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martedì 20 ottobre 2015

In Each Hand A Cutlass - The Kraken

#PER CHI AMA: Progressive/Post Rock, Porcupine Tree, 65DaysOfStatic
"Ok, ecco un altro disco post-rock". Ho commentato così, appena ricevuto tra le mani il curatissimo packaging di 'The Kraken' del quintetto In Each Hand A Cutlass, originario di Singapore. Ma mi sbagliavo, dio se mi sbagliavo. Questo disco è un capolavoro. Andrebbe, che so, fatto ascoltare a scuola, anziché perdere le ore con "La Cucaracha" al flauto. Bisognerebbe farlo ascoltare a tutti quelli che pensano che il post-qualunque-cosa sia finito (me incluso, fino ad ieri), che Mogwai, Isis, Pelican, Sigur Ròs e Karma To Burn abbiano sostanzialmente già detto tutto quello che c’è da dire in proposito. Bisognerebbe spararlo a forza dalle casse di tutti i supermercati, i centri commerciali e le ascensori del mondo, dicendo: “Sentite qua che roba”. In 'The Kraken' c’è tutto: ci sono le lunghe atmosfere oniriche costruite con crescendo magistrali (“Heracleion”), ci sono dosatissimi interventi elettronici che ricordano i 65DaysOfStatic e i Nine Inch Nails (“Seagull 1751”, “Combing Through The Waves”), c’è il prog contemporaneo dei Porcupine Tree, c’è il pop sbarazzino con i clap di mani sul rullante stile EDM (“Satori 101”), c’è il riffing distorto e il blast beat, c’è un bridge jazz (“The Kraken: An Intermission”), ci sono scale maggiori e minori, arpeggi e cavalcate rock, dinamica e groove, ossessione e follia; ci sono delicatezza, leggerezza, paura, inquietudine, allegria, trionfo. Ci sono decine di generi, atmosfere, momenti, poesia, emozioni, tutti concentrati negli oltre 60 minuti del disco. C’è una spaventosa cura dei dettagli e degli arrangiamenti, soprattutto per un disco autoprodotto. C’è una registrazione praticamente perfetta, che valorizza ogni strumento, permettendo di assaporare ogni nota, ogni rullata, ogni crescendo. Ci sono dei musicisti di una tecnica invidiabile – la sezione ritmica è magistrale, un batterista con questo gusto e questa fantasia non lo ascoltavo da tempo; e i suoni di tastiera? straordinari – e di una umiltà talmente spiccata da non trasformare nessun momento del disco in un onanismo autoreferenziale (“Senti qua che sweep picking a 250 bpm che riesco a fare”). Manca la voce? D’accordo. Ma non ne sentirete la mancanza. Mancano una direzione unificata, un focus, un preciso scopo in questo disco? Sbagliato. Il focus c’è eccome: esplorare la musica in tutte le sue caleidoscopiche sfaccettature. Un compito riuscitissimo. 'The Kraken' è un lungo viaggio, quasi cinematografico, nell’oceano della musica contemporanea, pieno di orrendi mostri e romantiche visioni. Un viaggio che vi consiglio di fare. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 90

domenica 18 ottobre 2015

Megatherium - Retrosky

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Sludge
I Megatherium sono tornati, quindi mollate tutto, bambini compresi e venite ad abbracciare il culto della bestia selvaggia. Il quartetto veronese è relativamente giovane (quattro anni all'anagrafe), ma dietro le quinte si celano musicisti che bazzicano la scena musicale da ben quindici anni e con un curriculum di tutto rispetto (Aneurysm, Gen Marrone, Mr. Wilson, Lokomotive, Elicotrema). Ci sono pertanto tutti gli ingredienti per aspettarci una band solida, matura e di qualità, e difatti, i Megatherium, dopo una pausa riflessiva, tornano in pompa magna con un EP di quattro brani che anticipa il nuovo full length, previsto a breve. 'Retrosky' è in parte scaricabile gratuitamente da Bandcamp e così anch'io ho seguito la via del digitale per questa recensione. Il primo brano si intitola "Ghost of the Ocean" ed è una via di mezzo tra una ballata stoner e una traccia doom, quindi lentezza morigerata e il tipico impatto del genere. Le chitarra avanzano con i loro rifferama in stile Down e Conan con suoni belli pieni e arrangiamenti che deliziano le nostre orecchie per accuratezza e stile. Per quando riguarda la sezione ritmica si è scelto un taglio classico-vintage, con il rullante definito come pure la grancassa. Nonostante il genere musicale, la registrazione riesce ad accontentare tutti, purtroppo le frequenze basse sono un po' limitate dal digitale via web, ma un bel cd o tanto meglio un vinile, renderebbero giustizia a questo EP. Il cantato è un altro elemento di valore che aggiunge interesse al lavoro dei nostri, offrendo una timbrica matura e trascinante che convince e che accompagna l'ascoltatore per tutti i quasi cinque minuti del brano. La seconda traccia è la title track, un vero e proprio capolavoro compositivo e melodico che rappresenta in pieno lo stile Meghaterium. Nei suoi otto minuti abbondanti, la band propone un folto numero di stati emotivi e mentali, passando da un mood psico-depresso alla rabbia più furibonda. Un'onda d'urto che incute ancor più timore perché viaggia a rilento per cui abbiamo tutto il tempo per realizzare che la piena ci investirà brutalmente segnando la nostra fine. Gli strumenti confermano il buon lavoro precedentemente fatto, ma stavolta il vocalist si esibisce in un cantato dall'indole quasi svogliata, a mio parere una trovata azzeccata che dà un taglio completamente diverso, decisamente intrigante. In seguito si trasforma in una sorte di inno a qualche belva satanica, con anche una sfumatura ruvida a mo' di ciliegina sulla torta. Buono l'uso delle doppie voci, mentre gli arrangiamenti possono risultare già sentiti, ma quando hai quindici anni di musica alle spalle, tutto il tuo background esce fuori prepotentemente come un alieno che ti squarcia il petto. Gli altri due brani sono "Betrayers Everywhere" e "Refuse to Shine", il primo risulta essere complesso e introspettivo, dove il vocalist si esibisce con uno stile alla Chris Cornell assai convincente. Il secondo è un'altra bordata con un buon lavoro di post produzione fatto di cori, effetti e quant'altro che dona un taglio moderno al brano. Peccato per la mancanza dei synth che probabilmente torneranno nel prossimo lavoro; avrebbero sicuramente aggiunto altre sfumature al già buon lavoro di arrangiamento fatto in studio. Direi che potevate iniziare già a scaricare l' EP alle prime righe della recensione, quindi se siete arrivati alla fine vuol dire che i quattro brani non hanno fatto altro che stuzzicare la vostra bramosia di stoner/doom e non vedete l'ora anche voi di mettere mano al prossimo album. Io di sicuro. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 75

sabato 17 ottobre 2015

Celeb Car Crash - ¡Mucha Lucha!

#PER CHI AMA: Punk Rock/Alternative
Recensire tre soli brani e giudicare formalmente una band in soli dodici minuti di note mi lascia perplesso, quindi opto per una diplomatica soluzione, rimandando il giudizio finale ad un eventuale prossimo full length, con più materiale da ascoltare, in attesa di capire quale direzione verrà intrapresa in futuro dall'act italico. Detto questo, posso solo costatare che: la band ha già esordito qualche anno fa con l'album 'Ambush!', caratterizzato da forti influenze grunge; ha suonato come opening act dei Lacuna Coil a bordo del Red Bull tour bus, merito acquisito dopo aver vinto il contest nazionale “Red Bull 2014”. Il combo inoltre, capitanato dall'ottima voce/chitarra di Nicola Briganti, ha un piglio radiofonico dalle potenzialità enormi, e suona un rock influenzato fortemente da certo punk adolescenziale da classifica e dal pop. I Celeb Car Crash suonano alla fine bene e il tutto è talmente patinato che le tre canzoni rimangono in mente anche solo dopo un unico ascolto. A differenza dell'album d'esordio qui, i sentori grunge, che si manifestano solo in parte sul terzo brano, si sono ammorbiditi a favore di una musica più energica e positiva, ben costruita e fantasiosa, orecchiabilissima, che si immette nelle corsie di Green Day, dei Creed, dei Nickelback o dei 3 Doors Down. I brani registrati e mixati in tre studi diversi sparsi per il mondo, spiccano per qualità e freschezza di idee, con un sound pieno, carico e moderno, sul modello dei Minus the Bear, anche se c'è da dire che i Celeb Car Crash risulteranno meno cerebrali e più scanzonati, d'impatto e decisamente diretti. Rimanendo in attesa di ulteriori produzioni del gruppo, dopo questa uscita del 2015, targata Sliptrick Records, consiglio vivamente gli amanti del rock alternativo, di non perdere d'occhio questa italianissima band, che ha tutte le carte in regola per entrare nel mainstream mondiale. (Bob Stoner)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/CelebCarCrash

