Cerca nel blog

mercoledì 29 aprile 2020

Mahavatar - Go With the No!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Metal
Un’energia che non ha bisogno di nulla se non di se stessa per sopravvivere… Immortalità fisica e spirituale… Questi sono i Mahavatar, band proveniente da New York, creatura messa sotto contratto dall'italica Cruz del Sur Music. La prima particolarità che balza all’occhio di questa band è che, ai tempi della presente uscita, la line-up comprendeva due signore, la chitarrista Karla Williams d’origine giamaicana (si avete letto bene, la patria di Bob Marley) e l’altra, la cantante Lizza Hayson, israeliana, supportate ottimamente da tre session. Le due girls, animate dal desiderio di libertà e d’esplorazione della mente attraverso la musica, hanno cosi partorito quest'album dallo strano titolo e da una anche più difficile assimilazione. 'Go With the No!' è in grado però di coniugare, in una commistione di stili ed emozioni, i più svariati generi musicali, riuscendo nell’intento di catturare l’attenzione anche di chi non ama il metal. Gothic, punk, hardcore, dark, jazz, doom e stoner metal si fondono in questa release, debut assoluto della compagine statunitense, attraverso lo scorrere di un sound oscuro, melodico e tribale, sorretto dalle pesanti e malinconiche chitarre di Karla e accompagnato dall’ipnotica voce di Lizza (che presenta una voce accostabile alla nostra Cadaveria,). I Mahavatar sono bravi a spingerci sul bordo del precipizio con le loro musiche psichedeliche e poi a trascinarci giù nei meandri dell’inferno per poi riuscirne con le sue selvagge e melodiche suggestioni in un caleidoscopico giro di emozioni. Bellissima l’ultima e introspettiva “The Time Has Come” con il suo liseergico incedere, quasi a voler scandire i secondi che ci restano da vivere. Lasciate aperta la porta del vostro cuore e date modo ai Mahavatar di toccarvi l’anima. (Francesco Scarci)

(Cruz del Sur Music - 2005)
Voto: 72

https://www.facebook.com/mahavatarHQ

The Bereaved - Darkened Silhouette

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Carnal Forge
Vediamo se siete bravi: i The Bereaved provengono dalla Svezia, cosa potranno dunque suonare? È la vostra risposta definitiva? Beh siete dei geni, avete indovinato, logicamente melodic thrash/death. A volte mi domando quante siano le band realmente le band lassù in Scandinavia. Evidentemente però il quitentto di Orebro non deve essere una cima per aver firmato un contratto per la label greca Black Lotus, ma andiamo con ordine. Intanto 'Darkened Silhouette' è stato il loro debut album, registrato presso i famosi “Studio Underground” (Carnal Forge, Construcdead) ma dotato di un artwork orribile. Le influenze come al solito annoverano In Flames, Dark Tranquillity, Soilwork, gli stessi Carnal Forge e via dicendo, direi non se ne può più oggi, come non se ne poteva nel 2004, al tempo di quest'uscita. Tuttavia, nonostante un inizio non certo esaltante, con i primi due brani forieri di un sound a dire il vero piattino, andando avanti il disco sembra mostrare qualche spunto vincente. Devo sottolineare per una volta la non eccelsa perizia tecnica del gruppo, nonostante la provenienza sia indice di qualità, notabile in alcuni stacchi, nei cambi di tempo abbastanza imprecisi e caotici e negli assoli, seppur piacevoli. Le canzoni, che come al solito si assomigliano tutte, vanno via sparate ai 200 km/h, merito di una batteria martellante, che impatta sui nostri musi come jab belli tosti. È a metà album che però si scorge un netto miglioramento in corrispondenza con la comparsa di una melodia di sottofondo fornita da una flebile tastiera in grado di conferire un’aura misteriosa e maligna, quasi vampiresca (i Cradle of Filth non c’entrano niente in questo caso) a testimonianza del fatto che questi cinque ragazzoni siano (stati) giovani e ingenui, ma anche talentuosi e pronti già dal successivo album a tentare il salto di qualità. Voglio citare un paio di pezzi che ho particolarmente apprezzato: “Devil’s Dead” in pieno In Flames style e “Angel Ablaze” vicino al black/death sinfonico dei Dragonlord di Eric Peterson. Sufficienza comunque piena. (Francesco Scarci)

(Black Lotus Records - 2004)
Voto: 63

https://www.facebook.com/The-Bereaved-99153001357/

The Pit Tips

Francesco Scarci

Lament - Visions and a Giant of Nebula
Grav Morbus - Masohhist
Wows - Ver Sacrum

---
Shadowsofthesun

Mithras - Behind the Shadows Lie Madness
Oranssi Pazuzu - Mestarin Kynsi
O - Antropocene

---
Alain González Artola

Lustre - The Ashes of Light
Begottten - If All You Have Known Is Winter
Brouillard - Brouillard

---
Michele Montanari

Elder - Omens
Camel Driver - \ /
1000mods - Youth of Dissent

venerdì 24 aprile 2020

Despondent Chants - The Eyes of Winter

#PER CHI AMA: Death/Doom, Katatonia, Insomnium
L'abbiamo snobbata per anni, devo ammetterlo, ma la scena sudamericana ha rilasciato una miriade di release senza che l'Europa lo venisse fondamentalmente a sapere. Ora, l'etichetta dei Despondent Chants, death band peruviana, mi ha inviato il loro debut album seppur datato 2018, e quindi francamente mi sento in obbligo di raccontarvi di questo 'The Eyes of Winter'. Un disco che si apre sulle note melodiche di "Unprotected Hearts" che mai e poi mai, mi farebbero pensare che sia una realtà sudamericana a rilasciare un sound come questo. Si perchè il pensiero mi porterebbe immediatamente in Scandinavia, nelle zone battute dagli Insomnium ad esempio o da altre band quali Enshine, October Tide, Draconian, tanto per citarvi qualche nome. Questo per dire che i Despondent Chants, originatisi a Cuzco nel lontano 2003, non sono certo degli sprovveduti e potranno farvi ricredere sulle qualità non indifferenti della scena locale peruviana. "An Olden Sea of Prayers" non fa che confermare le mie parole, con il quartetto a offrirci la loro visione (non troppo personale ahimè) del death doom melodico e decadente, venato di una forte componente malinconica. Quindi cosa mettere in conto nell'ascolto di questo disco? Sicuramente un riffing corposo e cadenzato, un growling profondo ma gradevole che ben si amalgama con la musica e delle buone linee di chitarra che ammiccano inevitabilmente ai gods europei. Ben vengano quindi release di questo tipo anche da quella parte di mondo dove si suppone solo di andarci a fare le vacanze, e dove non si ha la benchè minima percezione di quale possa essere invece la brulicante scena musicale. Posso affermare però con buona certezza che se le origini dei Despondent Chants avessero condotto a Finlandia o Svezia, la band avrebbe strappato un buon contratto da qualche fantomatica etichetta europea major del metal, ma laggiù in mezzo alle Ande, la visibilità è certamente ridotta a zero. Un pezzo come "Tide of Sufferings" avrebbe fatto certamente gridare al miracolo con quel suo assolo prog rock posto in apertura e comunque una palesata solidità ritmica che ha valso ai nostri l'opportunità di condividere il palco con band del calibro di Unleashed e Carach Angren, questo a certificare le qualità di un combo che vede sparare una serie di cartucce, certamente non a salve. Proprio partendo da questa malinconica traccia (la mia preferita del cd) che evoca un che dei primi Katatonia, i quattro musicisti mettono in linea una serie di episodi davvero convincenti: la goticheggiante "Atonement", in cui si sperimentano anche le clean vocals - come gli ultimi Katatonia insegnano - e poi "Sancta Sanctorum" che coniuga l'indottrinamento degli Opeth con ancora fortissimi richiami alla band di Jonas Renske e soci. Per concludere, mi sento di consigliarvi fortemente di ascoltare questo disco, mettendo da parte la diffidenza che sia una band di Cuzco a farlo, questo per dire che da quelle parti non ci sarà solo la maestosità di Machu Picchu da apprezzare d'ora in poi. (Francesco Scarci)

