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giovedì 19 aprile 2012

Eric Castiglia - The End Of Our Days

#PER CHI AMA: Death/Progressive/Heavy/Black
Eric è un tranquillo ragazzo romagnolo, che ha una grande passione (forse due, ma sorvolerò sulla seconda), la musica. Non solo è infatti chitarrista nei seminali Sedna, nei White Noise e chissà quant’altri progetti, ma ha pensato bene di convergere la sua voglia di suonare anche nel suo progetto solista, questo “The End of Our Days” e devo dire che il risultato è a dir poco entusiasmante. Prendendo una drastica distanza da quanto suonato nella sua band “madre”, i Sedna, Eric pesca a piene mani dal panorama mondiale, reinterpretando il tutto un po’ a modo suo e il risultato che ne viene fuori ha a dir poco del sorprendente. Se nella opening track, “God Won’t Save You” emergono delle sonorità death gothic, man mano che ci si addentra in questo lavoro emergono forti i gusti del buon Eric: Scar Symmetry, Meshuggah, Devin Townsend, Raunchy, musica djent e progressive, black ed elettronica, passando dal pop di anni ’80 e dall’heavy classico. Un pour porri di generi che hanno ben poco da condividere tra loro, ma che nella release di Eric, trovano il modo di incastrarsi alla perfezione. Esterrefatto si, questa è la parola giusta ascoltando e riascoltando il cd, che da settimane è in cima ai miei ascolti. Bravo Eric, mi hai davvero impressionato e se con “Broken Hourglass”, mi sembra di ascoltare un bel pezzo hard rock anni ’90 con delle belle vocals corrosive, con la successiva “Vaccumba” ci spostiamo in territori cyber death con il growling del mio nuovo eroe che si alterna a delle clean vocals in Scar Symmetry style. Ruffiano? Può anche essere, ma a me sinceramente non me frega nulla, anche quando il mastermind si cimenta con la bellissima e riuscitissima cover dei Talk Talk, “Such a Shame”. Vai alla grande Eric, continua cosi. Eh si perché il factotum cesenate, ci delizia con “The Seventh Gate”, song dal forte sapore nord Americano, quello del folletto canadese Devin Townsend però. E quindi potrete capire la genialità della proposta e anche la grande capacità che ha di conquistare le mie orecchie, ormai abituate a devastazioni varie in ambito black. Breve pausa strumentale di ampio respiro prima della violenza controllata di “Coward Circus” dove a fare la comparsa c’è uno screaming acido, tastieroni dal sapore black sinfonico e passaggi di velata e oscura malinconia, nonché di follia dirompente nella parte conclusiva del brano. Sono frastornato dalla capacità di picchiare ed essere al contempo eterogenei e originali. “No One Like You… Because You’re Nothing” ci conferma l’amore di Mr. Castiglia per le sonorità claustrofobiche e devastanti di Meshuggah e compagni, mentre la successiva “The Pulse of Time” sembra estratta da “Killers” degli Iron Maiden, prima di abbandonarsi in una splendida epica cavalcata strumentale, in cui lo splendido lavoro alle chitarre di Eric, si esplica in una serie di riff che si rincorrono alla velocità della luce in un orgasmo caleidoscopico. Ancora stordito dalla montagna di riff calati dal guitar hero italiano, ecco lanciarmi negli ultimi due pezzi, dove ad assurgere il ruolo di co-protagonista accanto alle chitarre ci sono anche le tastiere, ben presto relegate in secondo piano per dar modo alla furia di esplodere potentemente. A chiudere questo eccellente album ci pensa la title track, che conferma nuovamente le ottime idee di questo ragazzo che deve comparire al più presto all’interno delle vostre liste di cd da acquistare. Obbligatoriamente da far vostro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