Dream Circus – China White

#PER CHI AMA: Grunge, Alice in Chains, Soundgarden
Allora, confesso di trovarmi un po’ in difficoltà con questa recensione, essenzialmente per tre motivi principali. Primo: ho amato, e amo tutt'ora, l’alternative dei primi anni '90. Che lo vogliate chiamare grunge o meno, che venisse da Seattle o meno, i dischi di gente come Soundgardene e Alice in Chains (ma anche Nirvana, Pearl Jam, Screaming Trees, Mudhoney) sono stati i miei primi amori musicali, quelle sbandate da cui è difficile riprendersi. Secondo: tanto ho amato quella musica, cosí allo stesso modo ho provato sentimenti che vanno dalla noia al disgusto per tutta la pletora di band che, sull’onda dell’entusiasmo delle major, hanno cercato di cavalcare l’onda di quel successo. Penso quindi ai vari Candlebox, Creed, Staind, Bush, per tacere di Puddle of Mudd o Nickleback, davvero impresentabili. Terzo: i Dream Cricus si ispirano dichiaratamente ai primi (Alice in Chains in particolare) ma finiscono per assomigliare molto di piú ai secondi. Cercando di essere il piú possibile oggettivi, non si puó non riconoscere alla band lusitana la capacità di saper suonare con potenza e convinzione non inferiore a quella delle band sopra citate, non si possono non riconoscere il talento e le ottime qualità del vocalist James Powell, bravo a mantenere una certa personalità senza cadere nell’imitazione di questo o quel modello di riferimento. Cosí come l’esordio datato 2012, anche questo EP di sei brani, per poco piú di venti minuti di durata, conferma pregi e difetti che i Dream Circus condividono con buona parte di chi ha fatto il loro stesso percorso. Ovvero sono di sicuro bravi e capaci, i pezzi spingono molto sul pedale della potenza e dell’impatto, enfatizzando il lato metal del suono con gran dispiego di chitarroni e doppia cassa, ma non sono sempre memorabili. Un lavoro ben fatto, piacevole; e forse questo è quello che conta, anche se, in sostanza, 'China White' rimanda un’immagine bidimensionale, dove a potenza e aggressività non si aggiunge una terza dimensione, quella della profondità, che era ed è (basta ascoltare uno qualsiasi dei dischi del Jerry Cantrell solista) la vera marcia in piú di quella formidabile stagione. (Mauro Catena)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 65

https://www.facebook.com/DreamCircus

venerdì 16 ottobre 2015

Tuomas Holopainen - The Life and Times of Scrooge

#PER CHI AMA: Soundtrack strumentali
'The Life And Times Of Scrooge' è la prima release da solista in casa Holopainen, ispirata dalla saga a fumetti che narra le avventure di Scrooge Mc Duck (scritta ed illustrata da Don Rosa), a cui si propone di fare da colonna sonora. Proposito pienamente realizzato, grazie alle apparentemente illimitate idee del mastermind/leader dei Nightwish, che con la collaborazione del maestro Pip Williams, danno vita ad una soundtrack che riesce a trasportare l'ascoltatore sulle fredde rive del Klondike, in cerca della tanto agognata fortuna. Orchestrazioni e cori impeccabili mettono in luce tutto il talento compositivo del musicista finlandese, che coinvolge anche un vocalist d'eccezione come Toni Kakko (Sonata Artica), il quale apporta il proprio tocco di classe alle lyrics, nonostante si tratti di un disco per lo più strumentale. Ricco di idee, ispirato ed espressivo in ogni suo pezzo, quest'album rappresenta l'ennesima conferma delle capacità di Tuomas e del suo buon momento di forma, che dopo i recenti successi con la band madre, i Nightwish, si ripresenta al pubblico con un altro pezzo da novanta. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Nuclear Blast - 2014)
Voto: 80

Sorrowful - In the Rainfall

#FOR FANS OF: Doom/Death Metal, Vastum, Apocryphal, early Anathema
Managing to employ an old-school sound in today’s metal scene isn’t exactly a rare feat, what with the retro-Death and Thrash acts sprouting up seemingly by the minute, yet doing that and emerging as a competent force in your chosen genre is a fine feat indeed, and this Mexican-by-way-of-Sweden twosome is a stellar and oftentimes accomplished mixture of early Death Metal and old-school Doom. While the pace throughout is decidedly Doom, full of heavy, churning, agonizingly slow riffs sprawling from the darkness, the fact that they’re full of chugging grooves, tightly-wounded twisting rhythms and come packed with growling vocals gives this a truer Death Metal attitude which is remarkably addictive throughout here with this one really generating quite a vast amount of good will here in these rhythms. They manage to keep this one with a firm balance between the slow, plodding paces and a generally faster, more up-tempo drive here that still manages to come off coherently and flows logically together, but the greatest strength here is undoubtedly the type of cavernous, monolith production that makes this sound so much heavier and more dynamic. Though there’s some hit-or-miss tempos and riffing on display here, for a debut that’s a little more forgivable and is certainly drowned out by the more impressive elements featured here otherwise. Intro ‘The Last Journey’ gets this going with some nice swirling riff-work and plodding tempos that make for quite a stellar atmosphere here that takes a really dark, brooding ambience to the proceedings with the more Death Metal riffing spread throughout the final half for a solid start here. ‘Nothingness’ offers up more churning Death Metal riffs than the preceding track, but the crushing pace and heavy, thumping back-end here keeps this blistering pace in check before exploding into a frenzied up-tempo assault that makes this a fine highlight offering. Likewise, ‘Gray People’ follows up nicely with a strong opening riff and some solid drum-work that drops off the pace quite nicely here with the deep churning riffing offering up some solid heaviness though they drag this out somewhat with some dragging tempos in the later half that keeps this from being as fun as the earlier tracks. ‘Oceans of Darkness’ certainly does the slow, churning pace much better with a striking series of melodic leads, finely-tuned rhythms and much more enjoyable mid-tempo crunch that keeps this one rolling along nicely for another strong highlight offering. It’s back-to-back highlights as ‘Utopian Existence’ offers the most explosive straight-forward Death Metal styled opening as the charging tempos and pounding drumming throughout the second half offer forth the least Doom influence on the whole album as the stylistically darker rhythms here appeal greatly in another strong effort. ‘Frozen Sun’ comes lurching back into the Doom mold with a series of churning rhythms and plodding tempos while still offering the occasional blast of mid-tempo charging yet remains more rooted in those sprawling, heavy riffs which make this one of the better straight-forward Doom tracks. Both ‘The Machine of Desolation’ and ‘The Flight of Mind’ keep those churning rhythms in fine form as the blasting drumming and heavy-handed riffing make for strong impressions here with the melodic leads counter the up-tempo grooves quite nicely and making for overall enjoyable offerings. Finale ‘Eager of Death’ brings back the soaring, melodic tempos here with some rather fine churning riffs and droning rhythms that are played off quite nicely here in bringing a melancholy vibe that wasn’t really present before-hand and causes that to stick out here while still offering a fine ending note. Overall there’s some good points here that should help them out as they continue along. (Don Anelli)

