Cerca nel blog

sabato 15 marzo 2025

Ofnus - Valediction

#PER CHI AMA: Black Melodico
Li ho adorati con il loro primo lavoro, 'Time Held Me Grey and Dying'. Ora i gallesi Ofnus ritornano con un disco ancor più severo e oscuro. 'Valediction' è il titolo che racchiude le sei nuove tracce, che esplorano i meandri del dolore e della morte. L'album si apre con "The Shattering", un brano che sembra evocare il momento in cui la realtà si frantuma sotto il peso della perdita. Le chitarre, sparate a velocità estreme, s'intrecciano in un lamento straziante, mentre la batteria pulsa impazzita come un cuore che si rifiuta di fermarsi, nonostante il dolore. È un incipit affidato a un post black arrembante che non lascia scampo, trascinando l'ascoltatore in un abisso di disperazione. Tuttavia, scorgiamo anche parti più malinconiche, in cui le melodie (e le clean vocals) smorzano la furia ancestrale dissipata. Segue la più meditabonda "Reflections of Delusion", un pezzo che si muove tra atmosfere eteree e riff aguzzi, come se la mente cercasse di aggrapparsi a ricordi distorti, ormai corrotti dal tempo. Il canto del frontman rimbalza da uno screaming acuminato a un growl profondo, mentre l'assolo conclusivo regala attimi di una vena progressiva che sembra custodita gelosamente dal quintetto gallese. Con "Throes of Agony", la proposta sembra convolare verso un apice di intensità emotiva, anche se il brano è un vortice di ritmiche tormentate che si perdono nel vuoto. La produzione è cruda e viscerale, andando quasi ad amplificare il tormento che la band vuole trasmettere. È forse con le più lunghe "Proteus" e "Zenith Dolour" (21 minuti totali) che i nostri raggiungono le vette più rappresentative di un album decisamente più feroce del precedente. Qui meglio si bilanciano furia e malinconia, attraverso chiaroscuri chitarristici e atmosfere più delicate. Infine, la title track "Valediction" chiude il cerchio con una maestosità funerea, tra galoppate imbizzarrite e frammenti melodici. È un addio, un ultimo sguardo al passato prima di essere inghiottiti dall'oblio. Qui, gli Ofnus dimostrano tutta la loro abilità nel creare un'atmosfera che è al tempo stesso opprimente e catartica, lasciando l'ascoltatore svuotato, ma stranamente purificato. Un disco da ascoltare per confrontarsi con i propri tormenti interiori. (Francesco Scarci)

(Naturmacht Productions - 2025)
Voto: 74
 

giovedì 13 marzo 2025

Sear Bliss - Heavenly Down

#PER CHI AMA: Symph Black
I Sear Bliss potrebbero essere annoverati tra i pionieri del black metal atmosferico-avanguardistico. Me ne innamorai infatti quando nel 1998 uscì 'The Haunting', in cui faceva la comparsa nell'intelaiatura ritmica della band, la tromba. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e i nostri sono tornati alla carica nel 2024 con 'Heavenly Down', nono album per la band che non solo conferma il loro status di maestri del genere, ma li proietta verso nuove dimensioni sonore. Questo disco è un viaggio cosmico, un’esplorazione tra cieli tempestosi e abissi emotivi, dove ogni nota sembra avere un’anima, tra atmosfere epiche e tromboni trionfali che già si svelano nell'opening track, "Infinite Grey", che ci dà buone sensazioni di come sia la band oggi, dopo un silenzio durato sei anni. E se c’è una cosa che i Sear Bliss sanno fare meglio di chiunque altro, è quello di fondere il potere distruttivo del black metal con melodie che ti sollevano da terra. E questo nuovo disco non fa eccezione, dando largo spazio ai tromboni, vero marchio di fabbrica della band, che risuonano maestosi e aggiungono un’aura epica, quasi cinematografica ai brani. "Watershed" rappresenta il secondo indizio, con il suo mid-tempo ragionato e i suoi fiati a prendersi il giusto spazio che meritano. "The Upper World" è il terzo indizio, e a questo punto, come diceva Agatha Christie, tre indizi ci consegnano la prova di come il quintetto magiaro sia in grado di offrire melodie taglienti, passaggi orchestrali, creando un contrasto perfetto tra caos e armonia, epicità e melodia che troverà modo di esplicarsi anche attraverso altri splendidi brani, tra cui la più mite e onirica title-track e la cosmico-sperimental-elettronica "The Winding Path", un pezzo di notevole spessore che racchiude l'essenza di questo sorprendente 'Heavenly Down'. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Productions - 2024)
Voto: 80

