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martedì 6 febbraio 2024

NI - Fol Naïs

#PER CHI AMA: Prog Rock
Per capire una band come i francesi NI, bisogna semplicemente fingere di non capirli e assimilarli così come sono e per quello che ci fanno sentire. Mi spiego meglio. Ho letto in rete recensioni che li mettevano in parallelo col mathcore e le opere diversificate di Mike Patton, e il paragone in minima parte ci può anche stare, ma secondo me l'aria che si respira dalle parti della band transalpina è da ricercare altrove, e trova radici molto più indietro nel passato della musica. Se vi capitasse di ascoltare l'evoluzione de "L'Elefante Bianco" degli Area, nell'album "Crac!" del '75, troverete infatti grosse analogie con alcune delle costruzioni sonore dei NI, poiché questa band ha un legame particolare fin dalle sue prime opere con il progressive rock più folle e libero dagli schemi, e qui non posso non citare un loro precedente geniale lavoro qual era 'Les Insurgés de Romilly', e poco importa se in questo nuovo album, fino al brano "Berdic", sembrano aver ascoltato una volta di troppo i The Dillinger Escape Plan o i Psyopus, per cercare di far presa su di un pubblico più vasto con un suono più carico. Il fatto è che la frenesia, la follia, e alcuni stilemi del rock in opposition, erano già nel DNA di questo gruppo ed è bastata una produzione più scura e pesante, dove si riesce a carpire l'essenza buia di lavori come '777 - the Desanctification' dei Blut Aus Nord (anche se qui non stiamo parlando di black metal), per aprire un nuovo fronte per questo combo di gran valore, composto da musicisti di qualità, che sanno esaltare il potere dei suoni dell'avanguardia, restandone caparbiamente e intelligentemente lontani, per cullarsi una loro completa e intoccabile originalità. Vi si trovano anche tracce di free jazz contorto e schizoide ("Chicot", "Rigoletto"), sulla scia di certe composizioni sentite su 'Blixt' del trio Bill Laswell, Raoul Bjorkenheim e Morgan Agren, e per non farsi mancare nulla, anche una tensione sonora tangibile di band come gli oramai dimenticati ma mitici Jesus Lizard. Nella triade di "Triboulet part 1, 2 e 3" si sente tutto il legame con gli album precedenti con le loro evoluzioni sofisticate ma aperti anche a momenti di atmosfera, che poco si lasciano apparentare con il mathcore o il metal, ritornando a parlare di vero e proprio prog d'avanguardia di casa Zorn. Pur trattandosi di musica rumorosa e distorta, vi trovo anche una bella attitudine nel plasmare la materia prog alla maniera degli Universe Zero, ovviamente con le dovute distanze dal gruppo belga. Mi permetto di dire anche che i NI possono avere un retaggio futurista alla Meshuggah, come citato dal press kit di presentazione del disco, ma a mio avviso non li percepisco assolutamente freddi e chirurgici come i colleghi svedesi anzi, per essere prevalentemente strumentali, suonano caldi, avvolgenti ed espressivi, e mostrano un'aggressività più devota all'arte dell'immaginario astratto che alla rabbia o alla tecnica in sè. Penso si sia capito che questa loro nuova opera è uno dei migliori album del 2023 per il sottoscritto, copertina superba come sempre d'altronde, una grande produzione, musicisti in splendida forma esecutiva e compositiva, un'ottima uscita per la instancabile Dur et Doux, un disco immancabile nella vostra bacheca dell'avanguardia. (Bob Stoner)
 
(Dur et Doux - 2023)
Voto: 80
 

lunedì 27 novembre 2023

Crabe – Visite du Temple Innè

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Noise
Poco più di dieci anni di attività e una sterminata collana di uscite per questa band canadese dal suono difficilmente catalogabile, musica eterogenea che guarda a 360° il sottosuolo musicale sotto molti punti di vista. Il duo affronta in quest'ultimo album una nuova sfida, mettendo a dura prova l'ascoltatore che è sommerso da una valanga sonica di idee contrastanti ma efficaci, cosa che ha sempre contraddistinto il progetto Crabe, solo che in questa nuova fatica, l'abilità nel mischiare le carte dei generi, è così pregevole che risulta impossibile rimanere impassibili di fronte a questo prodotto. Partiamo col dire che è musica trasversale e alternativa fino al midollo, che ci si può imbattere nelle escursioni rap dei Beastie Boys, epoca 'Paul's Boutique', quanto al punk intelligente di "Never Mind the Ballots" dei Chumbawamba, messo in parallelo con la forza dei Poison Idea, il grunge indomabile dei Melvins di 'Houdini', una parte di seminali e sotterranee hardcore band come Focused o ancora DNA, e composizioni in uno stile da chansonnier francese con in sottofondo, una certa vena di follia e avanguardia, che rimanda ai Piniol o ai Brice et Sa Pute. Il disco, cantato in lingua madre, viaggia a gonfie vele in un continuo sorprendere: è decisamente interessante come il duo di Montrèal riesca a mantenere le redini del gioco, interagendo con tanti ma soprattutto diversi, generi musicali e stili, senza perdere originalità, energia e smalto. L'album è una lunga compilation, di oltre 40 minuti, che si apre con due brani splendidi, claustrofobici, nervosi, rumorosi, ovvero "Conscience Universelle" e "Leb Doggo" dove appare la bella voce della compositrice Annie-Claude Deschênes come ospite. "Politique Dracula 23", con i suoi impulsi quasi funky e alternative disco, chiude la prima triade di canzoni al fulmicotone, "Je Ne Peux Pas Te Dire Je t'Aime" presenta alla voce un altro ospite, N NAO, per un brano tutto pop e miele, in uno sconcertante stile da canzonetta radiofonica francese, che nel meltin' pot della musica dei Crabe, trova la sua location tranquillamente, prima della folle "Nightmom", che sembra una vecchia radio in cerca della giusta frequenza, passando con naturalezza, dall'avanguardia vagamente zappiana all'hardcore. Il brano "2020" ospita The American Devices, praticamente gli FFF in guerra con il proprio funk da destrutturare a colpi di death metal. "Limp de Quoi" rispolvera gli scratch old school, per sviluppare un brano assai interessante sullo stile dei poco considerati Sweet Lizard Illtet, uniti a certo metal alternativo pesante, intuizione anni '90 per un'ottima song. Evoluzione filmica per un altro splendido brano, "Nos Pères se Meurent", con l'ennesimo ospite, Simone Provencher, che esplora sonorità sinfoniche e post black metal alla Liturgy, sicuramente il brano più interessante e originale del disco. "Pourquoi" è pesante rock alternativo e fantasioso mentre la conclusiva "Personne Proximité", con la voce di Hubert Lenoir, gioca le sue carte tra elettronica, pop moderno e sperimentazioni noise. Cosa dire dopo una carrellata così ampia ed esasperata di generi musicali, se non che i Crabe hanno raggiunto una maturità compositiva di tutto rispetto, restando comunque allacciati alla loro indole di underground band, nella ricerca del suono e nella proposta artistica, alternativi sempre e comunque, come ad esempio, nell'artwork di copertina e nella loro libertà di mescolare suoni e stili diversi, un esempio di come il crossover possa far resistere ed elevare i suoi valori incurante del passare del tempo. Certamente una band dal potenziale enorme se saprà mantenere questa soglia di fantasia compositiva. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

