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lunedì 3 luglio 2017

Dirt – Daysleeper

#PER CHI AMA: Crust/Mathcore
Un digipack piuttosto essenziale e “materico” accompagna il cd di questi Dirt, band canadese che di primo acchito non fornisce indizi di sorta sul proprio messaggio musicale. Copertina essenziale, font discreto e nessun rimando grafico a qualsivoglia genere / ambito musicale, fanno da cornice alla proposta musicale della band. Mi appresto quindi ad intraprendere l’ascolto di questo album senza un’idea ben che minima di cosa mi aspetti. L’intro passa liscia all’orecchio, non particolarmente malinconica, né lugubre, né bizzarra...e si passa così al vero e proprio contenuto dell’opera. Bam! entrata a piè pari sui timpani del malcapitato ascoltatore! Appare subito evidente il range, la categoria a cui la band appartiene. Si tratta di una miscela di crust e mathcore, o almeno fa figo oggi giorno chiamarlo così. Stiamo parlando di quel thrash tecnicissimo, iperviolento e freddo, portato in auge nel cuore degli anni '90 dai Meshuggah con quel capolavoro di 'Destroy Erase Improve'. I Dirt denotano una pregevole perizia tecnica, una padronanza degli strumenti innegabile e possono senza dubbio piacere a tutti gli amanti del genere. Io ho ascoltato il cd ripetutamente, lasciandomi pervadere dalla glacialità industriale della loro musica, e cercando nell’album quel “quid” che mi potesse emozionare o rimandare quantomeno a qualcosa di intimo. Ebbene, duole ammetterlo, questo “quid” non è mai giunto. Al di là della parossistica ossessività e del furore post-umano non ho purtroppo trovato alcunché degno di menzione. Ritmiche sghembe, tempi dispari ( mi raccomando eh, MAI e dico MAI un tempo pari adatto ad un sano headbanging!!!) e urla lancinanti procedono senza soluzione di continuità per l’interezza delle tracce presenti. Davvero il cd risulta monocromatico e stantio, sterile e sordo ad ogni coinvolgimento lirico o esistenziale. Agli amanti dei tecnicismi, del freddo mathcore e del heavy-listening questo album potrà anche piacere, la preparazione tecnica dei Dirt è fuori discussione. Per qualcosa di più profondo, coinvolgente ed emotivo...next please! (HeinricH Della Mora)

domenica 2 luglio 2017

Yugal – Chaos and Harmony

#PER CHI AMA: Thrash/Deathcore
Hanno cercato il salto di qualità necessario per farsi notare e ci sono riusciti. La band bretone degli Yugal, sotto le ali protettrici della Dooweet Records e dopo un paio di buoni EP, arriva finalmente al full length in ottima stato di forma, affilando le armi in maniera più che perfetta e aggiustando la mira sul sound ricercato. La scrittura dei brani non varia molto dai precedenti lavori ma qui s'intensificano le belle parti acustiche usate spesso per tagliare l'aria opprimente di un pesantissimo metal dai tratti moderni e di matrice thrash. Il risultato è un convincente miscuglio di chiaroscuri musicali, ben calibrato e progettato a dovere. Un ordigno sonoro carico e pronto ad esplodere, dove le capacità tecniche della band si sentono ma non si sporgono mai ad inutili manierismi virtuosi e dove l'equilibrio tra esotica, mistica, melodia etnica medioorientale e metal estremo è sempre dietro l'angolo, come in "From This Day I Will Rise" che potrebbe essere imparentata con i Sepultura di un tempo rivisitati da un'angolatura etnica diversa, oppure gli Orphaned Land rivisti in salsa e violenza che collima col thrash dei Testament. Il suono di 'Chaos and Harmony' si snoda nervoso e frastagliato lungo l'intero cd, pieno di cambi di direzione e atmosfere pesanti e violente, sfoggiando una batteria stellare e composizioni ricche di particolari venature in territori sonori tutti da scoprire. Dieci brani per qualcosa in più di una mezz'ora di musica compatta ed intelligente, per farci innamorare di una band matura e preparata. L'artwork suggestivo è degno di nota, cosi in perfetta sintonia con la musica della band. Alla conclusiva title track va poi tutta la mia ammirazione per gusto, sensibilità, potenza e aggressività. Yugal, una band sicuramente da tener d'occhio! L'ascolto consigliatissimo! (Bob Stoner)