(Solitude Productions - 2015)
Score: 85

giovedì 15 ottobre 2015

Every Hour Kills - S/t

#PER CHI AMA: Modern Metal, In Flames, Scar Symmetry, Soilwork
Sentivo un po' la mancanza di suoni carichi di groove e ammiccanti al massimo. Sono stato presto accontentato dai canadesi Every Hour Kills e il loro EP omonimo nuovo di zecca. Cinque le tracce, le stesse riproposte in chiave strumentale e una versione demo sempre strumentale di "Cloudlifter", un pezzo che a dire il vero non ho ben capito dove stia nella discografia della band di Calgary. I nostri attaccano con l'elettronica massiva di "Chosen", che accompagna una ritmica imponente a cui si aggiungerà presto anche la voce di Jerrod Maxwell Lyster, in un mix tra Tesseract e Soilwork. La musica? Beh riflette fondamentalmente la proposta di queste due band (con una certa predilezione per la seconda), il classico modern metal che sembra andar tanto di moda nell'ultimo periodo, a cui aggiungerei anche un tocco di Scar Symmetry e In Flames, senza trascurare una lieve spruzzata di metalcore. Vi ritroverete pertanto allietati da un riffing sincopato, gioviali chorus, stop'n go e tastiere super melodiche. Il dado è tratto. "Deliver Us" riparte dal programming irrefrenabile di Sacha Laskow e da una linea melodica piuttosto malinconica che si riflette anche nel modo di cantare di Jerrod che nel breve break centrale, trova modo di scatenarsi anche in una versione più urlata. L'eccesso di elettronica però rischia un po' di offuscare la performance solistica, in quanto Sacha sembra davvero saperci fare con la sua sei corde. Il limite in effetti di questo EP sembra essere racchiuso proprio dall'esasperante utilizzo delle keys che andrebbero ridotte per dar modo anche a Brent Stutsky di palesare il suo valido apporto al basso, mentre non si può non notare la fantasiosa tecnica di Robert Shawcross dietro le pelli, anche se talvolta risulta celata dagli ubriacanti sfarfallii elettronici. "Saviours" è una traccia più delicata, almeno all'inizio, anche se poi il tiro aumenta e la song diviene più convincente anche per la sua continua altalenanza ritmica. Niente male. Il sound ruffiano di "One Reason" e il suo coro quasi pop rock le valgono la palma di song più moscia delle cinque. Fortunatamente irrompe la dinamica "Almost Human", che nel suo riffing portante sembra un pezzo di una decina di anni fa dei nostrani Edenshade, estratto dal bellissimo 'Ceramic Placebo for a Faint Heart'. Pezzo assai convincente e anche il mio preferito che di certo bilancia la performance meno brillante della quarta traccia. Seguono i cinque brani riproposti in chiave strumentale e quello che posso affermare è che, in assenza di una voce che ammorbidisca a più riprese il sound degli Every Hour Kills, musicalmente il quartetto canadese è davvero notevole, spaccando non poco e la vicinanza con Soilwork e anche Fear Factory, perché no, si fa davvero sentire. Bravi, preparati e non da sottovalutare. Dimenticavo l'ultima traccia, la più djent oriented: trattasi ancora di una demo senza cantato, quindi meglio soprassedere. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

mercoledì 14 ottobre 2015

Interview with Hercyn

Follow me for a long chat with the prog blacksters coming from New Jersey: 



Brave the Waters - Chapter 1 - Dawn of Days

#PER CHI AMA: Ambient
Cestinate i vostri impegni stanotte. Non date forma alle vostre illusioni stanotte. Prendete spazio e tempo per il vostro udito stanotte. Vi porto sulla vetta d’un monte scosceso, illuminato da una falce di luna stanotte. Vi conduco nel mondo dei Brave the Waters in questa mia, vostra notte. 'Chapter 1 – Dawn of Days' parte in sordina con “The New King”. Sorde e mielose sono le sonorità che troverete in questo esordio d’album. Aspettatevi un reiterare di suoni mescolati sino al ricordare quel ripetersi rugginoso di ingranaggi che fanno funzionare un orologio ottocentesco. Sino a qui lo stile ambient fa da padrone. La sorte. La morte. La vita. Il folclore. L’immaginazione. Senza continuare vi presento “Interesting Times”. Un pezzo metallico privo di virtuosismi strumentali, ma degno d’un inneggiare ai Metallica così remoti e sempre attuali. Pretenzioso e subliminale. Il vento sposta foglie dimenticate negli angoli in cui l’autunno le ha relegate, così i suoni che dipanano da “Voice of The Ancient Oak”. È circospetta e flessibile questa grata da cui posso ascoltare i graffiati fatti da chitarre e rabbia. Mi allontano dal sottosuolo visto in ombra e cammino nell’attesa d’una luna che spezzi questo languore, ma con “Journey Through Highwood Forest”, il cielo è buio come asfalto. I suoni di questi urlati in musica ricordano pezzi di vetro spezzati ad arte. È dolore che vive dimenticato in un pezzo di mondo che si guarda senza essere visto. Soffonde dalle mie casse “Setting Up Camp” ed è balsamo per le animosità trapassate attraverso suoni ed acqua ed occhi bagnati di mare e lacrime. Chiude “At The Old Stone Bridge” ed è come stare davvero sotto un vecchio ponte di pietra. L’acqua scorre vicino ai piedi, alle mani, ai sensi che ne sentono il frangersi su pietra ed anima. I Brave the Waters, ci lasciano il loro pezzo da novanta alla fine. Io rimango sulle sponde del fiume in questo silenzio rotto dalla musica e spezzato dal suono della realtà. (Silvia Comencini)

(Self - 2015)
Voto: 75

Archaea - Catalyst

#PER CHI AMA: Swedish Death/Thrash
Sia benedetto l'underground, senza di esso infatti mi sarei annoiato da tempo delle solite proposte convenzionali di metal che popolano il music business. Invece, grazie anche ai sempre più potenti mezzi di internet, giorno dopo giorno mi ritrovo a scovare nuove leve che auspico possano presto soppiantare i vecchi dinosauri. Oggi la mia ricerca fa tappa nella rinomata Gothenburg, che in passato ha visto nascere migliaia di band e che oggi dopo 8 anni, dà modo agli Archaea di debuttare con il loro primo album. Formatisi infatti nel 2007, il sestetto scandinavo ha all'attivo un demo cd dello stesso anno, un EP nel 2009 e poi un silenzio assordante durato fino allo scorso agosto quando è uscito appunto 'Catalyst'. Un disco di 10 tracce che vede gli Archaea spararci in faccia una bella dose di death metal melodico, grondante groove da ogni suo poro. La tecnica, come nel 99% dei casi da parte di band nordiche, è sempre ad altissimi livelli e in questo caso, dati i continui cambi di tempo, gli stop'n go, e i brucianti assoli, è a dir poco sopraffina sin dall'opener "Omnicide", che mette subito in risalto la pasta di cui sono fatti questi sei baldi giovani. Direi però che il disco lo si inizia ad apprezzare maggiormente con la seconda "Silhouette", che denota una certa dose in originalità fatta di ritmiche sghembe, ottime partiture tastieristiche che ne combinano davvero di tutti i colori e che forse vanno a rappresentare l'elemento caratterizzante dell'Archaea sound, provare per credere. Gli altri musicisti fanno il loro lavoro, con l'onesto growling di Nils a collocarsi sopra le dirompenti keys di Hannes. Hannes che ci delizia nell'apertura di "Vacuum" con numeri da circo, prima che le due asce, guidate da Magnus e Markus, gli diano manforte con ritmiche spezzate che conferiscono al brano un andamento assai dinamico, anche se minacciosi rallentamenti rischiano di minare la nostra sanità mentale. Difficile trovare un facile termine di paragone per l'act svedese, e decisamente meglio cosi, soprattutto nella quarta "Cryosphere" in cui i nostri si dimenticano di essere una band death metal e si abbandonano ad alcune divagazioni rock progressive, contrappuntate da qualche aggressiva accelerata in un rifferama mai scontato e che anzi cerca continue variazioni a un tema già di per sé mai stabile. Anche con la breve cavalcata di "Pyrochrysalis" i nostri si confermano di non essere certo degli sprovveduti, con il sound che talvolta sembra inseguire l'humppa finlandese (che ritornerà ancora più forte nella successiva "Salt"), strizzando l'occhiolino a Finntroll e Children of Bodom, non dimenticando i dettami del thrash metal "made in U.S." e alla fine suonando comunque tremendamente "Swedish". Se mi avessero chiesto da quale nazione provenissero gli Archaea, probabilmente avrei trovato qualche imbarazzo, proprio per la commistione di stili che confluiscono nel loro caleidoscopico sound. Ma alla fine quel che ho capito è che questi sei svedesi siano dei mattacchioni a cui piace fondamentalmente infarcire i loro brani di tutto quello che è il loro background musicale. E allora non stupitevi se "Quad Damage" è un bel pezzo thrash metal in cui trova spazio una tastiera assai ispirata. Mentre "His Wanted Position" inizia come se si trattasse di una song black sinfonica con un riffing tagliente e il martellamento al basso di Richard e quello alla batteria di Alexander, che confermano quanto detto in precedenza sullo spessore tecnico della band. Comunque alla fine questa traccia sarà quella che più si avvicina al black (anche per lo screaming efferato), ma i nostri si confermeranno cosi bravi a cambiare le carte in tavolo che la traccia racconterà di altri sconfinamenti in territori non autorizzati. Ancora è l'orchestrazione delle keys a tener botta anche in "Helios Ascend" che, come tutti i brani contenuti nel disco, mostra durate inferiori ai 4 minuti, ottimi refrain, qualche buon chorus e altre trovate mirate a rendere più orecchiabile un disco che di per sé non sarebbe cosi facile da essere digerito. A chiudere 'Catalyst' ci pensa l'epico coro di "Sol" che mostra nuovamente l'eclettismo sonoro dei sei vichinghi. Impavidi. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 75

domenica 11 ottobre 2015

Evoke Thy Lords – Boys! Raise Giant Mushrooms in Your Cellar!

