Cerca nel blog

domenica 14 ottobre 2012

Anubis - A Tower of Silence

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
La Bird's Robe Collective ci fa pervenire un altro cd e visto che la qualità dei suoi gruppi è di tutto rispetto, il nuovo lavoro degli Anubis mi intriga non poco. "A Tower of Silence" è un bel digipack che contiene otto piste (questo dice il player quando inserisci il cd) di questa band progressive (o neo prog come molti si divertono a scrivere) australiana. Iniziamo da "The Passing Bell", una vera e propria suite in sei atti da ben diciassette minuti. Lavoro epico che deve essere una goduria dei sensi se ascoltato dal vivo. Spettacolare intro con synth, repentini cambi ritmici, con un filo conduttore che imperversa per tutta la traccia. Infatti questo è sempre gestito dalle chitarre e tastiere che dominano la linea melodica, supportati da basso e batteria per una riuscita parte ritmica. Difficile non risultare noiosi, ma gli Anubis riescono a mantenere alta l'attenzione con arrangiamenti già sentiti ma che comunque riescono nell'intento. Verso gli undici minuti il pezzo sembra chiudersi in una bella outro di piano, ma la song riprende magistralmente con un crescendo che porta al classico solo di chitarra. Il finale si sposta sull'epico, giusto per non lasciare fuori niente. Bella, non eccezionalmente innovativa, probabilmente i veri amanti del prog apprezzeranno la complessità compositiva, mentre i cultori degli innominabili (Dream Theatre) resteranno a bocca asciutta per quanto riguarda la tecnica. Non che manchi agli Anubis, sicuramente non è a livelli estremi e questo è sicuramente un pregio. Solo le mie recensioni risultano più noiose degli innominabili... "A Tower of Silence" è la quarta canzone dell' omonimo album e personalmente mi ha deluso parecchio, una ballata lenta in stile 70's che richiama più le atmosfere di Woodstock e Hotel California che le sonorità sentite precedentemente. Direi oltremodo banale. Chiudiamo con "All That is...", traccia divisa in tre atti che ripresenta le sonorità chitarra e tastiere precedentemente ascoltate. Sicuramente la versione più apprezzabile degli Anubis in cui sicuramente si trovano più a loro agio. In conclusione devo dire che gli Anubis hanno talento, ma se fossi in loro oserei qualcosa in più, visto il genere. Il rischio è di passare inosservati nell'oceano di band che probabilmente a livello tecnico sono inferiori, ma che riescono a plasmare un suono che li distingue. Cercherei di concentrarmi proprio su questo punto e probabilmente il prossimo lavoro sarà assai più gustoso. (Michele Montanari)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 65