Genuflexión - Apoteosis Fallida

#PER CHI AMA: Black Old School, Rotting Christ, Mayhem
Se non avessi letto le origini della band, l'Argentina, avrei pensato che i Genuflexión provenissero dalla Norvegia, vista la proposta black old school del trio. Certo il moniker potrebbe essere rivelatore, il titolo dell'album in spagnolo dare poi maggiori certezze sulle origini latine dei nostri, fatto sta che in termini prettamente musicali, la compagine di Buenos Aires potrebbe tranquillamente giocarsela con i colleghi del nord Europa. Sebbene "Nostalgia de Luz Muerta", l'opening track di questo secondo capitolo intitolato 'Apoteosis Fallida', parta con una violenza criminale, la song va via via placando i propri gelidi spiriti per dar maggior spazio ad una componente più atmosferica. È chiaro che non ci troviamo di fronte a nulla di originale, come già detto decine di volte negli ultimi mesi per release di questo tipo, visto l'utilizzo degli elementi classici che vede in chitarre zanzarose, voci gracchianti e ritmiche infernali, gli ingredienti irrinunciabili del genere. Tuttavia, trovo qualcosa di celatamente affascinante nella proposta di questi ragazzi (peraltro frequentatori di un'altra miriade di band estreme) che sembra venir fuori lentamente. Cosi, già nel mid-tempo della seconda (title) track, ecco che il vocalist mette in mostra, accanto al suo becero screaming, anche una tonalità quasi salmodiante che accompagna le ritmiche, qui al limite del marziale. Se dovessi provare a fare dei paragoni, ecco che mi verrebbe in mente l'esoterismo dei Rotting Christ, ma poi ritornando alla Scandinavia, ecco che i primi Enslaved, i Gorgoroth o gli Emperor, potrebbero rappresentare una fonte di ispirazione per i Genuflexión. Quindi, non ci resta altro che lasciarci investire dal crudo riffing infernale di "La Fortuna de Caer en uno Mismo", in cui ad alternarsi sono partiture più veloci ad altre più atmosferiche, con il suono del basso che emerge prepotente dal caos primordiale. Alla cosa dò più peso e mi rendo conto come anche nella successiva "La Sofocante Cualidad Migratoria del Instante", la linea di basso sia preponderante sugli altri strumenti e assurga al ruolo di star nell'economia della band, regalando un pizzico di originalità ad un lavoro, in cui parlare di originalità, sarebbe alquanto eufemistico. "Deidades del Difunto" è una sgaloppata black, come sentito migliaia di volte, di cui salverei francamente ben poco. Con "Espiritualidad Acéfala" si ritorna nei paraggi del mid-tempo laddove, lasciatemi dire, la band sembra regalare maggiori soddisfazioni in quell'alternanza tra parti tiratissime ed altre più ragionate ed atmosferiche, ove emerge peraltro un che di antico dai solchi di questo lavoro. Purtroppo però stiamo parlando di un album che, se solo fosse uscito almeno 25 anni prima, avrebbe dato filo da torcere al raw black europeo, ora mi viene da dire che 'Apoteosis Fallida' è un'uscita sicuramente onesta, ma fuori tempo massimo. (Francesco Scarci)

(Sons of Hell Prod - 2019)
Voto: 64

https://h-o-h.bandcamp.com/album/apoteosis-fallid

El Abismo - El Arbol Negro

#PER CHI AMA: Prog Psych Doom, Black Sabbath, Candlemass
In questo mio momento di perlustrazione della scena sudamericana, ecco imbattermi nei peruviani El Abismo e in quello che è il loro album di debutto 'El Arbol Negro'. Considerato che l'albero è da sempre riconosciuto come simbolo della vita, sarebbe interessante sapere la simbologia dell'albero nero. La proposta del combo di Lima, abbraccia heavy, sludge e doom, il che è piuttosto strano considerata la militanza dei vari membri in passato, in realtà prettamente death e black. Tuttavia la title track, che apre proprio il disco, prende completamente le distanze dai generi estremi appena menzionati e ci racconta piuttosto il desiderio dei nostri di intraprendere un nuovo percorso musicale, volto all'esplorazione di suoni passati. Quello che mi sorprende sin da subito, è il cantato cosi pulito ed efficace di Daniel Roncagliolo (in stile Paul Chain), uno che fino a non troppo tempo fa, vomitava nel microfono, tanto per capirci. Ma è su quel sound di scuola Black Sabbath che ben mi ammalia nei primi cinque minuti, che i nostri si lasciano andare a qualche retaggio passato con un'accelerazione death con tanto di voce growl incorporata. Tempo di una vorace fuga estrema, che i nostri rientrano nei ranghi di un doom psichedelico. Il sound mantiene comunque una scarsa pulizia di fondo, che sembra quasi volutamente prodotta, una sorta di ponte tangibile con il passato. "Necrópolis", non solo mi sorprende per l'eccellente apporto vocale (quello pulito sia chiaro, il growl è quasi da censura) del suo frontman, ma più che altro per l'inatteso utilizzo del violoncello, che arricchisce non poco la musica dei nostri, che hanno purtroppo il brutto vizio di scadere ogni tanto in inutili accelerazioni death, quando in realtà la band dà il meglio di sè nei momenti più riflessivi e in taluni tratti dotati di risvolti progressivi. Ma l'incedere è assai mutevole con rallentamenti doomish e una valida sezione solistica. Bella scoperta, devo ammetterlo, soprattutto a fronte della mia diffidenza iniziale. "Asmodeo" è il classico intermezzo acustico tipico del post-rock, che ci accompagna a "Los Abismos", ove riemergono forti gli echi (ancor più) seventies di Ozzy e compagni, ma dove la ritmica si rivela stantia e deboluccia, ammiccando in un paio di frangenti anche ai Candlemass, un vero peccato considerato poi l'assolo da urlo che sfodera il bravo Carlos Hidalgo in chiusura. Con un titolo come "Catacumbas" invece cosa aspettarci? Niente di buono mi verrebbe da dire cosi di primo acchito, e non ci vado troppo lontano visto che salverei poi tanto da una song dove mal tollero il cantato sia in pulito che in growl, e dove la musica sembra raffazzonata alla bell'e meglio. Come al solito, a levare le castagne dal fuoco, ci pensa l'ascia di Mr. Hidalgo che risolleva una song, che per il sottoscritto stava andando letteralmente a puttane, prima lo fa con una parte acustica e poi con un assolo in stile Pink Floyd, da brividi. Certo, poi il finale riprende il tema iniziale e rovina tutto, ma pazienza. A chiudere il disco arriva "Lilith", un brano che ancora una volta vede nel chitarrista la vera star della band tra giochi in chiaroscuro, una combinazione chitarra acustica/violoncello da favola che viene interrotta da una dirompente violenza estrema che qui ci sta alla grande e poi ancora una serie di assoli a dir poco spettacolari. Insomma, 'El Arbol Negro' mi mette in difficoltà come poche volte mi è capitato nel corso della mia carriera da recensore, contenendo cose al limite dell'eccezionale e altre al limite della decenza per cui, visto che la verità sta nel mezzo, mi limiterò ad un voto che non penalizzi ma neppure esalti la prova del trio sudamericano, confidando però in una futura prova a dir poco maiuscola, ove auspico l'eliminazione di tutte le sbavature contenute in questo lavoro. Ci conto, perchè a quel punto potrei essere il primo sostenitore degli El Abismo. (Francesco Scarci)