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge/Doom/Psych
Terzo lavoro per il quintetto siberiano, e successore di quel 'Drunken Tales' che nel 2013 ne aveva sancito la svolta stilistica da un death piuttosto convenzionale a uno stoner-doom dalle forti componenti psichedeliche, accentuate dalla presenza in formazione di un flauto traverso. Come si può facilmente evincere dal titolo dell’abum e dall’artwork, in questo nuovo album gli Evoke Thy Lords hanno intenzione di proseguire su quella strada, accentuando le componenti lisergiche del loro suono. Nel 2013 concludevo la mia recensione di 'Drunken Tales' mettendo in guardia su un possibile appiattimento del suono una volta esauritosi l’effetto sorpresa dovuto allo straniamento dato dall’accostamento di mondi musicali apparentemente distanti, ma il pericolo è, per il momento, scongiurato. Questo 'Boys!' (non vi dispiacerà se abbrevio il titolo chilometrico) rappresenta anzi un’ulteriore evoluzione della formula, in cui la compenetrazione tra la componente doom e quella psichedelica si fa piú profonda e meno naif. Il disco mette in fila sette lunghe tracce in cui l’equilibrio tra gli elementi è sapientemente dosato. I riffoni ultra-ribassati e rallentati, accompagnati da growl vocals gutturali, ben si incastrano con le dilatazioni space rock in cui fa capolino, qua e là, una voce femminile a fare da contraltare melodico. Secondo me, un deciso passo avanti rispetto al predecessore, che oggi appare acerbo in confronto. Qui c’è una visione piú chiara ed è aumentata anche la consapevolezza nei propri mezzi e della direzione da seguire. Brani migliori? Difficile scegliere. Direi però che “I Want to Sleep” e “Human Thoughts as a Weapon” riescono a sintetizzare alla perfezione la proposta dei russi, tra desert rock e doom metal. Ottimo lavoro, in grado di piacere tanto ai doomster piú cruenti quanto agli amanti dello space rock di matrice stoner. (Mauro Catena)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

sabato 10 ottobre 2015

Chiral - Night Sky

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch, Wolves in the Throne Room
Che sorpresa, anche in Italia esistono le one man band, e soprattutto sembra abbiano più classe di quelle nordiche o di quelle a stelle e strisce, fatte di chitarre ronzanti e screaming disperati. Signori, vi presento i Chiral, ove dietro in realtà si cela Teo Chiral, che dal 2013 porta avanti questo progetto ambizioso di black metal dalle forti tinte folk. Lo si evince dalla opening track di 'Night Sky', "My Temple of Isolation", in cui la comparsa di un certo armamentario strumentistico tipicamente folklorico, incrementa il mio interesse nei confronti della band emiliana di quest'oggi. E se la matrice sonora su cui poi poggiano questi strumenti è un qualcosa che si avvicina a quella proposta dagli Agalloch, potete ben capire il mio entusiasmo nei confronti di questa neo realtà italiana. Certo, come sempre non è tutto oro quel che luccica, ma qui stiamo parlando di un bell'argento placato d'oro. Interessanti infatti i cambi di tempo, l'alternanza tra atmosfere bucoliche e sfuriate black, o la voce stessa di Teo, mai esasperata nel suo palesarsi. Ciò che non sono riuscito proprio a farmi piacere invece il suono troppo plasticoso della batteria, che forse costituisce il vero limite strumentale dei Chiral. Poi devo ammettere che ascoltare la prima traccia è un po' come immergersi nella magia sonica di 'The Mantle', dando quell'impressione di respirare a pieni polmoni l'aria della campagna, stando tranquillamente adagiati sull'erba e scrutando con il naso all'insù il cielo stellato. Dieci minuti di melodie sognanti spezzate dalla furia sovversiva di "Nightside I: Everblack Fields", brano della durata di oltre diciotto minuti, in cui comunque sapranno tornare quegli aromi e quelle essenze nell'aria che hanno reso speciale la prima traccia. Dopo pochi minuti infatti, il riffing selvaggio si tramuta in suoni ambient, in cui il retaggio black dei Chiral rimane solo in sottofondo con delle inquietanti vocals lontane. Per il resto, c'è solo la possibilità di rilassarsi, godendo delle melodie che fuoriescono dagli strumenti del mastermind piacentino. Ovviamente, tutto ha una fine e ben presto l'incantesimo verrà interrotto da nuove sferzate post black e da un nuovo ciclo che ricomincia con frammenti acustici ed intermezzi onirici fino alla terza "Nightside II: Sky Wonder". Qui le armoniose melodie dei Chiral proseguono indisturbate con arpeggi di chitarra avvolti in un'aura sognante, quasi eterea, con addirittura il suono di campane in lontananza a rendere più evocativa la proposta del factotum di Piacenza. Sullo sfondo si stagliano però nubi minacciose che irrompono con brevi sfuriate black, come se si trattasse di un temporale estivo che per una manciata di minuti interrompe la tranquillità di una bella giornata, ma che in realtà ha il merito di amplificare i profumi stagionali. Allo stesso modo fa Chiral con l'inserto di quelle rare galoppate di matrice estrema che rendono il successivo pigolare degli uccellini ancor più magico. Una pausa interamente acustica ci accompagna a "Beneath the Snow and the Fallen Leaves", l'ultima song (dei Chiral) di questo interessante 'Night Sky' che vede la band continuare tra atmosfere soffuse e lunghe ed evocative fughe strumentali dal forte sapore cascadiano. Da rivedere magari l'utilizzo un po' troppo elementare delle keys, ma questa è ovviamente la mia personale opinione. Scrivevo ultima song ma non difatto tale, perchè altre due cover rimangono in attesa di giudizio: "Vestige", della one man band olandese Algos, pezzo non proprio memorabile, non fosse altro per la sua squisita parte acustica. A chiudere il disco ci pensa la cover interamente acustica di "Night Spirit" dei Lustre, forse l'influenza più marcata nel sound dei Chiral. In definitiva, 'Night Sky' è un bel viatico per vedere la band piacentina crescere nel panorama del post black cascadiano, alla luce di un netto miglioramento a livello di songwriting, dopo le escursioni meno raffinate dei precedenti lavori. Applicando ulteriori migliorie, mi aspetto grandissime cose dai Chiral già a partire dal prossimo lavoro, che a questo punto attendo con grande ansia. (Francesco Scarci)

Abraxas - Totem

#PER CHI AMA: Funk-pop/Indie
Gi Abraxas sono il frutto di una lunga avventura musicale di quattro amici d'infanzia parigini: Tino Gelli, Jonas Landman, Solal Toumayan e Leon Vidal. Il loro nome è un omaggio allo storico album di Santana e tra le loro influenze citano Pink Floyd e i King Crimson degli anni '70 ma anche Late Of The Pier e Of Montreal. Tanti e tali riferimenti producono uno stile difficilmente definibile, una sorta di mix tra pop, new wave, synth pop e funk, se non che gli Abraxas stessi si sono premurati di battezzarlo "protodancepop", il che, devo ammettere, rende bene l’idea di quello che fanno. Dopo che, nel 2011, esordivano con l’album autoprodotto 'Warthog', sorta di concept sulla vita di un facocero, esce quest’anno il loro primo EP per l’etichetta Samla Music. Totem dispiega in modo efficace, nell’arco di 5 brani peculiari, quella che è la proposta musicale del quartetto, che passa con leggerezza ed ironia su una quarantina d’anni di musica, senza soffermarsi o dilungarsi su nessun genere in particolare. I primi due brani, “Deep Down in the Middle of Shanghai” e “Guatemala”, a dispetto dei titoli che rimandano a luoghi e suggestioni esotiche, sembrano una perfetta sintesi tra il fulminante esordio dei connazionali Phoenix e l’ultimo acclamato lavoro dei Daft Punk, con le stesse atmosfere danzerecce, le chitarre funkeggianti e una certa idea di leggerezza. “Democratie” si veste invece di brume indie, mentre “Kayak” è un piccolo gioiello in grado di coniugare, all’interno di una struttura inusuale, un’invidiabile levità di tocco e certe atmosfere da tardi Pink Floyd. Gli Abraxas si muovono con personalità alla ricerca della pop song perfetta, e nel frattempo propongono un dischetto molto curato, nei suoni tanto quanto nella confezione, in grado di regalare una ventina di minuti di disimpegno per nulla vuoto e stupido. E non è affatto poco. (Mauro Catena)