domenica 15 aprile 2012

Hate Eternal - I, Monarch

#PER CHI AMA: Brutal Death
Direi che il 2005 è stato l’anno della definitiva consacrazione del death metal!!! Dopo i vari lavori di Nile e Cephalic Carnage, tanto per citare i più meritevoli, abbiamo dato il benvenuto al feroce disco dell’ex-Morbid Angel Erik Rutan, quasi a voler mettersi in competizione con le band sopraccitate per chi ha sfornato l’album più devastante dell’anno. Eh sì ragazzi, questo “I, Monarch” fa davvero male: è un album senza fronzoli, selvaggio, violento e brutale che non concede la benché minima tregua dal primo all’ultimo minuto. A differenza dei colleghi, capaci nei loro lavori di spezzare la furia dei brani con intermezzi acustici (per i Nile) o jazzistici (per i Cephalic Carnage), qui c’è solo puro ed intransigente brutal death metal. Probabilmente proprio per l’incapacità di discostarsi con nuove o diverse idee, il sound proposto dal trio statunitense mostra i suoi limiti in questo nuovo album, il terzo per la band di Rutan, che vede tra l’altro in “I, Monarch” l’ingresso del nuovo bassista Randy Piro. La musica degli Hate Eternal è costituita da tecnicissimi e dissonanti riff, da un lavoro dietro alle pelli non umano, caratterizzato da blast beat continui e una doppia cassa devastante, e con growling vocals profonde e maligne. L’album ci consegna una band mostruosa sotto il profilo tecnico, ma un po’ carente in fatto di idee, o meglio, radicale nella scelta di voler essere il più violenta possibile, con il risultato finale che il disco è troppo monolitico. È un peccato, perchè se solo si fosse potuto lavorare con un briciolo di fantasia in più e rendere armonico l’intero lavoro, ne sarebbe sicuramente uscito un grande album. Ottima la quarta traccia “To Know Our Enemies” con un assolo finale “rasoiante”... Con l'ingresso in formazione di un secondo chitarrista di sicure se ne sentiranno delle belle. Mi auguro solo che si scrollino di dosso questo compulsivo desiderio di devastazione e ci mostrino realmente di cosa sono capaci. Per me questo è un album di transizione, fiducioso per un futuro migliore... (Francesco Scarci)

(Earache Records)
Voto: 60

http://www.facebook.com/Hate.Eternal

Limbo - Compendium: The Light Fall

#PER CHI AMA: Electro, EBM, Kirlian Camera
Conclusa definitivamente l'esperienza Limbo, Gianluca Becuzzi ha preso il largo verso altri lidi musicali che attualmente lo vedono impegnato con il progetto Kinetix. Prima di dare l'estremo saluto al suo affezionatissimo pubblico, il musicista italiano non ha voluto, però, lasciare a bocca asciutta chi aspettava il terzo capitolo della trilogia "Millennium Trax" ed è così che, grazie alla Cursed Land Entertainment, “Compendium: The Light Fall” ha visto la luce. Oltre ad offrire numerosi elementi d'interesse dal punto di vista "revisionistico", l'album chiude nel migliore dei modi una carriera lunga vent'anni e celebra degnamente la fine di uno dei progetti elettronici più importanti del nostro paese assieme ad act quali Pankow, Kirlian Camera e TAC. La raccolta esplora diversi momenti della carriera dei Limbo attraverso diciotto brani estratti dall'intera discografia del gruppo, rivisitati per l'occasione in una chiave moderna, grazie ad un'operazione di rimasterizzazione in digitale delle tracce originarie e, in alcuni casi, di remixaggio completo delle stesse. Un lavoro realizzato con l'ovvia supervisione di Gianluca Becuzzi, ma prodotto e coordinato da Diego Loporcaro (aka D. Loop), membro dei Limbo fin dal 1998. La materia musicale del cd non può che definirsi ghiotta, già a partire dall'introduttiva “No Mercy”, traccia del 1984 estrapolata dalla prima demo-tape del gruppo e qui restaurata per sopperire alla pessima qualità del nastro di partenza. Brani come “Carnalia” e “Dein Gott ist Tot” (rispettivamente dagli album “Our Mery of Cancer” e “Vox Insana”) sono stati invece completamente riscritti rispettando gli arrangiamenti suonati nell'ultima performance live del gruppo. Curiosa anche la riedizione di “Libido Mater Nostra” in una versione più potente e danzabile rispetto all'originale, come pure il remixaggio di “Blutfeuchtræume”, azzeccata rielaborazione di un pezzo gothic-metal in una traccia dalle forti connotazioni trance/EBM. Inclusa nel cd anche “Red Latex Jesus”, remix di un brano dei Kebabträume che il duo Becuzzi/D. Loop presentò a suo tempo in “Cospiratorium: The Ice Line”, facendosi affiancare da Ivan Iusco dei Nightmare Lodge per l'esecuzione delle parti campionate. Unico episodio live della compilation è “Widowmaker”, brano ispirato ad una ballata di pianoforte scritta da Le Forbici di Manitù e registrato durante l'ultima (e già citata) esibizione di Limbo, tenutasi il 31 Marzo del 2001 al Tam Tam Club di Bisceglie (Bari). Infine, a chiudere il sipario è l'ultima traccia in studio del gruppo, “Madre, Chiesa, Libido”, un medley che abbraccia, in poco meno di sei minuti, brani storici quali “Libido Mater Nostra”, “Thee Pack”, “Mater Libido”, “Control, Sex, Technology” e “Madre, Chiesa, Clinica”. Da avere! (Roberto Alba)