Afraid of Destiny - Agony

#PER CHI AMA: Depressive Black, primi Katatonia
A marzo lo avevo annunciato che il nuovo album degli Afraid of Destiny sarebbe uscito quest'anno, d'altro canto ce l'aveva confermato lo stesso frontman Adimere durante un'intervista con la band. Eccoci quindi accontentati, 'Agony' è il secondo disco per la band trevigiana, che nel frattempo sembra aver abbandonato il suo status di one man band per divenire un trio. Il processo di stesura dei brani è durato parecchio, se pensate solo che le canzoni sono state scritte tra il 2013 e il 2014 e le voci sono state registrate successivamente, a cavallo tra 2016 e 2017. Insomma tante riflessioni hanno portato a questo nuovo esempio di black depressive, che riprende là dove aveva lasciato con un sound desolante di scuola burzumiana. Quello che balza però subito all'orecchio durante l'ascolto di "A Journey into Nothingness (Part 1)", è un maggior lavoro a livello di arrangiamenti, con il sound molto meno secco e stringato che in passato, sebbene anche qui la produzione si confermi non propriamente bombastica. Le ritmiche sono lente e compassate e lo screaming del frontman è probabilmente la cosa più degna di nota della prima song (esclusa la lunga intro) a cui è collegata la seconda parte, ancor più lenta, carica d'atmosfera e che chiama in causa in un paio di frangenti un che dei Katatonia di 'Dance of December Souls' e dei Novembre di 'Wish I Could Dream it Again...'. La musica è rilassata, decadente, atmosferica e nell'arpeggio iniziale di "Rain, Scars, and the Climb', rievoca nuovamente la band capitolina e non posso che esserne felice, in parecchi si sono dimenticati infatti da dove arrivano Carmelo Orlando e soci. Le linee di chitarra sono malinconiche e nel loro semplice incedere, nascondono una vitalità inaspettata che emerge come lo sbocciare di un fiore in primavera, il tutto dopo un atmosferico break centrale. La musica mi piace, è interessante, carica di significati e induce a pensieri, belli o brutti che siano. È riflessione, poesia, dramma, pace e un'altra moltitudine di sensazioni che si spengono solo con il suono del temporale in sottofondo e che introduce a "Autumn Equinox", song più minimalista ma che vede una guest star alla voce, A. Krieg, vocalist teutonico tra gli altri di Eternity, Darkmoon Warrior e ora anche dei Lugubre. È una song che vede peraltro per la prima volta nel disco, un'accelerazione post black, che comunque trova il suo perché nel contesto disperato del disco. "Hatred Towards Myself" compariva già nel precedente EP omonimo come traccia oscura e paranoica, e forse è quella che ora ha meno a che fare con le rimanenti tracce incluse in quest'album; resta comunque apprezzabile. C'è ancora tempo di ascoltare "Into the Darkness", song dall'approccio vocale iniziale un po' più diverso, ma di cui va apprezzata sicuramente una coralità a livello vocale e di cui sottolineerei ancora una volta il buon lavoro fatto a livello di arrangiamenti, con il sound decisamente più pieno. C'è ancora ampio margine di manovra per migliorare sia chiaro, vista peraltro la presenza di un bell'assolo nella traccia che conferma una maggiore maturità acquisita dall'ensemble veneto. A chiudere il disco ci pensa la cover dei Lifelover, "Sweet Illness of Mine": gli va male agli Afraid of Destiny, visto che non sono mai stato un fan dell'act svedese. Tuttavia, devo ammettere che il brano si mantiene piuttosto fedele all'originale soprattutto per le vocals pulite, mentre non mi fa impazzire la batteria, qui troppo sintetica. Insomma, un gradito ritorno per la compagine di Treviso che è sulla strada giusta per trovare ed affermare la propria personalità e che nel frattempo ha anche avuto modo di piazzare una ghost track finale in acustico, tutta da gustare. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2017)
Voto: 70