(Samla Music - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/abraxasofficial

giovedì 8 ottobre 2015

Dryom - 2

#PER CHI AMA: Funeral doom
Bisogna ammettere che il funeral doom ha un fascino eccezionale, riesce a paralizzare ogni momento di ascolto rendendolo immediatamente eterno, divinizzando quel senso di caduta profonda, portando il nostro spazio/tempo in una dimensione astratta e riflessiva, tagliata in due tra romanticismo e malinconia, muovendosi in modo sinuoso, costantemente nell'ombra, permettendoci infine di esplorare parti buie e meritevoli, oppure malate e dannose per il nostro subconscio inesplorato. Il funeral doom lo si ama o lo si odia. Tutta questa poetica come preambolo alla presentazione di uno stupendo album uscito nell'anno del signore 2015, per la Solitude Prod. che conferma l'elevata qualità di produzione della label russa. Questa misteriosa one man band riafferma la presenza nel mondo del doom, di una scintillante scena russa in grado di soddisfare anche i palati più fini riguardo al genere. Pari a tante proposte conterranee, questo artista di nome Dryom (in cirillico Дрём) sale in cattedra e ci offre un magistrale affresco funerario, dai tratti esasperati e decadenti, pesantissimi, contraddistinti da brani di lunga durata, tastiere infinite e una voce sepolcrale ai confini della realtà umana, che alla fine risulterà essere la vera protagonista di tutti i pezzi. Dissonanze, suoni atipici e perfino l'utilizzo di un marranzanu, tipico strumento a bocca del sud Italia, a cui si aggiungono una batteria drammatica, ossessiva, una chitarra distorta e tagliente come una frusta su brani che non si ripetono mai, una propensione verso il suono metal sinfonico assai spinta che fa da comune denominatore a tutte le quattro estenuanti tracce del disco, che coprono un totale di circa sessanta minuti di puro oblio cosmico. L'artwork di copertina è stupendo, con il suo paesaggio post atomico invernale. Ma ciò che mi preme risottolineare è la magnifica voce gutturale del frontman: spettrale, emarginata, malata, che domina un suono in cui più volte ho rischiato di smarrirmi, nel godere di quel senso di vuoto persistente che esso trasuda, e in cui la presenza di luce carica di speranza è relegata a pochi attimi, disseminati tra una composizione e l'altra. Mai una caduta nel plagio, mai una pecca, qui l'originalità è ottenuta scavando nell'anima. Un album da ascoltare con il fiato sospeso! Una vera perla nera! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

mercoledì 7 ottobre 2015

Eternal Fuzz - Nostalgia

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner
Gli Eternal Fuzz provengono dal New Jersey e il quartetto sembra essersi formato nel 2009, data non confermata, ma ricavata dalle pochissime informazioni sul web (del 2009 il loro primo EP). Dopo questo è seguito un demo nel 2011 e un full length, 'Camp Fuzz', nel 2012. 'Nostalgia', rilasciato a maggio di quest'anno, include nove tracce e riprende la copertina dal precedente lavoro, invertendone solamente il tema stellare/notturno. La band statunitense continua col filone stoner/doom/sludge che ne ha contraddistinto gli esordi, quindi suoni pesanti, ricchi di basse frequenze puntando tutto o quasi sull'impatto sonoro. La qualità del lavoro svolto è buona, sia a livello compositivo, esecutivo e di registrazione. Le chitarre esprimono al meglio tutte le sfumature delle distorsioni estreme utilizzate, ricche di gain e larsen che anche ascoltate a volume medio lasciano trasparire una potenza sovrannaturale. Anche alla batteria è stata resa giustizia, con un profilo sonoro vintage, votata al realismo puro senza artifici come trigger e affini. Il basso concorre, come spesso accade in questi generi, al muro sonoro, quindi spicca realmente nelle parti meno estreme e comunica comunque il suo carattere leggermente nasale. Il vocalist caratterizza in discreta parte l'appeal della band, con un cantato leggero, quasi indie-pop, etereo quanto basta per dare anche un connotato space rock alla band di Cranbury Township. L'album apre con "Closer (Slugnaut) Fleet", che dopo una intro di chitarra dal riff palesemente psichedelico, esplode come una bordata degna di una corazzata americana. Le chitarre sono incisive come un gigantesco blocco di ghiaccio che si stacca improvvisamente e investe l'ascoltatore con la sua veemente onda d'urto. La ritmica cadenzata e il cantato ipnotico la fanno da padrona per gran parte del brano, ma le accelerazioni sporadiche e i cambi di ritmo alleggeriscono la processione sonora. In fin dei conti si tratta di un brano semplice, ma caratterizzato da una piacevole oscura atmosfera. "Terraessence" cambia le carte in tavolo, presentandosi come una traccia tra il grunge e il punk, una cavalcata di appena tre minuti che corre all'impazzata e si ferma sporadicamente a suon di larsen. Il riff di chitarra porta il marchio Nirvana, l'unica differenza è la cattiveria dovuta al fuzz utilizzato dal chitarrista. Anche qui il cantato sembra provenire dalla vicina cantina e fa l'occhiolino al movimento dark e kraut rock di qualche anno fa. Il rallentamento a metà canzone riporta l'ascoltatore nella dimensione sludge/doom degli Eternal Fuzz. L'immagine che viene subito alla mente è vedere se stessi immersi in una melma fangosa che ci imprigiona e fa di tutto per tirarci giù nelle profondità oscure, dove vivono esseri innominabili e che potrebbero causare pazzia istantanea al solo vederli. La band comunque riesce a dosare abbastanza bene i momenti di break che regalano attimi di pausa e respiro, basti ascoltare il fantastico stacco post-rock a metà di "Moody Hum". Insomma, gli Eternal Fuzz sono una band sicuramente interessante perché si sforza di miscelare generi che vedono moltissimi gruppi tra le loro fila. L'album non verrà annoverato tra i migliori del 2015, ma annuncia che un quartetto americano è uscito allo scoperto per farsi conoscere e raccogliere il meritato riconoscimento. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 75

Mondo Naif - Turbolento

#PER CHI AMA: Stoner, Queens Of The Stone Age, Verdena
C’è stato un momento in cui davvero sembrava che anche in Italia il rock venisse preso sul serio non dico dal pubblico, che l’ha sempre fatto, ma dall'industria discografica. Un momento in cui c’erano un sacco di band che facevano rock in italiano e non solo risultavano credibili, ma a cui veniva data la possibilità di dare alle stampe album di livello assoluto. Oltre ai consueti nomi di rilievo quali Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Massimo Volume, che si sono assicurati una lunga carriera, c’erano un sacco di altre band magari meno fortunate ma che hanno lasciato segni importanti in quei tardi anni '90, e penso ai leggendari Ritmo Tribale (in realtà dei precursori), ai vari Karma, Gea, Politburo, Hogwash, Malfunk, Fluxus, tutti responsabili, a vario titolo, di lavori che hanno segnato un epoca. Ecco, i Mondo Naif hanno tutte le carte in regola per affiancarsi, e forse ergersi al di sopra di tutti quei nomi, ai quali in qualche modo viene spontaneo assimilarli. Il loro è un rock pesante e pensante, che musicalmente pesca dallo stoner o dal grunge d’oltreoceano, declinato però in italiano come ho sentito fare poche altre volte. 'Turbolento', il loro secondo album, esce per l’ottima Dischi Bervisti (in collaborazione con GoDown Records e Dreamin Gorilla Rec) ed è prodotta da quel Tommaso Mantelli, aka Captain Mantell, già responsabile dell’ottimo Bliss, a suo tempo recensito su questi lidi. Kyuss, Monster Magnet e QOTSA tra le probabili influenze dirette della band, così come tutto il rock degli anni '70. Ma i Mondo Naif non si limitano ad un’operazione revivalistica, hanno molto da dire e lo fanno con stile e convinzione. “NonTempo” apre l’album con un tiro potente, la bella voce di Stefano ricorda a volte quella di David Moretti dei Karma anche nelle linee vocali, come avviene anche in “Niente” e nell’ottima “Scatole Magiche”, fusa in una sorta di suite con “Maelstrom”, strumentale che tiene fede al suo titolo con un gorgo chitarristico da cui è impossibile sfuggire. Da citare la presenza di alcuni ospiti che impreziosiscono il suono donandogli varietà, come il sax di Sergio Pomante (anche lui dei Captain Mantell) che dà una marcia in piú ad “Aquilone” o di Nicola Manzan (Bologna Violenta) e Alberto Piccolo, responsabile rispettivamente di archi e chitarra classica che arrivano a pacificare la cavalcata stoner della conclusiva “Belfagor”. Disco di grande rilievo, a cui forse manca una grande canzone per risultare davvero indimenticabile, ma ci sarà tempo anche per questo. Nel frattempo godiamoci questa musica turbolenta. Da avere. (Mauro Catena)