(Thrashirts - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Elabismoband/

giovedì 23 aprile 2020

Ecnephias - Seven - The Pact Of Debauchery

#PER CHI AMA: Gothic/Dark, Moonspell, Burning Gates
E dopo dodici anni, eccomi a recensire il sesto lavoro della band potentina; mi mancano i primi due dischi, compensati però da un EP, 'Haereticus' nel 2008, e poi mi potrei tranquillamente considerare un fedele devoto alla causa Ecnephias. A parte gli scherzi, non posso negare la mia stima nei confronti dell'italica creatura, capace nel corso della propria carriera di mutare pelle, adattarsi a situazioni complicate, lottare caparbiamente contro tutto e tutti (mulini a vento compresi) e arrivare oggi a rilasciare questo settimo sigillo, intitolato 'Seven - The Pact Of Debauchery'. Nove nuovi brani per saggiare lo stato di forma di Mancan e soci, cercando di capire come il sound dei nostri sia evoluto dopo le dipartite di Sicarius Inferni e Khorne, presenti nel precedente 'The Sad Wonder of the Sun'. Ebbene, quella trasmutazione verso il gothic rock che citavo come completata nella vecchia release, qui è ormai assodata e la band non fa altro che esplorare ed ampliare il proprio raggio d'azione. Se l'inizio di "Without Lies" chiama ancora in causa i vecchi Moonspell, con la voce del buon Mancan a rappresentare il marchio di fabbrica per il nerboruto trio, quello che mi convince davvero in questa song è la componente solistica forte dell'ottimo lavoro del bravo Nikko, con le chitarre qui dotate di un eccellente taglio classicheggiante, peccato solo per la loro esigua durata. I temi legati alla magia, al paganesimo e all'occultismo non mancano nemmeno in questo cd e "The Night of the Witch" lo conferma a chiare lettere a livello lirico, laddove a livello musicale invece, sono le ormai consuete atmosfere sinistre venate di una discreta aura malinconica a farla da padrona. Il riffing è pacato, le keys dipingono paesaggi che mi ricordano da lontano Rapture, Enshine e Slumber, mentre quello che mi esalta sempre un sacco sono decisamente i cori, cosi evocativi, epici e coinvolgenti, tanto da ritrovarmi alla fine del brano con il pugno volto al cielo. Arriviamo anche alla traccia che non necessita di sottotitoli, "Vampiri", con quel suo mood dark new wave che mi evoca una band nostrana, i Burning Gates. Pur trovando che il cantato in italiano caratterizzi maggiormente la proposta del trio lucano, capisco di contro che la possibilità di esportazione del prodotto Ecnephias fuori dai confini nazionali, potrebbe divenire più complicato. Spettacolare intanto l'assolo sciorinato in questo brano dal sempre bravissimo Nikko, in quello che forse alla fine dei conti, risulterà essere anche il mio pezzo preferito. "Tenebra Shirt" è una traccia piuttosto lineare nella sua progressione, non tra le più memorabili inserite nella discografia degli Ecnephias, ma comunque un onesto episodio di fine atmosfera. Molto meglio l'inquietante incedere ritmato di "The Dark", che nel suo break centrale, cerca di coglierci di sorpresa con uno stralunato fuori programma, giusto una manciata di secondi per disorientarci dallo stato di intorpidimento in cui stavamo per cadere, si perchè talvolta la proposta dei nostri sembra un po' depotenziata, insomma col classico freno a mano tirato. L'incipit di "Run" mi ha fatto pensare per una frazione di secondo alle operistiche partiture dei Therion, ma tranquilli nulla di tutto ciò viene poi qui esplorato, anche se Mancan alterna il proprio growling ad un cantato molto pulito, ma niente paura perchè è giunto il momento anche dello spazio etnico grazie all'utilizzo di percussioni che non mi fanno tanto pensare al Mediterraneo, piuttosto al voodoo africano. Un sintetico incipit ci introduce a "The Clown", la traccia sicuramente più ricca di groove e mi verrebbe da dire anche quella più canticchiabile (mi scuserà Mancan) con quel suo coretto "I saw a clown..." che si stampa nella testa; ottima poi la melodia di fondo su cui si staglia l'ascia sempre vigile di Nikko. L'apertura de "Il Divoratore" nasconde nelle sue iniziali percussioni melliflue (eccellente anche Demil dietro alle pelli) un che del misticismo di Twin Peaks, a cui fa seguito l'arpeggio della sei corde qui a braccetto con le tastiere, e il cantato di Mancan qui particolarmente carico di emotività, a rafforzare la mia ipotesi che in italiano la proposta degli Ecnephias renda molto di più. E per chiudere in bellezza, ecco che anche la conclusiva e arrembante "Rosa Mistica" ci concede gli ultimi minuti di punk dark wave cantata in italico lingua, in quella che fondamentalmente è la song più violenta del disco, e che sembra quasi una bonus track a prendere le distanze da tutto quello ascoltato fino ad ora. Per concludere, a parte quella sensazione percepita in un paio di occasioni di un sound talvolta privo di incisività, la settima release degli Ecnephias va assaporata con una certa calma e armonia dello spirito. Detto questo, la mia stima nei confronti della band rimane immutata per carisma, professionalità e una certa ricerca di originalità. Per il resto, è sempre una certezza e un piacere aver a che fare con i nostrani Ecnephias. (Francesco Scarci)

Hyperia - Insanitorium

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, Over Kill
Da Calgary ecco arrivare gli Hyperia con tutto il loro carico death thrash contenuto nel loro full length d'esordio 'Insanitorium'. Se vi state già chiedendo quali possano essere le peculiarità di una band in un genere che ormai ha detto proprio tutto, potrei partire col dirvi che il vocalist è una donna ad esempio, che si dipana tra un cantato pulito ed un growling bello corposo. Niente di nuovo qualcuno di voi potrebbe obiettare, visto l'esempio degli Arch Enemy, un nome diventato famoso per la sua frontwoman Angela Gossow, e in effetti non potrei controribattere. E allora proviamo a dare un ascolto attento all'opening track "Mad Trance", una song che mette in luce immediatamente le qualità compositive e distruttive dell'ensemble canadese. Ottima la verve ritmica e melodica del quintetto, potente la furia chitarristica, anche a livello solistico, faccio fatica semmai a digerire la voce di Marlee nella sua veste pulita (e più urlata) che sembra prendere spunto da quella degli Artillery ma con un effetto meno convincente, un qualcosa su cui lavorerei un po' di più in ottica futura. Dove la compagine sembra convincere maggiormente è invece la componente musicale, visto che i nostri sanno come fare male e dove colpire al cuore l'ascoltatore. Lo dimostra assai bene "Starved by Guilt", con un uno-due ben assestato e udite udite, una componente vocale che si presta ad essere ben più convincente nelle tonalità più baritonali. Il disco suona però come un tributo al thrash metal anni '80 e non solo per una cover che rimanda a quegli anni, ma in generale per un rifferama che chiama in causa gli Slayer nell'incipit di "Asylum", le cavalcate dei primi Testament ("The Scratches on the Wall") o ancora gli Exodus, sfoderando proprio come quei mostri sacri, ottime prove strumentali. Interessante a tal proposito il bridge proprio della già citata "Asylum", cosi come quel suo chorus di scuola Over Kill, periodo 'Under the Influence' (lo si apprezzerà anche nella conclusiva e scoppiettante "Evil Insanity"). Insomma, per uno come me, cresciuto musicalmente negli anni '80 a botte di thrash ed heavy metal, è facile e inevitabile fare tutta una serie di confronti con gli originali. In "Unleash the Pigs", ci sento anche del power metal cosi come del melo death scuola Children of Bodom, tutte influenze che si fondono alla velocità della luce e scorrono altrettanto velocemente tra cambi di tempo, accelerate e cavalcate varie dal forte sapore heavy, per un disco senza tempo che farà la gioia di tutti i thrashettoni che hanno amato, come il sottoscritto, i grandi classici (dimenticavo di citare anche i Metallica di 'Kill'em All', gli Anthrax o i Megadeth nell'emblematica "Fish Creek Frenzy") o più recentemente, act quali gli Skeletonwitch. Che altro dirvi per invitarvi a questo "back to the past" con gli Hyperia? Un ascolto datelo, datemi retta.  (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2020)
Voto: 70

https://hyperiametal.bandcamp.com/album/insanitorium

mercoledì 22 aprile 2020

Horda Profana - Beyond the Boundaries of Death

#PER CHI AMA: Death/Black Old School
Devo ammettere di aver sempre piuttosto snobbato la scena sudamericana perchè da sempre imperniata su sonorità estreme old school. Non ne sono ovviamente immuni gli Horda Profana, band black death originaria dell'area di Buenos Aires, che lo scorso anno ha rilasciato il secondo lavoro, 'Beyond the Boundaries of Death'. E dopo pochi secondi di musica, si arriva alle mie conclusioni assai alla svelta, semplicemente dopo aver ascoltato l'iniziale "Summoning", la più classica delle song death black degli anni '80, un po' come se i Celtic Frost in compagnia dei primissimi Sepultura, sotto la supervisione dei Black Funeral, si siano ritrovati per una serata tra amici. Ritmiche sparate a mille, voci blasfeme e fortunatamente un epilogo un po' rallentato. "Absent of Light" sembra anche peggio, però a parte la scontatezza della proposta del combo argentino, ho potuto apprezzare una componente ritmica davvero devastante in grado di innalzare un muro sonoro invalicabile dove ho trovato il gracchiare mefistofelico al microfono di Nephilim, particolarmente in linea con la musica proposta. E non nascondo anche la mia sorpresa nel ritrovarmi a scuotere il capo di fronte alla violenza distruttiva di questa song, dotata addirittura di una certa vena melodica. Di vena creativa ce n'è invece ben poca traccia e quindi mettete in conto di ritrovarvi nelle orecchie un qualcosa che verosimilmente avete già sentito in mille forme differenti negli ultimi 30 anni e passa. Tanta furia distruttiva quindi, certificata dalle performance dell'arrembante (e punkeggiante) "Reaching Primordial Darkness", dalla tonante "Words of Immortal Fire", fino ad arrivare, senza particolari sussulti, alla devastazione finale di "A Coldness Curse". Si potevano impegnare un pochino di più e infilarci chessò un assolo, un riffing più ricercato, niente, solo puro estremismo sonoro rimasto ormai a uso e consumo di pochi adepti. (Francesco Scarci)