martedì 9 ottobre 2012

Ørkenkjøtt - Ønskediktet

#PER CHI AMA: Progressive Death Psichedelia , Opeth, Pink Floyd, Riverside 
Ma che ci sta a fare un cavallo seduto al pianoforte? Ma soprattutto, chi sono questi impronunciabili Ørkenkjøtt che si presentano alla grande, con un lavoro ben confezionato (splendido il digipack) dal contenuto musicale, che per quanto sia cantato in lingua madre, potrebbe tranquillamente fare il pari con un album degli Opeth? Incredibile ragazzi, qui abbiamo a che fare con dei perfetti sconosciuti, che fanno però parte di una generazione di fenomeni, insieme ai Leprous, con cui condividono anche il palco in questi giorni. L’album decolla immediatamente, mostrando la pasta di cui sono fatti questi cinque norvegesi, lasciando intravedere le influenze provenienti dal progressive di Porcupine Tree o dai polacchi Riverside e nei frangenti death, dei succitati Opeth, assai evidente nelle linee di chitarra. Vi basti sentire infatti “Skygger Og Støv” per carpire i riferimenti che vi sto riportando, tuttavia non voglio assolutamente parlare di questi ragazzi come clone band o quant’altro, perché qui abbiamo a che fare con gente preparata tecnicamente, che ha studiato a menadito gli insegnamenti dei maestri, tra cui anche lo stile sincopato dei Meshuggah. La seconda “Litets Frø” mi sembra proporre, nella elucubrante circonvoluzione delle chitarre, un che del death jazzato dei nostrani Ephel Duath, accompagnato inoltre da una splendida chitarra spagnoleggiante. Quello che mi appare come il lamento di un muezzin, apre invece la terza traccia (tra le mie preferite), che evidenzia, neppure ce ne fosse stata la necessità, la verve, la classe e la fantasia di questi cinque baldi giovani, che vedono, oltre che nella prova dei singoli musicisti, anche nel cantante Knut Michael, l’eccellente espressione della ecletticità degli Ørkenkjøtt, sia nella versione pulita che in quella growl. La musica è ovviamente un flusso costante di emozioni, con degli assoli sempre delicati e mai taglienti, aperture atmosferiche da paura ed un costante pathos palpabile: basti ascoltare “Havet, Døden og Kjærligheten”, dove mi sembra di udire lo stesso magico feeling dello splendido assolo di “Flying”, degli Anathema. Pelle d’oca alta una spanna. La successiva “Fem Soler” si fa notare per un break centrale di basso spaventoso che prepara ad una psichedelica parte conclusiva, che potrebbe tranquillamente risiedere in un disco dei Pink Floyd. Tanta roba, si direbbe da queste parti. “Profeten” si scatena con una proposta che esula decisamente da quanto udito sin qui, tale e tanta è la furia in esso contenuta, che viaggia a cavallo tra un pezzo death, doom e black, anche se poi nella seconda parte del brano, i nostri aprono a mille influenze derivanti da ogni ambito musicale, con un finale all’insegna del rock’n roll. Un’altra song acustica con gong e orpelli vari, irrompe nella strumentale “Røsten Fra Østen”: ormai mi rendo conto di essere non poco confuso e al contempo estasiato dalla musica di questi pazzoidi nordici. Siamo quasi alla conclusione e non so più che diavolo aspettarmi. “Skygger og Støv II” rivoluziona ancora una volta il concetto di musica, muovendosi a cavallo tra lo swedish death dei Meshuggah, le sonorità criptiche dei Tool, che fin qui avevo omesso come influenza, ed un assolo che trova la propria fonte di ispirazione nelle note degli Opeth. Spero non vi sembri negativo il fatto di aver citato tutte queste band come influenza dei nostri: non cadete nell’errore di considerare derivativo il sound dei norvegesi, sarebbe quanto di più sbagliato. Qui siamo al cospetto di una band dalle idee rivoluzionarie, che non ha certo paura della sperimentazione, e la follia delirante della conclusiva death’n roll “Redneck Randy”, ne è la testimonianza più palese. I nostri non si fanno mancare nulla e piazzano infine una sorta di messaggio fantasma nell’ultimo minuto e trenta del cd. Il rischio di “Ønskediktet” è di risultare fin troppo sperimentale per alcuni, ma vi prego, fatemi, anzi fatevi un favore, e date un ascolto attento a questo album, non ve ne pentirete assolutamente. Da avere ad ogni costo, anche solo per il dipinto visionario, stile Chagall, della cover cd. Magistrali. (Francesco Scarci)