(Dischi Bervisti/GoDown Records/Dreamin Gorilla Rec - 2015)
Voto: 80

Fashion Queens – Infiniti di Forme Rosa e Blu

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues/Grunge
Uscito sul finire del 2014, questo EP di debutto dei padovani Fashion Queens, fuori per la Jetglow Recordings, mostra una band affiatata e ben avviata. Le sei tracce del disco ci vengono presentate dall'etichetta come il perfetto connubio tra musica rock stoner, velata da un retrogusto blues e liriche poetiche, che in parte può esser vero e in parte no, visto che di stoner qui non v'è traccia se non in qualche apertura vocale alla John Garcia (ai tempi degli Unida) sparsa qua e là tra i brani. Più visibile è un rimando a formazioni grunge del passato nazionale, che poi cantando in italiano, per forza di cose ci si accosta ai lavori di Timoria o Karma. Il fatto di volersi accostare al mondo stoner a forza, toglie quello che realmente si cela tra le note di questa band, ossia un buon hard rock blues di stampo classico con chiaroscuri tipici della musica alternativa italiana e buone aperture soniche molto classic rock. Contornati da un canto singolare di buone doti ma che sinceramente manca di spirito psichedelico e predilige spesso una tonalità che poco si prestano al trip, e sovente si spostano verso territori hard rock, rappresentano alla fine il vero territorio di conquista della band patavina. Buone le composizioni, fantasiose e ben radicate, come detto in precedenza, nel blues (il brano "3/4"), il disco presenta una qualità di registrazione ottima, pulitissima, anche se manca il tocco che spacca o che la rende veramente unica, però ben fatta, forse un pizzico più di polverosa U.S.A. e di calore nel sound non sarebbe guastato. Centrato anche il brano "George Jung" ove affiora maggiormente la vena più metal con all'interno un bel innesto recitato di ottimo effetto; infine è una pillola rock dal velato accenno Afterhours quello della conclusiva "Unaware". Fashion Queens, un buon inizio che lascia ben sperare. (Bob Stoner)

(Jetglow Recordings - 2014)
Voto: 70

Dalla Nebbia - Felix Culpa

#PER CHI AMA: Black Progressive, Enslaved, Windir
'Felix Culpa' è il nuovo lavoro degli statunitensi Dalla Nebbia, che già avevamo avuto modo di apprezzare con il full length di debutto 'The Cusp of the Void' del 2013. I quattro loschi figuri del South Carolina tornano con una importante novità ossia la presenza al violino di Sareeta (Borknagar e Solefald tra gli altri) a donare un pizzico di magia in più al sound maledettamente oscuro del combo statunitense. Cosi dopo l'immancabile intro, ecco materializzarsi "Until the Rain Subsides", song che palesa quel filo di malinconia che contraddistingueva già la proposta dei nostri agli esordi e che oggi assume connotati ancor più forti, quando è proprio il violino di Sareeta a irrompere sul tappeto eretto dalle melodiche ma serrate ritmiche dei Dalla Nebbia. La voce di Zduhać si conferma velenosa e interseca i propri vagiti con quelli puliti (e più rari) di Yixja. Tuttavia, la cosa che più mi colpisce (e maggiormente ho apprezzato nel corso dei ripetuti ascolti dell'album) è la psichedelica matrice sonora che vede la band dell'East Coast miscelare il black con il progressive (in stile Enslaved) e l'avantgarde, mantenendo tuttavia inalterato il proprio estremismo sonico. Una proposta che vede irrobustirsi nella successiva "Abandoned Unto Sky" che ci affida una band decisamente più matura che in passato, il che si riflette anche in un più complicato approccio musicale. Con "Lament of Aokigahara" il sound dei nostri sprofonda nelle viscere di un black doom dalla vena funeral che mostra un suono nostalgico ma rarefatto, che va a nascondersi in anfratti ambient e arriva a sfociare nel devastante impatto di "The Banner of Defiance", dove il quartetto esprime tutta la frustrazione accumulata in questi due travagliati anni che hanno anticipato l'uscita di 'Felix Culpa'. Il brano segue uno strano cammino con suoni disarmonici ma sontuosi, talvolta difficili da decifrare, che tuttavia rappresentano il punto di forza del nuovo lavoro dei Dalla Nebbia. Sebbene non sia cosi facile avvicinarsi alla musicalità dell'act statunitense, a causa di una marcata complessità sonora, che basa le proprie fondamenta su una certa alternanza di atmosfere depressive e altre ritmiche infernali, il disco trova la sua summa in "Not Within the Stone", che vede la presenza alla chitarra, in qualità di guest, di Aort dei Code (il quale presterà i suoi servigi anche nella title track). Le chitarre confermano la propria vena schizofrenica anche in questo pezzo, stratificandosi su più livelli, rendendo la proposta dell'ensemble americano ancor più interessante e longeva in termini di ascolto. A questo aggiungete il violino di Sareeta, una certa imprevedibilità di fondo che mi ha evocato un che degli Oranssi Pazuzu e una struttura piuttosto ricercata, e forse sarete solo lontanamente in grado di assaporare gli umori che si celano e alternano nelle complesse note di questa song. Manca immediatezza non ve lo nascondo, i suoni non sono cosi facili da essere digeriti, intanto il disco prosegue con il funambolico refrain della title track che vorrei associare a dei coloratissimi fuochi artificiali che esplodono nel cielo, quando il gran finale garantisce la presenza di tutti gli esplosivi a illuminare a giorno l'oscurità della notte. I Dalla Nebbia analogamente utilizzano tutti gli orpelli strumentali, le chitarre, le tastiere, il programming techno, i violini, le screaming vocals che sono a loro disposizione e sfoderandoli tutti insieme, e finendo per ubriacarci tra le distorsioni elettriche ed elettrizzanti del loro sound. Sembra l'inizio di un deprimente film in bianco e nero degli anni '50, quello invece affidato alle note di "Paradise in Flames", con le chitarre che seguono l'overture di violino e tastiere, e richiamano il grande amore nordico del 4-piece verso i Windir, con un epico incedere che ondeggia nell'etere come il vento gelido del nord sferza minaccioso l'aria. Il brano per 2/3 strumentale, trova solo nel finale una maggiore efferatezza nei suoi toni con lo screaming di Zduhać a palesarsi nell'ennesimo cambio di passo di un disco che farà certamente la gioia degli amanti di sonorità estreme che ambiscono, con un malcelato interesse, a sperimentazioni soniche assai ricercate. Il disco placa il proprio flusso evocativo nel conclusivo interludio semi-acustico di "The Silent Transition" che conferma, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, la stralunata vena psicotica dei Dalla Nebbia. (Francesco Scarci)

(Razed Souls Productions - 2015)
Voto: 85

domenica 4 ottobre 2015

La Fantasima - S/t

#PER CHI AMA: Drone/Experimental/Folk metal
"La Fantasima è l’immagine, il cuore, il suono ed il desiderio che è parte dei silenzi e dei colori della natura Italica. Dalle sue notti, dai boschi, da sotto i suoi monti, tra le pagine di antiche leggende e nel tepore della luce dei fuochi, rendiamo omaggio alla nostra terra, raccontandola". Cosi i nostri descrivono la propria proposta nelle loro pagine. Da ammirare innanzitutto il lato isolazionista e underground del trio romano che licenzia in download gratuito il proprio lavoro senza troppa pubblicità. Le cinque tracce che compongono il disco sono ispirate alle bellezze della natura italica e solo a pensare quante di essa versano in situazioni disastrose o dimenticate, l'omonimo album ne diviene un'ottima colonna sonora, una reale fotografia di quanto in Italia si stia regredendo in tal materia. Il sound dei nostri ha la veste oscura e il passo rallentato del freddo funeral doom siberiano, prediligendo suoni puliti e d'atmosfera, molto cupi e riflessivi; i brani sono totalmente strumentali, rallentano i battiti cardiaci, risultano depressivi e notturni, pieni di pathos e malinconia. Mostrano una magia ancestrale, una capacità ipnotica e magnetica, una collocazione fuori dal tempo, tra armonici di chitarra e un basso carico di atmosfera, orgoglioso del suo sound anni '80, con una batteria minimal ad effetto psichedelico che li fa entrare di diritto nell'olimpo del drone/depressive/metal pur non sfoderando mai una chitarra distorta. In realtà l'insieme dei pezzi ha una forma di romanticismo decadente, quasi occulto che si avvicina al misticismo sonoro di Ion (vedi Duncan Patterson) in "Madre, Protègenos" e richiama le sospensioni temporali soventi nella musica dei Sigur Ros e il concetto mistico uomo/natura perfettamente espresso dagli Agalloch in 'The White', anche se poi qui il risultato definitivo è un ambient folk metal dalle caratteristiche schive e riservate. Da ascoltare almeno una volta nella vita per cercare di capire il significato della propria esistenza! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Roberto Alba

