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venerdì 16 ottobre 2020

Slomosa - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Punk, Offspring
Quello dei norvegesi Slomosa è senza dubbio un buon disco di debutto, suonato bene, con giuste sonorità, tanto tipiche se non un po' scontate dello stoner rock. Un genere che annovera tra i più famosi e storici rappresentanti, i Queens of the Stone Age, creatori e divulgatori di un suono che ha fatto storia e che ha influenzato migliaia di band, rischiando di generare una vera e propria dinastia di cloni che però ha impedito allo stoner di evolversi in maniera libera come fu per il primo periodo negli anni '90/2000. Da perfetti estimatori della band di Joshua Homme, il quartetto di Bergen si è impegnato a ricreare conosciute atmosfere e scorribande rock che spingono molto sull'acceleratore, mostrando muscoli e sudore assieme ad una lieve propensione space rock, lodevole caratteristica che nei primi tre brani funziona assai bene, poi va un po' perdendosi. "Horses", "Kevin" e "There is Nothing New Under the Sun", accompagnati da un cantato che stranamente ricorda molto l'effetto epico del positive punk (tra Theatre of Hate e The Offspring), suonano splendidamente carichi di energia, creando quel coinvolgimento nell'ascoltatore, cosa che non si può dire della seguente "In My Mind's Desert", con l'inizio che anima un drammatico presagio, ovvero il ricordo di band mollicce come Lit o Sugar Ray degli anni '90, sfatato solo in parte da un suono ruvido e pesante. Fortunatamente a seguire, parte il giro in puro stile Kyuss di "Scavengers", giusto in tempo per rianimare le mie aspirazioni desertiche e ristabilire i canoni sonori per una band che quando esce dal seminato stoner non riesce ad essere convincente ed interessante fino in fondo. Quello che esce poi da questo disco, per i tre brani conclusivi, risulta essere un susseguirsi di richiami statici verso un rock mascherato di stoner, con suoni e riff, triti e ritriti, volti verso una assidua ricerca dell'orecchiabilità perfetta, della simbiosi musicale verso i maestri, come la conclusiva "One and Beyond" dove i chiaroscuri del brano riescono solo in parte, visti i soliti richiami al genere. A mio modesto avviso gli Slomosa avrebbero doti e capacità per aprirsi verso sonorità più grunge e underground della prima ora, oppure spostarsi verso un sound molto più europeo, liquido, acido e pesante alla 7Zuma7. Lavoro con otto brani altalenanti nel carattere, band con una personalità ancora acerba e un sound troppo derivativo. (Bob Stoner)