(Nordic Records)
Voto: 85-90 

lunedì 8 ottobre 2012

Ajuna - Death In The Shape Of Winter

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
“Death in the Shape of Winter” è un 12” di cinque pezzi, presentatoci dai danesi Ajuna, band dal nome intrigante, la cui etimologia riconduce al latino “aiunare” ossia astenersi dal cibo. Non ho idea se il quintetto guidato dal buon Anders Holm Andersen, si sia rifatto a questa parola o piuttosto a qualche vocabolo di origine nordica, fatto sta che l’EP ha da offrire un post black corrosivo, in taluni frangenti anche atmosferico, ma non pretendetene troppo, di melodia qui ce n’è gran poca. L’inizio di "Death" è pauroso: chitarre dall’accordatura ribassata, ritmi lenti e cadenzati, vocals gutturali e profonde, un enigmatico ronzio che si nasconde dietro l’impetuosa ritmica, mentre lentamente il ritmo sembra andare in crescendo fino all’esplosione di suoni primordiali, che portano alla creazione del caos. Sette minuti del genere rischiano di risultare piuttosto noiosi, ma l’effetto disturbante di quel ronzio, sembra alterare i miei sensi, facendomi apprezzare la proposta. “Slower Song” suona più southern black, e come suggerisce il titolo, mostra un incedere lento e avvinghiante, sinuoso e soffocante, anche se finisce col concedersi dei riff al fulmicotone. “Winter” è invece più spinta in termini di velocità e cattiveria, con una batteria che si mostra serrata nei suoi bombardamenti a tappeto e dove le chitarre si confermano estremamente taglienti, soprattutto quando vanno a raddoppiare i loro sforzi. I suoi quattro minuti volano via veloci e in men che non si dica, mi ritrovo col basso di “Nations” a cozzare i pochi neuroni rimasti nella testa. Chiude il lavoro “We the City” altri cinque minuti di musica cancerosa, quasi punk, che ha il difetto di mancare di coinvolgimento, essendo priva di melodia. Anche i vari Deatheaven e Wolves in the Throne Room suonano post black, però va da sé che c’è classe cristallina nelle loro note, qui siamo ancora a livelli di suoni acerbi. Auspico tuttavia che il five-piece di Copenaghen si possa rifare al più presto… (Francesco Scarci)

(Ne-How Records)
Voto: 60

Area - A Place to Meet Randoms

#PER CHI AMA: Post Rock, Anathema, Archive 
Quando ho letto il nome Area ed ho visto la cover cd, ho pensato ad una delle uscite progressive italiane degli anni ’70; poi lo stereo ha iniziato a suonare la musica del quartetto di Bordeaux, e sono rimasto piacevolmente colpito dalla proposta di questi promettenti transalpini. Post rock a basse frequenze, denso di emozioni, ma pure carico di un alto potenziale energetico, che sembra costantemente sul punto di esplodere. “Proud Doctors” ne è un esempio con un giro di chitarra e tastiere cadenzato, ma che lentamente va via via accelerando, cosi come il mio cuore aumenta il suo battito durante una corsa, prima di prendere il ritmo. “Exit/Escape” ha un riffing più di matrice post metal che rock, ma quando il vocalist inizia con la sua litania, sembra di ascoltare piuttosto i Radiohead di “Ok Computer” e il sound si rilassa, si incupisce, si fa tremendamente nostalgico, andando a catturare i miei sensi. “Monday Morning, in Japan” è una traccia strumentale dal ritmo incalzante, che si muove tra stop’n go ed un’appassionata cavalcata, che introduce la più riflessiva “Dust”, song che torna a muoversi più in territori electro post rock, con gli inglesi Archive, luce ispiratrice per i nostri. La voce di Hugo è calda, sinuosa, le chitarre quasi impercettibili, accompagnano il drumming incessante di Etienne, prima di divampare impetuose, quasi in territori punk nel nucleo centrale del brano e tornare a dissiparsi nella seconda parte del brano, per concludere con un finale degno degli ultimi Anathema. A chiudere questo ottimo cd, ci pensa “North Wind”, altri sei fluidi minuti di piacere, che vedono i nostri inseguire un po’ il ritmo di “Paranoid Android” dei già menzionati Radiohead. Che altro dire, se non di avvicinarvi a questa band, dotata senza ombra di dubbio, di ottime potenzialità. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

