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domenica 5 aprile 2020

Allhelluja - Pain is the Game

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death’n’Roll, Xysma, Spiritual Beggars
Avevo particolarmente amato 'Inferno Museum', full length di debutto datato 2004 della super band italica Allhelluja. Dopo 15 mesi, i nostri tornano in pista di nuovo pronti a sconquassare il mondo con quell’incredibile mix di suoni seventies, stoner e death’n roll. Dopo gli ottimi responsi ricevuti e le gig di supporto a nomi del calibro di Down, Raging Speedhorn, Gluecifer e Black Sabbath, la band rilascia il secondo 'Pain is the Game'. Undici brani per 39 minuti di musica sono sufficienti a spazzar via ogni dubbio che l’eccellente qualità dell’album di debutto non è stato, dopo tutto, un caso. La band di Stefano Longhi, sempre coadiuvata alla voce dal vocalist degli Hatesphere, Jacob Bredahl (sempre meno in versione growl, molto più rock’n’roll), è più incazzata che mai: la prova che sfoderano i nostri è quanto mai di classe, grazie anche al supporto di Tue Madsen (The Haunted, Sick of it All) alla consolle. Il sound di questo lavoro del combo italo-danese, in linea di massima non si discosta più di tanto dai suoni grezzi e ruvidi del debut cd: le ritmiche sono più rabbiose e sostenute, il che è forse andato a scapito di quelle influenze più ipnotiche e psichedeliche che contraddistinsero l’esordio dei nostri. Tecnicamente la band si discute, così come il gusto per la melodia; ottima dicevo la produzione, sempre attenta a porre in risalto il basso, vero protagonista di questo 'Pain is the Game'. Se avete amano il debut della band, non potrete fare a meno neppure di questo secondo gioiellino e della miscela esplosiva d’insano rock’n’roll; se non li conoscete e amate questo genere di musica, acquistatelo a scatola chiusa, tranquilli garantisco io per loro. (Francesco Scarci)

Chromb! - Le Livre des Merveilles

#PER CHI AMA: Jazz/Avantgarde Sperimentale/Prog
I Chromb! non hanno bisogno di presentazioni nè di spiegazioni per poter definire la loro musica, che altro non è che libertà espressiva a pieno titolo. Il quarto album della loro carriera, 'Le Livre des Merveilles', è un parto ostico ma alquanto geniale, un salto in una musica cerebrale tout court, senza limiti di sperimentazione o creatività. Una linea creativa che unisce la voglia di ambienti sonori molto vicini alle colonne sonore per film, con il jazz d'avanguardia, le escursioni uniche dei belgi Univers Zero e il canto a più voci progressivo dei Gentle Giant, una ventata di neo prog sempre in evoluzione, proiettato magicamente verso un sound moderno e dinamico. Sicuramente un'interpretazione originale del concetto più ampio di opera, dalla musica neo classica allo sperimentale senza tempo di casa Art Zoyd. Nulla passa inosservato e intentato in casa Chromb!, un impegnativo viaggio di scoperta per pochi esclusivi viaggiatori verso l'ignoto musicale, verso gli scritti di un libro del medioevo che raccoglie soggetti ed azioni da tutta l'Europa medioevale. Così come tra volti di santi, battaglie di scarabei, erbe magiche, pietre lunari, acque che non bollono, fantasmi a cavallo, foreste incantate, monti infuocati, donne barbute, sirene, streghe, chimere, morti viventi, licantropi e quanto altro vide nella sua vita il chierico e cavaliere Gervasio di Tilbury, il suono dell'ensemble francese evolve in un contesto maturo, intimo e serioso, lontano da frenesie e piroette stilistiche (ma non senza follie musicali), un aspetto colto, oserei dire accademico. Un collage di quattro brani, tra cui, due lunghe suite centrali e una miriade di suoni ad effetto scenico e cinematografico, riescono ad evocare tutte le visioni di quest'opera letteraria. Sicuramente uno sforzo da elogiare, un gesto compositivo coraggioso perfettamente riuscito, che solo una band nella piena coscienza della propria forza espressiva, poteva immergersi in questo intento. Un album che sarà certamente di nicchia e che per molti ascoltatori non consoni, si mostrerà come un tabù, lontano anni luce dalle mondanità del pop o del rock. In un universo tutto suo e sempre più vicino alla galassia della musica d'avanguardia più intellettuale, quest'opera eleva la band di Lione ad un grado assai alto nella scala musicale dei musicisti più rispettabili in ambito internazionale. (Bob Stoner)