(Cursed Land Ent.)
Voto: 85

Mare Infinitum - Sea of Infinity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Ahab
Solitude Production. Ormai si va sul sicuro. I Mare Infinitum sono solo una delle tante perle che risplendono di maestosa armonia dal magico universo della terra russa. Certo, il becero antagonismo storico con gli Stati Uniti sembra quasi d’obbligo in questi casi, ma qui stiamo parlando di musica, non di politica, e per di più di un genere che gli USA non sono ancora riusciti a comprendere nella sua profonda interezza (ovviamente generalizzo). Si parla di doom metal. Anzi, funeral doom. La fugacità delle occupazioni occidentali, l’eterno senso di ansia nel quotidiano e una snervante necessità, lavorativamente parlando, di fare sempre di più in sempre meno tempo impedisce in molti casi di ritagliare un angolo per sé stessi. Riflettere. Ascoltare le proprie emozioni. La faccio breve: una determinata tipologia di musica non può nascere in contesti geografici, culturali e sociali che si estendono ai suoi antipodi. Se il black metal è nato nel nord Europa e non a Los Angeles un motivo ci sarà, no? Perdonate il discorsone, ma mi sentivo in dovere di farlo. “Sea of Infinity” presenta cinque tracce di puro funeral doom dalla lunghezza variabile. Il tema che fa da collante è quello dalla sensazione di eterno e immutato perpetrarsi delle cose, metaforizzato simbolicamente dall’orizzonte infinito del mare che si intreccia in modo definitivo con il dominio e la pesantezza dei cieli. Di riflesso, gli strumenti cercano di portare all’attenzione una decisa mimesi con l’effetto perpetuo delle onde che si infrangono sull’acqua. “Beholding the Unseen”, in particolare, riproduce chiaramente questo effetto nei primi due minuti della canzone. Rappresenta senza ombra di dubbio un momento topico all’interno dell’album; è la traccia più strutturata, condensa vari passaggi di tempo e unisce al growl una voce pulita molto avvolgente. Le chitarre si muovono come a rilento, potenti, nitide nelle note, precise come un metronomo. Un apprezzamento del tutto personale devo farlo a “November Euphoria”, probabilmente la miglior composizione strumentale di doom atmosferico che io abbia mai ascoltato, con la giusta dose ed equilibrio di tastiere e melodie a sei corde. Otto minuti di trance che avrebbero qualcosa da insegnare anche ai grupponi funeral già navigati. Unica nota dolente e un po’ fuori luogo: l’utilizzo del violino nella track di chiusura, “In the Name of my Sin”, molto My Dying Bride. Una cosa è chiara: dall’intero album traspira una sorta di timore reverenziale verso tutto ciò che esiste di infinito. Non vi sono grida di sofferenza o penombre minacciose alla Skepticism o alla Catacombs. Si respira qualcosa di diverso. È più un elogio agli abissi oceanici dell’oltrevita, un marciare cadenzato di rispettoso silenzio di fronte all’antitesi dell’esistenza. L’ascolto è doveroso per chi è rimasto affascinato dalle atmosfere degli Ahab di “The Divinity of Oceans”, immensi pionieri del nautic-doom. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