(Apollon Records AS - 2020)
Voto: 63

https://slomosa1.bandcamp.com/album/slomosa

giovedì 15 ottobre 2020

Crépuscule d'Hiver - Par​-​Delà Noireglaces et Brumes​-​Sinistres

#PER CHI AMA: Medieval Black, Summoning
Questo è il classico lavoro che avrebbe voluto recensire il mio compagno d'avventura Alain, visto il genere proposto in quest'album di debutto della one-man band transalpina dei Crépuscule d'Hiver, intitolato 'Par​-​Delà Noireglaces et Brumes​-​Sinistres'. Stiamo parlando infatti di suoni medievaleggianti, almeno per ciò che concerne la classica intro tastieristica che chiama in causa il dungeon synth. Poi quando irrompe la brutalità della seconda "Le Sang Sur Ma Lame", ritorniamo al buon aspro black metal di casa Les Acteurs de L'Ombre Productions, da sempre divulgatrice di suoni estremi ma assai ricercati. Il buon Stuurm, mente di questo progetto (qui aiutato da N.K.L.S degli In Cauda Venenum), mette in scena il suo desiderio di abbinare un feroce black con sonorità di stampo medievale con l'inserzione, seppur sporadica, di voci femminili. Il tutto evoca ovviamente i maestri Summoning, in una song peraltro dalla durata importante, con i suoi oltre 12 minuti. Interessante si, ma non eccezionale, molto meglio la successiva "Héraut de l'Infamie", che risalta le idee del mastermind originario de la Bourgogne, grazie a sonorità più mid-tempo oriented e a una maggior ricercatezza a livello musicale, anche se ci sono ancora parecchie cose da limare qua e là. Se da un lato ho apprezzato l'inserimento di una effettistica che conferisce una certa pomposità al sound di Stuurm, francamente ho fatto veramente fatica ad accettare l'asprezza delle sue vocals davvero maligne, cosi come certe linee di chitarra troppo dritte e scarne che alla fine non mi dicono granchè e abbassano il mio gradimento nei confronti della release. Fortunatamente, ci pensa poi un brano come "Tyran de la Tour Immaculée", la traccia più complessa, appettibile e melodica (seppur certi riffoni nudi e crudi) dell'intero lavoro, a risollevarne le sorti, anche qui con l'ausilio della gentil donzella a fare da sirenetta e addirittura un abbozzo di un chorus maschile. Chiaro, siamo ancora parecchio lontani dalla perfezione, l'abrasività delle chitarre non aiuta, però è quanto di meglio si possa ascoltare in questo lavoro e dovrebbe rappresentare un buon punto di partenza per il futuro del polistrumentista. Il disco però ha ancora altre tre brani (uno è un intermezzo in realtà) da sfoggiare. La lunga "Le Souffle de la Guerre" ci spara in faccia urticanti ritmiche spezzate da qualche fraseggio tastieristico e da un drumming che sembra volutamente zoppicare, immerso in un landscape tastieristico che ha modo di evocare anche un che dei Bal-Sagoth e nei synth più minimalistici, il buon vecchio Burzum. Interessante qui il comparto, per cosi dire, solistico, con quello che sembra assomigliare ad un vero assolo rock prima dell'ennesima sfuriata al limite del post black. Dicevamo dell'intermezzo medieval con "Les Larmes d'un Spectre Vagabond" che anticipa i 20 minuti (venti si, avete letto bene - l'intero album ne dura 69) della title track che riassumono, se cosi si può dire, la proposta della band in una song dal piglio sinistro immerso costantemente in quel magico ed epico contesto sonoro medievale, con una serie di trovate stimolanti. Ecco, se poi potessi dare un paio di suggerimenti, migliorerei la pulizia del suono, in alcuni frangenti un po' troppo impastato e li si corre il rischio di perdere di vista (meglio, l'orecchio) il suono dei singoli strumenti. Aggiusterei la voce principale, concedendo anche l'intervento di una porzione pulita maschile e non solo l'evocativo apporto della soave fanciulla che compare seducente anche qui. Poi quest'ultimo brano, nella sua infinita durata, è un compendio dicevo, di tutto quello che l'artista francese vuole o vorrebbe trasmettere con questo lavoro enorme e il risultato alla fine suona notevole e degno di un vostro ascolto molto molto attento. (Francesco Scarci)