domenica 7 ottobre 2012

Vorkreist - Sigil Whore Christ

#PER CHI AMA: Black, Mayhem
Eccoli qui i francesi che avevo citato qualche tempo fa in un’altra recensione, indicando l’Agonia Records come una fra le più attente etichette nell’ambito estremo internazionale. E ancora una volta la label polacca non si smentisce, mettendo sotto contratto questi selvaggi blacksters transalpini, giunti alla loro quarta release. “Sigil Whore Christ”, pur essendo partorito nella vicina Francia, si mostra piuttosto come un epigono del movimento estremo scandinavo, avvicinandosi come proposta, al black primordiale dei Mayhem, tuttavia spruzzato di quella malsana componente tipica del movimento francese. Beh, non c’è che dire, i Vorkreist hanno concepito un ottimo lavoro, finalmente maturo che, avvolto in un’aura completamente mefitica, sciorina, uno dopo l’altro, pezzi veramente ficcanti, che mi permettono di tuffarmi e sguazzare in un mare di lava. Il lavoro più eclatante è stato decisamente fatto a livello di suoni di chitarra, a dir poco mostruosi, con ritmiche assai tecniche, che passano cosi abilmente da sfuriate tipicamente black, a momenti più agonizzanti, decisamente mid-tempo (“Maledicte”) o la cui matrice è di stampo statunitense, scuola Morbid Angel per l’esattezza, come nella rutilante “Deus Vult”, feroce al principio, più atmosferica e satanica in un secondo momento, ma sempre pronta a sfociare nella furia dirompente di sonorità estreme, che si tratti di black o death metal. In “Sigil Whore Christ” dicevo, c’è anche spazio per divagazioni più legate alla scuola francese, e penso al finale di “De Imitatione Christi”, che mi ha ricordato i Deathspell Omega, oppure anche le chitarre di “Memento Mori”. Ancora una volta mi dovrò complimentare con gli amici della Agonia Records, perché dopo aver resuscitato gli Enthroned, hanno contribuito alla realizzazione di un lavoro cosi maestoso, in termini di malvagità e contemporanea pomposità (strano a dirsi per un album di black disumano). I Vorkreist dimostrano di essere tra le più talentuose e tecniche band in territorio “nero”: gli stop’n go, i bridge (magnifico quello di “Dominus Illuminatio Mea”), le rare parti atmosferiche, confezionate in questo strepitoso lavoro, ci consegnano una band che si consacra tra le sorprese del 2012. Dotati infine di un vocalist molto bravo, in grado di straziare le proprie corde vocali in versione screaming, i Vorkreist gareggeranno con gli Enthroned per sedere sul trono della fiamma nera. Blasfemi. (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 80

Zuriaake & Yn Gizarm - Autumn of Sad Ode & Siming of Loulan

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
Tornano ancora una volta sulle nostre pagine i cinesi Zuriaake, dopo aver esplorato approfonditamente gli altri loro due lavori, e cosi in una sorta di percorso a ritroso, vado a scoprire quello che fu l’album di debutto, uno split album in compagnia dei connazionali Yn Gizarm, per quasi un’ora di suggestivo grim black metal. Si tratta di otto tracce suddivise equamente tra le due band, in cui i nostri paladini Zuriaake hanno riservate le prime quattro, mentre la seconda metà è dedicata all’ascolto degli impronunciabili (Yn Gizarm), il cui nome si riferisce a quello di una contea nella regione di Xinjiang Uyghur. Ed eccoli infiammare i nostri oscuri animi con “Dying in Autumn”, tipico esempio di black mid-tempo, con screaming vocals, e flebili keys burzumiane di sottofondo, nulla di che ma piacevole in una fredda notte tempestosa. La pioggia continua a battere anche nella successiva “Autumn Memories” e quei synth posti in apertura o i latrati del vocalist, non possono che ricordare “Hvis Lyset Tar Oss”, mitico terzo capitolo del Conte, cosi come pure il mantello misterioso che avvolge l’intero brano non fa che evocare le produzioni maledette del buon vecchio Burzum. “Sad Ode” è la terza traccia dell’album, dove fa la sua apparizione una voca pulita, quasi un ululato di un solitario lupo nella foresta. Il feeling che si respira è decisamente notturno, complice anche una velocità decisamente spinta a rallentatore e a delle atmosfere, il mare e il verso dei gabbiani, i tamburi, in grado di conferire al tutto anche una certa aura di sacralità. Non so come spiegarvi ma basta chiudere gli occhi durante i passaggi ambient di questa song, che velocemente si viene condotti al cospetto degli imperatori cinesi, con tanto di gong nel bel mezzo del brano, per concludere poi con un’esplosione di furia impetuosa. Peccato solo per l’uso scadente della drum machine. Ancora atmosfere eteree chiudono la performance dei nostri, che cedono il testimone ai compagni d’avventura, che esordiscono con “The Ruins of Loulan” e si presentano come altra realtà, dalla scarsa perizia tecnica, ma dalla grande capacità di intrattenere i propri ascoltatori con trovate di ovvia derivazione dalla tradizione musicale orientale. Sicuramente gli Yn Gizarm prediligono la componente più blackish; anche qui scandaloso l’uso della drum machine, tuttavia la proposta, mostrandosi un po’ più feroce dei suoi predecessori, trova comunque modo per farsi notare, grazie all’utilizzo di parti di chitarra classica sul ritmico rifferama zanzaroso o per l’utilizzo di partiture folk. Decisamente più brutale la successiva “Ghosts in Ambush” e ancor più fastidioso ed evidente l’utilizzo della batteria sintetica; fortunatamente a stemperare il ritmo disumano, ci pensa un melodico break centrale con delle epiche vocals. Finalmente una song più tranquilla la terza “Burying in the River of Peacock” che fa da preludio alla splendida conclusione affidata a”Migration” che vede chiudere uno split cd, in cui gli Zuriaake si mostrano leggermente superiori ai propri compagni, ma lasciando comunque intravedere ampi margini di miglioramento per entrambi gli ensemble. Misteriosi. (Francesco Scarci)