domenica 17 settembre 2023

Palmer Generator - Ventre

#PER CHI AMA: Instrumental Psych/Math Rock
È il terzo lavoro dei Palmer Generator che mi appresto a recensire. Dopo lo split con i The Great Saunities e l'album 'Natura', eccomi qui a parlarvi oggi di 'Ventre', quinta fatica della famiglia PG (vi ricordo infatti che i membri della band marchigiana sono padre, figlio e zio). Ancora quattro i pezzi che compongono questo disco (come fu per 'Natura') per una durata complessiva di 39 minuti, quindi pronti per delle mezze maratone musicali? È un inizio comunque lento ma progressivo quello del trio di Jesi, con le melodie di "Ventre I", un pezzo di quattro minuti e pochi spiccioli, di sonorità ipnotico-strumentali, che ammiccano a destra e a manca, a tutte quelle che rappresentano palesemente le influenze musicali dei nostri, dal psych-math rock, al noise e il post rock. Non manca quindi niente per chi è avezzo a questo genere di suoni, che in questo caso, si confermano comunque tortuosi e un po' ostici da digerire nelle loro oscure dilatazioni spazio-temporali. Se il primo brano ha una durata "umana", già con "Ventre II" ci dobbiamo preparare a 10 minuti di sonorità più psichedeliche: l'apertura è affidata ad un semplice ma disturbante giro di chitarra che per oltre 120 secondi riesce nell'intento di intorpidire le nostre fragili menti. Poi parte un riffing circolare, dal mood un po' introverso, che continuerà un'opera di rincoglionimento totale per dei cervelli già comunque in panne. Lo dicevo anche ai tempi di 'Natura' che i suoi suoni ridondanti ci trascinavano in un vortice sonico da cui era difficile uscirne integri mentalmente, non posso far altro che confermarlo anche in questo nuovo disco, che trova comunque modo di stemperare i suoi loop infernali con porzioni sonore più oniriche, come quelle che aprono "Ventre III", una montagna da 15 minuti da scalare, riempita in realtà nei suoi primi cinque giri di orologio, da una blandissima spizzata strumentale che va tuttavia lentamente crescendo, irrobustendosi, e al contempo dilatandosi e diluendosi in strali psichedelico-siderali (mi sembra addirittura di udire una sorta di vento galattico dal decimo minuto in poi) che si dissolveranno in suoni dronico/ambientali nei suoi ultimi tre minuti. In chiusura, i nove minuti di "Ventre IV" che gioca su una robusta altalena sonica di "primusiana" memoria, tra giochi in chiaroscuro di basso, chitarra e batteria che approderanno ad un flebile e compassato atmosferico finale. Bella conferma, senza ombra di dubbio. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fuctory - 2023)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/album/ventre 

sabato 12 agosto 2023

Doortri – PFAS OFF

#PER CHI AMA: Noise Rock/Jazz
I dischi che inglobano tematiche di rilevanza sociale dovrebbero essere presi in considerazione con un punto di vista più esteso e ad ampio spettro. È il caso del primo full length dei vicentini Doortri, rivolto al dramma dell'esposizione ai PFAS di una fetta di popolazione veneta che conta circa 400.000 persone, e all'area avvelenata dalla Miteni (Mitsubishi/ENI), che ha inquinato le falde acquifere di un territorio che tocca ben tre province venete, e che si può considerare ad oggi, il più grande avvelenamento da materiale di scarto da processi di lavorazione d'Europa, uno scandalo rimasto senza colpevoli e con reati ad oggi impuniti, nonostante anni di processi sulla questione e valanghe di prove di colpevolezza. I Doortri sono un trio guidato dai fiati di Tiziano Pellizzari (sax, clarinetto ed elettronica), un musicista che si contraddistingue per un vellutato tocco jazz, raffinato e cupo, mai troppo ritmico, ne troppo invadente, ma sempre protagonista in modo originale e personale, dotato di quel tipico sound newyorkese, da mettere a braccetto con l'Elliot Sharp del progetto Aggregat Trio, che ingabbia il suono vivace e malinconico delle strade notturne della Grande Mela. Supportato dalle percussioni di Giampaolo Mattiello, il suono che ne emerge è un parto multiforme che assume aspetti più dilatati brano dopo brano. Una vena No wave, da rileggersi in retrospettiva come No New York, s'incontra e scontra con alcune deviazioni rock in opposition, senza nascondere influenze hip hop della prima era, con rap e parlato che ne rimandano il ricordo alle sue forme più scarne. Questo grazie alla presenza di Geoffrey Copplestone, in qualità di vocalist, synth e rumoristica varia, prodotta peraltro da una vecchia radio portatile amplificata, alla perenne ricerca della banda radiofonica perduta. Il lato rumoristico si sposa bene con la verve jazz punk della batteria, più rivolta a tecniche percussive che ad una ritmica reale in senso stretto. Un intruglio di Rip Rig and Panic e le velleità anarchiche di Adam and the Ants, uno che tra punk e mille altre influenze ritmiche, di miscugli se ne intende. E ancora, pensando al mondo rumoroso dell'opera 'Marco Polo' dello stesso Sharp, e aggiungendo la parola avanguardia, il quadro si definisce, con i Doortri che ce la mettono tutta per depistare l'ascoltatore, nota dopo nota. Il brano "Caesar" è un singolo di ottima presentazione, mentre la title track incarna un po' tutte le anime della band. Gli spettri però sono molteplici nella musica dei Doortri e li possiamo sentire e toccare in "Haiku", ipnotica e cupa, o nella rumorosa "Mark E. Beefheart", dove presumo che il riferimento nel titolo ai due noti musicisti, non sia una semplice casualità, bensì una forma di ammirazione. "Deviazione" che fa da ponte tra la prima parte dell'opera e la seconda, mostra pesanti inserti noise su di un lento tappeto ritmico molto cadenzato, una sorta di barcollante jazz ubriaco, in stile marcia funebre. Da questo punto in poi ci si evolve in un'ottica più ricercata ed elaborata, una forma che concilia un volto schizoide con un certo tocco sperimentale che si libera in forme più progressive e sperimentali, come in "No Logo(s)". La conclusiva e lunga suite "Johatsu" riporta un'immagine della band che si allontana ancora di più dal sound standard della band, spostandosi più su vie industrial noise dei primi storici sussulti rumorosi dei Throbbing Gristle, con atmosfere ai confini dell'ambient sperimentale e rumorista. Questo disco, registrato interamente dal vivo e mixato e masterizzato dal guru Elliot Sharp, rientra nella cerchia della Zoar Records, e dimostra la qualità raggiunta dal trio di Orgiano, sebbene, per puro sfizio personale, l'avrei voluto sentire con una produzione più da studio e meno live, soprattutto nelle parti vocali. Una vera repulsione nei confronti delle gabbie musicali, e un sano principio di 'musica libera tutti', spinge quest'opera verso la ricerca più astratta e surreale, rinvigorendo quel parco di band che spendono le loro capacità compositive in forme sonore poco catalogabili e in continua evoluzione. Un disco interessante tra improvvisazione, sperimentazione e ricerca che si eleva dal precedente demo 'Deviazione', incentrato a sua volta sulla devastazione pandemica, ampliandone qui i confini compositivi e la qualità sonora. Un album questo che appassionerà i più curiosi avventurieri del mondo jazz sperimentale, magari sensibilizzando più persone possibili sul grave problema dei PFAS presenti da decenni nelle falde acquifere del Veneto. Attraverso la musica, informare su larga scala per ottenere giustizia per la comunità. Anche questo impegno è parte espressiva della forma d'arte di un musicista. PFAS OFF! (Bob Stoner)