Hyde Experiment - Hyde EP

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Amorphis
Dopo aver fatto partire il cd, ho pensato che il lettore lo stesse leggendo in senso contrario, dato che le parole che venivano fuori dalle casse erano totalmente incomprensibili, tanto da ricordarmi quel film degli anni ’90, “Morte a 33 Giri”. Passa qualche secondo però e capisco che non è il mio stereo ad essere indemoniato, ma è colpa della proposta musicale dai vicentini Hyde Experiment; niente di satanico però, sia chiaro, il combo veneto propone infatti un death metal abbastanza velleitario, capace, nel corso dei primi minuti di “Bereft of Reason”, di cambiare tempo cosi tante volte, quanto il battito delle mie ciglia, offrendo pertanto un sound stralunato, tecnico (un’ode ai mostri sacri del tecno death) e assai imprevedibile. Ora capisco il perché della scelta del nome, dove cappeggia la parola Experiment a fianco di Hyde, perché sperimentazione è la parola d’ordine dei nostri. Per mia somma gioia. E per le mie orecchie. E sono certo che andrà ad impattare anche sulla valutazione conclusiva dell’album. Imbrigliato dalla foga dei nostri nel voler stupire, rimango assuefatto dalla delirante proposta degli Hyde Experiment: Opeth (in testa), Porcupine Tree, un death metal robusto (schizoide, in chiave Infernal Poetry), sonorità seventies e sorprendenti linee melodiche, invadono contemporaneamente il mio cervello, lasciandomi di stucco. Che goduria. Ottime le growling vocals di Nicola, altrettanto quando si propone con le vocals pulite, come un novello Mikael Åkerfeldt all’italiana. “Cypress” è un’altra song monolitica, che partendo dal sound dei gods svedesi, si dipana attraverso onirici giri di chitarra: qui il progressive, la psichedelia, splendidi fraseggi acustici e tecnici assoli, posti sulla consueta matrice death, costituiscono la proposta dell’act italico. Il voto sale. Anche la perizia tecnica. “Chilling Secrets” è invece una sorta di semi-ballad; la prova alla voce del cantante qui non mi entusiasma (affiancato peraltro dalla poco convincente performance di Chiara), mentre la “pink floydiana” base, mi stordisce; non abbastanza però, perché rimango concentrato sulla non eccezionale prova dei due vocalist, fino a quando il latrato growl di Nick torna a fare il suo egregio lavoro, mentre le keys di Chiara, poste in primo piano, si ispirano agli Amorphis. Bene, si torna a far sul serio, anche se alla fine “Chilling Secrets” si mantiene comunque su toni più pacati, come dimostrato dal vellutato e “doorsiano” finale. Poco male, perché con i quasi nove minuti di “Primordial”, si torna a picchiar duro, con una bella ritmica potente e ideazioni diaboliche: eccoli i Cynic echeggiare nella mia testa, intontire i miei pochi neuroni residui, per una prova che talvolta sfiora il miracoloso. Se poi devo fare le pulci agli H. E., ecco che talvolta la prova dietro alle pelli di Daniele non mi convince, forse perché troppo ordinaria e non altrettanto carica di fantasia, come i suoi compagni di avventura. Da rivedere quindi il drumming, cercando di donare quel tocco di personalità in più per distaccarsi definitivamente da una definizione che di death metal ha gran poco. Brillanti, anche se avrei potuto dar di più nel mio giudizio complessivo. (Francesco Scarci)