(Pest Production)
Voto: 70

sabato 6 ottobre 2012

Divine Irae - Bible

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna
Raramente mi è capitato di imbattermi in una band e non trovare assolutamente alcuna informazione sul suo conto: i Divine Irae sono tra queste rarità. Il pugno di informazioni recuperate, mi dice che la formazione di oggi viene dalla Provenza e in questo cd di quattro pezzi, a tiratura limitata e con un digipack numerato a mano (solo 50 copie per pochi fortunati), i nostri propongono un sound epigono di Cult of Luna e Isis. Proprio su coordinate post metal/sludge, i nostri aprono le danze con la lunghissima “Disappear”, song che evidenzia immediatamente la voglia dell’act transalpino di mettersi in gioco, emulando i propri beniamini. Certo, siamo lontani anni luce dagli originali, comunque il combo sembra aver imparato la lezione, lanciandosi alla ricerca di suoni mai troppo veloci, mai troppo pesanti, ma che, alla stregua di un lentissimo mare di lava, scende minaccioso dal cono vulcanico. A vederlo, cosi scuro e lento, non sembra neppure essere cosi pericoloso, ma poi quando solo poco ti avvicini, capisci che le temperatura supera di gran lunga i 1000 gradi. Similmente anche la musica dei Divine Irae, sembra essere innocua ad un ascolto, per cosi dire, distaccato, ma appena dai modo ai nostri di avvicinarsi, capisci che le loro potenzialità sono quasi letali. E proprio come la lava, il sound di “Bible” si presenta viscoso, lento, permeato di pochi gas in grado di esplodere, di cui tuttavia non dovrete sottovalutarne la pericolosità. Lenti, magnetici, penetranti (soprattutto con la seconda “Derelixion”), la band di Aix En Provence, continua imperterrita a soffocarci con quei suoi suoni asfissianti, quelle vocals vetrioliche al limite dell’hardcore; fortunatamente il furore gallico, trova un break in un’apertura acustica, che mi concede giusto il lusso di rifiatare, un po’ come se un boa avesse mollato la presa con le sue mortali spire. Cosi è il sound dei Divine Irae, costrittore. Ecco, se poi magari il vocalist desse meno spazio alle sue urla disumane, si concedesse qualche silenzio in più o desse maggior fiato alle vocals più meditative, ecco forse si potrebbe meglio apprezzare la proposta di questo nuovo gruppo francese, che trova il modo anche di giocare con noi al pendolino magico, cercando di ipnotizzarci, con suoni ripetuti e ripetuti. La musica di questo lavoro non è di cosi facile immagazzinamento, il sound sembra ancora soffrire di una certa acerbezza, che sono certo col tempo saprà maturare. Questo lo si evince soprattutto dall’ascolto della più meditativa e forse più melodica “Icon”, che nei suoi due minuti iniziali, trova anche il modo di cullarci con il suo incedere pacato e tranquillo, prima di esplodere nel fragore elettrico delle sue chitarre fangose, su cui trovano posto anche delle clean vocals, che eleggono questa song la mia preferita dell’album. Ci siamo, ci siamo quasi. Sicuramente c’è da lavorare ancora a lungo per scrollarsi di dosso i fantasmi dei maestri, ma la strada intrapresa anche con l’ultima “Irae” conferma che i Dine Irae stanno percorrendo la giusta via. Il voto basso è di stimolo, non di bocciatura. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Okera - A Beautiful Dystopia