venerdì 11 agosto 2023

Sleepwalker – Skopofoboexoskelett

#PER CHI AMA: Black/Avantgarde
Osaka, Tver e New York: in queste tre città vivono rintanati gli Sleepwalker, elaborando suoni sordidi, sperimentali e malati, attraverso una miscela esplosiva di musica black, post rock, avantgarde e noise, che avevo amato follemente ai tempi di ‘Noč Na Krayu Sveta’. La band torna con quattro nuovi pezzi che in questo ‘Skopofoboexoskelett’ si concentrano sulla nozione di autoriflessione, intuizione e le manifestazioni esteriori e interiori della fobia, mentre si relazionano all'interno di quel loro mondo singolare. In un contesto lirico cosi complesso, c’è da attendersi anche che la band si lanci in folli escursioni in bilico tra black, avantgarde e jazz (complice l’utilizzo del sax), già udibile nella caotica traccia in apertura, “Mirrors Turned Inward”. Con i nostri non si può rimanere mai sereni, c’è da aspettarsi che accada di tutto nell’evolversi impetuoso dei loro suoni, quindi non stupitevi se si passa dal grind/black al free jazz/noise, laddove il confine talvolta può essere estremamente labile. Psicotici non c’è che dire, li adoro per questo, nonostante la loro musica sia qualcosa di davvero complicatissimo da digerire. “Silesian Fur Coat” sembra virare verso suoni più ritualistici, ma si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio e quindi ecco che dopo 90 secondi, la band imbocca strade deviate, dove a mettersi in luce saranno un basso mirabolante, synth estatici, una chitarra prog e un’atmosfera etnica che avvolge tutto il tessuto musicale della band, mentre il vocalist prosegue con il suo screaming evocativo. “The Eagle Flies” è una scheggia impazzita di due minuti e mezzo aperta dal suono di un didgeridoo che evolverà velocemente verso sonorità tribali e ci prepara mentalmente all’ultimo delirio sonico della band, “The Bad Luck That Saved You From Worse Luck”. Un pezzo che si apre con atmosfere di pink floydiana memoria e attraverso un avanguardistico black mid-tempo (interrotto da una breve grandinata grind) sarà in grado di accompagnarci fino alla conclusione di questo splendido lavoro che farà la gioia di chi come me, ama le band in grado di prendersi più di qualche rischio e se ne strafotte altamente di mode o trend musicali. Bravi, non aggiungo altro. (Francesco Scarci)

(Sentient Ruin Laboratories – 2023)
Voto: 80

https://sentientruin.bandcamp.com/album/skopofoboexoskelett

giovedì 10 agosto 2023

Tangled Thoughts of Leaving - Oscillating Forest

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Ecco, l’hanno rifatto. Sto parlando degli australiani Tangled Thoughts of Leaving che hanno rilasciato un altro album di folle, imprevedibile post metal strumentale, venato di sonorità jazz. Chi pensa che questo genere inizi a stancare, beh si sbaglia di grosso perchè ancora una volta, la band di Perth supera se stessa e ci delizia con un doppio lavoro dal titolo suggestivo, ‘Oscillating Forest’, e da contenuti di altissimo livello che spazziano tranquillamente anche nel versante post rock, nell’ambient, nel prog, nella pura improvvisazione e addirittura nel noise. “Sudden Peril” apre le danze del lavoro e in poco meno di quattro minuti ci mostra il livello di ispirazione odierno della band, ma è con la più claustrofobica e decisamente più lunga (8:28 min) “Ghost Albatross”, che il quartetto australiano inizia col mettersi a nudo tra atmosfere post rock, spaventosi chiaroscuri orrorifici, cambi di tempo improvvisi e (in)frazioni rumoristiche destabilizzanti, che ci fanno capire il genio di questa band davvero multisfaccettata che sa esattamente come scrivere musica di un certo livello, dotata peraltro di un certo impatto emotivo. La cosa si mantiente anche nei quasi 10 minuti della terza “Twin Snakes in the Curvature”, un pezzo che si presenta con un impianto cinematico-sperimentale davvero inquietante a cavallo fra ambient e noise, in grado di annebbiare il cervello come la peggiore delle sostanze psicotrope. Superato questo trip da funghi allucinogeni, la band pensa bene di infarcire il tutto con il pianoforte e a destabilizzarci ancor di più con partiture jazzistiche davvero funamboliche. Non sarà semplice venir fuori interi da questa jam session, un po' come se ci fossimo fatti un tuffo in un frullatore gigante e avessimo lottato contro kiwi, fragole e banane giganti. Abbandonata questa parentesi vegana, vengo risucchiato dai due minuti rumoristici di “Seep Into” che ci accompagna a “Lake Orb Altar” e alle sue derive soniche desolanti, quasi uno scatto del deserto che è emerso dal prosciugamento del lago d’Aral, una visione apocalittica figlia del mondo in cui stiamo vivendo, un mondo che brucia da un lato mentre l'altro viene innondato da acque tumultuose. E questa song brucia, genera emozioni contrastanti, turbamenti interiori, un malessere da cui sarà difficile sfuggire, sebbene la melodia nella sua seconda metà, provi a stemperare l’apocalisse incombente. Ma poi, la ritmica avanza veloce, il basso pulsa come quando il cuore mi esplode nel petto dopo una scalata di una montagna, i giochi di synth diventano ipnotici e le chitarre frastornanti. Ci pensa “Trinket Forest” a ripristinare l’equilibrio con suoni da tempio buddista (o forse giardino zen). Il rumorismo torna sovrano in “Lamprey Strings” e si va mescolare con un’improvvisazione sperimentale davvero da capogiro in grado di rovesciare pensieri, parole ed emozioni. Se avessi scalato l’Everest sarebbe stato decisamente più semplice e invece farsi inghiottire dalle chitarre caustiche di “Bush Wallaby”, con quei suoi giochi di piano e batteria, diventa quasi una delle cose più complicate da affrontare, visto che davanti ci sono altri tre brani per oltre 20 minuti di musica: dal pianoforte impazzito della spettrale “Folded Into”, suonato da un fantasma in un castello maledetto, alle atmosfere da incubo di “The Mantle”, per terminare con la lunghissima (oltre 11 minuti) title track, in grado di darci il definitivo colpo del ko, tra suoni morbosi, deviati e schizofrenici che non pensavate potessero esistere su questa Terra. Semplicemente pericolosi. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk! Records – 2023)
Voto: 77

https://ttol.bandcamp.com/album/oscillating-forest

giovedì 3 agosto 2023

Hlidskjalf - Vinteren Kommer

#PER CHI AMA: Dungeon Synth/Black
One-man band russe, ne sentivamo davvero il bisogno? Ai posteri l’ardua sentenza, nel frattempo ci ascoltiamo il progetto di Svarthulr in questi impronunciabili Hlidskjalf da non confondere con gli omonimi francesi e tedeschi. La band di quest’oggi si muove musicalmente nei paraggi di un black synth dungeon cosmico-minimalista, mentre le voci sembrano lontani versi di forme aliene provenienti da un altro mondo. Tre soli pezzi compongono alla fine questo ‘Vinteren Kommer’, un disco che potrebbe evocare nelle sue note, un che del Burzum più sperimentale. “Vinteren Kommer I” è la song più lunga con i suoi oltre otto minuti di sonorità glaciali, ma al contempo sognanti, complici un riffing scarno che più scarno non si può, e dei giochi di synth che rendono il tutto più digeribile, per quanto poi il pezzo possa essere estremamente ridondante nel suo incedere atmosferico. I rimanenti due brani del disco sono puro ambient, quasi quella sorta di rumore bianco che uno si piazza nelle orecchie per dormire la notte. Un lavoro un filo indigesto che suggerirei ai soli appassionati del genere. E per rispondere alla domanda iniziale, forse non ne abbiamo davvero più bisogno di altre one-man band. (Francesco Scarci)