https://searblisshhr.bandcamp.com/album/heavenly-down

martedì 11 marzo 2025

Räum – Emperor of the Sun

#PER CHI AMA: Raw Black
Dagli abissi di Liegi, ritroviamo i Räum che tornano a squarciare la realtà con 'Emperor of the Sun', secondo sigillo scagliato nel vuoto in questo inizio 2025, come sempre sotto l’egida della Les Acteurs de l’Ombre Productions. Dopo aver recensito, non troppo brillantemente a dire il vero, il precedente 'Cursed by the Crown', mi ritrovo oggi ad ascoltare una band che nel frattempo dovrebbe aver affinato la propria arte, costruendo un altare di gelo e fiamme che brilla di un’oscurità tanto feroce quanto ipnotica. Sette lame di un black metal che sanguina melodia (poca) e disperazione (tanta), laddove non c’è redenzione, ma un inno alla caduta, un’eco di grandezza e rovina che si riflette nei resti di un’umanità condannata a divorare se stessa. Il nuovo disco si apre con "Eclipse of the Empyreal Dawn" e uno squarcio di chitarre gelide che si leva su un drumming furioso, mentre folate atmosferiche s'intrecciano a un cantato che sembra emergere dalle viscere della terra. L’atmosfera è densa, quasi sulfurea, ma vi garantisco che lo sarà ancor di più in "Grounds of Desolation", un’eclissi che soffoca la luce con melodie eteree, un lamento da terre desolate spezzate da un black mid-tempo, che vede in un asfissiante break centrale, un interludio spoglio, quasi spettrale che lascia spazio a un vuoto che inghiotte. Ci eravamo persi "Nemo Me Impune Lacessit", ma che dire di un brano sparato alla velocità della luce e tagliente come schegge di ossidiana, grazie al suo black crudo, selvaggio e lacerante? E sulla medesima falsariga, ecco accendersi le fiamme di "Towards the Flames", un assalto furioso, al fulmicotone, con un riff impetuoso, uno screaming indemoniato che si eleva su un drumming martellante. Non troppa originalità per i nostri, ma questo già lo immaginavo. E la causticità sonora prosegue anche in "Obscure", un altro brano in cui non c'è il benché minimo avviso di tregua. Solo blast-beat feroci e chitarre in tremolo picking che urlano la propria malvagità, guidandoci attraverso il puro caos. Con la title track, il ritmo sembra finalmente rallentare in un'introduzione lenta e inquietante che dura, ahimè, solo pochi secondi. Poi spazio ad altre sciabolate ritmiche, sebbene il riffing torni a muoversi su ritmi più compassati e oscuri. Quello dei Räum è un suono alla fine troppo glaciale per i miei gusti, non che sia male ma mi trasmette poco, ma questo l'avevo già sottolineato un paio di anni fa. E la conclusiva "A Path to the Abyss" non stravolge la mia valutazione finale, vista la sua viscerale brutalità che chiude la porta di quell'abisso infernale in cui siamo sprofondati. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 64

https://ladlo.bandcamp.com/album/emperor-of-the-sun

lunedì 10 marzo 2025

Vuur & Zijde - Boezem

#PER CHI AMA: Post Black/Post Punk
'Boezem' degli olandesi Vuur & Zijde è un debutto audace e sorprendente, che fonde abilmente elementi di post-punk, shoegaze e black metal, in un'unica esperienza musicale avvolgente. La band, composta da membri di Terzij de Horde, Witte Wieven, Laster (tutta gente che abbiamo già incontrato qui nel Pozzo), ha creato un album che si distingue per la sua personalità e originalità, attraverso un viaggio sonoro peculiare, che vede aprirsi con "Onbemind", song roboante, melodica e malinconica, complice anche la voce della brava Famke, dotata di una timbrica pulita che si pone su un'architettura ritmica presa in prestito dal post black. L'impatto è dei migliori, perché decisamente inaspettato e soprattutto perché, a fronte di una possente ritmica, c'è sempre la calda voce di Famke (stravagante peraltro l'uso dell'olandese nelle liriche) a smorzare toni altrimenti collocati su un mid-tempo, sempre teso a improvvise accelerazioni, ma anche a momenti più onirici, proprio come accade nella seconda traccia. L'album è comunque un susseguirsi di buoni pezzi, con le chitarre sempre cariche di profondità malinconica, capaci di intrecciarsi e ben amalgamarsi con synth sognanti e ritmi a tratti, danzanti. Chiaro, ci sono anche momenti più ostici da digerire, e "Ús" è un bell'esempio di sonorità lente e dissonanti. Ci pensa poi "Omheind" a far ripartire le danze con il suo post punk incisivo e raffinato, con quel bel passo pulsante a guidarne le melodie, cosa che si riproporrà anche in "Adem". "Kuier" è decisamente lenta e oscura, più affine musicalmente a "Ús", ma forse la sua ridondanza ritmica la rende meno convincente rispetto alle altre. Meglio "II", sebbene anche qui, ci si attesti su sonorità claustrofobiche non cosi facili da digerire. Con "Nest" ci troviamo di fronte a pura e semplice furia black, corredata però dalla pulizia vocale di Famke a stemperarne ancora le frustate ritmiche. Alla fine, 'Boezem' è un album complicato che invita a inevitabilmente a numerosi ascolti per poterne cogliere ogni sfumatura più recondita. Bravi, buon esordio. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2024)
Voto: 75