Snorlax - II

#PER CHI AMA: Death/Grind
Avevo voglia di un cambio radicale di genere, un desiderio di un qualcosa che potesse martoriare le mie orecchie ed eccomi accontentato. Mi sorprende che siano gli australiani Snorlax (un nome che deriva peraltro da una specie di Pokemon) gli artefici di tale maciullazione dei miei sacri timpani, visto che si tratta in realtà di una one-man band. Brendan Auld si fa portavoce di questo ferocissimo concentrato di grind attraverso il suo full length di debutto, 'II'. Che goduria per le mie orecchie e le mie coronarie. Quando "Infernal Devourment" esplode nelle mie casse, il rischio d'infarto è infatti elevatissimo: una grandinata poderosa di suoni death grind mi si abbatte sulla testa con il growling catacombale del buon Brendan (uno che vanta altri quattro progetti estremi) ad affossarmi. La tempesta è servita e funge da antipasto per la seconda "The Resin Tomb", una scheggia dedita a sonorità malefiche, ottantatre secondi impattanti e schizofrenici (peraltro con guest star al microfono, Mathew Budge dei Consumed) che ci conducono in un batter di ciglia alla terza "The Chaos ov Iron Oppression", un brano apocalittico, non tanto per le sue atmosfere, ma per quell'aura di morte che sembra attanagliare la song, complice anche il vocione profondamente growl del mastermind di Brisbane. La song trova modo anche di rallentare vertiginosamente (almeno in un paio di occasioni), una pausa dovuta, anche se di pochi secondi, per preparci al meglio a serie successive di bombardamenti ritmici. Arriviamo a "Mind ov Maggots", la song più lunga del lotto, ben sei minuti che fortunatamente si rivelano trattenuti in rumori di sottofondo per almeno i primi 120 secondi, prima di inquinare nuovamente i nostri sensi di suoni molesti, che mostrano anche una certa ricercatezza in quei frangenti ben più ritmici e rallentati (quasi al limite del doom), proposti dal terrorista sonoro del Queensland che qui più che altrove, sembra voler tributare i connazionali Disembowelment. C'è ancora tempo per maciullare le nostre orecchie con altre due song, "Encapsulated Apocalypse" e "Impending Abysmal Wretchedness", la prima dall'incauto inizio rallentato (successivamente dinamitarda), la seconda a rappresentare un altro brano propulsivo che vede la partecipazione ala voce di Anthony Oliver dei Descent, un'altra delle creature in cui milita Brendan. 'II' è un disco breve ma efficace che non deluderà certo i fan di sonorità cosi estreme, a cavallo tra death, black, grind e hardcore. (Francesco Scarci)

(Brilliant Emperor Records - 2020)
Voto: 70

https://snorlaxbm.bandcamp.com/album/ii

venerdì 3 aprile 2020

Constellatia - The Language of Limbs

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven, So Hideous
E anche in Sud Africa il fenomeno Post-Black sta trovando terreno fertile. Dopo Wildernessking e Crow Black Sky, ecco arrivare anche i Constellatia (band in realtà formati da membri delle due citate band) a diffondere il germe oscuro laggiù, a quelle latitudini remote con un lavoro, 'The Language of Limbs', davvero degno di nota. Non tanto perchè il quartetto di Città del Capo si è inventato un genere, piuttosto per una freschezza nelle loro idee ed una capacità comunicativo-emozionale che da un po' non suscitava in me determinate emozioni. Quattro lunghe tracce per 35 minuti di musica affascinante, un'ondivaga esperienza che parte dalla sognante opener, "All Nights Belong To You". Questa è una song che rivela la doppia anima del combo sudafricano, diviso tra ritmiche e screaming feroci ed un'altra decisamente più melliflua, votata ad atmosfere post-rock e vocals femminili (a cura di Alison Rachel degli Honeymoan) che stemperano quell'oceano in tempesta che sa tanto di scuola Deafheaven e che saltuariamente sale alla ribalta con le sue splendide melodie messe a disposizione di una componente ritmica ad alto tasso di pericolosità. "In Acclamation", a differenza della opening track, parte molto più compassata, per poi rullare su territori quasi punk ed infine prendere il volo in una deflagrante e ruvida parte post-black, "addolcita" da una meravigliosa melodia di sottofondo che ne interrompe improvvisamente la furia, proponendo uno psichedelico break acustico, ove lo screaming del frontman rimane giusto in sottofondo, lasciando in primo piano uno struggente romanticismo strumentale. "Empyrean" è un pezzo più classico di black mid-tempo che probabilmente non rimarrà negli annali della musica però, quella sua seconda vibrante parte di chitarra, merita comunque un ascolto. A chiudere il disco ci pensa la traccia più lunga del disco, "The Garden", un pezzo che nelle sue note iniziali potrebbe essere stato tranquillamente concepito (e suonato) dai Pink Floyd, cosi delicato e suadente, con la voce di un'altra brava donzella, Lucy Kruger (già incontrata qui nel Pozzo dei Dannati) a palesarsi con le sole chitarre acustiche in accompagnamento. Poi, non appena la voce ruggente del vocalist le si affianca, ecco che le chitarre elettriche tornano a fare il loro sporco lavoro e la song inizia ad accelerare pericolosamente. Ma lo dicevo all'inzio del carattere instabile di questo disco, dei suoi umori, delle sensazioni che 'The Language of Limbs' è in grado di generare lungo il suo decorso, e che avremo ancora modo di assaporare sul finale del brano tra chitarrismi abrasivi e splendide atmosfere che sanciscono l'eccelsa riuscita di un disco davvero gradevole che in Italia è passato ahimè quasi del tutto inosservato. (Francesco Scarci)