domenica 14 maggio 2023

KHA! - Ghoulish Sex Tape

#PER CHI AMA: Noise/Post Punk
La cosa che più mi ossessiona, in senso negativo di questo primo full length della band meneghina, è il trattamento riservato, leggermente irrispettoso a mio avviso, verso la splendida voce del frontman. Fui infatti ammaliato dalla forza espressiva della voce di Davide Bosetti nell'EP di debutto di tre anni fa, che si accaparrava le grazie spettrali di band come Indisciplined Lucy e Pavlov's Dog, raggiungendone le tonalità e le particolarità acustiche, inserendole in un contesto lontano anni luce dalle suddette band prog rock, per non parlare poi del lavoro di produzione al Mob Sound Studio di Milano, veramente da applausi. Il nuovo lavoro, intitolato 'Ghoulish Sex Tape', pur essendo un gran bel disco, vede la produzione dei Cabot Cove Studio di Bologna spostare il tiro più verso il suono, abbassando (e penalizzando) l'importante performance vocale. Il trio milanese è ancora orientato verso un noise rock, carismatico ed esplosivo, nipote di quello che fu un capolavoro della scena sotterranea italiana, ovvero, '10000 Doses of Love', di un gruppo ancora poco osannato per i loro meriti, quali erano gli One Dimensional Man. Il risultato qui è buono, di qualità, ma diverso dal debutto. Il suono è meno indie noise e in molte sue parti si sposta verso ambienti post punk anni ottanta, che associati ai particolari riverberi della voce, a volte ricordano vecchie cose dei Public Image Ltd.: "My Only Love" ricorda a tal proposito il sound di "Religion II" dei P.I.L o "Sex Gang Children", in chiave meno dark e più alternative. Musicalmente, i nostri hanno evoluto il loro stile che di per sé era già originale, rendendolo più coerente e fantasioso, come l'inserto jazz di "Travelers", ma rimanendo sempre sul filo del rasoio, in fatto di orecchiabilità e rumorosità, cosa che li rende sempre assai apprezzabili. Una ritmica pulsante sostiene a dovere un chitarrismo schizofrenico, tagliente ma molto bello da sentire, urticante, sonico, spesso dissonante ma mai esagerato o fuori contesto. Stravagante pensare che il trio lombardo è una band di noise rock piacevolissima all'ascolto dove difficilmente la noia si sposa con la loro nuova opera. Ritorno a dire solo ahimè che la produzione ha optato per il primo piano della chitarra di Bosetti e degli altri strumenti, tralasciando il posto di prima ballerina della sua voce, ma questo è solo il mio gusto personale, e magari, chi ascolterà questo loro nuovo lavoro, rimarrà sicuramente affascinato dalle loro teorie rumorose e stralunate, e questa nuova verve post punk (rimodernata e attualizzata), un po' alla Teenage Jesus and the Jerks delle radici, rispolverata nella quasi totalità dei brani. Siamo al cospetto di una voce intrigante e originale, di fronte ad un trio che riesce a comporre e suonare ottima musica (quanto è bella "Breadcrumbs"!!!), inquieta e rumorosa, uno spiraglio di luce nelle tenebre profonde del panorama nazionale, per cui l'ascolto è assolutamente consigliato. (Bob Stoner)

domenica 7 maggio 2023

Edredon Sensible - Montagne Explosion

#PER CHI AMA: Jazz/Avantgarde/Kraut Rock
Due anni fa presentavamo la band di Tolosa come un tossico mix di Seefeel, Ottone Pesante e Naked City. Oggi siamo qui a riproporveli con la stessa esilarante verve ma con caratteristiche più evolute: detto che squadra che vince non si cambia, l'accoppiata di due percussionisti e due fiati si dimostra tutt'altro che logora di idee e punta dritta al salto di qualità. In effetti il nuovo disco, intitolato 'Montagne Explosion', parte subito a mille all'ora con un brano, "Poulet Gondolé (Chasuble)", accelerato ritmicamente e molto vicino allo Zorn più scanzonato e divertente passando per "Une Bonne Soupe Au Lard" che, tra strampalate grida euforiche, ci espone un tema ipnotico e paranoico. Krautrock per forma e sostanza, un sound compulsivo, sull'orlo di una crisi di nervi, suonato da sax impazziti e una ritmica cara ai Tambours du Bronx (in un numero ristretto di percussionisti) quanto ai giochi percussivi di Byrne in 'Rei Momo'. Il tutto vale anche per "GQ" e "Where Is un Alcool Japonais Qui Aime Se Baigner En Restant à La Même Temperature" . Canoni sonori che si ripercuotono in tutto il disco e lo caratterizzano fortemente. Lungi però dal pensare che gli Edredon Sensible siano ripetitivi anzi, dimostrano infatti in questo secondo full length, di aver raggiunto un consolidamento stitlistico di tutto rispetto ed una fantasia compositiva sopra la media. Di certo usare i concetti compositivi che sono più identificabili con la musica elettronica pulsante ed ossessiva, tanto per fare un nome alla Miss Kittin and the Hacker, in forma sempre progressiva, psichedelica e jazz fuori dagli schemi, non è proprio da tutti, e anche il suo ascolto non è proprio per un vasto pubblico. Il quartetto francese è senza freni e viaggia sulle onde del free jazz più libero permettendosi di mandare più di una volta in orbita l'ascoltatore, come un vero e proprio progetto di musica trance, mantenendo sempre un fortissimo legame con le fondamenta del jazz più d'avanguardia ma anche quel tocco frizzante di certo acid e free rock, come se gli Us3 riprendessero una song per riproporla in chiave psichedelica, dallo sterminato catalogo del maestro Zorn. Titoli di canzoni strani per una musica complessa e carismatica, fatta per essere compresa da una piccola nicchia di veri ascoltatori e adoratori di sperimentazione intelligente, suonata da musicisti con la M maiuscola. Quando "Lo Pastour Bai Amouda" stravolge e silenzia il tutto, passando ad un canto appena sussurrato e folk, rurale e ancestrale, con sperimentazioni vocali nel ricordo delle divine scuole di Meredith Monk, Joan la Barbara e l'ancestrale mistico di Sharron Krauss, rivela un brano assai suggestivo composto in compagnia delle belle voci di Lola Calvet, Lisa Langlois, Noëllie Nioulou, Marthe Tourret, in una traccia molto diversa e inaspettata per lo stile della band, ma davvero intrigante. Come già accennato, l'efficacia percussiva della band, si apprezza alla grande in "Where Is un Alcool Japonais...", che potrebbe rientrare nel catalogo dei Banco de Gaia (stupendi peraltro i momenti in cui la musica sembra incepparsi), mentre nei brani a seguire ci si gioca la carta dell'atmosfera e dell'esotico, ampliando ulteriormente la rosa di sonorità toccate dal quartetto. "Danke Schoen Paul" è il brano più d'impatto e disturbato del lotto, con degli stop musicali interrotti da cori stile festa di capodanno e urla forsennate tra sax impazziti e ritmi trascinanti, mentre "Gros Pinçon" è una spettacolare, straziante e lunghissima marcetta progressiva, in stile no wave, coinvolgente e stralunata, che mi ricorda lo stile dissonante di 'Eine Geschichte' dei Palais Schaumburg, unito a certe atmosfere impossibili di Terry Riley, per una melodia insana, intensa e malata. Questo è un vero disco per appassionati ascoltatori, indifferenti alle etichette di ogni sorta, questa è vera avanguardia sonora. Fatevi avanti gente, qui ce né per tutti i gusti! (Bob Stoner)