https://vuurenzijde.bandcamp.com/album/boezem

sabato 8 marzo 2025

Shepherds of Cassini - In Thrall to Heresy

#PER CHI AMA: Prog/Psych/Post Metal
Avevo recensito i precedenti due album, rispettivamente nel 2013 e 2015, e li intervistai nello stesso 2015. Poi, un silenzio durato ben 10 anni. E ora, dal cuore pulsante di Auckland, gli Shepherds of Cassini (SoC) riemergono con 'In Thrall to Heresy', terzo capitolo della loro personale saga. Ma questo non è un semplice ritorno, è una metamorfosi, un’opera che spinge il progressive metal in territori inesplorati, intrecciando complessità tecnica, psichedelia turbinante e un’architettura musicale che sfida le convenzioni. Qui, il quartetto neozelandese dimostra come il prog non sia solo un genere, ma un’etica, un viaggio attraverso otto brani che rifiutano la stasi per abbracciare l’evoluzione. Il disco si apre con "Usurper", un'epopea sonora che ridefinisce i limiti del progressive, grazie a giochi in chiaroscuro affidati a un elegante arpeggio di chitarra che andrà successivamente a fondersi con un basso maestoso e con la voce (che faccio tuttavia ancora fatica a digerire, nella veste clean) di Brendan Zwaan. Il flavour sonico ci riporta immediatamente ai Porcupine Tree, ma presto il tutto sarà travolto dal violino elettrico di Felix Lun, con un suono che stride come un oscuro presagio. La struttura del pezzo diventa ben presto un labirinto, tra esplosioni prog e rallentamenti di "opeth-iana" memoria, in bilico in un continuo stato tensivo. Ora ricordo perché li ho adorati nei precedenti lavori. Forse preferivo quando i vocalizzi valicavano il growl e il suono era più orientato al post metal, ma anche in questa nuova veste, è chiaro che i nostri abbiano parecchio da dire, tra assoli di violino (alla Ne Obliviscaris) ed escursioni nel prog rock. Tempo di un intermezzo spaziale e siamo a "Slough", un altro brano dall'intelaiatura sonica tipicamente prog, tra cambi di tempo, atmosfere mutevoli, un groove di basso in sottofondo che ribolle come lo stufato in una pentola a pressione, graffi di chitarra che agitano melodie cerebrali - scuola King Crimson - e furiosi crescendo esplosivi, coadiuvati qui anche da un cantato estremo. Difficile ipotizzare cosa aspettarsi in tutto questo marasma, se dopo le derive estreme, si sfocia in momenti di calma ipnotica che disorientano non poco. Ma questo è il bello degli SoC. "Vestibule" è una lunga (un filo troppo) intersezione di cosmic psych rock che fa da passaggio verso l'ignoto che si materializza con la successiva "Red Veil". Qui, un sincopato riffone di chitarra guida la sghemba melodia, a braccetto con il growling di Brendan, in un brano che potrebbe evocare un che dei Tool, in un pezzo comunque ostico, contorto, furioso, una continua danza tra imprevedibili punteggiature arpeggiate e roboanti partiture ritmiche, in un precario equilibrio tra melodia e prog sperimentale in un continuo crescendo dinamitardo. "Mutineers" è un altro sinistro bridge strumentale affidato a chitarra, violino e tastiere dissonanti, una distopica dilatazione del tempo che ci accompagna ad "Abyss". Qui, realmente si sprofonda in un abisso temporale di oltre 16 minuti che vede il brano spalancarsi con un basso ipnotico, preludio della fine del mondo. Effetti vocali filtrati, percussioni tribali, suoni di synth in sottofondo e la trasfigurazione di nuovi mondi in musica, narrati dalle efficaci clean vocals di Brendan, sono tutto quello di cui avete bisogno. Il brano evolve in una matrice sonora contrastata, da brezze eteree a sezioni più pesanti che si sciolgono in interludi post rock guidati dal violino imbizzarrito di Lun, in grado di guidare l'ascoltatore attraverso un'oscurità densa e affascinante (ascoltatevi gli ultimi due minuti della song e capirete cosa intendo), in un viaggio complesso e avvincente. In chiusura, un pianoforte introduce "Threnody" e la sua melodia fiabesca che chiude un disco pronto a lasciare il segno. (Francesco Scarci)
 