https://afraidofdestiny.bandcamp.com/album/agony-2

HgM ‎– Sintered Chrome

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Ambient/noise per questa one man band italiana, facente parte della squadra di musicisti estremi e terroristi sonori DIY, che sfilano per la gloriosa Human Cross Records, etichetta bosniaca. L'enigmatico musicista che si cela dietro all'acronimo HgM (in realtà (H)organismo. (G)ravemente. (M)alato), è in realtà Massimiliano Mercurio, che in passato è stato recensore per due importanti webzine. Il mastermind torinese in questo malato 'Sintered Chrome' si esprime in un monolitico attacco sonoro di oltre trenta minuti dai tratti omogenei e dalla voglia di sconvolgere e intorpidire i pensieri degli ascoltatori. Ambient siderurgico e industriale senza la benché minima sorta di percussione, figlio di un connubio tra onde marine scagliate verso di uno scoglio, sentore cosmico ed il rumore odioso di una fabbrica metallurgica udita dall'esterno ed in lontananza. Una continua diramazione dello stesso tema/rumore/ambiente sonoro fa nascere questa suite che per certi aspetti affascina e ammalia con la sua incessante ed oppressiva ripetitività, dall'altra fa nascere il desiderio più acuto di fuggire lontano da tutto ciò che potrebbe essere espresso in questa musica torturatrice se messa in parallelo alle prigioni del nostro essere. In questa mezz'ora o poco più, rischierete di vedervi crollare il mondo addosso, imprecare, riflettere e alla fine impazzire senza nemmeno darvene un motivo. Tutta quest'opera rasenta la follia ma si apre alla geniale ispirazione artistica tout court. L'unica nota negativa va ad un artwork che non dà il giusto supporto al calibro dell'opera, un vero peccato. 'Sintered Chrome': un lavoro esclusivo in sole 30 copie per misantropi intellettuali, rumorosi ed illuminati. (Bob Stoner)

(Human Cross Records - 2017)
Voto: 70

https://hgmmusic.bandcamp.com/track/sintered-chrome

Dead Season - Prophecies

#PER CHI AMA: Thrash/Progressive, Nevermore, Anacrusis
Francia, tanto per cambiare. Questa volta però non siamo al cospetto di una qualche band di black metal avanguardista, visto che i Dead Season propongono un concentrato sonoro che volge il proprio sguardo ad un thrash sicuramente robusto ma dai tratti progressivi. Questo è certificato dall'iniziale "The New Man", apripista del secondo album 'Prophecies'. L'approccio del quintetto di Lille evidenzia immediatamente quanto i nostri siano potenti musicalmente, innalzando un muro sonoro enorme, allo stesso tempo rivelando di essere dotati di una certa vena prog. Da un punto di vista vocale poi c'è un'alternanza tra cantato growl, scream ed uno pulito di "arcturiana" memoria. A livello ritmico, oltre a quello dei chitarroni, è notevole anche il lavoro del bassista e del fantasioso apporto del drummer. Mi aspettavo qualcosa da un punto di vista solistico, ma qui non è pervenuto. I riffoni di "Blood Links Alienations" ci introducono ad una canzone di per sé oscura, che evidenzia ottime melodie di fondo con un lavoro in background delle chitarre davvero maestoso, che tra cambi di tempo, ceselli vari, stop'n go, il tutto viene poi esaltato dalla performance vocale del carismatico leader, a rendere la proposta di questi cinque musicisti, di assoluto valore. Se devo trovare qualche punto di contatto della band transalpina con altre in giro per il mondo, i primi nomi che mi vengono sono sicuramente i Nevermore e gli Anacrusis. Mi lamentavo di una penuria di assoli, ma l'attacco di "Prohibition of God" non può che rendermi felice: i nostri danno infatti prova di come si possa coniugare thrash metal con sonorità alternative, con echi di Faith No More e Korn che si combinano con un rifferama a tratti devastante, ed un finale affidato al ruggito delle chitarre e ad un poliedrico cantato che nello stesso frangente, utilizza growl, scream e clean vocals. Dirompenti, non c'è che dire, anche in versione più dark, come nella successiva più compassata "Homogenetic", una traccia che sembra evolvere verso lidi math con ritmiche schizofreniche e pattern jazzati inseriti in un contesto death metal. Imprevedibili, ecco un altro aggettivo da aggiungere alla sfilza di complimenti che si potrebbe attribuire al combo transalpino, visto che in un bridge atmosferico di basso, fa capolino anche una voce femminile. Poi i Dead Season ripartono per la tangente con suoni deviatissimi, che innalzano ancora il livello qualitativo di un disco che forse corre il solo rischio di essere un po' troppo lungo e complesso. "Guidestones" è una funambolica traccia che si muove tra speed metal, alienanti rasoiate black/death, progressive e tanto tanto altro. Di carne al fuoco qui ce n'è parecchia, tra l'altro in grado di soddisfare tutti i palati, dai più raffinati e delicati amanti dell'heavy prog, fino ad arrivare ai fan più scatenati di sonorità estreme, il sottoscritto in primis, rimasto letteralmente folgorato dalla proposta dei Dead Season. L'unico problema che vedo è quello di non riuscire forse a completare l'ascolto dei 60 minuti di 'Prophecies' in un'unica botta. La strumentale "The Four Minutes of Hate" intanto corre nel mio lettore e i riferimenti ai Cynic e a tutto il movimento techno metal, si sprecano. Un po' di calma in apertura ad "Endless War", giusto il tempo di acclimatarsi per poi rilanciarsi nei tortuosi giri chitarristici di questi fantastici musicisti, di cui mi preme sottolineare nuovamente la prova dei due funamboli, bassista e batterista. Potrei scrivere ancora a lungo visto che i brani si susseguono a ripetizione e allora mi soffermo solo per segnalarvi un altro paio di brani: la forza arrembante di "Sexual Binging" e la spettrale "Ministry of Truth", assai intrigante nei suoi break acustici di chitarra e basso e nei suoi epici cori. Alla fine 'Prophecies' è un lavoro granitico, complesso, maturo e dinamico, semplicemente eccellente. (Francesco Scarci)