(Les Productions du Vendredi - 2023)
Voto: 84

https://edredonsensible.bandcamp.com/album/montagne-explosion

martedì 11 aprile 2023

Trup - Nie

#PER CHI AMA: Black/Death/Noise
Prosegue l’opera della Godz ov War Productions nello scovare talenti sempre più feroci e incazzati. Oggi è il turno dei polacchi Trup e del loro corrosivo ‘Nie’. Il lavoro del trio di Varsavia si palesa quasi come un intransigente concentrato di black old school anche se nelle cinque schegge impazzite incluse in quest’album, si riescono a rintracciare anche elementi caratterizzanti la proposta dei nostri. Si parte con la furia sonora di “29”, song lanciata alla velocità della luce che trova in qualche elemento hardcore la chiave di volta per dare una lettura più integrata di quanto proposto da questi pazzi scatenati. Detto che nelle note della successiva “30” ci sento una mistura di Darkthrone e Napalm Death, potrete immaginare la ferocia profusa da questi ragazzacci in 120 secondi di puro delirio musicale. Di ben altra pasta “31”, malmostosa e dissonante, quasi una versione più distorta dei Deathspell Omega (ma non credo sia possibile) che per ben tre minuti ci allieta comunque con sonorità estremamente melodiche prima di condurci in un calderone di furia disumana, che si paleserà anche attraverso un cantato strillato, manco si trattasse di ultrasuoni per i cani. Fortunatamente alternato a questo bordello, c’è spazio anche per parti più sludgy, giusto per farci rifiatare un pochino prima delle montagne russe finali che avranno modo di regalarci anche un assolo a dir poco psicotico (chi ha detto Aevangelist?). La title track si affida ad un orrorifico sludge black per catturare la nostra attenzione, ma si rivelerà meno incisiva delle precedenti. L’ultima, “33”, si perde in tre minuti di noise black, per poi abbracciare un mefitico sound in bilico tra ambient, sludge, drone, black e paranoia ai massimi livelli che decretano la notevole personalità di questi loschi figure nel proporre un qualcosa di assolutamente interessante ma di difficilissima digestione. Io vi consiglio caldamente di dargli un ascolto, con la premessa che qui se non avete la scorza sufficientemente dura, di male ve ne farete parecchio. (Francesco Scarci)

(Godz ov War Productions - 2022)
Voto: 70

https://godzovwarproductions.bandcamp.com/album/nie

giovedì 23 marzo 2023

Dez Dare – Perseus War

#PER CHI AMA: Alternative/Garage Rock
In un rituale cosmico di circa 35 minuti, Dez Dare ci delizia con un altro album di psichedelia acuta, stralunata, astratta, figlia di una serie di teorie musicali molto personali, che ruotano attorno a questo musicista australiano con sede a Brighton (UK). La peculiarità nell'accostare strade diverse dalla psichedelia è innegabile nello stile di Dez Dare (al secolo Darren Smallman), passando dalle immagini dell'artwork, colorate e allucinate, al bel video di "Bozo", questa volta il nostro menestrello sonico, crea muri sonori con un ammasso di suoni provenienti da variegate direzioni. Che siano le chitarre fuzz dei Dinosaur Jr, il garage dei Gorilla, il krautrock, il noise rock, il fattore hippie caro a Brant Bjork, il proto punk degli Stooges, la prima synth wave elettronica o il mondo immaginario messo in musica da Daevid Allen, poco importa al nostro incredibile figlio, non dei fiori, ma dei funghi allucinogeni. Ogni cosa nel suo mondo è psichedelia, quindi, nelle sue composizioni, ci si può trovare di fronte ad un cantato che ricordi i primi riverberi dei Monster Magnet ("OUCH!"), o che un effetto vocale, diciamo alla The Pop Group (!?!), sia inserito in un contesto ipnotico di un rock scheletrico proveniente dallo spazio ("My Heels + My Toes, My Lies + My Nose"), ricordando l'effetto follia di "The Return of Sathington Willoughby", brano d'apertura di 'Brown Book' dei Primus. Tutto questo è praticamente concepito con una logica di libera espressione, di fatto tra le mura domestiche, un "Do It Yourself" anticonvenzionale, che rende tutti gli album di Dez Dare un'esperienza cosmica unica. Il suo è uno stile altamente originale, da puro e simpatico anti divo e artigiano del suono, dove il canto/parlato alla Beastie Boys, si confonde con quello dei Fu Manchu e con il tipico approccio punk, in un'atmosfera costantemente dilatata, sormontata da montagne di fuzz e xilofoni dal retrogusto dark. In effetti, come tutte le sue realizzazioni, non è facile descrivere le sue opere, si possono fare degli accostamenti a priori, ma il mood compositivo con cui genera e degenera la sua musica, scardinando il modus operandi della maggior parte delle bands che suonano questo genere, gli permette di essere veramente unico, nel bene e nel male dell'opera, e nel percorrere la strada che porta alle infinite lande della psichedelia sotterranea. L'orecchiabilità dei suoi brani è un'altra delle sue caratteristiche, poiché anche 'Perseus War', si contraddistingue per la sua facilità di approccio, anche se tutto è allucinato ed ipnotico a dismisura e nulla è lasciato al caso, e questo lo si percepisce benissimo ascoltando la ricercata musica di Dez Dare. I 2:54 minuti del singolo "Bozo", sono un apripista splendido. Garage rock degno dei 500ft of Pipe, guidato da una ritmica spinta alla Hawkind, rumori di fondo, feedback, un tremolante xilofono giocattolo e umore lo–fi. Un video divertente accompagna il brano, surreale e spettrale, decisamente geniale, come del resto anche il video inquietante di "Bloodbath-on-HI". Penso che in ambito sotterraneo Dez Dare non abbia tanti rivali, lui è diversamente psichedelico, in senso talmente ampio, che l'impossibilità di paragonarlo a qualche altro artista è reale. La sua arte riesce a parlare delle lotte dell'universo per la sua sopravvivenza come della pressione quotidiana che l'uomo subisce nella sua esistenza contemporaneamente, attraverso suoni ed immagini, che sdoganano con una certa naturalezza, incubi, sogni, allucinazioni e figure da cartone animato, atmosfere horror e commedie satiriche del sabato sera. La proposta di quest'artista è forse quanto di meglio il mondo psych rock oggi possa offrire, un rock disagiato, che non guarda necessariamente al virtuosismo, che abbandona la veste patinata e torna allo splendore del sottosuolo, fa rumore intelligente, oltrepassa il confine nuovamente, e illumina come le band di un tempo. Una musica adatta per i più folli ma sani di mente, una musica da evitare per i puristi e poco liberi all'ascolto. (Bob Stoner)

