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venerdì 27 settembre 2019

The Pit Tips

Francesco Scarci

Advent Sorrow - Kali Yuga Crown
Chrome Waves - A Grief Observed
White Ward - Love Exchange Failure
 

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Shadowsofthesun

Tool - Fear Inoculum
Cult Of Luna - A Dawn To Fear
Blut Aus Nord - Hallucinogen
 

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Alain González Artola


Ramihrdus - Scars of a Stagnant Breeze
Grima - Will of the Primordial
Diplodocus - Slow and Heavy
 

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Five_Nails

Feradur - Legion
Laniakea - At the Heart of the Tree
Super Massive Black Holes - Calculations of the Ancients
 

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Matteo Baldi

Cult of Luna - A Dawn to Fear
Fagelle - Helvetesdgar
Sneers - Heaven Will Rescue Us, We're The Scum, We're In The Sun

martedì 24 settembre 2019

Stargazer - The Scream that Tore the Sky

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Progressive, Atheist
“Chi va piano va sano e lontano” citava un famoso detto popolare. È proprio il caso degli australiani Stargazer che, solo dopo 10 anni di gavetta, raggiunsero finalmente il tanto sospirato album di debutto. Era il 2005. L’intro “...Of the Sun” prometteva sicuramente qualcosa di interessante. Il genere musicale proposto dal duo proveniente dal continente oceanico è di difficile catalogazione, per la sua natura abbastanza eterogenea, e anche a causa del periodo in cui è stata composta (dal 1994 al 2000). Il sound proposto dai nostri è sicuramente estremo, ma lontano dai clichè del death e del black metal: cerca di raccogliere influenze derivanti da un po’ tutti i generi per poi coniugarle in un lavoro caleidoscopico di tangibile follia. Lo si deduce anche dalla copertina, un dipinto appartenente alla cultura tibetana del XIX secolo, cosi come pure le altre immagini all’interno del booklet, sono di derivazione Mongolo-Cinese. Questi due australiani, un po’ come tutti quelli provenienti dalla terra dei canguri, sono dei pazzi: su una base ritmica estrema, lontana da ben definite influenze, danno sfogo alla loro concezione di musica estrema. Una sorta di “free extreme metal”, dove l’improvvisazione rappresenta l’arma vincente della band: chitarre caustiche accompagnate da un fantastico basso che ricama pezzi da brividi, urla lancinanti e grugniti profondi, break acustici, cambi di tempo, momenti di claustrofobico funeral doom, altri di rock e schegge death-grind delineano più o meno questo 'The Scream that Tore the Sky'. Se posso aiutarvi ulteriormente nella definizione di un così difficile disco, avete presente un ibrido tra Atheist, Cynic e Death? Beh, la classe non sarà la stessa, però la proposta potrebbe essere facilmente accostabile ai maestri di sempre. Ora dovete solo aprire le vostre menti e dare un ascolto agli Stargazer. (Francesco Scarci)

Relinquished - Addictivities (Pt. 1)