Fooks Nihil - S/t

#PER CHI AMA: Vintage Rock/Psych/Blues
Per chi fosse interessato ad un tuffo nel passato del rock, quello colorato che parte da metà anni '60 e arriva circa a metà anni '70, psichedelico e floreale, dai suoni caldi e avvolgenti, eccovi una band tedesca pronta a soddisfare ogni vostra esigenza. I Fooks Nihil vengono da Wiesbaden, in Germania, ma a sentire il loro primo disco potremmo collocarli nella West Coast degli States in compagnia di Crosby Stills & Nash e i The Byrds, per percorrere strade polverose e acide o lunghe spiagge assolate in compagnia dei Ten Years After (quelli di 'Stonedhenge'), Jerry Garcia e Neil Young, tutti in corsa sulla scia del lisergico, magico e splendido 'Live Dead' dei Greatful Dead. Brano dopo brano si riscoprono usi e costumi, modi di suonare, fare e intendere la musica di un tempo che fu rivoluzionario per il mondo del rock, un collage di folklore e illuminante allucinazione. I Fooks Nihil hanno imparato bene la lezione e gli insegnamenti dei mostri sacri dell'epoca e molti delle loro influenze emergono tra le note di quest'album di debutto, fatto di dieci canzoni provenienti dal passato, suonate, registrate e volutamente rilette in chiave vintage, senza mai snaturare la fiamma della fonte d'ispirazione originale, americana o inglese che sia. La band teutonica lo fa in modo egregio, con un'ottima produzione, suoni ricercati, che portano sempre a buoni risultati. Ascoltate "Lady From a Small Town", che sembra uscita da un dimenticato cassetto della scrivania di Bob Dylan, il suono splendidamente dilatato di "Homeless" e l'incredibile vicinanza strutturale di "Misery" con la ben più famosa "Knocking on Heaven's Door" a creare una nostalgia paralizzante. Ma dentro al disco ci si trovano spunti presi da variegate band, dai Beatles di 'Sgt Peppers', passando ai Grateful Dead di 'Workingman's Dead', accenni di blues in salsa Derek and the Dominos, riff presi in eredità dai The Kinks, addirittura i primi Eagles e un sacco di chitarre cristalline e solari, accostate ad agili coretti e riverberi d'epoca, suonati oggi come se il tempo non fosse mai passato. Facile dire che il disco è ad esclusivo piacere degli appassionati di rock di quegli anni, che il sitar usato in "What's Left" sia folgorante e che l'intero album sia piacevolissimo anche se inevitabilmente derivativo. 'Fooks Nihil contiene alla fine una buona carica compositiva ed anche una certa dose di personalità, seppur privo di effettiva originalità. Un disco comunque da ascoltare e sognare immersi nei ricordi di allora. (Bob Stoner)

lunedì 12 ottobre 2020

Automatism - Immersion

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Kraut Rock
Da Stoccolma ecco giungere dritto nel mio stereo gli Automatism a stemperare quella colata lavica di black che ha saturato le mie orecchie cosi tanto ultimamente. Si perchè il quartetto scandinavo in questo nuovo 'Immersion' è autore di uno psych rock strumentale, uno di quelli che ti permettono di stravaccarti in poltrona, mettere delle luci soft e assaggiare un bicchiere di whiskey con giusto un cubetto di ghiaccio, mentre in sottofondo vanno le ispiratissime linee di chitarra della band svedese in un ipnotico viaggio musicale. Si parte con le melliflue melodie di "Heatstroke #2", un pezzo che si muove tra prog e kraut rock con una vena psichedelica fortemente preponderante. È il turno poi della eterea "Falcon Machine", una song sinuosa dal piglio post rock, che parte con somma delicatezza e va salendo gradualmente in intensità, affidando il driving della traccia al fraseggio di una splendida chitarra solista che sembra muoversi all'interno di una fitta coltre di nebbia. Le melodie sono davvero fantastiche e sembrano sopperire alla solita cronica mancanza di un vocalist in questo genere. Tralasciando mestamente questa mia sterile polemica senza fine, non mi rimane che focalizzare la mia attenzione sulle ritmiche lisergiche trasmesse dai quattro ottimi musicisti nordici. In "Monochrome Torpedo" i ritmi sono assai cadenzati, quasi da lounge bar, tra luci soffuse e qualche donnina che si muove eroticamente attorno ad un palo da lap dance, in un'atmosfera fumosa ma intrigante, di scuola pink floydiana, che tuttavia sulla lunga distanza, tende un pochino a stancare. Allora meglio skippare sulla successiva "New Box", traccia che nel suo saliscendi chitarristico, sembra nascondere melodie mediorientali, comunque inserite in un contesto costantemente a cavallo tra psichedelia e rock progressivo. Citavo poc'anzi delle atmosfere fumose, sarebbe stato ancor meglio affibbiarle a questa "Smoke Room", song dal ritmo ovviamente assai lento, in cui le chitarre sembrano lanciarsi in improvvisazioni e rincorrersi tra loro mentre eleganti percussioni creano un substrato dal forte sapore blues. A chiudere 'Immersion', ecco "First Train" altri sette minuti abbondanti di suoni tenui ma al contempo palpitanti, complice l'utilizzo di una effettistica che sembra evocare l'utilizzo del mellotronin una traccia da vaghi richiami jazz che completa un disco ambizioso, non di facilissima presa ma sicuramente affascinante per mille motivi. (Francesco Scarci)