giovedì 6 marzo 2025

Voidwards - Bagulnik

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Drone
Due sole lunghe tracce per un disco estremo ancorato in uno stallo stilistico che vede le sue salde basi a metà strada tra il doom più funereo e il drone ambient più sinistro. La cosa che colpisce di più, è che per capire al meglio lo spirito che anima quest'opera, bisogna conoscere la vera storia che ha ispirato queste due composizioni, che possono essere intese come parte di un concept album a tutti gli effetti. Siamo nel 1900, quando la popolazione di un paese nel nord della Russia è investita e tormentata da un'onda anomala di depressione, insonnia, morte e paure, una psicosi generale, fatta di allucinazioni, che si verrà a scoprire solo in seguito, provocate dalle neurotossine dei fiori di una pianta che cresce nella zona. Il ritrovamento di un diario da parte del vocalist Lejonis (voce, chitarra, violoncello), scritto da un'insegnante del luogo, fa conoscere al mondo questa storia oscura e offre al duo russo lo spunto necessario per dare vita a questa colonna sonora da incubo, intitolata 'Bagulnik', ovvero il nome del fiore incriminato, che in latino è chiamato Ledum palustre. Bella la grafica di copertina che supporta al meglio questo viaggio verso un paesaggio da incubo, desolato, colmo di disperazione. La sua atmosfera asfissiante e il suo passo funebre, si sposano perfettamente con la descrizione del booklet interno, permettendo un ascolto ancor più motivato e approfondito, poiché non conoscere l'origine da cui provengono queste sonorità, potrebbe non far comprendere la bellezza reale di questo album, e farci perdere la possibilità di immergersi in una natura così malvagia, violenta, oscura e devastante. Possiamo definirla una lunga colonna sonora che si srotola a passo lento con percussioni distanti e un sound grave, asfissiante, misterioso e lugubre, una voce gutturale che narra, ansimando nella lontananza, aumentando il collasso nervoso e l'allucinazione per l'ascoltatore, ma la cosa che rende il disco ancor più apprezzabile è che veramente sembra di essere di fronte a un film cupo, misterioso, inquietante e carico di tensione. Non è facile accostarlo a qualche altro titolo di questo genere musicale, quindi il mio consiglio è di leggere attentamente il booklet, chiudere gli occhi e gustarsi questo viaggio sonoro in tutta la sua raggelante bellezza. (Bob Stoner)

mercoledì 5 marzo 2025

Peacemaker - Internal Revolution

#PER CHI AMA: Thrashcore
Mi mancava ascoltare un po' di musica "marciona" e direi che 'Internal Revolution', secondo atto dei polacchi Peacemaker, incarna al meglio questa mia definizione. Questo disco è una dichiarazione di guerra alle schifezze commerciali che ammorbano l’aria, un pugno in faccia tirato da cinque tizi di Rawicz che non scherzano di certo. Nove pezzi, di cui gli ultimi tre pescati dritti dall’EP 'Words of My Life' del 2017, ti sbattono contro un muro di suono puro e semplice, a partire da "(We Come) From Nowhere". Qui i riff ti aggrediscono come un pitbull scappato dalla catena, con quel sapore thrashcore dei primi ’90 che urla Suicidal Tendencies nei cori e ti fa pensare ai nostri IN.SI.DIA che spaccavano tutto ai tempi d’oro. È roba che ti entra nelle ossa e non ti molla più. Il virus si diffonde veloce: "Stay Human" rallenta un filo, ma ti colpisce con una pesantezza che sa di Machine Head, anche se non siamo ancora al livello dei titani di Oakland. Eppure, se sei uno che vive per le chitarre che tagliano come rasoi e i ritmi che ti fanno sbattere la testa contro il muro, qui c’è pane per i tuoi denti. "Infected Mind" ti spara in faccia un’apertura che sembra un martello pneumatico, con cambi di tempo che tengono alta l’adrenalina e un finale dove la batteria pesta come se volesse sfondare il pavimento – roba da far tremare i vetri! La voce? È un casino strozzato, un mix tra un growl che non decolla e un pulito che inciampa, ma cazzo, funziona alla perfezione col sound corrosivo di questi cinque selvaggi. Il copione è quello classico del thrash ’90: "Today Is the Day" e la title track non inventano niente, ma ti trascinano in un vortice di riff compatti e ritmi che non accelerano mai fino a velocità folli, preferendo affogarti in una melma sludge che puzza di marcio. Poi arrivano i pezzi ripescati dall’EP – "The Rat Race Has Started" è un’esplosione breve e feroce, "99 Thousand of Lies" ti pesta con quel groove distorto che strizza l’occhio ai Pantera. 'Internal Revolution' non è un disco che rivoluziona il mondo, ma è un blocco di granito, genuino e incazzato, con le radici piantate dritte nei gloriosi anni ’90. Se sei uno di quelli che rimpiange i giorni in cui il thrash si suonava con le budella e non con i computer, questo album ti farà pogare fino a spaccarti il collo! (Francesco Scarci)