(Self)
Voto: 80

Okular - Probiotic

#PER CHI AMA: Death Metal dalle venature Progressive
Mmmm, oggi ho una bella fame di sonorità death metal: cosa c’è di meglio che farsi servire una succulente pietanza a base di sanguinosa brutalità e vertiginosa velocità, il tutto annaffiato da fiumi di tecnicismo e spruzzate di melodia? Per cercare simili ingredienti dovrei guardare ad occidente, negli States per l’esattezza, dove di solito si celano proposte di questo tipo; invece quest’oggi, mi trovo inaspettatamente a recensire una siffatta creatura, proveniente dalla Norvegia. Strano, non trovate? Gli Okular sono assai prelibati, una sorta di bisteccona al sangue da gustarsi con un bel bicchiere di vino rosso, di quello che arriva immediatamente al cervello e ti inebria senza ubriacarti. Un po’ come il sound di questi baldi ragazzoni del nord Europa che appassionati, incazzati, ma decisamente al passo con i tempi, mettono in mostra tutte le loro qualità, con dieci fantastici pezzi di puro death metal, riletto in chiave moderna. “Connected in Betrayal” e la cervellotica “Probiotic (for Life)” aprono le danze, mostrando subito di che pasta è fatto il quartetto di Oslo, per non parlare dell’assalto all’arma bianca di “Fucking Your Dignity!”: tutte e tre le song, cosi come le successive, sono caratterizzate da una matrice di fondo tipicamente brutale, con ritmiche non troppo veloci, ma estremamente potenti e sempre dotate di buone dosi di melodia, contraddistinte poi da un tasso tecnico elevatissimo (mostruoso, come spesso mi accade di sottolineare, la performance alla batteria del drummer, Bjørn Tore Erlandsen). Se l’acustica strumentale “Tranquillity of the Night”, lascia presagire erroneamente esplorazioni in territori progressive a la Opeth, la successiva “State of Immediacy”, mi spinge invece verso zone perlustrate dal grande Chuck Schuldiner e dai suoi Death. Abbacinato da cotanta perizia, mi concentro ulteriormente nell’ascolto di questo speranzoso lavoro (il verde è infatti il colore dominante nell’artwork del cd). “Choose to be Free” è una song annichilente, la classica canzone taglia gambe, che con la sua ritmica prepotente, imbastisce un muro sonoro insormontabile. “Flowers Uncared For” è una epica cavalcata, dove le vocals di Marius S. Pedersen, trovano un maggior raggio d’azione, abbandonando la componente growl, per lanciarsi in un cantato pulito mentre le linee di chitarra si fanno più melodiche, mantenendo comunque un incedere ipnotico e selvaggio. La spagnoleggiante traccia strumentale “Celebration” ci concede un altro breve attimo di respiro, prima del conclusivo attacco, affidato all’inequivocabile “The Most Violent Thing”, che non può che lasciar presagire che la furia sarà l’elemento dominante in questa intricata song, ricca di cambi di tempo e pregna di atmosfere al limite del black. “Creativity or Fear?” chiude splendidamente, con mia somma sorpresa, un platter coraggioso, che mi fornisce ulteriori indicazioni: la Norvegia non è solo black metal o l’”americaneggiante” sound dei Blood Red Throne; da oggi, nel mio immaginario, sarà anche l’armonico incedere audace e minaccioso dei rocciosi Okular. New entry da sballo! (Francesco Scarci)