giovedì 9 marzo 2023

Cave Dweller - Invocations

#PER CHI AMA: Noise/Ambient/Dark
Il nuovo album di Cave Dweller, ovvero Adam R. Bryant, ex membro della band post black metal americana Pando, è stato concepito come una lunga colonna sonora, con l'idea stessa di emanare una visione simbolica del rapporto che lega l'uomo alla spiritualità della natura. Un concetto profondamente radicato tra le note della musica di questo uomo delle caverne, che si fa notare fin dal significato del moniker scelto dall'autore stesso. Le danze si aprono con una voce che recita sopra una rarefatta base, acustico ambientale ("An Invitation"), morbida ed eterea per proseguire nella oscura parvenza di "To Accept the Shadow", che ricorda le trame delle musiche più cerebrali dei Virgin Prunes (vedi la splendida raccolta 'Over the Rainbow'), con un piano nostalgico e amaro a condurre le musica, per poi finire a deragliare su di un finale dark/ambient, con la presenza ritmica di una percussione metallica, che sonda i terreni dei lavori, tutti da scoprire, del progetto mistico/ambient russo, Enoia. Da qui, si viene traghettati in modo naturale, verso la splendida "Bird Song". Questo brano era già presente nel precedente ottimo EP, 'Between Worlds', ed è una traccia che vanta un cantato fragile, drammatico ed epico, con una chitarra solitaria dall'animo grigio e un'evoluzione in stile folk black, che fa riscoprire tutta la forza artistica di questo atipico menestrello del Massachusetts. L'arte di Cave Dweller è sotterranea, rurale fino al midollo, criptica, sperimentale e la si apprezza solo se si colgono i dettagli di registrazioni fatte con smartphone, rumori, fruscii e suoni non convenzionali, particolari sparsi un po' ovunque con genialità e la consapevolezza di creare qualcosa di profondamente evocativo. Un'opera di 44 minuti che evolve le sperimentazioni dell'autore in vari ambiti, folk apocalittico, ambient, alternative country, neofolk, senza prendere a prestito niente da nessuno, per un viaggio personale e originale. Suoni d'ambiente, uccelli in sottofondo, gabbiani, noise, oppure una tiepida batteria di matrice jazz, per rendere più accessibile la ballata noir, minimalista, "Entelechy". Un sound tribale e oscuro, con conseguente esplosione black industriale, nello stile della sua precedente band, dona con vigore, una facciata ipnotica e cosmica al lungo brano intitolato "Mirror". Ma la differenza in chiave di bellezza estrema, la troviamo nella canzone conclusiva intitolata "Solastalgia", dove il solo campione di voce simil lirica/sciamanica, che persiste in sottofondo di tutta la traccia, fa onore all'arte di questo musicista unico e impareggiabile nella sua esplicita arte sonora isolazionista, fredda, rumorista e lo-fi, contornata da psichedelia cosmica ed un cristallino folk, con uno spirito etnico proveniente da qualche sistema solare sconosciuto, che rievoca un vero e proprio risveglio interiore. Un album in veste concettuale, che rispecchia un po' la forma del gioiello sonoro quale fu, 'The Inspiration of William Blake' di Jah Wobble, ovviamente da accostare solo come intuizione compositiva, non come stile musicale, visto che i due artisti sono agli antipodi stilistici, ma convergono entrambi per una libertà d'espressione molto proficua. 'Invocations' è stato creato e mixato dallo stesso Bryant in un arco di tempo piuttosto lungo, tra il 2018 e il 2021, e si presenta come un resoconto del suo percorso sonoro, quindi da considerarsi come una specie di diario di bordo delle sperimentazioni che hanno dato vita al primo splendido album del 2019 (sotto il titolo 'Walter Goodman – or the Empty Cabin in the Woods') e l'EP sopracitato del 2021. Una musica intimista tutta da scoprire ed apprezzare, per cui consiglio di ascoltare prima questa raccolta introduttiva, per poi passare in ordine temporale, alle altre due ottime opere di questo valido autore. (Bob Stoner)

domenica 15 gennaio 2023

Madness at Home - Shoelace

#PER CHI AMA: Grunge/Hardcore
L'ascolto di 'Shoelace' dei nostrani Madness at Home, è stato per me un salto indietro nel tempo di oltre trent'anni: tra influenze legate ai primi Nirvana e in generale al sound ruvido e sporco del grunge, sin dall'iniziale "Blue Dye Suicide" capisco come la band romana, nata nel 2019, sia stata abile nel rileggere le dottrine che affondano le proprie radici nell'hardcore. Dicevo dell'opener "Blue Dye Suicide" che mi ha evocato inequivocabilmente 'Bleach' della band di Kurt Kobain e soci. Andando avanti nell'ascolto del disco vengono poi fuori tutte le influenze del terzetto della capitale: nel singolo apripista "Waste", caustico, oscuro e incisivo quanto basta, ecco lo spettro dei Jesus Lizard, mentre nella successiva "Wet Room", emergono influssi punk/hardcore che puntano il dito verso l'ondata British di fine anni '70, sporcata comunque da un alone noise che rende il tutto decisamente interessante. "Bench" picchia che è un piacere, tra l'asprezza del grunge più ribelle, parti più atmosferiche, altre più hard rock oriented ed infine, una voce che si confermerà, dall'inizio alla fine dell'album, davvero convincente. Devo ammettere che quella dei Madness at Home è stata una piacevole sorpresa, per quanto io abbia abbandonato queste sonorità da un paio di decenni almeno. I nostri però sanno il fatto loro e, cogliendo anche qualche spunto dalla famiglia Tool/A Perfect Circle, si confermano bravi e capaci nell'accompagnarci nella loro personale rilettura di un viaggio per lo più sporco ed abrasivo ("Grillo"), ma che a tratti saprà essere anche psichedelico e decisamente malinconico ("Cathartic Fabric" e "Pater, Mate"). Laceranti. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 72

mercoledì 16 novembre 2022

The Universe by Ear - III

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Prog Rock
Dopo aver recensito i primi due album degli svizzeri The Universe by Ear, mi sembrava doveroso approcciarci qui nel Pozzo anche al loro terzo lavoro, intitolato semplicemente 'III', per un concept album focalizzato sul tema dell'acqua. Il combo originario di Basilea torna in sella quindi con cinque nuovi pezzi che pescano un po' qua e là tra psichedelia, post-rock, stoner e addirittura jazz. La lunghissima traccia d'apertura, "Sail Around The Sun", ci delizia con i suoi quasi 12 minuti di sonorità ricercate, melodiche e lisergiche, che passano con estrema disinvoltura dalle atmosfere pinkfloydiane dei primi minuti a scorribande chitarristiche tipiche dello stoner, per poi lanciarsi in una lunga fuga solistica e cambiare repentinamente verso un blues rock, in un'alternanza di generi quasi da lasciarmi di stucco. Sebbene non sia questo il mio genere preferito, posso tranquillamente sottolineare la solidità compositiva dei nostri e l'altrettanto accattivante finezza musicale che si cela nei minuti conclusivi dell'opening track, quando i nostri sfiorano territori math rock. Le stesse derive soniche complesse ed insolite, si palesano anche nella seconda "Something in the Water", una sperimentazione sonora che sembra miscelare ammiccamenti noise, roboanti riff dissonanti, voci che vanno verso una direzione più garage surf rock anni '60, a dimostrazione della robustezza e della creatività del trio elvetico. Ma anche lungo gli oltre nove minuti di questa traccia, la band sarà in grado di esplorare oscuri anfratti atmosferici soprattutto quando è il basso di Pascal Grünenfelder a fare da main driver del brano. Assai interessanti, lo devo ammettere. Un po' meno invece nella traccia successiva, "Two-Hour Drive/Are We There Yet?", un pezzo linearmente troppo rock che stona con quanto ascoltato sin qui, un tuffo in un passato settantiano che mi lascia piuttosto tiepidino, almeno fino a quando la chitarra di Stef Strittmatter decide di salire in cattedra e, a braccetto col basso di Pascal, regalano un lungo e suggestivo break strumentale che ribalta totalmente il mio giudizio sul brano. A questo punto, dopo aver superato la metà del mio percorso in questo lavoro, mi sento di dire che il power trio svizzero dà il meglio di sè nelle parti più ricercate, psichedeliche e sperimentali, il rock classico meglio metterlo in soffitta e continuare a dedicarsi alla ricerca dei versanti più originali della musica. I nostri non deludono e proseguono anzi con le loro stravaganti idee anche nella quarta "Lie Alone", un pezzo dall'aura oscura, in cui anche la voce del frontman ne esce rafforzata e in cui ritroveremo un'altra fuga strumentale che sembra pescare a piene mani dalle visioni caleidoscopiche del prog rock. E in chiusura ecco arrivare "Salty River (including Monoliths)", un pezzo che per certi versi mi ha evocato i Zeal & Ardor più votati a sonorità soul/gospel (anche se qui non sono cosi palesi) miscelati con lo psych kraut math rock stralunato (soprattutto nei giri di basso) dei nostri, per una chiusura davvero degna di nota, che sancisce quanto i The Universe by Ear siano musicisti preparati, con idee avanguardistiche e meritevoli della vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(On Stage Records - 2022)
Voto: 75