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Mi sa che in questo 2012 sarò costretto a dare la palma di nazione più prolifica all’Australia, capace di rilasciare un quantitativo esagerato di release, di vari generi, ma soprattutto di elevato tasso qualitativo. Tra gli ultimi cd partiti dal “nuovo continente”, che hanno raggiunto casa mia, figurano gli Okera, quartetto di Melbourne dedito ad un death doom di grande intensità, che delinea le proprie doti in termini di preparazione, pathos emotivo ed esecuzione, sin dall’oscura “The Black Rain”, che mette in chiaro la corrente di pensiero dei nostri, che vedono nei My Dying Bride la loro principale fonte di ispirazione, anche se stranamente compaiono echi degli Opeth degli esordi. Forti della produzione di Mark Kelson dei The Eternal, i nostri propongono in questa release le tre tracce che costituivano il loro demo d’esordio con quattro nuove songs, decisamente ricche in fatto di contenuti e dal facile coinvolgimento emotivo. Il death doom dei nostri è veramente manna dal cielo, che sicuramente potrà impressionare i signori della Solitude Productions, costantemente in cerca di nuovi act da inserire nel proprio roaster in modo da differenziare la propria proposta che ultimamente ha rischiato di scadere nel troppo sentito. E per questo mi sento di suggerire alla label russa gli Okera, band che non si limita esclusivamente ad offrire un sound sofferente e apocalittico, ma che nella seconda traccia “I Hope”, spinge un po’ di più il piede sull’acceleratore e se non fosse per qualche parte arpeggiata, potrei decisamente affermare che siamo al cospetto di una band death/black, che mantiene comunque nelle proprie linee di chitarra una velata vena malinconica. Abbandonata la rabbia della seconda song, tra l’altro casualmente anche il pezzo più corto dell’album, ecco i nostri riprendere la via del dolore e lanciarsi in cinque lunghi brani (durata media 8 minuti), in cui la verve inziale, lascia spazio alla desolante disperazione dell’animo umano, con il notevole growling di Jayme Sexton, ad accompagnare le bellissime e nostalgiche linee di chitarra (splendida per altro la chiusura di “Futility”). Il cielo sopra Melbourne si fa sempre più grigio, le nuvole si accumulano e minacciano violenti piogge: “In Solitude” è un altro pezzo che parte violento, ma nel suo corso, riesce a dar spazio anche ad aperture progressive, tali da lasciarmi a bocca aperta perché in grado di conferire maggiore ariosità, ad un genere che talvolta rischia di soffocare a causa di un sound fin troppo opprimente. Quindi diamo atto agli Okera, un po’ come qualche mese fa ai Bela’kor di aver confezionato un prodotto che prende le distanze dagli stilemi di un genere grazie ad una maggiore dinamicità, che consente ai nostri di esplorare territori che vanno oltre le normali definizioni di death doom o funeral. “A Beautiful Dystopia” raccoglie alla fine un po’ di tutto, comprimendolo saggiamente in una proposta, che non ha la presunzione di inventare nulla di nuovo, ma che sicuramente ha il pregio di rendersi vario ed interessante fino alla fine, quando la title track mi stordisce per poco più di dieci minuti con un feeling che sa di primi Anathema, imbastito però su un sound esplosivo, dirompente, furioso, tecnico e melodico che fa gridare decisamente al miracolo. C’è ancora molto da lavorare, ma gli Okera sono sulla strada giusta e vanno premiati da un vostro ascolto. Obbligatorio! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75