martedì 4 marzo 2025

Deus Sabaoth - Cycle of Death

#PER CHI AMA: Symph Black/Doom
Dal gelo infernale dell’Ucraina, emergono i Deus Sabaoth con 'Cycle of Death', un debutto che lacera il silenzio sotto il vessillo indipendente di un’auto-produzione. Sette tracce che si accodano a un black melodico, in un’ode alla desolazione che non si limita a urlare nel vuoto, ma lo veste di armonie strazianti e sinfoniche. Qui non troverete il caos primordiale tipico del black nudo e crudo: qui la melodia è un’arma, affilata e intrisa di un dolore che si riflette nelle steppe desolate e nel peso di un’esistenza vana. Forgiato in un paese spezzato dalla guerra, il disco respira un’atmosfera di resilienza e malinconia, un rituale che rifiuta la luce per abbracciare l’eterno crepuscolo. Il disco si apre con "The Priest", il cui gelido rifferama s'intreccia a un cantato gutturale che sembra sputare veleno sugli altari corrotti di quel prete menzionato nel titolo del brano. La melodia, di chiara ispirazione classica, si srotola come un lamento funebre, mentre la batteria martella con furia controllata. "Mercenary Seer" apre con un arpeggio ben calibrato, ma è solo un inganno, visto che il brano esploderà in un vortice di riff taglienti e ritmi serrati che richiamano un che dei Cradle of Filth, complice l'evocativo black melodico che si fa traino come un’àncora in un mare in tempesta. L'alternanza vocale tra scream/growl e salmodianti voci pulite, fa il suo dovere mentre le chitarre si rincorrono come gazzella e leone nella savana. Ancora un arpeggio ad aprire elegantemente la title track, contraddistinta da uno stile barocco presto travolto da chitarre possenti e un growl davvero lacerante, che andranno a intrecciarsi a orchestrazioni intriganti ma forse ancora un filo da affinare e ripulire a livello di suoni. Però il brano ha il suo fascino, e si lascia facilmente ascoltare assimilandosi a una versione death dei CoF, ma alla fine lascia il segno, prima dell'arrivo inesorabile di "Executioner". Qui, ritmi doom sembrano imperversare nelle note del trio ucraino, creando un'atmosfera di condanna in un pezzo in cui la melodia, guida come una lama che affonda piano le carni. Ancora musica classica in apertura - un po' sullo stile degli austriaci Angizia - con il turno della più densa "The Blind", un altro pezzo che fondamentalmente, si accoda alle precedenti song, pur abbracciando uno stile più lento e compassato, che vedremo riproposto anche nella successiva "Faceless Warrior". Forse è proprio in questa leggera staticità di fondo, in tema di variazioni al tema, che rischiamo di trovare il punto di debolezza dell'album, che ha ancora nella conclusiva "Beginning of New War", l'ultima arma a disposizione. Qui, riff glaciali e blast beat irrompono veementi, mettondosi a braccetto con la melodia che mostra comunque un ruolo cardine nell'economia di un brano feroce eppure elegante. Alla fine 'Cycle of Death', pur non inventando nulla di nuovo, mostra le più che discrete capacità compositive del terzetto ucraino. Certo, c'è ancora da affinare la tecnica, migliorare la pulizia del suono, ma diciamo, che la strada imboccata, sembra quella giusta. (Francesco Scarci)