https://www.theuniversebyear.com/

martedì 8 novembre 2022

Beware of Gods - Upon Whom The Last Light Descends

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal
Chicago, Illinois. Ecco da dove arrivano questi Beware of Gods, misterioso duo dedito ad un sludge/post metal dalle tinte fosche e stralunate. 'Upon Whom the Last Light Descends' è il loro biglietto da visita che ho iniziato ad ascoltare con un certo interesse un paio di mesi orsono e mi porta oggi alla scrittura di questa recensione. Cinque pezzi catartici che si aprono con "Invitation (I Am Named After Death)" ed un sound che lascia spazio a viaggi mentali in preda a sostanze psicotrope e visioni cosmiche che ben potrebbero conciliarsi con l'immagine di copertina del disco. Il sound è sicuramente originale, muovendosi a tratti nel noise, nella psichedelia, nel post metal o nello sludge, come si evince dalla ritmica rallentata della seconda metà del brano. Ma non mi fermerei a queste sole influenze, dato che l'abrasiva voce di The Archetype potrebbe richiamare lo screaming tipico del black, cosi come alcune derive soniche accostano la proposta del duo statunitense a suoni dronici. I vocalizzi del frontman assumono comunque molteplici sembianze, dallo screaming dicevamo dell'opener alle spoken words ma anche un pulito suggestivo ed intrigante. Convincenti, non c'è che dire. Anche se nella seconda "Nightmare in the Dreaming House" si potrebbe cogliere più di un accostamento ai Neurosis, ma la voglia di emergere dalla massa, fa si che i due enigmatici musicisti regalino sonorità astruse, disarmoniche e a tratti caotiche, sortendo un continuo effetto di imprevedibilità, soprattutto quando mi pare che i nostri flirtino con un sound vicino all'alternative dei Deftones, con dei chitarroni comunque frastornanti a fissarsi nelle orecchie. Con "It Sleeps", le sonorità si fanno più sonnecchiose, vuoi forse anche un titolo che richiama il sonno. Ma il sonno in cui ci faranno sprofondare non è certo quello ovattato, ma sembra più qualcosa di inquietante e disturbante, un incubo ad occhi aperti da cui fuggire sarà impresa ardua, anche laddove i nostri sembrano rinunciare a dar fuoco alle polveri e preferendo un versante più atmosferico. Diffidate gente, diffidate, con i Beware of Gods c'è poco per restare sereni e non guardarsi le spalle, la progressione ritmica pur rimanendo bloccata dietro l'angolo, questo pezzo più degli altri vede un approccio ritmico verso gli sperimentalismi dei Terra Tenebrosa o più indietro nel tempo, a riferimenti che ammiccano a Ved Buens Ende e Virus. Ipnotici, angoscianti, malati, il sound dei BoG prosegue in un pezzo apparentemente più affabile e abbordabile, "It Wakes (to Destroy Us)", dove a livello vocale, c'è un'alternanza tra il cantato pulito, lo screaming ed una terza modalità che, non so per quale astruso motivo, mi ha evocato i Soundgarden. Forse sono un visionario, forse inizio a sentire la mancanza di Chris Cornell, però ho percepito una forma primordiale della band di Seattle che sottolinea comunque ancora una volta, un certo ecletismo sonoro da parte dei due artisti. A chiudere questo primo capitolo, ci pensano le asfissianti e lisergiche note di "House of Locusts (Intravenous Sunshine)", che ci inghiottiscono definitivamente nel mondo malato dei Beware of Gods, che in questo loro debutto si sono peraltro ispirati al mito di Azathoth, l'onnipotente "The Blind Idiot God" descritto da HP Lovecraft nelle sue opere, a testimoniare quanto questi due stravaganti personaggi abbiano da raccontare attraverso la loro musica. (Francesco Scarci)

lunedì 24 ottobre 2022

Full of Hell - Aurora Leaking From An Open Wound

#PER CHI AMA: Sludge/Grind
Dai, prendetevi sei minuti e 44", e ascoltatevi anche voi il nuovo 7" dei corrosivi Full of Hell, band statunitense dedita ad una forma sperimentale di estremismo sonoro. Solo tre i pezzi a disposizione per un concentrato bello denso di musica da bersi tutto d'un fiato e per questo, mi aspettavo sonorità più violente da una band che dovrebbe essere portavoce di un power violence furibondo e invece quando "Aurora Leaking" esordisce nel mio stereo, vengo inghiottito da una serie di suoni corposi, avvolgenti, distonici e disarmonici, quasi fossimo avvolti dalle spire di un serpente affetto da epilessia. Ci trovo dello sludge doom, del sano death, un pizzico di noise e post-core, il tutto contrappuntato da sonorità non proprio linearissime o ferali. La proposta si conferma anche nella successiva "Swarming Hornets", una brevissima scheggia sonora che sembra offrire anche qualche ammiccamento e derivazione math/hardcore. Ancora suoni lenti e sinuosi con la terza "Blinding Erasure", ove sottolinerei una volta per tutte, la caustica prova vocale del frontman Dylan Walker e l'utilizzo di un qualche non identificato strumento in sottofondo ad arricchire con derive jazz, la proposta di questa infernale band del Maryland. (Francesco Scarci)

giovedì 20 ottobre 2022

Kodaclips - Glances

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk
I Kodaclips sono una creatura formatasi nel recente passato. La formazione del quartetto italico risale infatti al 2021, con 'Glances' a rappresentarne il disco di debutto e una forma di tributo ad una delle principali influenze della band, ossia i post rockers statunitensi Slint, con il titolo a citare il testo di "Don, Aman", traccia inclusa nel secondo disco 'Spiderland'. Fatti questi dovuti preamboli, la musica dei nostri si muove nello spettro del post rock/shoegaze sognante ed etereo, con certe divagazioni che chiamano in causa anche un certo alternative rock stile Smashing Pumpkins (e penso ad alcune schitarrate incluse nell'opener "Temporary 7") che ben si amalgama con ammiccamenti e derive varie che ci porteranno nei paraggi di certo post punk. Lo shoegaze viene fuori alla grande nella seconda "Pacific", un brano dotato di una certa vena malinconico-depressiva, soprattutto a livello vocale e nelle cupissime melodie che ne affliggono l'andatura. Qui l'aura shoegaze si miscelerà ancora con il post rock che si esplica nel finale grazie a fraseggi in tremolo picking. L'inizio di "Drowning Tree" poteva aprire tranquillamente qualche brano dei The Cure ma i punti in comune con alcune band del passato ci conducono anche ai The Jesus and Mary Chain di "Mood Rider", mentre, sempre ampio spazio strumentale viene concessa alla seconda parte del brano, dotata di celestiali aperture post rock ma anche di roboanti riffoni post grunge. La voce di Alessandro Mazzoni è convincente quanto basta nel suo malinconico riverbero. "Not My Sound" apre con un sound ripetitivo quasi ipnotico, complice il frontman a cantare ininterrottamente "it's not my sound..." e con una coda noise nel finale. Convincenti, mi piacciono. Anche se non tutti i brani sono accattivanti allo stesso modo: "Cerbero" ad esempio la trovo un po' più statica e piattina, anche se da metà brano in poi prova ad invertire rotta e rimettersi in carreggiata con un cambio nell'architettura ritmica, sfoderando peraltro un bell'assolo conclusivo. "Muffling" non mi fa impazzire invece per quella sua eccessiva vena brit-pop nella prima metà, ma credo sia più un problema del sottoscritto, ancorato a sonorità più estreme. Nel corso del brano, la porzione ritmica si farà più energica (complice il basso di Sonny Sbrighi a tracciare poderosi fendenti), cosi come le contaminazioni noise emergeranno alla grande, invertendo nuovamente il mio giudizio iniziale. Musicalmente "Longinus" mi richiama qualche sperimentalismo di "primusiana" memoria mentre la conclusiva, strumentale e più lunga traccia del lotto, "Chrysomallos", chiuderà questo 'Glances' con l'eleganza, la robustezza e la maturità di una band di veterani, anche se, con la voce, il risultato è di tutt'altro effetto. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 74