(Regenerative Productions)
Voto: 85

giovedì 12 aprile 2012

Cheap Vudu – Counter of Pain

#PER CHI AMA: Black/Death minimalista
Arriva da Barcellona questa one man band dedita ad un personalissimo quanto strano metal dalle tinte black (e testi anticlericali a go-go cantati e recitati in spagnolo). In verità l'autore di questi brani, che si fa chiamare “Sin Rostro”, ha sperimentato molto con i limiti tecnici imposti dalle sue possibilità stilistiche e tecnologiche, sfruttandole in maniera più o meno ottimale. Diciamo subito che l'album risulta interessante se visto dal lato sperimentale e da evitare per chi cerca chicche stilistiche musicali. Brano dopo brano ci si addentra in una visione personalissima del black, dove patterns di batteria minimale si dimenano tra chitarre scarne e rumori industrial molto lo-fi tenuti costantemente “sotto” ad un cantato in primo piano sofferto e molto convinto, anch'esso lo-fi molto diretto e brutale. L'album si apre con “Angel of Light” che fa da intro e rivela subito la vocazione cinematografica dell'intero lavoro poi continua con “Awake”, la più violenta forse dell'album e “Be Very Afraid” che sembra uscita dai b-side dei Christian Death” periodo “Sex Drugs and Jesus Christ” con molta meno enfasi però... l'ambient noise si mostra nella track “ Central Brain”, strutture semplici ma che risultano efficaci come in “God's Civilization” dove la componente industrial si fa più potente e si fonde con un sound più dark oriented dal vago ricordo Sisters of Mercy con tanto di finale tribale in salsa gregoriana stile Enigma. La voce di “It's Evil” é sguaiata e maligna e la musica riflette il brano precedente ma le chitarre sono molto soniche e tenute sempre molto distanti quasi a cercare un sound più psichedelico e lisergico.”Roguemos al Senor” crea un'atmosfera da film horror anni 70' e la voce narrante che troviamo in altri punti dell'album rende il tutto molto drammatico.”Suck the Cross” non rende e una batteria monotona unita ad una chitarra sottotono sono salvati da un cantato bestiale molto simpatico. Arriviamo all'ultimo brano dove uno zapping alla manopola di una vecchia radio, ci anticipa “Waiting the Horror”, che non cambia la scelta stilistica di una batteria drittissima e di una chitarra bloccata sullo stesso riff per tutta la durata del brano, il growl salva tutto e dona comunque un'atmosfera molto cupa al brano, stupenda poi la chiusura di pochi secondi tra organo e voce narrante stile vecchio film western! “Cheap Vudu” ha l'onore di mostrarci come la musica estrema si presti a tantissime personali interpretazioni anche anticonvenzionali! Per farvi un'idea, prendete i gruppi del Batcave anni '80, tipo primi Alien Sex Fiend, mischiatelo con il modo sanguinolento di intendere la musica di Rob Zombie e fondetelo con un film horror di serie B, trasportatelo nel metal estremo underground e avrete così “Counter of Pain”! L'effetto potrebbe stordirvi, farvi vomitare oppure eccitarvi a dismisura! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 65
 

Stangala - Boued Tousek Hag Traou Mat All

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Electric Wizard
Abbassate il cappuccio della veste sul volto e preparatevi all'album rivelazione di quest'anno. Il debut album degli Stangala (gruppo francese di nome, ma bretone di fatto) "Boued Tousek Hag Traou Mat All" è un viaggio psichedelico nello stoner-doom in chiave celtica, a suon di sacedoti druidi, sabba sfrenati e riff di chitarra duri come gli scogli che si affacciano sull' oceano. Questo album, interamente cantato in bretone, è un inno occulto a questa regione che non si è mai sentita francese e al di la dei testi che non comprendo (tradotti in parte nel libretto contenuto nel cd), lo ritengo un diamante nel fango inutile che imperversa nella rete. Registrazione analogica, scricchioli e rumori di sottofondo degni del vinile più vecchio e consumato che avete in camera, strumenti a fiato tipici, gli Stangala (ri)creano delle sonorità che possono teletrasportarvi in un mondo tramandato a oggi oralmente, ma che avrebbe gioito di questa perfetta colonna sonora. Il primo brano "Doom Rock Glazik" riprende le sonorità dei vecchi Black Sabbath con estrema destrezza tecnica di chitarra/basso/batteria, infatti insieme creano un riff epico che percorre tutto il brano in diverse varianti. Poi è il turno di "Al Lidou Esoterik An Dolmen Hud",  personalmente il mio inno celtico, dove la chitarra passa da un' intro in phaser ad assoli di Hendrixiana memoria. Ottimo lavoro, veramente un pezzo arrangiato con le palle. "Kalon An Noz" è un pezzo completamente strumentale, suonato da cornamusa bretone e bombarda (presente anche in altri brani), strumenti a fiato bretoni che trasmettono tristezza e orgoglio di un popolo vivo e consapevole della proprio identità. Subito si rimane spiazzati dai quattro minuti di delirio introspettivo, ma se li ascoltate con l'orecchio giusto, sarà un momento di totale raccoglimento mistico. Probabilmente è il rifacimento di una ballata bretone, ma non ci giurerei onde evitare di venire incenerito sul posto da un druido incazzato! I dieci pezzi dell'album sono notevoli, prendono spunto dai ben più famosi Electric Wizard e altri dei pagani, ma siamo sulla buona strada per creare un nuovo genere. Spendete questi 3€ per la versione download (11€ per quella fisica) altrimenti verrete sacrificati all'ombra del primo menhir... (Michele Montanari)

(Solitude Productions)
Voto: 85