amare già dal primo ascolto. Ne serviranno diversi però di ascolti, per apprezzare appieno il lavoro del “nostro” quintetto, ma quello in questione è un cd che già al primo dimostra essere di ottimo livello. Questo cd ha il pregio, notevolissimo, di districarsi agevolmente tra le varie sfumature del metal più moderno, con un occhio sempre attento a non lasciarsi sfuggire quello che di buono il passato ha saputo offrirci; e ne ha un altro di pregio, quello di essere di difficile etichettatura. Mi spiego meglio: siamo di fronte ad un gran bel disco metal, ma sarebbe troppo riduttivo parlare di death, oppure di doom, di thrash, di power o di classic addirittura...perché tutti questi “sottogeneri” vengono toccati dalla musica degli Spatial, che si dimostreranno essere assai versatili, sempre misurati e mai eccessivi. In poche parole, siamo di fronte ad una band matura, sotto tutti i punti di vista. C'è una buonissima preparazione tecnica agli strumenti e c'è un'ottima capacità di comporre; quindi, c'è quasi tutto. Spiegherò più avanti il motivo di questo mio “quasi”. Addentrandosi poi nei meandri della musica, scopriamo 11 tracce (di cui l'undicesima in lingua madre) che potrei provare a catalogare come doom metal (come caratteristica principale) miscelato più che sapientemente con voci tipicamente death, sebbene le clean si distinguano per la loro bellezza. Le chitarre sparano riffoni che colpiscono duro, ma sono capaci anche di arpeggi celestiali; la batteria non tocca mai velocità supersoniche ma è in grado di far viaggiare le canzoni su binari ben definiti. Si ondeggia la testa, e pure parecchio; il suono del disco, freddo il giusto e ben definito, aiuta gli Spatial nell'impresa di produrre canzoni in cui si sentono bene e distintamente tutti gli strumenti, tanto da far venire voglia di girare la manopola del volume verso la tacca “max”. Le quattro canzoni con cui si apre il disco, quindi i primi 20 minuti di ascolto, sono quasi perfette: "Arka Chaotis", "Silence", "Nightrage" e "Knights of the Forgotten Realm" sono devastanti, per bellezza e precisione. Eccoci arrivati alla spiegazione di quel mio “quasi” precedente: quelle che vi ho elencato rimangono, ovviamente per chi scrive, le migliori del lotto; poi il disco si assesta su livelli sempre piuttosto alti, ma senza grossi scossoni, si arriva alla fine. Secondo me, una migliore ridistribuzione della playlist, avrebbe giovato ancora di più alla qualità di un prodotto, che ripeto, rimane più che buono. Una bellissima sorpresa, un bel disco che si fa ascoltare e riascoltare volentieri; per questa ragione, aspetterò' con ansia una nuova release degli Spatial. Complimenti ragazzi, ottimo lavoro. (Claudio Catena)

(Metal Scrap Records - 2014)
Voto: 80