V:XII - Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina

#PER CHI AMA: Industrial/Drone
Trattasi di una one-man-band quella dei V:XII, compagine dark industrial svedese creata da Daniel Jansson, uno che milita (o ha militato) in una serie di altri progetti, tra cui i Deadwood, la cui storia si è interrotta nel 2014 e per cui ora, il buon Daniel, ne vede la reincarnazione (ed evoluzione musicale) nei V:XII, nella fattispecie di questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina'. Il lavoro si apre con le visioni oscure e angoscianti di "The New Black", sei minuti e più di suoni asfissianti che poggiano su un unico beat sintetico ripetuto allo sfinimento e sul quale s'installa il growling del factotum scandinavo. Sembra essere sin da subito questa la ricetta dei V:XII, visto che anche in "Maðr" ci vengono propinati suoni dronici alienanti su cui poggiano le vocals distorte del buon Daniel cosi come altre spoken words in sottofondo. I campionamenti si sprecano e cosi il drone paranoico di "Twining Rope" mi costringe a dondolarmi avvinghiato a me stesso, rintanato in un angolo della mia stanza. È un disco decisamente sconsigliato in periodi di quarantena questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina' in quanto il rischio di subire effetti disturbanti o distruttivi per la psiche dell'ascoltatore, è assai elevato. Atmosfere lugubri e malsane contraddistinguono la sinistra "Djävulsögon - Deconstructing the Bloodwolf", un mix tra il suono proveniente dalla canna fumaria di una nave, delle catene di un castello infestato e il frastuono della sala macchine di una centrale nucleare, il tutto ovviamente corredato dalle onnipresenti vocals filtrate del mastermind svedese. Se non vi siete ancora suicidati o il cervello non vi è andato in pappa, c'è tutto il tempo di lasciarsi stordire dalle note marziali di "Ururz", o essere investiti dal nichilismo sonoro della spaventosa "B.A.H.F", la traccia che più ho preferito del disco o dalla conclusiva ed ambientale "Vánagandr", che segna, fortuna nostra, la fine di un percorso musical-dronico-rumoristico davvero complicato e consigliato a soli pochissimi eletti. (Francesco Scarci)

domenica 19 aprile 2020

King SVK - New Æon

#PER CHI AMA: Experimental Death Metal, The Project Hate, Carnival in Coal
Dall'incipit mediorientaleggiante di "Ozymandias", mi sarei aspettato origini più esotiche per la band di quest'oggi, in realtà i King SVK sono un duo proveniente dalla Slovacchia (da qui deduco l'acronimo SVK nel moniker). 'New Æon' è il terzo album dal 2000 quando Ivan Kráľ (tastiere e synth) e Norbert Ferencz (chitarre), fondarono questa stravagante compagine. Il duo propone infatti un death metal moderno, melodico con tematiche incentrate sulla mitologia dell'antico Egitto, fuse con la filosofia di Friedrich Nietzsche. Da un punto di vista musicale, aspettatevi invece tonnellate di cyber death metal fatto di ritmiche belle pesanti ma comunque grondanti groove da tutti i pori, vocals che si dipanano tra il growl ed un cantato pulito un po' meno convincente (e da rivedere), ottimi cambi di tempo e quintalate di synth. "Hymnus Aton" è la seconda traccia che apre ancora con riferimenti arabeschi, per lasciare presto il campo ad un riffing a cavallo tra Meshuggah e Fear Factory e un incedere comunque sempre parecchio orecchiabile che forse travalica qui nel viking grazie all'utilizzo di alcuni cori epici. "Chant Of Praise Of Nimaatre" sembra invece provenire da qualche disco circense dei Pensées Nocturnes, ma la sensazione dura solo per pochi secondi, visto che la vigorosa band slovacca torna a sfoderare un rifferama bello compatto sul cui sottofondo sembrano collocarsi delle strane trombette. Lo spettro circense però torna a riaffacciarsi in più casi nell'irruenza fragorosa del brano. Con "Seeking of Being", song strumentale, ci lasciamo ammaliare dai suoni di un organo che fa da apripista al saliscendi chitarristico che trova anche in un break acustico, l'attimo ristoratore utile a darci la carica e ripartire di slancio con la musica dei King SVK, qui più che mai sperimentale, quando ampio spazio viene concesso al suono di quella che parrebbe una spinetta, e prima che i nostri si lancino in una rincorsa prog rock. E bravi i due musicisti, che devono avere un pedigree di tutto rispetto viste le qualità tecniche. Ciò è confermato a lettere cubitali anche dai successivi pezzi: "Homeless" in primis, dove sottolineerei una schitarrata iniziale in stile "death metal from Stockolm", a cui segue l'imprevedibile e abbondante utilizzo delle clean vocals che qui doppiano il growling maligno del frontman, in un esperimento riuscito ahimé solo a metà, colpa esclusivamente della voce pulita davvero fuori posto. Che peccato maledizione, perchè la cosa avrebbe avuto risvolti decisamente interessanti, ma potrebbe anche essere che le vostre aspettative non siano cosi alte quanto le mie e possiate anche passarci sopra. Io francamente faccio un po' fatica e me ne dispiaccio particolarmente perchè in queste note percepisco la forte volontà da parte dei due musicisti slovacchi di mettersi in gioco, rischiare il tutto per tutto con la carta della creatività e andando assai vicino a compiere il miracolo. Niente paura, ci riprovano anche nella ancor più stralunata "Venetian Night" dove è una (o più?) voci femminili a provare a sostenere il riffing brutale dei nostri in un esperimento affine a quello degli svedesi The Project Hate; tuttavia anche qui la componente vocale non si rivela all'altezza. I nostri comunque non si perdono mai d'animo, vanno avanti nella loro strada pur ricascandoci in "Sea in the Soul" (da rivedere quindi il casting per la voce), visto che le dolci donzelle mal si adattano ad un sound robusto che prova qui anche la strada delle orchestrazioni. Bene da un punto di vista musicale, c'è ancora da sistemare qualcosa in quello vocale. "After Swimming", con un bel po' di immaginazione, potrebbe somigliare col suo coro fanciullesco ad "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd, con la song che comunque ha un forte piglio prog fatta esclusione per le ritmiche possenti. Ma la ricercatezza in trame elaborate fa parte del duo slovacco, anche nella più schizofrenica "With Horus in the Sky", quando i nostri ritornano sulla strada maestra dei primi pezzi e si lanciano in rincorse chitarristiche qui ancor più complicate che in apertura, ma con un occhio puntato sempre alla tradizione egizia. Il viaggio con i King SVK si completa con "The Age of Aquarius", una song che mi ha richiamato alla memoria un che dei Carnival Coal, sia a livello vocale che musicale. Ora, dopo aver speso tre quarti d'ora in compagnia dei King SVK, senza ascoltarne la musica, potrete solo lontanamente immaginare quali siano i margini di follia di questi due personaggi. Dategli un ascolto, fatevi un favore. (Francesco Scarci)

sabato 18 aprile 2020

Hangatyr - Kalt

#PER CHI AMA: Black, Shining
Hangatyr è uno dei molteplici nomi utilizzati per identificare Odino, la principale divinità norrena. Per tributare la sua figura, il quartetto della Turingia ha adottato questo stesso moniker, rilasciando dal 2006 a oggi tre album. Detto che la prolificità non deve essere proprio il punto forte della band teutonica, accingiamoci oggi ad ascoltare il nuovo arrivato 'Kalt', lavoro autoprodotto da poco rilasciato dai nostri. L'album include otto song che irrompono con la furia glaciale di "Niedergang", un pezzo che gela immediatamente il sangue nelle vene, per quella sua bestialità ritmica e vocale (uno screaming efferato in lingua germanica), giusto un breve accenno ad un black atmosferico ma poi, quello che si configura nelle mie orecchie, è quanto dipinto nella cover dell'album, ossia quell'uomo che cammina sotto una fitta tempesta di ghiaccio. Lo stesso ghiaccio che imperversa nelle note della successiva "Entferntes Ich", un brano più mid-tempo oriented, ma comunque contraddistinto dagli aberranti vocalizzi di Silvio e Ira, e da una componente atmosferica che rimane sempre relegata in secondissimo piano. La bufera prosegue con le melodie agghiaccianti di "Firnheim" e una prestazione a livello vocale che mi ricorda quello del buon Niklas Kvarforth nei suoi Shining, mentre il drumming risuona invasato ed insano, soprattutto nella seguente "Blick aus Eis", quando la velocità del drumming si fa ancor più sostenuta e le chitarre ancor più taglienti. "Kalter Grund" è un pezzo decisamente più controllato, con le sue melodie che ricordano da vicino le release del periodo di mezzo dei Blut Aus Nord, cosi sinistre e malefiche, e per questo eletto anche come mio pezzo preferito, soprattutto per la sua capacità di non eccedere in facili estremismi sonori e per la più preponderante valenza melodica ed una certa ricercatezza sonora. Un malinconico intermezzo strumentale, "...Kalt", e si arriva agli ultimi due brani del cd, "Mittwinter" e "Verweht", quindici minuti affidati ad una tormenta sonora che come il vento sferza i nostri volti con soffi d'aria gelidi, l'act tedesco, con le sue plumbee chitarre, genera atmosfere rarefatte ma comunque dotate di una certa intensità epico-emotiva. 'Kalt', per concludere, è un album complicato, non certo facile da digerire di primo acchito, ma che richiede semmai più ascolti per essere apprezzato nella sua veste cosi distante e glaciale. (Francesco Scarci)