giovedì 29 giugno 2017

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Framheim - Demo 2017

#PER CHI AMA: Black Old School, Burzum
Interessante sapere che il moniker della band di quest'oggi sia anche il nome della base antartica posta dall'esploratore Roald Amundsen sulla Barriera di Ross nel 1911, come punto di partenza per la conquista dell'Antartide. È forse un interesse storico al limite del morboso quindi a portare i nostri a definire il proprio sound quale "Polar Black Metal". Sicuramente, l'approccio musicale proposto dai Framheim è glaciale, testimoniato non solo a livello lirico ma anche da quel vento sferzante che apre "Lu Fredd", opening track in grado di palesare fin da subito le influenze ancestrali della band italica, che ci riconducono direttamente ai primordi del black, quello che vedeva nelle cavalcate soniche di Burzum un prototipo da seguire, con quei contrasti fra un rozzo e minimalista riffing e quelle parti più atmosferiche guidate da un uso massiccio di sintetizzatori, in grado di rendere la proposta in un qualche modo affascinante. I Framheim seguono quel filone, forti di una registrazione casalinga che sprigiona un mood atavico che farà certamente la gioia di coloro che rimpiangono gli anni '90. Heliogabalus e F. imbastiscono la loro architettura sonora in ugual modo anche in "San Giuseppe Due" (il motoveliero italiano della storica spedizione in Antartide), poggiando su delle chitarre in tremolo picking accompagnate da una furente batteria e con le screaming vocals in sottofondo che fanno percepire appena la loro presenza. Riascoltando l'EP, non ho potuto che apprezzare inoltre il tentativo dei nostri di proporre una forma più primitiva del black metal moderno espresso dai Progenie Terrestre Pura, attraverso il loro sound desolante e al contempo atmosferico. Chiaro, con sole due tracce non è cosi semplice fornire un giudizio strutturato, ma per lo meno è sufficiente per farsi un'idea iniziale di quello che sono e forse diverranno i Framheim. (Francesco Scarci)

(Xenoglossy Productions - 2017)
Voto: 65

https://framheimblackmetal.bandcamp.com/releases

mercoledì 28 giugno 2017

Antipathic - Autonomous Mechanical Extermination

#PER CHI AMA: Slam Brutal Death, Osiah
Un tre tracce piuttosto stringato quello dei brutal deathsters italo-americani Antipathic, ensemble che raccoglie la performance di due musicisti provenienti dagli statunitensi Human Repugnance e dai nostrani Zora. Comunque i sei minuti a disposizione del duo formato da Tato e Chris, lascia intravedere ottime sonorità estreme, con gli elementi tipici del genere brutal americano, ma con qualche deviazione al tema. Nella opener ad esempio, "Apparatus", accanto alle ritmiche tiratissime e al classico cantato in pig squeal, i nostri si lasciano andare per alcuni secondi ad un rallentamento da brivido in stile Disembowelment. La registrazione è corposa e bombastica, mentre la ritmica in "Molecular Deviations" assomiglia piuttosto ad una mitragliata affidata ad un M60, dove i proiettili sembrano i vocalizzi isterici del bravo Tato. Ultima è la title track, anche la traccia più lunga, visto che occupa metà tempo dell'EP: l'inizio raccoglie rumori di battaglia, poi si scatena il riffing vetriolico, a sprazzi molto ritmato con la timbrica maialesca del frontman a completare la prima battaglia targata Antipathic. Da monitorare. (Francesco Scarci)