Lychgate - An Antidote for the Glass Pill
Mgla - Exercises in Futility
Lycia - A Line that Connects

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Francesco Scarci

Ketha - #!%16.7
Amorphis - Under the Red Cloud
Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

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Don Anelli

Mare Infinitum - Alien Monolith God
Symbolical - Collapse in Agony
Christian Mistress - To Your Death

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Mauro Catena

Algiers - S/T
Mark Lanegan - Houston Demo 2002
Yo La Tengo - Stuff Like That There

Interview with Ketha

Follow this link to know who is hiding beyond the name Ketha and their last incredible EP '#!%16.7' a crazy mix of death, math, alternative, jazz, avantgarde and cinematic visions:


sabato 3 ottobre 2015

Doomed - Wrath Monolith

#PER CHI AMA: Death/Doom
A Gennaio avevo recensito 'Our Ruin Silhouettes': l'instancabile sassone Pierre Laube, mastermind dei Doomed torna prontamente con un nuovo album pregno di sonorità doom/death metal. Se non conoscete il personaggio, Doomed è un progetto solista dove Pierre si occupa di scrivere i pezzi, suonarli ed arrangiarli, facendosi supportare da fidati compagni solo per le esibizioni live. 'Wrath Monolith' contiene sei tracce per un totale di cinquanta minuti ed è arrivato tra le mie mani in versione semplificata per gli addetti ai lavori, quindi non posso dire granché sul packaging. La grafica della copertina riprende gli album precedenti, con l'utilizzo del colore verde pallido e del nero con rappresentazioni stilizzate di demoni e paesaggi onirici con richiami alle religioni. Questo per dire che Doomed non si fa coinvolgere dalla frivolezza che spesso attanaglia il mondo della musica, ma vuole comunque trasmettere i sui pensieri e gli stati d'animo più profondi e ossessivi. Come anticipa il titolo, l'album vuole essere come un monolito, costruito e innalzato in onore dell'ira, il sentimento che probabilmente ha inspirato Doomed per la scrittura di questi sei brani. Il primo pezzo che ci accoglie dopo l'inserimento del cd nel lettore è "Paradoxon", una breve intro malinconica di pianoforte che lascia subito lo spazio per l'attacco pesante e lentissimo degli altri strumenti. Le protagoniste musicali sono le chitarre, distorte e ribassate per fare da tappeto sonoro ai brani e poi l'onnipresente chitarra solista che, come un navigato cantastorie, conduce l'ascoltatore attraverso le melodie che si intrecciano durante i dodici minuti abbondanti della canzone. Ottimi gli arrangiamenti che sanno tramutare le melodie tenebrose in riff meno ossessivi e che lasciano intravedere una luce in fondo al tunnel. A metà brano c'è un break che di fatto sancisce la rottura con la precedente parte, una sorta di atto secondo, dove la voce duetta tra sé e sé a suon di growl. La batteria si inserisce sempre in maniera impeccabile, utilizzando spesso una grancassa ossessiva aumentando il senso di oppressione che imperversa per tutta la traccia. Un brano che fa da biglietto da visita e mette subito a tacere qualunque dubbio sull'ipotesi che l'artista abbia voluto introdurre qualche novità rispetto ai precedenti lavori. "The Triumph - Spit" apre con il verso di un corvo che come uno psicopompo annuncia l'entrata dell'immaginario carrarmato devastante che stritolerà qualsiasi cosa con i suoi cingoli infernali. I riff di chitarra sono in pure stile death e sono semplicemente sopraffini, inoltre la leggera linea di tastiere arricchisce il brano con atmosfere eteree. La voce conduce, cosi come negli altri brani, con un fare iracondo e senza l'ombra di una qualsiasi pietà per l'oscena umanità che si dimena come zombie sulla superficie della terra. Un lontano coro si inserisce nel brano e poi altri intrecci si susseguono, sempre con massimo armonia e cura per l'attento ascoltatore che cercherà di cogliere le diverse sfumature inserite dal musicista. "I'm Climbing" è l'ultima tracce dell'album e conferma quanto detto precedentemente sulla composizione musicale. Il brano richiama le sonorità dei vecchi Katatonia e Pierre dà libero sfogo al suo cantato potente e autoritario, una sorta di oratore del nuovo millennio che cattura l'ascoltatore e lo incatena davanti a sé fino alla fine. Dopo circa tre minuti il brano muta completamente grazie all'assolo di chitarra che sembra arrivare da una dimensione lontana e che lascia spazio ad un vecchio pianoforte malinconico che chiude il cd facendo calare il sipario. In generale la composizione dei brani è sempre molto complessa, arrangiata in modo ineccepibile e il tutto è coronato da una cura chirurgica dei suoni. L'esperienza dei Doomed è palese grazie a lavori sempre di qualità, un doom mai banale che viene portato ad un livello altissimo e che può avvicinare anche le orecchie meno abituate a queste sonorità. L'inserimento di tastiere, linee vocali prog, suoni ambient e quant'altro alleggeriscono alcuni passaggi che sono oggettivamente sostenibili per un tempo limitato senza cadere nella depressione più nera. 'Wrath Monolith' raccoglie sei brani raccontati ed eseguiti attraverso diversi stati d'animo, con piglio epico da un musicista che merita di essere annoverato tra i più meritevoli degli anni duemila. (Michele Montanari)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/doomedband

Maïeutiste - S/t

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Dopo ben otto anni di riflessione dal loro demo cd, i francesi Maïeutiste giungono al tanto agognato debut album. Risale infatti al 2007 'Socratic Black Metal', il primo vagito del sestetto di Saint-Etienne. Nel frattempo i nostri non si sono persi d'animo, hanno proseguito con la scrittura dei brani e hanno finalmente partorito questo self-titled di debutto, che l'onnipresente Les Acteurs de L’Ombre Productions ha messo sotto la propria ala protettrice. Undici claustrofobiche tracce che sanno più di una marcia funebre che altro sin dall'opener che delinea i tratti somatici di quest'oscura creatura. Non fatevi ingannare però perchè il mostro che si cela nell'antro della bestia, emergerà dalle viscere nella seconda "... In the Mirror" e si scatenerà col suo malefico vocalist. Il sestetto, che peraltro vanta tre chitarristi in formazione, ha il merito di cambiare registro più e più volte nel corso dei brani e se ci avevano impressionato per la ferocia introduttiva, sarà interessante anche sentire come il brano acquisisca un piglio più solenne ed epico col passare dei minuti. In "Reflect - Disappear" i nostri mutano radicalmente la propria proposta, risultando, passatemi il termine, più rock oriented, anche se poi la sgroppata black metal non la si nega a nessuno con i suoi classici blast beat impazziti. Bravi comunque a far coesistere più generi tutti insieme anche se nei momenti di furia black, non ci troviamo realmente nulla di innovativo fra le mani, che già non sia stato proposto in tutte le salse possibili. Tuttavia è assai apprezzabile lo sforzo di proporre un sound che vari dal black al doom, passando tra aperture gothiche o liturgico esoteriche come quelle che aprono "Purgatoire", un inquietante inno alle forze del male che si evolverà in un arpeggio conclusivo, bellissimo. È la fine del primo atto, "Eveil"; con "The Fall" si ritorna ad un primigenio black metal che scomoda facili paragoni con 'De Mysteriis Dom Sathanas' dei Mayhem, sia a livello ritmico che vocale, anche se un inebriante break acustico centrale scombina tutto quanto fin qui detto. Ma questo è decisamente il punto di forza dei Maïeutiste che riescono a scomporre e riconfigurare il proprio sound, plasmandolo a propria immagine e somiglianza a livello emozionale. L'arpeggio classicheggiante di "Absolution" conferma la transumanza dei generi su cui i nostri vanno continuamente a virare, prima che tutto muti ancora una volta in un pezzo che è più death oriented (chi ha citato gli Slayer?) soprattutto a livello degli infuocati assoli che riempiono questo brano e che spiazzano ancora una volta l'ascoltatore, prima di abbandonarsi in un cinematico break jazzistico. Tutto questo per dirvi che se i Maïeutiste ci hanno impiegato cinque anni per scrivere questo disco, forse era dovuto al fatto di non voler apparire scontati nella loro stralunata proposta musicale. Un grande plauso quindi ad un lavoro difficile ma che merita tutta la vostra attenzione. Con "The Eye of Maieutic Art" si ritorna ad un black dalle venature doom in una epica song di oltre nove minuti, che chiude il secondo capitolo, "Chute", e ci prepara alla terza parte del disco, "Elévation", aperta dalle visioni apocalittiche di "Lifeless Visions", ansiogena song funeral doom che mette ancora in mostra le proprietà tecnico esecutive dei nostri. Ma forse il bello deve ancora venire. "Death to Free Thinkers" è infatti un'altra traccia sperimentale aperta da una serie di percussioni (base portante di tutti gli oltre otto minuti del brano), delicate note di chitarra e un cantato epico da brividi. "Annonciation" rappresenta l'epilogo della terza parte, in 240 secondi che potevano star bene in uno qualsiasi dei dischi dei Pink Floyd. Attenzione perchè il disco riserva ancora gli 11 minuti di "Death to Socrates", un pezzo di black mid tempo che trova ancora il tempo e il modo di scuotere l'ascoltatore con i suoi sussulti. Che altro dire di un lavoro che mostra le innumerevoli sfaccettature di una band piena di risorse e interessanti idee? Speriamo solo di non dover aspettare altri 7 anni per sentir parlare dei Maïeutiste, rischierei di dimenticarmene il nome. Nel frattempo godiamoci questo incredibile debutto. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions- 2015)
Voto: 80