Abeyance - Portraits of Mankind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Ah, ma c'è ancora qualcuno nel mondo che suona death melodico che chiama in causa i vecchi Dark Tranquillity? L'ho scoperto solamente oggi, con l'arrivo sulla mia scrivania dell'EP di debutto dei milanesi Abeyance, uscito sul finire del 2019 per la Sliptrick Records. 'Portraits of Mankind' è il lasciapassare dei nostri per farsi conoscere ad un pubblico più ampio. Dicevamo EP e Dark Tranquillity: cinque tracce quindi per un sound fresco e scorrevole come solo la band di Gotheborg riesce ancora a creare. Si parte in tromba con la title track e un riffing serrato che mette in mostra una bella melodia di sottofondo come da insegnamenti di Mikael Stanne e soci. E poi un saliscendi dinamico di chitarre, breakdown, rallentamenti e finalmente degli assoli interessanti. L'attacco della successiva "In Falsehood Dominion" sembra un estratto da un qualsiasi disco dei Dark Tranquillity, anche se proseguendo nell'ascolto, il muro ritmico si fa più violento, con i vocalizzi del frontman piuttosto radicati nel growling death metal, quello comprensibile però. Poi un'altra frenata e la song s'incanala dalle parti di un mid-tempo, prima della sassaiola finale molto più vicina al post-black che al death metal. Un pianoforte introduce "Mine Are Sorrow and Redemption" (quante volte l'hanno fatto anche i nostri idoli svedesi?), giusto una manciata di secondi e poi via con il muro di chitarre, stop'n go, spoken words in sottofondo, i motori si scaldano per partire a mille, ed eccomi accontentato. Probabilmente il canovaccio è piuttosto scontato, ma il risultato non è affatto male in termini qualitativi. E forse la prima considerazione che farei su questo dischetto in ottica futura, è proprio quella di lavorare sull'imprevedibilità della musica, aumentando in questo modo la longevità d'ascolto della band meneghina. Le qualità per fare bene infatti ci sono tutte e questo è dimostrato anche dall'assolo progressive in coda a questo pezzo. Poi, ascoltando le successive "Innerscape" e "Secretly I Joined Dark Horizons", non posso che apprezzarne i contenuti, sebbene si tratti di un paio di pezzi un po' più classicheggiante nel loro incedere e quindi troppo ancorate a stilemi che forse andavano di moda una ventina d'anni fa. E qui arriva la mia seconda considerazione: cerchiamo di lavorare maggiormente in termini di creatività e personalità, mettendo da parte gli indottrinamenti dei maestri. 'Portraits of Mankind' è sicuramente un bel rodaggio, ma in futuro mi aspetto grandi cose dagli Abeyance, quindi attenzione, che vi tengo sott'occhio! (Francesco Scarci)
 

Hermon - Blackest Night

#PER CHI AMA: Black/Punk, Darkthrone, Celtic Frost
Era addirittura il 1993, quando i qui presenti Hermon si formarono nella elegante Buenos Aires. Tre anni insieme, nessuna release ufficiale, probabilmente tanto divertimento, birre nello scantinato di una qualche casa, li a strimpellare insieme. I tre musicisti argentini dal 1996 in poi, si sono dedicati ad un'altra miriade di progetti (Windfall, Xenotaph, Artes Negra tra gli altri) prima di riflettersi sul da farsi e tornare insieme solo nel 2018, per dare voce al progetto iniziale Hermon. E finalmente, nel 2019, vede la luce 'Blackest Night', un disco che forse sarebbe dovuto uscire 25 anni prima, vista una proposta a cavallo tra punk, black e death. Questo ci dice infatti l'opener "About the Dark Hours", una traccia che poteva essere stata rilasciata tranquillamente dai Darkthrone negli anni '90. Poi, con "Funeral Black Winter" si scatena l'inferno: ritmica cingolata lanciata a tutta forza, con un mood a metà strada tra i primi Mayhem e ancora con la band di Fenriz e compagni. La proposta, come potete immaginare, è assai oscura, ma ovviamente non aggiunge nulla alle forze del male del passato, a cui aggiungerei altri tre nomi per chiudere il cerchio e dare una giusta connotazione al sound della compagine argentina, ossia i primi Celtic Frost, i Venom e i Bathory. I primi due per la loro aura spettrale e qualche influenza che si ritrova a schizzi nell'album, la terza band per una certa vena epica che si riscontra qua e là nei vocalizzi di Nan "Noctambulo" Herrera. Poi, parliamoci chiaro, dai due minuti di "Thinking to Kill" in avanti, per concludersi con "Black Celebration", il disco potrebbe suonare come una celebrazione della carriera dei Darkthrone, ma per quelli è sempre meglio ascoltare gli originali. Insomma un bel salto indietro nel tempo con questa "Notte più Profonda" che ci porta dritta agli albori del black metal. (Francesco Scarci)

(Sons of Hell Prod. - 2019)
Voto: 66

www.facebook.com/hermon-black-metal-183876585863641

venerdì 17 aprile 2020

Akeldam - Domain of Two Kingdoms

#PER CHI AMA: Black Old School, primi Rotting Christ, Gehenna
Perù, lago Titicaca, la splendida località Puno si pone sulla costa occidentale dell'enorme lago montano. Qui nascono addirittura nel 2002 gli Akeldam con il moniker di Titans (durato solo un anno e poi cambiato nell'attuale). Tre album all'attivo per il trio peruviano, datati 2005, 2009 e finalmente ecco arrivare lo scorso anno, 'Domain of Two Kingdoms'. Il nuovo lavoro, complice un lungo silenzio perdurato ben dieci anni, contiene quasi 80 minuti di musica, si dovevano far perdonare qualcosa i ragazzi, eh? Dopo una lunga intro, faccio conoscenza dei nostri con "Despertar en Los Suburbios" ed un sound che mi catapulta indietro nel tempo di almeno 25 anni, grazie ad un black melodico di vecchia scuola ma comunque in linea con quanto proposto nei '90s da gente del calibro di Rotting Christ, la band che sento realmente più vicina al terzetto, anche se in certi passaggi, sono alcune reminiscenze di scuola Dimmu Borgir, ad emergere. Il thrash si coniuga perfettamente qui col black grazie a delle ritmiche, se vogliamo, un po' elementari, ad un lavoro alle tastiere che rende il tutto estremamente atmosferico, proprio in linea con le prime produzioni della band di Sakis e compagni, e penso ad album quali 'Thy Mighty Contract' o 'Non Serviam', il tutto cantato da una voce che ricorda lo screaming degli Immortal (o anche dei cechi Master's Hammer). "Siniestro" è una mitragliata in faccia stemperata solo da un bel break melodico di tastiere e chitarre; magari si avverte qualche imprecisione strumentale, ma francamente non posso che farmi ammaliare dal sound cosi retrò dell'ensemble peruano, poi volete mettere anche il fascino di un screaming distinguibile cantato in spagnolo? Si continua con la contraerea di "Gritos de Guerra", una song che fa sempre della miscela black speed e thrash il suo punto di forza, con le keys relegate in un ruolo piuttosto marginale ma alla fine di grande effetto, qui soprattutto più che in altre parti, a richiamare un certo 'Stormblåst'. In inglese e più mid-tempo oriented, la title track dell'album, anche se le stilettate nella sua prima metà rischiano di essere fatali, mentre le orchestrali sinfonie giungono in nostro aiuto per ridurre il ritmo infernale della song; peccato solo non ci sia qualche assolo a completare l'opera (lo si sentirà solo nella conclusiva "Sacramento") che a quel punto avrebbe goduto di una maggior vena creativa. Più classicheggiante l'incipit di "Abrazando las Sombras", quasi a cavallo tra heavy, power e ovviamente il black, a dispensare note maligne ma sempre dotate di una buona dose di melodia, qui quasi fin troppo eccessiva. Le trame chitarristiche di matrice black thrash (che evocano nella mia mente un altro nome della scena norvegese, i Gehenna) ad opera di Mitchell Calderón Holguín, il furente drumming assassino di Giovanni Calderón Holguín e le harsh vocals dello stesso Mitchell, si mantengono intatte fino alla fine, anche in quelle che sono le tre bonus track finali, che arrivano dal più vecchio materiale della band, ma che comunque mantengono inalterato lo spirito indomito del combo sudamericano. Niente di originale sia chiaro, ma se avete un po' di nostalgia di un passato che ormai non esiste più, perchè non dare una chance a questi Akeldam? (Francesco Scarci)