(Isolation Records - 2019)
Voto: 78

https://constellatia.bandcamp.com/releases

mercoledì 1 aprile 2020

Matteo Muntoni – Radio Luxembourg

#PER CHI AMA: Post-Rock/Jazz/Neo Progressive
Matteo Muntoni è un musicista, polistrumentista e compositore sardo con poliedriche visioni sul mondo della musica. La sua ampia versatilità lo porta a spaziare con una certa libertà tra echi post rock e reminiscenze jazz ("The Jellyfish Dance Drift"), scaglie di psichedelia d'annata e minimalismo sonoro misto ad ampie aperture, sulla scia di alcune geniali intuizioni a la Steven Wilson. Così, si susseguono colori e suoni da ogni angolatura, sempre con una moderata vena rock melodica e controllata; la sua è una musica complessa, variopinta ed allo stesso tempo di piacevole impatto che scivola bene all'ascolto, che si estende addirittura in ambito pop (l'omonimo brano che porta il nome del disco 'Radio Luxembourg') senza mai scadere nella banalità, ed anche se intavola tematiche più semplici, non si priva mai di una certa personalità. Il titolo dell'album è una dedica alla storica radio, punto di riferimento per tutti gli aspiranti dj delle prime radio libere italiane degli anni settanta, nata nel 1933 a Marnach in Lussemburgo e dedita alla diffusione di musica d'avanguardia, assai diversa dagli allora programmi delle radio pubbliche europee. Il caldo tepore del jazz d'atmosfera, arpeggi cristallini e stili che si fondono in una manciata di canzoni multicolori, fanno di questo album un marchio di fabbrica, con il rock alternativo ed i chiaroscuri musicali a susseguirsi brano dopo brano, mettendo il giusto brio al disco. Un album corposo che non si perde in virtuosismi ma che mostra un lavoro di squadra molto intenso, un disco dalle molteplici qualità artistiche e dalle sentite e cercate derivazioni compositive di certo rock progressivo più soft degli anni settanta, azzardando il paragone al sound dei mitici Sweet Smoke, o al prog dei Willowglass, con punte verso il rock fusion dei Both Hands Free, ovviamente personalizzato dall'autore, rivitalizzato ed attualizzato ai giorni nostri. Un lavoro strumentale, interessante e tutto da scoprire, partendo dal mio brano preferito ossia la bella suite progressiva in chiusura dell'album, "Werewolf Cricket". (Bob Stoner)

Untitled with Drums - Hollow

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle
Secondo lavoro per questo quintetto francese che prende il nome da una canzone dei mai troppo lodati Shipping News. Questo l'indizio che aiuta ad inquadrare le coordinate di riferimento della musica degli Untitled With Drums, cosi tesa tra reminiscenze post-rock e noise di fine anni '90 e le influenze quasi progressive dei primi anni 2000, portate da band quali Tool o Cave in. Quello dei cinque francesi è un rock oscuro e di sicuro impatto, nel quale un songwriting di qualità si fa strada attraverso coltri di feedback e bassi distorti, sorretto da un drumming potente e preciso, e una voce sempre in grado di reggere il pathos. Difficile scegliere i brani migliori, laddove la qualità media è sempre piuttosto alta (con una leggera flessione forse nella seconda parte dell'album), raggiungendo notevoli picchi di intensità nell’incedere marziale della drammatica “Silver” o nei saliscendi emozionali di “Passing on”, “Amazed” o “Strangers”, con il suo drumming tribale, mentre “Hex” lambisce gli A Perfect Circle o i migliori Incubus. Quello che piace, in generale, è come ogni pezzo contenga un’evoluzione, un twist in grado di tenere costantemente vivo l’interesse, scongiurando il pericolo dato da una certa omogeneità di atmosfere di far assomigliare un po’ troppo i brani tra loro. 'Hollow' è un disco solido e compatto, fosco e potente, perfetto per chi ama i nomi di riferimento e non solo. (Mauro Catena)