#PER CHI AMA: Death/Black/Doom Progressive, Daylight Dies
Come un ecoscandaglio, prosegue l'opera di perlustrazione del sottosuolo da parte del Pozzo dei Dannati. Quest'oggi facciamo tappa in Austria, per conoscere i Relinquished, un quintetto formatosi nel 2004, ma al sottoscritto rimasti totalmente sconosciuti per tre lustri, un peccato. La proposta dei cinque tirolesi di Ebbs tocca un po' tutti gli ambiti del metal estremo, ammorbiditi però da una spiccata vena dark progressive. 'Addictivities (Pt. 1)' è il terzo album per la band uscito in digitale nel 2018 (ed in formato fisico solo quest'anno) a seguito di una lunga pausa presa dopo il rilascio delle release datate 2010 e 2012. Il disco si apre con il sussurrato di "Expectations", che mostra la pasta di cui è costituito quest'ensemble. Buona la prova infatti a tutti i livelli, dalla prestazione tecnica, alla capacità di emozionare con delle ottime melodie all'insegna del melo death o ancora di ringhiare grazie alle growling vocals del frontman Sebastian "Vast" Bramböck. Più marziale ed oscura l'intro della seconda "Bundle of Nerves", una song che vede aspre accelerazioni death spezzate da parti decisamente più atmosferiche, in cui il cantante si concede anche a vocalizzi puliti ed in cui gli accostamenti che mi viene da fare in tema di influenze, sono per lo più con Daylight Dies e Opeth. La prova è convincente, anche se ci sono alcune parti di chitarra che suonano, come dire, un po' vecchiotte, old school se vogliamo essere raffinati. Questo è confermato anche dalla terza traccia "Avalanche of Impressions", aperta da un lungo sibilo di chitarra che costituirà l'elemento trainante di un pezzo che guarda al death doom come fonte di ispirazione, in un alternarsi tra ritmiche roboanti e frangenti più calibrati che richiamano la vecchia scuola dark capitanata dai The Fields of the Nephilim, ma che strizza l'occhiolino anche ai Crematory, in un pezzo che sul finire si lancia in accelerazioni assai vicine al black, senza rinunciare a fantastici assoli o partiture eleganti. Forse qui sta il punto di forza della band austriaca, che altrimenti rischierebbe di sprofondare nell'anonimato di un genere che ormai ha già ampiamente dato. I nostri non si danno per vinti, piazzano un intermezzo elettronico, "Pulse", e poi giù di nuovo lungo il dirupo del dark doom melodico con le malinconiche melodie di "Damaged for Good", in un pezzo dal piglio molto classico, che vede in qualche trovata tecnologica, il punto di connessione della band con i giorni nostri. L'inizio di "Syringe" sembra non promettere nulla di buono e il mio intuito non sbaglia, almeno nel suo primo minuto che poi lascia il posto a suoni ancora una volta più compassati, forti peraltro di ariose aperture alla sei corde che concedono un po' di respiro. Questo per dire che l'ascolto di 'Addictivities (Pt. 1)' non è proprio di cosi facile presa, forse anche per delle tematiche alquanto pesanti che narrano la storia di un tossicodipendente lungo gli alti e bassi della propria dipendenza. Nel frattempo "Zero" suona nel mio stereo e capisco immediatamente che è la mia traccia favorita (confermata poi da molteplici ascolti) per quel suo costante ondeggiare tra death, sfuriate black e partiture melodiche che torneranno anche nella seguente "Into the Black", un tuffo nei più oscuri anfratti della mente umana, tra parti dark segnate da un'angosciante linea di basso e chitarra (ottimi peraltro gli assoli), ed un cantato quasi costantemente sussurrato che individuano la traccia come la mia seconda preferita del disco. A chiudere 'Addictivities (Pt. 1)', ecco il doom ipnotico e morboso di "Void of My Ashen Soul", una song interessante e malata (con fortissimi echi a "Time", colonna sonora di 'Inception') che apre a potenziali sviluppi futuri, sperando solo di non dover aspettare più di un lustro prima di sentir ancora parlare dei Relinquished. (Francesco Scarci)

(NRI Records/Soul Food - 2019)
Voto: 74

http://relinquished.at/ 

lunedì 23 settembre 2019

Kora Winter - Bitter

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math, Between the Buried and Me
Un paio d'anni fa, proprio in questo periodo, mi apprestavo a recensire 'Welk', secondo EP dei berlinesi Kora Winter. La band teutonica torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, 'Bitter', il vero debutto su lunga distanza per i nostri cinque musicisti. Forti dell'esperienza maturata in tour con gente del calibro di Rolo Tomassi o The Hirsch Effeckt, la band ci offre otto isterici pezzi che proseguono con la proposta già ascoltata in passato, ossia all'insegna di un imprevedibile math/post-hardcore/screamo. "Stiche II" mette in mostra immediatamente tutto l'armamentario in mano ai nostri, con una dolce melodia su cui s'incagliano i vocalizzi psicotici (in lingua tedesca) del frontman; a dire il vero, il brano sembra più una intro che un pezzo vero e proprio, visto che è con "Deine Freunde (Kommen Alle in Die Hölle)" che emerge più forte la struttura canzone e con essa tutto il delirante approccio post-hardcore nelle partiture più ritmate e melodiche, che fanno da contraltare alla più ruvida e acida componente estrema della band, che sembra coniugare in poche ma efficaci accelerazioni post black, anche metalcore e mathcore, in un impasto sonoro davvero pericoloso quanto furente (ed efficace). I brani si susseguono in un altalenante mix di generi: con "Eifer" si parte in quinta, ma poi un chorus ed una linea di chitarra alquanto dissonante, ci conducono in territori stravaganti, quando, fermi tutti, la proposta dei Kora Winter, si sporca di influenze alternative, con tanto di voci pulite in una sorta di emo un po' ostico da digerire, almeno per il sottoscritto, che da li a pochi secondi, avranno comunque il tempo di abbracciare altri suoni che dire cattivi è dir poco. Ma niente paura, si cambia ancora registro con la spettrale title-track, che al suo interno sfodera sverniciate di violenza estrema, rallentamenti furiosi, aperture al limite dell'avanguardismo e di nuovo montagne di riff e rullanti infuocati, in un'altalena musicale ed emozionale spaventosa (che vede addirittura l'utilizzo di vocals evocative in stile Cradle of Filth). C'è di tutto qui dentro e se non si è abbastanza flessibili di testa, il rischio di switchare al nuovo album dei Tool, potrebbe rivelarsi assai elevato. Ancora suoni stravaganti con l'incipit di "Coriolis", in cui batteria e chitarra (e poi anche voci, in tutte le forme possibili) s'inseguono come in un gioco di guardia e ladri, in oltre otto minuti di frastagliatissime e funamboliche ritmiche che portano i nostri ad ammiccare un po' a destra e un po' a manca, e relegando alla seconda parte del brano, eleganti momenti post metal sulla scia dei connazionali e concittadini The Ocean. Prova convincente non c'è che dire, confermata anche dalla folle proposta di "Wasserbett", un pezzo che col metal, fatta eccezione per le pesanti chitarre, sembra aver poco a che fare. Scendono colate di malinconia, almeno a tratti, per la corrosiva "Das Was Dich Nicht Frisst", tra le song più tecniche dell'album, per questo ancor più complicata e sperimentale, soprattutto nella sua parte vocale. A chiudere quest'intrepida opera prima dei Kora Winter, ecco arrivare "Hagel", un'altra piccola perla che, se non avesse avuto il cantato in tedesco (per me il vero limite della band ad oggi), sarebbe stata ancor più convincente, visti i richiami anche ai Cynic e pure uno spettacolare assolo conclusivo. Per il momento accontentiamoci dell'incredibile portento sonoro offerto dai nostri, in attesa di altri sconvolgimenti futuri. (Francesco Scarci)