(Thrashirts - 2019)
Voto: 66

https://www.facebook.com/AKELDAM

lunedì 13 aprile 2020

Antipathic - Covered with Rust

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Torna la band italo-americana degli Antipathic, con un EP che include un paio di song più o meno nuove, ma anche una cover degli Obituary e una dei Cannibal Corpse, ossia quella "Covered with Rust" che dà il titolo al dischetto (mi sembra che un omaggio ai gods americani risieda anche nella cover del cd, da quel 'Butchered at Birth', dal quale la stessa title track di questo EP è estratta). “Hinexorable Hierarchy“ apre con la solita prepotenza schizoide dei nostri, ormai loro marchio di fabbrica, e il classico brutal death del duo formato da Tato e Chris (qui coadiuvati peraltro in alcune parti anche dal vocalist Bob Hodgins dei Human Repugnance) scorre come un fiume in piena tra accelerazioni al limite del grind, spaventosi intrecci sonori e rallentamenti con retromarcia incorporata, che ci fanno entrare in un maelstrom di follia, mentre le isteriche vocals di Tato, vomitano tutto il loro disprezzo per il mondo. Annichiliti dall'opening track, arriva "Reautonomous" (rilettura della vecchia “Autonomous Mechanical Extermination”) con il suo carico di veemenza in formato famiglia, sebbene la band si prodighi costantemente nella creazione di attimi di rarefazione dell'aria e conseguenti momenti di asfissia opprimente. Per fortuna è solo una scheggia di poco più di tre minuti che lascia il posto a "IDGAF" cover di quella ""Don't Care" dei maestri Obituary che figurava in 'World Demise' nel 1994. L'attitudine mid-tempo è la medesima dell'originale ma lasciatemi dire che la voce di John Tardy rimarrà per sempre inimitabile. È il turno dei Cannibal Corpse e del rifacimento di "Covered with Sores" qui cambiata appunto nel titolo, in "Covered with Rust", una song che parte lentamente ma poi divampa in quell'incendiario sound brutale degli originali. Un delizioso antipasto quindi, preludio forse di un nuovo album in arrivo? Mah, staremo a vedere. (Francesco Scarci)

Pornohelmut – Bang Lord

#PER CHI AMA: Experimental/Electro/Industrial
Ottimo il debutto del musicista texano e artista audiovisivo Neil Barrett, sotto il moniker, un po' banale se mi permettete, Pornohelmut; la musica mi ispirava infatti un nome più intellettuale, più nerd. Con questo esperimento sonoro, intitolato 'Bang Lord' (fuori per Atypeek music e Show & Tell Media), Neil si affaccia al mondo musicale con una proposta se non altro eccentrica ed abrasiva. Il lavoro è il risultato di una serie di patterns corrosivi e ritmi messi assieme con gusto e centrifugati al computer, per una manciata di brani che spingono veramente bene, tra crust punk, digital noise, techno, metal, indie, ambient noise ed elettronica sperimentale. Nel disco non c'è niente di nuovo o innovativo poichè tante di queste sonorità sono già state usate, tuttavia bisogna ammettere che una certa geniale intuizione ed una vera fiammata, di reale e sana ispirazione, abita davvero in questo lavoro. Venti minuti per un totale di sette tracce tutte al veleno, ruvide, infiammabili ed esplosive, come una molotov pronta ad essere lanciata. L'effetto in certi casi è immaginabile ed accostabile ad una catarsi musicale tra Godflesh, Prodigy, Swamp Terrorist, Pushifer, l'universo Pigface e perchè no, anche retaggi del seminale progetto denominato Scorn, con i vari paralleli di Mick Harris, tutto rigorosamente filtrato da un tocco digitale moderno e un occhio di riguardo per i suoni più di tendenza tra elettronica e dance. "Wizard Sleeve" è una chicca che sembra essere suonata dai mitici Warrior Soul, in maniera più acida e sintetica, in un futuro temporale lontanissimo dalla loro era, splendida, come l'apripista "Astroglide" e la notturna suite dalle trame techno, "Night Rider". Un disco, 'Bang Lord', stralunato e contorto ma allo stesso tempo omogeneo e straripante di idee sonore, amalgamate con vigorosa e urgente creatività. Un album velocissimo, devastante e carico di energia che per venti minuti di sana follia rock digitale, e ripeto, scrivendolo a caratteri cubitali, mostra un gusto per il crossover di generi, contrapposti tra loro, di tutto rispetto. Una visione del rock tra pixel e transistor, che può piacere a molte fasce di ascoltatori dai target musicali più variegati. Un disco decisamente interessante, da non sottovalutare assolutamente il cui ascolto è parecchio consigliato. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Show & Tell Media - 2020)
Voto: 74

https://pornohelmut.bandcamp.com/album/bang-lord

Horn - Mohngang

#FOR FANS OF: Pagan Back
The German scene is, as you probably know, one of the richest ones in terms of quantity and quality. We can find excellent classic projects, or newer ones that continue to release great stuff. Due to this, it is particularly difficult to find a band which manages to carve its own niche and maintains a bunch of loyal fans after some time. The solo project Horn, located in North Rhine´Westhaplia and founded in 2002, is one of them. The fact of being a one man project makes it more meritorious, since over time it would be logic if the project loses some of its freshness and inspiration. Fortunately, this hasn’t been the case of Horn, a project which released some impressive first efforts like ‘Jahreszeiten’ and ‘Die Kraft der Szenarien’. Anyway, Horn has continued to make interesting albums, though I must admit that its latest works like ‘Turn am Hang’ showed a project reinvigorated and with fresh ideas. Horn has played from its beginning a quite essential form of pagan metal, lacking of truly elaborated compositions, but having a so sincere, authentic essence in its music that its songs were inevitably great. The combination of simple melodies and a strong vocal performance was simply perfect and Horn´s compositions had in those old albums a truly hypnotic attraction. Later on the band evolved with some slightly darker works, while with the last records, Nerrath seems to recover some old majesty, enriched with new ideas.

Having this in mind, I was excited to check what Horn was going to offer this time with the new release ‘Mohngang’. Since the very first listen, we can appreciate that Horn´s core sound is still there in its entirety. The production, as occurred in the latest works, has improved through time and now it sounds reasonable polished and clean, but with a healthy balance between this cleanness and the necessary rudeness that the band requires. Stylistically, the new tracks have the expected pagan black metal sound with a strong epic touch. The initial track "Satt Scheint Der Sud Der Tat" has all the elements we love from this band. Nerrath’s vocals sounds as strong as ever, with his traditional aggressive tone, tastefully mixed with cleaner vocals gifted of an intense epic approach. The drums have a martial sound at times, yet sound varied and well executed. Pace wise, the song flows naturally between faster and slower sections, making a very varied and entertaining track. The album has an impressive start with the opener and the following two or three songs, which sound quite powerful and have a slightly faster pace at times. "Det Star Her Som Sletta" is another punch in your face, with its battling tone. The guitars shine in this song and in general in the whole album, with very well executed riffs, with a distinctive melodic and triumphal tone. The track is enriched with some acoustic guitars and epic arrangements, aimed at increasing the vigorous tone of this excellent song. Horn doesn’t overcharge its compositions with tons of arrangements or details, as they are moderately, yet tastefully, introduced when it’s required, in order to enrich the composition and give it a different and distinguishable touch. After the beautiful and folk interlude of "Dulcimerstück", the album reaches its end with two quite different tracks, showing the two sides of Horn. "Vom Tribock Hohl Geschossen" sounds as powerful and epic as the rest of the album, with this vibrant pace and tone, while "Ødegård Und Pendelschlag" has a slightly more somber tone, like a soundtrack after the battle. This song could serve as the sonic representation of the devastation depicted in the album cover. It’s not maybe my preferred track from this work, but it serves as a very appropriate end for the album, leaving aside the cello version of the track "Die Mit Dem Bogen Auf Dem Kreuz" which comes later. This version of the song is a beautiful and dramatic closure of the new album, even if it could be considered as a bonus track.