(Seeing Red Records/Araki Records/Brigante Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: 74

https://untitledwithdrums.bandcamp.com/

martedì 31 marzo 2020

Noam Bleen - Until the Crack of Dawn

#PER CHI AMA: Post-grunge, Alice in Chains, Porcupine Tree
Era il 2016 quando un EP rilasciato solo in formato digitale, mi faceva sobbalzare nel suo magma chitarristico intriso di post-HC anni '90 e un song-writing tutt’altro che banale, il tutto supportato da una produzione scintillante. Dopo tre anni, i Noam Bleen cambiano nella formazione (Nick Bussi si aggiunge ad Antonio Baragone e i due si dividono scrittura, voci e strumenti, con la batteria di Silvio Centamore) e nel suono. Laddove l’omonimo EP era un concentrato incendiario di Helmet, Quicksand e primi Tool, in quest'ultimo 'Until the Crack of Dawn' le asperità vengono smussate, i ritmi rallentati e in generale si respira un’atmosfera meno rovente e più rilassata. Siamo sempre negli anni '90, ma il modello di riferimento si sposta verso i mid tempo elettroacustici che nel migliore dei casi ricordano gli Alice in Chains di 'Jar of Flies' o i Porcupine Tree meno acrobatici, anche se spesso il sound dei nostri finisce dalle parti di certo tardo grunge che personalmente non ho mai troppo amato (Bush, Live, Staind e compagnia cantante). E se è vero che l’incipit “Feeling Bleen” è un biglietto da visita di quelli che si fanno ricordare, in virtù di un cantato pinkfloydiano e delle sue bellissime chitarre, il resto del programma stenta a mantenere lo stesso livello, ma oggettivamente non era semplice. Il mood del disco si mantiene per lo più su mezze tinte fosche, sicuramente più nelle corde della band, che quando prova ad accelerare, risulta a fuoco solo parzialmente (“As of Yore” meglio di una “Opera House” un po’ goffa). I tre Noam Bleen dimostrano di saper scrivere canzoni piuttosto epiche e discretamente orecchiabili, anche se li preferisco quando enfasi e chitarroni rimangono in secondo piano e ad emergere sono una scrittura non scontata (“New Year’s Eve”, “Departure” o la stessa title track). 'Until the Crack of Dawn' è un lavoro di sicuro spessore, da approfondire con ascolti ripetuti e che piacerà non solo agli orfani del post-gunge della seconda metà degli anni '90. (Mauro Catena)

lunedì 30 marzo 2020

Frontside - Twilight of the Gods (A First Step To The Mental Revolution)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer, Morbid Angel, Dismember
Il titolo 'Twilight of the Gods' quanti ricordi è in grado di generare, almeno nel sottoscritto; speravo di ritrovarmi fra le mani un qualcosa che ricordasse almeno in lontananza il capolavoro dei Bathory e invece questi Frontside avrebbero dovuto rappresentare la risposta europea a Bleeding Through e Killswitch Engage, e forse ci riescono anche, ma pensate la mia delusione. La band polacca, in giro dal 1993 e già vincitrice in passato dei Grammy Awards del proprio paese, con il miglior album heavy metal dell’anno, ci propinano il solito death/thrash ultra aggressivo, dal killer sound, che combina voci growl a coretti clean. Poco di nuovo all’orizzonte anche per il 2006 quando il lavoro fu rilasciato: melodie calcitranti, il tipico swedish style alla Dismember, unito al classico temperamento hardcore americano della scena di New York, miscelato alla pesantezza del death “made in USA”, ecco in breve l'essenza di questo lavoro. Il risultato tuttavia è buono anche se con i soliti quattro ingredienti messi in croce, molte band riescono a raggiungere un discreto successo, mentre ci sono altre band in giro dalle idee geniali ma prive di uno straccio di contratto. A parte le mie sterili polemiche, il quintetto polacco è impressionante per quanto sia preparato: ritmiche debordanti emergono dai solchi di questo 'Tramonto degli Dei', che rende giustamente merito ad una formazione tecnicamente valida, con buone idee e un’energia vitale da vendere in quantità industriale, peccato che alla fine sia però la solita solfa. Sebbene saturo di tali sonorità, questi Frontside si presentano già da diversi anni come una delle migliori band in circolazione per il genere proposto. Dannatamente potenti, dannatamente bravi!! (Francesco Scarci)