Prometheus - Resonant Echoes from Cosmos of Old

#FOR FANS OF: Black/Death, Disembowelment
The amount of fine releases coming from the ancient lands of Greece in this tricky year has been one of the best surprises, if we can define as a surprise the high quality of releases coming from a scene, which is highly respected by fans of the black metal genre around the World. Regardless of the time of existence, both new and classic bands seem to have found a moment of inspiration to release tasteful albums in 2020. The Greek trio Prometheus, coming from central Macedonia, a place well-known in Europe´s history, does not want to be the exception and has released its sophomore album entitled ‘Resonant Echoes from Cosmos of Old’. Prometheus was founded some years ago and it took nearly a decade from its early demos to be finally able to release a first effort, entitled ‘Consumed in Flames’. Even though the quality of that album made the wait worthwhile. That was a defining moment from which the trio became more active, releasing three years later an EP and a new full album.

‘Resonant Echoes from Cosmos of Old’ is the name of the new beast, whose style is firmly rooted in the black metal genre. In contrast to other Greek acts, which have a greater melodic component, Prometheus delivers a truly crushing and sinister sound in this album, though its compositions don´t lack completely of a melodic touch. The initial part of the album contains truly heavy and dark tracks like "Astrophobos" or the impressive album opener "Gravitons Passing Through Yog-Sothoth". In these songs we can appreciate that sonically the riffs are deep, cavernous and truly shadowy. The style reminds me bands like the Portuguese The Ominous Circle, with this demolishing heaviness, which is maybe more common in the death metal genre. The pace follows the same patterns, with a combination of fast sections and super heavy slower parts, as said which are maybe more prominent in the death metal genre. Still, the genre can be tagged as black metal because of its atmosphere and also tough the vocals are as cavernous as the riffs are. When you think that ‘Resonant Echoes from Cosmos of Old’ is a furious and well-composed album, yet with a predictable development, the album changes in its second half, bringing some interesting surprises. The tastefully melodic end of the third track "Astrophobos" serves as little introduction of what we will find in this later section. The traditional structure of voice-guitars-drums, which have had the main role during the first part of this album is suddenly accompanied by some atmospheric keys in songs like the homonymous one and the excellent album closer "The Crimson Tower of the Headless God". Stylistically the compositions don´t change so much, as the vocals continue to be deep and aggressive and the riffs remarkably heavy. But Prometheus rightly adds a greater degree of melody in certain riffs of these songs and the aforementioned keys play a major role in order to give a new epic touch to these compositions. Suddenly, the album acquires new characteristics, while it evolves to its end making this effort surprising and fresh in its later stage. The epic final song of this album sums up the different angles of this album, combining the fast and slower parts, the monstrous riffs and a majestic atmospheric side, which enriches this song and makes it a glorious way to end this excellent album.