'Mohhgang' is definitively a worthy listen if you like Horn and pagan metal in general. It’s difficult to place this album in such a great discography but, it is undoubtedly an excellent release full of great tracks, brisk melodies, majesty and strength. (Alain González Artola)

(Iron Bonehead Productions - 2020)
Score: 82

sabato 11 aprile 2020

Ayyur - Balkarnin

#PER CHI AMA: Black, primi Burzum
Non è la prima volta che veniamo a contatto con una band tunisina dal momento che abbiamo già recensito su queste pagine i Persona. Da Sousse, ecco arrivare gli Ayyur, band dedita ad un black metal che in questo EP raccoglie un paio di nuove canzoni oltre a quattro tracce mai rilasciate, risalenti al periodo 2008/2013, però ahimè sola esclusiva dell'edizione limitata in cassetta di questa release, quindi non nelle mie mani. Diamo allora un ascolto a "I" e "II", le due song di 'Balkarnin', le sole a disposizione sul sito bandcamp degli Ayyr. La prima è un black mid-tempo assai oscuro, la cui particolarità è quella di avere un intermezzo liturgico a metà brano, ove sembra configurarsi un paesaggio sonoro desolato, da cui ripartire poi con un riffing ipnotico e ridondante, di chiara matrice burzumiana. La seconda traccia proposta dal misterioso trio tunisino (che consta peraltro di ex membri di Deathspell Omega e Lord Ahnman) non si discosta poi di tanto, con le chitarra zanzarosa di Angra Mainyu a tessere un'oscura melodia in sottofondo mentre il cantato di Shaxul sembra evocare quello primordiale di Mancan dei nostrani Ecnephias. Insomma, per ora 'Balkarnin' non ci offre ancora nulla di particolarmente originale, ma questo si era già evinto dalle precedenti release. Il consiglio che mi sentirei di dare alla band è quello di provare ad approfondire le melodie etniche berbere e cercare di coniugarle col black metal, al fine di trovare una proposta realmente accattivante. Per ora, nulla di nuovo sotto il sole cocente della Tunisia. (Francesco Scarci)

(Dead Red Queen Records/Bad Moon Rising - 2020)
Voto: 60

https://ayyur.bandcamp.com/album/balkarnin

The Ruins of Beverast/Mourning Beloveth - Don't Walk On The Mass Graves

#PER CHI AMA: Black/Doom
In attesa di ingannare il tempo affinchè i rispettivi nuovi lavori vedano la luce, ecco che i The Ruins of Beverast e i Mourning Beloveth, si ritrovano in uno split EP rilasciato in formato 10" per regalarci venti minuti in compagnia di due realtà davvero interessanti dell'etichetta tedesca Vàn Records. Ad aprire le danze di questo 'Don't Walk On The Mass Graves', ci pensa la chitarra acustica degli irlandesi Mourning Beloveth con "I Saw a Dying Child in Your Arms", quasi dieci minuti di sonorità evocative che chiamano immediatamente ed inequivocabilmente in causa i Candlemass con quel cantato dominante e pulito del frontman Frank Brennan, che offre la sua splendida voce ad un delicato supporto ritmico in quella che sembra a tutti gli effetti una ballad. Il tremolo picking a metà brano, oltre a donare una forte componente malinconica, sembra quasi prepararci ad un cambio di registro nella seconda metà del pezzo. La song sembra crescere in intensità ed elettricità, non fosse altro che fa la sua comparsa anche il growling di Darren Moore nonostante la componente emotiva si mantenga comunque in quell'ambito di malessere e depressione tanto caro al quintetto di Athy. A seguire ecco i teutonici The Ruins of Beverast con il pezzo "Silhouettes Of Death's Grace" e la loro consueta amalgama di suoni spettrali che da sempre contraddistinguono la one-man-band capitanata da Alexander Von Meilenwald. La song è lenta e avvolta da un'insana ed angosciante atmosfera (forte anche di sovraincisioni di voci e dialoghi), acuita poi dallo screaming malefico del mastermind, e che vede cambiare registro solamente a 3/4 di brano, in una discordanza sonora che riuscirà a prendere il sopravvento prima dell'epilogo affidato ad una disturbante melodia che evoca un che dei Blut Aus Nord più ispirati, il tutto perennemente in combinazione con il suicidal black doom degli svedesi Shining. Insomma, che ne dite della proposta delle due band? A me piace parecchio. (Francesco Scarci)

Licantropy - Extrabiliante

#PER CHI AMA: Surf Rock'n' Roll
Storie di lupi e di lune, di metamorfosi e delirio, di fantasie e demoni squisitamente antropomorfi. Scritte e cantate dal diabolic-trio più diabolic del Triveneto, i Licantropy. Incise ad arte su un compact-disc e confezionate da un’iconica copertina, decisamente evocativa (devo ammettere che mi ha fatto sorridere a prima vista). Se pensate che un tale abstract, non possa riassumere un album simile rendendogli giustizia, beh avete certamente ragione. Non è compito facile raccontarvi con esattezza cosa si può trovare dentro questo disco. Niente paura, non vi ho per niente rovinato la sorpresa, anzi: quelle non mancano. Sempre in agguato dietro l’angolo, brano dopo brano. Dopo una ispanica intro ("Hispanic Wolf") a dipingere il background notturno in cui ci trasportiamo, veniamo investiti dall’impetuoso surf-rock’n’roll sanguigno e affamato dei Licantropy. Aggiungiamoci un pizzico d’influenza punk e una buona dose di psichedelia ammaestrata dagli organi e dai synths di Mr. “Royal Albert Wolf”. Ed eccoci servito. Due brani diretti e sparati come "Big Bad Affaire" e la licantropica "Pale Moon Light", ottimamente impiegabile come colonna sonora per una surfata al chiaro di luna, con i suoi notevoli fraseggi affidati all'Hammond guitar. E ancora, dopo le cavalcate a ritmo di rock della title-track (che contiene addirittura una sezione di scratching), arriviamo persino ad incontrare elementi progressivi: ad esempio in "Bite Me Wolf", con la sua struttura ritmica in continua evoluzione, seppur poco evidente ad un primo ascolto, o nella conclusiva "Coyote", perfetto brano da applausi finali. Dall’incalzante energia iniziale giungiamo, oso dire, ad una dilatazione in chiave stoner. Complessità strutturale, arrangiamenti da manuale ed un’altra abbondante dose di scratch per questo vero e proprio viaggio, verso la fine dell’incubo a luna piena, iniziato una decina di canzoni prima. La visione interpretativa personale di un rock’n’roll più oscuro e notturno, mi ha ricordato un’altra underground-band nostrana a cui sono piuttosto affezionato, gli Slick Steve & The Gangsters, seppur, sia chiaro, ci troviamo su due strade stilistiche abbastanza diverse. 'Extrabiliante' vede la luce come secondo album in studio dei Licantropy, che avevano esordito nel 2017 con 'We Were Wolves', un disco dalle sonorità molto più ruvide e scatenate. Il ritorno del trio composto da Tom Wolf (chitarra & voce), Luke Sky Wolfer (batteria & voce) e Royal Albert Wolf (organo & voce), vede un lavoro di canalizzazione di quella stessa energia in arrangiamenti molto ben studiati. Molta attenzione ai numerosi e ricercati dettagli, che emergono ascolto dopo ascolto: come dicevo, ricco di sorprese che non si raccontano, ma si devono ascoltare. Avvertenze: 'Extrabiliante' può causare irrefrenabile voglia di muovere la testa e battere i piedi a ritmo frenetico. Voluto omaggio al west di Costner 'Dances with Wolves'? (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