https://www.facebook.com/maieutisteofficial

giovedì 1 ottobre 2015

Dead Shed Jokers – S/t

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock, Queens of the Stone Age
Suonare come nessun altro, eppure risultare immediatamente familiari. Sarebbe probabilmente il sogno di buona parte delle band che popolano il pianeta, e ogni tanto qualcuno ci riesce. I Dead Shed Jokers sono una band strana, ci vuole tempo per metterli a fuoco, eppure non ci si riesce mai del tutto. Come osservare un dipinto in cui la prospettiva è leggermente ingannatoria, non ci si sente mai del tutto a proprio agio, solleticati da un leggero e indefinibile senso di disagio. I cinque ragazzi gallesi, al loro secondo album, propongono un hard rock che è sí debitore dei gloriosi '70s, quanto influenzato dal grunge o dai Queens Of The Stone Age. L’istrionico cantante Hywel Davies ha una voce pazzesca e uno stile a metà tra Robert Plant e Chris Cornell, ma con un’attitudine alla teatralità piú spiccata, cosa che rende davvero peculiari molti dei brani in scaletta. A sorreggere Davies ci pensano gli altri quattro (due chitarre, basso e batteria) e lo fanno come meglio non si potrebbe: riff granitici, una bella varietà ritmica e la capacità di costruire brani complessi e mai scontati, senza perdere un grammo in termini di energia. Il tutto è poi ben supportato da un suono sporco e per nulla patinato. Il mix che ne viene fuori ha un certo non so che di originale, qualcosa che non si riesce del tutto ad afferrare mentre si cerca di individuare tutti i riferimenti, che all’inizio sembravano evidenti. Dopo molto ascolti non sono ancora riuscito a capire bene di cosa si tratta, ma dev’essere nascosto nelle pieghe della voce e dalla personalità di Davies, che non si limita a cantare, peraltro benissimo, ma sembra sempre volerti raccontare una storia in modo molto serio, riuscendo quasi sempre a catturare la tua attenzione. Degli 8 brani, nessuno può essere considerato un riempitivo, e si viaggia dal rock dritto e tirato dell’opener “Dafydd’s Song” alle sfumature folk di “A Cautionary Tale”, ai riff irresistibili di “Memoirs of Mr Bryant’s” (scelta come singolo e della del quale vi invito caldamente a visionare il delirante e bellissimo video), fino al tiro pazzesco di “Rapture Riddles”, in un’incedere dance punk che non avrebbe sfigurato nel post-punk revival britannico di inizio millennio, tra Bloc Party e The Music. Si chiude poi con la ballata pianistica in stile glam “Exit Stage Left”. Disco sorprendente, che riesce a coniugare al presente il verbo del rock d’annata in un modo credibile e a suo modo originale. Forse non li troverete mai nelle liste delle next big thing di oltremanica, ma dopotutto, quante delle band citate in quelle liste vi ricordate oggi? I Dead Shed Jokers, invece, ci sono per restare. (Mauro Catena)

(Pity My Brain Records - 2015)
Voto: 75

martedì 29 settembre 2015

Apneica - Pulsazioni... Conversione

#PER CHI AMA: Post Metal/Death Doom
L'underground italiano c'è ma non si vede. Sebbene la scena sembri alquanto statica, vuoi per l'assenza di locali, vuoi perchè le poche case discografiche preferiscono puntare su band straniere, c'è ancora chi crede nelle realtà di casa nostra. Da sempre la My Kingdom Music (e ora la sua sottoetichetta Club Inferno Ent.) tiene le antenne alzate e oggi pubblica il secondo lavoro degli Apneica, un 4-track EP interamente cantato in italiano che propone un death doom di caratura internazionale che sembra fondersi con un genere alquanto distante, il post metal. Strano infatti respirare le atmosfere rarefatte del doom dei My Dying Bride con l'alternanza vocale pulito-growl che trova modo di muoversi attraverso ritmiche che sembrano prese in prestito dai Cult of Luna. Cosi si presenta infatti "Alba Artificiale", pezzo evocativo dove mi suona parecchio strano sentire un growling minaccioso interamente cantato in italiano e dove a tratti mi sembra anche di risentire i Klimt 1918 degli esordi che si mischiano con gli Isis. Strano no? Interessante quindi questo connubio, a cui inevitabilmente dovrò farci l'orecchio per l'accostamento alquanto anomalo. E "Assenza di Gravità" segue a ruota, con Ignazio Simula dietro al microfono che, in versione pulita, sembra avere ancora ampi margini di miglioramento, mentre in versione gutturale dà prova di grande maturità. Ma è la musica a destare il mio più vivo interesse, visto che si muove sinuosa tra territori doom e divagazioni post, non dimenticandosi peraltro di una certa componente malinconica in pieno stile Katatonia, come palesato nell'incipit di "In Orbita". Poi qui si piomba nelle tenebre di un sound minimalista che sfocierà in un death doom melodico meditativo e intenso, grazie ancora alla performance oscura del bravo Ignazio, che nelle clean vocals si sforza di emulare quella di Aaron Stainthorpe, frontman dei My Dying Bride. La conclusiva title track è un pezzo strumentale, retaggio di ciò che erano gli Apneica agli esordi, una realtà dedita a introspettive sonorità strumentali. Esperimento riuscito. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2015)
Voto: 75

Manitu - Raw

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock
Dal cuore della Svizzera, i Manitu sfornano il loro, se non erro, terzo album, con un titolo che è un manifesto programmatico. 'Raw', ovvero grezzo, selvaggio, poco incline alla morbidezza. Dieci brani per circa 40 minuti di rock duro, dal respiro decisamente internazionale. Quello che spicca prima di ogni altra cosa è la voce e la personalità di Manna Lia, una ragazza che ci sa fare e sa come catturare l’attenzione e tenerla desta lungo tutta la durata del disco. In realtà la cantante non è esattamente alle prime armi, avendo alle spalle diverse esperienze anche oltreoceano. La sua innegabile energia, unita ud un timbro che ricorda ora Alanis Morrisette, ora una sorta di versione femminile di Eddie Vedder, sembra contagiare i suoi compagni di avventura (David Grillon alle chitarre, Lionel Ebi al basso, Fabio Duro alla batteria) che risultano convincenti nel loro declinare un rock fortemente influenzato dagli anni '90, a metà strada tra il nu-metal, il grunge piú metallico di Soundgarden e Alice in Chains, e il rock da stadio di Foo Fighters o Skunk Anansie (paragone plausibile non solo per il fatto di avere una cantante donna). I Manitu piacciono quando spingono sul pedale dell’acceleratore, come nella trascinante opening track “What you Realize”, o in “Blind” dove fa capolino anche un’interessante vena protopunk alla Stooges, e si dimostrano capaci anche di inaspettate aperture melodiche di grande respiro e potenziale come nel chorus di “The Edge”. Ma i momenti in cui si fanno preferire, quelli in cui riescono a sfoderare una personalità piú definita, sono quelli in cui i ritmi rallentano e la componente emotiva reclama piú spazio: “24/7”, “Another Lie” o i saliscendi della conclusiva “Mary”. Nulla di nuovo sotto il sole quindi, tuttavia 'Raw' è un lavoro sincero e appassionato, che potrà sicuramente guadagnare ulteriori punti nella sua riproposizione live. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70