https://www.facebook.com/kodaclips/

venerdì 30 settembre 2022

Body Void - Burn The Homes Of Those Who Seek To Control Our Bodies

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Nuovo EP per i californiani Body Void. Il trio, originario di San Francisco, rilascia una coppia di pezzi sotto questo lunghissimo titolo, 'Burn the Homes of Those Who Seek to Control Our Bodies' e lo fa, offrendo quello che da sempre i nostri sanno fare meglio, ossia un concentrato claustrofobico di sludge e noise rock. Il tutto è certificato dalle note introduttive della lunga "Burn" dove, tra riffoni a rallentatore e grida disumane, la band di Frisco srotola la propria disagiata forma musicale che verso il terzo minuto dell'opener, si materializza addirittura anche sotto forma di droniche divagazioni da fine del mondo, mentre il latrato vocale di Willow Ryan (in uno stile che francamente non amo) grida tutto la propria disperazione. Il brano prosegue in questo loop infernale fino al suo termine attraverso quella che sembra un'unica nota di chitarra protratta all'infinito. Con "Drown" si comincia invece da una forma più affine al noise miscelato qui ad un rifferama ossessivo tipicamente sludge doom. Ecco, volete avvicinarvi al mondo offuscato dei Body Void e allora, preparatevi ad atmosfere plumbee e angoscianti, lente e decadenti, dove alla luce non sarà permesso minimamente di affacciarvisi. Stagnanti. (Francesco Scarci)

sabato 17 settembre 2022

1/2 Southern North - Narrations of a Fallen Soul

#PER CHI AMA: Occult Doom Rock
Della serie Les Acteurs de L’Ombre Productions colpisce ancora, ecco arrivare gli evocativi 1/2 Southern North con un esempio di dark doom occulto. ‘Narrations of a Fallen Soul’, primo capitolo della one woman band greca guidata dalla sacerdotessa IDVex Ifigeneia, si apre con la lunghissima “Alpha Sophia” che prova a darci le prime indicazioni della proposta dei nostri. Oltre dodici minuti di suoni oscuri, compassati, esoterici, psichedelici, deliziati dalle vocals della frontwoman ellenica. Il sound dei 1/2 Southern North mi ha evocato quello dei californiani Lotus Thief, abili miscelatori di psych rock, ambient, space, post e un non so che di black metal. Qui ci troviamo al cospetto di un’artista che si muove su coordinate similari e che fa sicuramente della propria voce l’elemento portante e distintivo che va poi a poggiare su atmosfere orrorifiche che vedono peraltro la presenza di una sgangherata partitura di violino nella title track a cura di Efraimia Giannakopoulou, una dei tanti ospiti che popolano questa release. “Hearts of Hades” affida la sua parte introduttiva ad una declamazione in greco che poggia su suoni di flauto e tamburo. L’effetto è sicuramente particolare, soprattutto quando la voce della cantante si fa più suadente, anche se otto minuti di questo tipo rischiano di frantumare i neuroni anche dei più stoici. E la ridondanza sonora è uno dei must di questo lavoro: ascoltatevi la parte introduttiva di “Breastfeed Your Delighful Sorrow” e ditemi se anche voi come il sottoscritto avete perso la pazienza dopo i primi 60 secondi. Poi il brano evolve in un crescendo melodico accattivante, tra parti atmosferiche, altre arpeggiate, ma che tuttavia rischia di stancare per la sua eccessiva durata, un’altra peculiarità di un disco che raggiunge I 67 minuti di durata con pezzi che si assestano tra gli 8 e i 12 minuti. L’unica eccezione è rappresentata da “Song to Hall Up High”, storica song dei Bathory dei tempi di ‘Hammerheart’, riletta completamente in chiave avanguardistica dai nostri, ma mantenendo intatta l’epicità dell’originale, “sporcandola” semmai di influenze noise/droniche. A completare il quadro delle canzoni incluse in questo disco, ci sono ancora l’inquietante “Elegy of Hecate”, forse il brano più sperimentale e progressivo del lotto che mi ha evocato peraltro anche un che dei Thee Maldoror Kollective di ‘Knownothingism’. Infine, gli oltre 12 minuti di “Remnants of Time”, un pezzo che ammicca addirittura al jazz e in cui a trovare posto sarà questa volta il sax di George Kastanos. Quello dei 1/2 Southern North è alla fine un lavoro davvero ambizioso, concettualmente interessante ma decisamente ostico musicalmente parlando, che pertanto necessiterà di svariati ascolti per essere assimilato. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions/Satanath Records/Fog Foundation - 2022)
Voto: 68

Heat Fandango – Reboot System

#PER CHI AMA: Psych/Noise Rock
Già da qualche tempo ci troviamo ad avere a che fare con dischi che sono in qualche modo figli del lockdown, del distanziamento sociale o, comunque lo si voglia chiamare, di quella cesura nella vita di molti che è stato l’annus horribilis 2020. Ci sono dischi che sono nati “per colpa” (o merito) del lockdown nonostante questa cosa sia arrivata a prendersi gran parte della nostra vita sociale. 'Reboot System' fa molto probabilmente parte di questa seconda categoria: registrato tra marzo e maggio 2020, forzatamente “a distanza”, non è chiaro se i brani fossero stati scritti e provati prima, “in presenza” (inquietante quanto certe espressioni, altrimenti orribili e cacofoniche, siano ormai entrate nel nostro lessico quitidiano) dalla band al completo. Comunque sia, Tommaso Pela, Marco Giaccani e Michele Alessandrini hanno registrato questo loro esordio ognuno a casa propria ed il risultato finale è davvero di ottima fattura. I tre hanno all’attivo una lunga militanza nell’undergound marchigiano e portano in dote indiscutibile perizia tecnica, idee chiare sulla direzione da intraprendere e sul suono che vogliono avere. Le radici sembrano affondare con decisione nel garage rock americano in stile Fleshtones, ma il suono non è mero revival e cerca nuove strade, affiancando chitarra twang a synth taglienti e una sezione ritmica potente e precisa, di stampo quasi wave. E gli episodi migliori sono proprio quelli in cui la commistione tra queste due anime, quella garage e quale wave, viene esibita e spinta in maniera scoperta ("Controlled", "Guilty"). In definitiva, un disco che è una bella boccata d’aria, meno di 35 minuti molto divertenti e mai banali. Rimane la curiosità di capire se e quanto gli Heat Fandango suonino diversi visti dal vivo, tutti insieme sullo stesso palco. (Mauro Catena)

(Bloody Sound Fucktory - 2021)
Voto: 74

https://bloodysound.bandcamp.com/album/reboot-system