The talent that Prometheus shows in the later part makes me wonder how a full album with songs like "The Crimson Tower of the Headless God" could sound. Anyway, the contrasting two sides of this sophomore album make it a truly interesting work, because this unexpected evolution sounds refreshing and exciting. At any rate, both sides of this album have a high degree of quality and will please any fan of extreme metal. (Alain González Artola)
 

Vesania - God the Lux

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Black, Emperor
I Vesania sono nati nel 1997 come side project di Orion (Behemoth), Heinrich (ex Decapitated) e Daray (ex Vader) a cui si aggiunsero poi Annahvahr e Hatrah (poi fatti fuori) e infine nel 2000, Siegmar (ex Hesperus). Un po’ di cronistoria per dire che di gavetta i nostri ne hanno fatta, tra promo e diversi concerti in giro per la Polonia, dai quali scaturisce nel 2003, il loro debutto 'Firefrost Arcanum', un black metal tastieristico sulla scia dei primi lavori degli Emperor, mentre nel 2005 esce questo 'God the Lux'. L’album non è male, muovendosi come in passato, su coordinate stilistiche vicine a Samoth e soci, ma con una forte componente death aggiuntiva. Le atmosferiche tastiere si miscelano infatti alla perfezione con la furia death metal di “americana” derivazione: “Synchroscheme” e la successiva “Phosphorror”, forse i brani migliori dell’album, possono ricordare vagamente quanto proposto dai Dimmu Borgir; si tratta infatti, di un feroce symphonic black/death metal sulla scia di quanto fatto da Shagrath e compagni. A me 'God the Lux' piace per quel suo feeling maligno, per quel suo alternare death metal con partiture sinfoniche, mi piace per l’alone di mistero e inquietudine che le sue tastiere riescono a infondere. Le liriche poi, messe insieme da Orion, trattano citazioni di R. Bach, A. Crowley e alcuni anonimi autori medioevali. Alla fine i Vesania non aggiungono nulla di nuovo all’orizzonte, ma suonano bene e con passione, quindi perchè non dargli un ascolto, secondo me non ne resterete scontenti. (Francesco Scarci)

(Empire Records - 2005)
Voto: 70

https://www.facebook.com/VesaniaOfficial

domenica 11 ottobre 2020

Cold Lands - In the Light

#PER CHI AMA: Prog/Alt Rock, Riverside, Demians
Grenoble l'ho sempre associata alle Olimpiadi invernali che si tennero nel 1968 e alle deliziose noci provenienti da quell'area. Da oggi potrò collegarla anche alla città di origine di questi Cold Lands, in realtà una one-man-band guidata da tale Alexandre Martorano, sebbene l'ensemble nacque nel 2011 come four-piece. Ora Alex ha preso le redini del progetto e si è circondato di una serie di amici che lo hanno aiutato a completare questo 'In the Light', concentrato di prog rock che strizza l'occhiolino fin dai primi brani, a Porcupine Tree, ma altre influenze verranno fuori nel corso dell'ascolto di questo disco. Dicevo della band di Steven Wilson e soci come punto di riferimento principale per Alex, ma già da "The Liars Prayer" e dalla successiva "My Vision", ci sento anche un che dei Riverside o dei conterranei Demians. Fondamentalmente nel sound dei Cold Lands, si condensano tutti gli elementi del genere: si parte dalle tiepide (ma non troppo) note dell'intro strumentale "The Moon Circle" per arrivare velocemente alle malinconiche melodie della già citata "The Liars Prayer", che apre con la voce dell'artista transalpino in primo piano, proprio a richiamare i suoi colleghi ben più famosi. Di supporto un riffing di tipica matrice prog con il delicato accompagnamento di una seconda chitarra ben più morbida. Ottimo sicuramente il songwriting e tutta l'evoluzione di una song che si candida immediatamente ad essere la mia preferita del lavoro, forse la più diretta ed orecchiabile. Le successive tracce non tradiscono poi le aspettative: "My Vision" ha un coro accattivante e anche una buona porzione solista. "City of Water" è forse troppo morbida per i miei gusti, in quanto il riffing risulta davvero relegato a pochi secondi e tutto si gioca sull'ottimo lavoro vocale di Alexander, in una traccia però dai tratti troppo pop rock. "Cold Lands" strizza ancora l'occhiolino alla band di Mariusz Duda e soci, anche se poi la chitarra, qui ben più rabbiosa, sembra richiamare i Katatonia di 'The Great Cold  Distance'. Il brano è comunque una girandola tra suoni alla Riverside, riverberi di katatonica memoria e giochini in stile A Perfect Circle, giusto per soddisfare un po' tutti i palati avvezzi a sonorità alternative rock, in quello che invece sembra essere il brano più strutturato del disco. Un bell'arpeggio di scuola Opeth apre "Face the Light" ed ecco che si aprono ulterirori strade per il buon Alex, che pescando qua e là nel panorama più intellettuale metal, cerca nuovi proseliti per la propria causa. E mentre la ballad "Waste in the Wind" gioca a fare il verso agli Anathema più intimistici (il tutto ritornerà anche sul finale con "Here You Are"), "I Begin" prosegue sfoggiando una vena depressive rock che stenta però a decollare almeno fino alla 3/4, quando la chitarra di Alex si slancia in un bel riffing in salire. In "The Blues Men" ci sento un che dei primi Klimt 1918, mentre la grande sorpresa arriva da "He's Coming", brano che chiama in causa i The Cure e pure i The Police, in un pezzo di facile presa, forte di un bel ritmo e un ottimo cantato. In chiusura, ecco "The Winged Fog", che colpisce per le armoniche di chitarra che sembrano emulare il suono di un carillon e con la voce sempre melodiosa del bravo frontman in primo piano a completare un lavoro interessante, forse un po' troppo derivativo, ma comunque la perfetta colonna sonora per questo autunno che incombe. (Francesco Scarci)