venerdì 10 aprile 2020

Golden Ashes - The Golden Path of Death Acceptance

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Credo che Maurice de Jong sia membro/leader grosso modo di una ventina di band (tra le quali vi ricordo Gnaw Their Tongues, Cloak of Altering e De Magia Veterum) ed ex di un'altra buona decina. Giusto per non stare con le mani in mano, eccolo tornare con un nuovo progetto, i Golden Ashes, per cui il factotum olandese ha già rilasciato lo scorso anno il debut 'Gold Are the Ashes of the Restorer'. Visto che la vena ispiratrice del musicista non si è ancora assopita e parrebbe che un nuovo album sia in uscita in questo 2020, ecco che Maurice ha pensato bene di deliziarci con un piccolo antipasto in cassetta, 'The Golden Path of Death Acceptance'. Un EP di quattro pezzi che si apre con l'ambient dronico-desolante della title track, che lascia ben presto posto a "The Light's Rebirth Unfolding", in cui emerge l'attitudine terrostico-sonora del mastermind di Smallingerland. Le ritmiche sono infatti furiose e sulla belligerante matrice musicale black, si inerpica lo screaming ferale dell'artista originario del Suriname e di supporto, anche una serie di atmosfere davvero interessanti che ne minimizzano la ferocia, arrivando il sottoscritto, quasi a fischiettare il motivetto di sottofondo. Incredibile. "The Golden Path" è un altro assalto all'arma bianca, tra dirompenti sciabolate estremiste e spaventose vocals, in un calderone sonoro che ha un suo fascino evocativo. Si arriva velocemente a "To Travel Unknown Spiritual Winds", la song più cupa del lotto ma anche quella apparentemente più controllata grazie ad una ritmica decisamente meno frenetica, un'effettistica più ingombrante e i soliti aspri vocalizzi del buon Maurice a condurre i giochi. Insomma, dopo aver rilasciato un centinaio di release con le sue molteplici creature, Maurice conferma ancora una volta di essere dotato di una sofisticata ed estrema vena creativa. (Francesco Scarci)

3 South & Banana - S/t

#PER CHI AMA: Psych Pop
È un album di svolazzante psichedelia cristallina, leggera e pop quello della one-man-band berlinese 3 South & Banana, un lavoro dal carattere indie e da una curata rilettura di alcune sonorità dei '60s, grazie alla voce del mastermind Aurèlien Bernard a coordinare poi tutto il resto (una voce che ricorda peraltro quella dei Mercury Rev). I ritmi del disco sono soffusi, a volte esotici e le composizioni cariche di suggestioni e richiami solari con la psych a materializzarsi alla maniera di Fruit Bats e altri artisti simili accasatisi sulle rive dell'odierna e inimitabile Sub pop. L'album sfodera una certa dimensione alternativa, con affinità bossanova/new wave stile Nouvelle vague con la raffinata eleganza e l'attitudine da moderno menestrello cosmico. La sognante "KittyKatKatHappyBadSad", si colloca a metà strada tra un vecchio sound freak e il mondo incantato degli Eels di 'The Decostruction', (la canzone più bella del disco secondo me) mentre il trittico, "Intermission" (breve strumentale dal sapore cinematografico anni '60), "Avec le Coeur" e "Bâtons Mêlés" (altra bellissima canzone), tradiscono le origini francesi dell'autore, sfornando un suono ai confini con il pop, tanti suoni sintetici di vecchia scuola bubblegum music e la musica d'autore francese (penso a Marie Laforêt), senza scordare la new wave immortalata dalle ottime release uscite anni or sono, dalla Le Disque du Crepuscules, tipo Anna Domino nell'album 'East and West' del 1984, o il raffinato suono dei Durutti Column di primi anni '80 ('LC'). Il disco quindi si srotola in un'atmosfera surreale (guardatevi il bel video dai contorni naif di "55 Million Light Years Away" per farvi un'idea di quest'artista), sospesa e cosi dotata di una verve pacata e allucinata, come se il pop dalle tinte soft e il jazz, fossero immersi nell'LSD ("I Will Not Stop Loving You") forgiando cosi un suono coloratissimo, caldo ed esotico, come nella beatlesiana "Roof Top Trees". La chiusura è affidata ad una ballata cristallina ("Wings"), una song dalla cadenza ipnotica quasi in assenza di ritmo, per un finale poi dal moto ascensionale, pieno di magia, che ci permette quasi di fluttuare nell'aria. L'album è stato concepito nel ricordo della visione in technicolor che i Broadcast avevano della musica e il mito di 'The Soft Bulletin' dei The Flaming Lips nell'anima, ma qui con radici pop ben ancorate nel cuore. (Bob Stoner)

Darkseed - Ultimate Darkness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Crematory
Era il 2005 e i tedeschi Darkseed arrivavano al mirabolante traguardo del sesto album, il loro secondo per la Massacre Records, proseguendo un percorso evolutivo molto simile a quello intrapreso dai connazionali Crematory. Ricominciando là da dove avevano lasciato 2 anni prima con 'Astral Adventures', i nostri proseguono sulla stessa scia con questo 'Ultimate Darkness' continuando a proporre un genere che già all'epoca aveva ormai ben poco da dire. Non voglio stroncare tuttavia la proposta musicale del sestetto Monaco poiché, per quanto riguarda esecuzione e melodia, si attesta su livelli medi, quello che emerge semmai dalle note di questo album è superato. I cliché del genere ci sono tutti: chitarre cupe super infarcite di tastiere goticheggianti con richiami più o meno imbarazzanti ai vari Rammstein, o agli album 'Host' e 'Believe in Nothing' dei Paradise Lost. Come dicevo, le chitarre sono qui assai oscure e pesanti, però a farla da padrone sono decisamente le tastiere, sopra le quali si staglia la voce di Stefan Hertrich che spazia tra vocals pulite e altre un po’ più roche. In alcuni frangenti la proposta musicale dei nostri mi ha riportato alla mente gli Evereve, forse per i coretti tanto accattivanti quanto mai noiosi alla lunga; in “The Fall” ho sentito un riff preso in prestito da 'Symbol of Life' ancora dei Paradise Lost. Insomma tutto questo per dire che forse questo album potrebbe anche piacervi se i suddetti gruppi rientrano tra le vostre preferenze in quanto 'Ultimate Darkness' riesce comunque a coniugare un po’ tutti questi generi: gothic, elettronica, dark wave e piacevoli ritornelli. Il problema è che non crdo di riuscire ad andare oltre al terzo ascolto, poiché la band è priva di quella verve che la contraddistingueva agli esordi di cui ora rimane poco di entusiasmante e coinvolgente. Per i fan dell'ensemble teutonico, vorrei segnalare che in giro esiste anche un'edizione che comprende un secondo cd contenente 13 unreleased tracks della discografia dei nostri. (Francesco Scarci)

(Massacre Records - 2005)
Voto: 60

https://www.facebook.com/DARKSEED-46103123056/

Eluveitie - Slania

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Pagan/Death, Cruachan, Korpiklaani
Andiamo a ripescare quello che è stato il secondo lavoro degli svizzeri Eluveitie, ossia 'Slania' del 2008 (riproposto peraltro in occasione del decennale nel 2018 con una cover rinnovata e alcune bonus track, le demo version delle song incluse nell'album). La band elvetica torna con quel sound rude, ma atmosferico, caratterizzato dall'utilizzo di strumenti tipici della tradizione celtica (l'hurdy gurdy e la fisarmonica per esempio), tradizione alla quale si rifà la band alpina ma non solo, vista la presenza anche di altri strumenti tipici svizzeri come lo zugerörgeli (una specie di accordion) e il bodhràn. Più vicini alle sonorità di Korpiklaani e Asmegin, accomunati più per ideologia agli irlandesi Cruachan, l'act d'oltralpe (composto da ben otto elementi!) rilasciò questo interessante e suggestivo lavoro, addirittura per la Nuclear Blast e il risultato non fu affatto male. Il death metal dalle tinte folkish dell'act di Zurigo mantiene la rudezza del genere, ma grazie a preziosi e ariosi arrangiamenti, è capace di spingerci a ritroso nel tempo di mille anni, dove i riti pagani si consumavano quotidianamente. A me questo lavoro piace senza ombra di dubbio, anche se rimango stupito di fronte all'incedere super indiavolato di un pezzo come “Bloodstained Ground” che di folk ha ben poco, se non il finale. Sorprendente è l'aggettivo che si deve dare a un disco di simile fattura, perchè in grado di rievocare con estrema efficacia, le tipiche melodie popolari irlandesi, pur mantenendo intatto l'approccio feroce del death metal: riffing veloci, nervosi e ritmiche sostenute delineano il sound di fondo di 'Slania'; tocca poi al magico suono delle fisarmoniche e dei violini donare quel quid in più ad un lavoro in grado di spingere la band verso quello che sarà il meritato successo. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2008)
Voto: 75

https://www.facebook.com/eluveitie