(Auf Ewig Winter - 2019)
Voto: 76

https://korawinter.bandcamp.com/album/bitter

Vardan - Serial Demo III

#PER CHI AMA: Black, Burzum
Dall'Italia con furore: è il caso di Vardan, one-man-band catanese autore di oltre 30 lavori (tra full length e split) negli ultimi sette anni, un record, anche se il polistrumentista ci tiene a sottolineare che si tratta di lavori concepiti in tempi diversi. Quest'oggi il mastermind siculo si presenta con una demo di due pezzi, e chissà poi perchè una demo dopo questo mare di release, costituita da un sound che prosegue sulla scia del black depressive desolante espresso nei precedenti lavori, un sound che evoca inequivocabilmente il buon Burzum o gli Xasthur. È palese sin dall'opener "III - 5", dove sul rifferama monolitico di scuola norvegese, poggiano i vagiti del musicista nostrano. La proposta puzza inevitabilmente di già tremendamente sentito, però le melodie di sottofondo sulle quali poggia l'architettura del pezzo, hanno comunque il loro fascino. C'è molto del conte Grishnakh nella musica di Vardan, forse ancor di più nello spettrale black mid-tempo di "III - 6". La cosa che forse potrebbe far storcere il naso ascoltando questo 'Serial Demo III' potrebbe essere una certa ridondanza di fondo nelle linee di chitarra ma fortunatamente il lavoro si ferma dopo soli 14 minuti, il tempo sufficiente per non farci stancare della natura monocorde di questo two-track. (Francesco Scarci)

Wires & Lights - A Chasm Here And Now

#PER CHI AMA: Post-Punk/Darkwave, Joy Division, Bauhaus, The Cure
La teatralità e l’inganno sono strumenti potenti” è una frase ricorrente nella trilogia del Cavaliere Oscuro, con la quale il regista Nolan sottolinea come il nostro Batman, tanto privo di superpoteri quanto ricco di ingegno e furbizia, riesca ad avere la meglio su avversari più forti e numerosi grazie ad astuti trucchi.

In campo musicale non ci sono ovviamente vite innocenti in gioco, tuttavia al giorno d’oggi è in atto una sorta di lotta per la sopravvivenza in scene ormai saturate da mille proposte ed è quindi naturale che molte band scelgono di utilizzare alcuni “trucchi” per emergere, come puntare stilisticamente sull’usato sicuro e ammantarsi di un’estetica ben riconoscibile, in modo da stuzzicare l’attenzione di uno specifico target di pubblico.

Gli Wires & Lights con il loro atteso album 'A Chasm Here And Now' non si stanno certo facendo beffe di noi, anzi: ci troviamo di fronte ad un solidissimo album post-punk pensato e (ben) costruito per soddisfare le preferenze degli amanti di Joy Division, Sisters Of Mercy e The Cure, rimaneggiando i capisaldi del genere attraverso un sound più moderno.

L’intenzione della nuova creatura del cantante-chitarrista Justin Stephens (già noto nell’ambiente grazie al precedente progetto Passion Play) è evidente fin dalla prima traccia “Drive”, un dirompente singolo trascinato dalle dinamiche di batteria e dai giri avvolgenti del basso, dove le atmosfere sognanti della chitarra lasciano spazio ad esplosioni di rumore che si spingono fin quasi allo shoegaze.