sabato 10 ottobre 2020

Hyperborean Skies - Severances

#PER CHI AMA: Blackgaze, Agalloch
Altra creatura solista proveniente dagli States, questa volta da Oklahoma City. Si tratta degli Hyperborean Skies, guidati sin dal 2013 dal factotum Ben Stire, un altro che in fatto di progetti vanta anche Black Eyed Children, Annihilating Eden, Drowned Dead e Half-Light. Insomma Ben non riesce certo a stare con le mani in mano e dopo aver pubblicato un Lp nel 2017, un split album con gli Endless Voyage X nel 2018, eccolo tornare quest'anno con un trittico di song a dire che la band è viva e vegeta. Tre brani quindi per questo EP intitolato 'Severances', che apre con "Departing Song", un pezzo che ci introduce al mondo spirituale degli Hyperborean Skies, che apre a facili ed inevitabili accostamenti ad Agalloch e compagnia. Certo non siamo di fronte alla classe della compagine ormai sciolta di Portland, però qualche soluzione interessante nel black mid-tempo del polistrumentista americano ci sarebbe anche. Nulla da far gridare al miracolo però la vena black progressive del mastermind di quest'oggi è quanto meno da apprezzare. Le melodie ancestrali, lo splendido break atmosferico che spezza a metà il brano tra un inizio più tranquillo ed una seconda parte più tirata, lasciano intravedere le buone potenzialità del bravo Ben, capace peraltro di deliziarci con un bell'assolo conclusivo di stampo prog rock. Forse ancor meglio nella seconda "Wistful Wanders (Redux)", dove il latrato scream della voce, lascia posto ad un cantato (non eccelso a dire il vero) più orientato al versante shoegaze, accompagnato anche da una musicalità adeguata, che ci mostra un altro lato della medaglia di questa realtà statunitense. Le malinconiche linee di tremolo picking garantiscono poi un risultato emotivamente coinvolgente che non lascerà del tutto impassibili davanti alla proposta di oggi. Certo, sembra mancare un po' di spinta, una maggiore verve e originalità ma Ben sembra essere sulla strada giusta. Certo "Hold this Light" in chiusura è più un pezzo ambient che nulla aggiunge a quanto fatto finora e forse mi lascia un po' con l'amaro in bocca, in quanto mi aspettavo qualcosina in più anzichè una semplice outro. Attendiamo comunque fiduciosi nuove release in un immediato futuro. (Francesco Scarci)