Il tema portante di questo disco è per lo più la lotta contro i demoni interiori della depressione, ben rappresentata dalle atmosfere decadenti e tormentate che gli Wires & Lights ricamano attraverso le varie sfumature di post-punk, gothic rock e dark wave. Tuttavia, la band sembra voler descrivere uno scontro in cui il male è infine destinato ad essere sconfitto: ecco perché nello sviluppo di brani come “Swimming” e “Cuts”, traspare sempre una chiara determinazione ad uscire da queste paludi mentali e non mancano raggi di luce pronti a squarciare le ombre.

I dieci pezzi dell’album, quasi tutti della durata compresa tra i quattro e i cinque minuti, si susseguono piacevolmente riuscendo a mantenere vivo l’interesse dell’ascoltatore, tra raffinati richiami al passato e l’inserimento discreto di elementi moderni e più catchy. Menzione speciale per la struggente “Anymore”, l’evocativa ed etera traccia dark-wave “24h” e la seducente “Sleepers”, riuscitissime canzoni che si elevano su un insieme comunque di buonissimo livello.

Cosa manca dunque? Forse un po’ di temerarietà nell’andare oltre confini ben definiti: i nostri amici berlinesi mostrano di essere a proprio agio nell’affrontare i bassifondi del post-punk, sfoderando tutto il campionario di riferimenti e cliché del genere, ma evitando abilmente di apparire troppo stereotipati. Il costume di nuovi alfieri di questa scena pertanto calza a pennello agli Wires & Lights e bisogna ammettere che di 'A Chasm Here And Now' non è difficile innamorarsi, ma va anche detto che potrebbe essere altrettanto facile dimenticarsene. (Shadowsofthesun)

domenica 22 settembre 2019

Bodily Ruin - Malevolent Existence

#PER CHI AMA: Death Old School
Un'altra demo sulle pagine del Pozzo, questa volta ad opera degli americani Bodily Ruin. La band originaria di Los Angeles, ci propina un 3-track di death metal di vecchia scuola, in cui il tempo sembra essersi freezato ormai a 30 anni fa. Capisco la nostalgia per i grandi del passato, ma francamente non se ne può più, bisogna andare avanti, portar fuori il carrozzone da quel pantano in cui è tragicamente finito. Quindi servono idee e non scopiazzamenti ai primi Death come accade in 'Malevolent Existence', perchè poi la mannaia del recensore cattivo si abbatte senza pietà sulla testa della band di turno. Dei tre pezzi, l'unica nota significativa va ad uno stravagante (ma brevissimo) assolo che compare in "World of Nothingness", tutto il resto è francamente noia. (Francesco Scarci)

martedì 17 settembre 2019

Isonomist - Pillars

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Meshuggah
Degli Isonomist dal web ho cavato meno di un ragno dal buco, zero informazioni a parte il fatto che il quartetto dal Texas si etichetta come progressive band. Ecco, partirei già col dire che allargherei un po' le maglie di questo stretto vestito, visto che la traccia di apertura di 'Pillars' ci consegna piuttosto una band che viaggia nei binari del metalcore. Comunque a parte questa necessità di etichettare le cose, c'è da dire piuttosto che la band propone cinque song parecchio vertiginose per ciò che concerne tempi dispari, ritmiche sghembe, melodie poliritmiche, tutte caratteristiche che identificano il djent, o comunque suoni affini ai Meshuggah o ancora una certa vena deathcore tipicamente americana. "Loss", "By a Thread", "Beta" e via via dicendo anche le altre song, viaggiano sui binari alquanto imprevedibili di tale musica, e in cui la definizione che ritenevo alquanto stretta di progressive, si potrebbe applicare esclusivamente per una certa perizia tecnica che contraddistingue questi musicisti. Per il resto, è il classico sound a cavallo tra metalcore e deathcore, con linee di chitarra non proprio lineari, i famigerati quanto stra-abusati stop'n go, le vocals che si muovono tra pulito e growl, e poco altro da segnalare, se non una più complicata fase digestiva rispetto agli originali, in quanto qui la melodia non è proprio una delle caratteristiche della casa, visto che il sound rischia addirittura di incancrenirsi in territori più estremi, come accade nella quarta "Fading". Manca ancora una traccia a chiudere l'EP, "Confessional", e apparentemente, sembra essere anche il brano più accessibile, sebbene ascoltandolo potreste pensare che il mio sia un eufemismo. Comunque 'Pillars' è un lavoro che rimane raccomandato per soli amanti del genere, per gli altri suggerisco come sempre di volgere lo sguardo agli originali. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 60