Cerca nel blog

mercoledì 30 gennaio 2019

Saint Sadrill - Pierrefilant

#PER CHI AMA: Neo Prog/Avantgarde/Indie/Psichedelia
Al primo ascolto sono rimasto folgorato da questo nuovo album dei transalpini Saint Sadrill, un ensable di musicisti atipici e geniali, in grado di generare un'infinità di emozioni, trasportandomi in un viaggio dai mille colori ed emozioni multiformi, attraverso i molteplici generi musicali rivisti in modo originalissimo e personale dalla band di Lione in questo 'Pierrefilant'. Mi sono perso nel guardare il loro splendido ed intimo "Live at Studio Rouge in Rivolet" del febbraio scorso, presente su youtube, dove il sestetto conferma la mia impressione di trovarci di fronte ad un super gruppo, con grandi capacità compositive, tecniche, canore ed espressive. L'album è uno spasso, per veri intenditori. Ci si sposta musicalmente con cotanta velocità e dimestichezza che mi risulta impossibile decifrarlo o definirlo a modo in poche righe. Potreste accostare un'attitudine elettro-minimalista con un appeal da composizioni cameristiche, una sensibilità soul grazie ad un canto in stile Antony and the Johnsons con la follia di un giovane Arthur Brown nel pieno di un sogno psichedelico; il post rock sofisticato e suadente proveniente dalla cristallina Islanda con la musica indipendente fatta di chiaroscuri emotivi degli Ulan Bator e ancora, la visione astratta e mistica del più fantasioso Terry Riley con il krautrock più ipnotico e meno convenzionale, i suoni space di Suzanne Ciani, con le vellutate sperimentazioni progressive di Steven Wilson, il tutto capitanato da un vocalist dall'estensione decisamente fenomenale. Sarebbe stupido descrivere ogni singolo brano come pure prenderne uno per dire che è il migliore, le canzoni sono cosi piene di vita, dai risvolti inaspettati, che partendo da un lato introspettivo, ci si può trovare a confrontarci con un coretto cantato alla maniera burlona del mitico Zappa o dal tono ecclesiastico del miglior alternative country, per continuare in un chitarrismo che ricorda le atmosfere dei Madrugada in 'Industrial Silence', o l'incedere moderno, intellettuale e neo prog dei The Pinneaple Thief, per finire nel jazz rumorista dei mai dimenticati meravigliosi Shub Niggurath, sempre in agguato ma nascosto tra le righe, di questi dieci brani dalla delicatezza infinita. Una rabbia dolce, sofisticata, sovversiva, fuori dal coro, capace di graffiare con il suo ammaliante potere di essere pop d'autore e avanguardia al tempo stesso, in un capolavoro fatto uscire dallo stravagante collettivo Dur & Doux, un disco che non merita di passare inosservato, un gioiellino da mettere sotto il cuscino e tenerlo stretto come un tesoro. Album geniale e ispirato. (Bob Stoner)

(Dur & Doux - 2018)
Voto: 90

https://saintsadrill.bandcamp.com/

martedì 29 gennaio 2019

Monolithes - Limites

#PER CHI AMA: Experimental/Jazz/Fusion
Francia, Francia, nient'altro che Francia. Sembra ormai che il panorama mondiale musicale sia dominato in lungo e in largo da band provenienti dal paese dei nostri cugini, e non sto parlando solo in ambito estremo. Quest'oggi infatti, abbiamo a che fare con quest'astrusa realtà prog jazz metal, i Monolithes, ensemble che ha peraltro vinto il concorso “Jazz de la Défense” nel 2017, e che in formazione non vede solo la classica batteria e chitarra ma addirittura vibrafono e contrabbasso, a segnare l'estrosa identità del quartetto di Nantes. Basta poco per accorgersi della complessità della proposta di questi quattro pazzoidi, che lungo i 72 minuti a loro disposizione (in sole sei tracce!) esplorano e spaziano orizzonti musicali alquanto indefiniti. Se l'opener "Ploton le Furieu" funge più da intro, nei suoi quasi cinque minuti ci dà un'idea della intenzioni musicali jazz/post rock che dovremo attenderci, facendoci però capire quanto sarà davvero ostico affrontare l'ascolto di 'Limites'. Questo lo si evince già con gli schizofrenici dodici minuti di "Limite les Rêves Au-delà", dove sarà chiaro quanto al quartetto francese piaccia muoversi nella più totale improvvisazione musicale tra ritmi etnici, noise e jazzcore, in uno dei brani più complicati ascoltati - sin qui - nella mia lunga militanza estrema (e sto parlando di oltre 30 anni!). La song è un susseguirsi di umori, suoni, note messe caoticamente in ordine dall'entropia musicale in costante aumento sprigionata dalla band. Letteralmente sfiancato da questa mini maratona, mi appresto ad una ancor più ampia fatica, con i sedici interminabili minuti di “Tears Point”, in cui sembra regnare, almeno inizialmente, il silenzio del vuoto cosmico, poi rumori alieni, spezzoni disarmonici di musica indecifrabile, scale ritmiche buttate giù casualmente in una caldera di stili musicali deprivati della classica forma canzone. È sperimentazione avanguardistica, fatta dalla fusione di molteplici stili provenienti da questo mondo e da uno dei milioni di miliardi di mondi extraterrestri. Al peggio non vi è mai fine se parliamo di durate, perchè c'è ancora da affrontare la psicotica "Panglüt" e i suoi infiniti 20 minuti, ove spiegarvi cosa si va a coniugare nelle sue note, diventa impresa assai ardua. Vi basti pensare alle classiche trame jazzistiche, aggiungeteci un pizzico di metal, prog, suoni etnici, drone, silent noise (quasi 10 minuti), ambient e qualsiasi altra cosa che abbia poteri destabilizzanti per la psiche umana, e il gioco è fatto. A completamento di quest'opera magna, ecco arrivare "Chasuble", una bonus track, neanche ce ne fosse il bisogno, stralunato come mi ritrovo ora, dopo aver prestato il fianco a quasi un'ora di musiche e pronto ad affrontare altri sedici minuti, in grado di sovvertire completamente ogni mio concepimento sonoro. Ma l'ascolto di quest'ultima traccia è cosa assai semplice, è meditazione buddista, rilassamento per la psiche, melodie cosmiche, pronte a condurci alla pura essenza del nirvana. Improbabili. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 75

https://monolithes.bandcamp.com/album/limites

domenica 27 gennaio 2019

The Pit Tips - Best of 2018

Francesco Scarci

Avast - Mother Culture
Entropia - Vacuum
Between the Buried and Me - Automata I-II

---
Dominik
 

Funeral Mist - Hekatomb
Sargeist - Unbound
Eïs - Stillstand und Heimkehr

---
Five_Nails

Birnam Wood - Wicked Worlds
Horn - Retrograd
Atlas - The Destroyer of Worlds

---
Pietro Cavalcaselle
 

A Perfect Circle - Eat the Elephant
Denzel Curry - TA13OO
Kid See Ghosts - Kid See Ghosts

---
Shadowsofthesun

Daughters - You Won't Get What You Want
YOB - Our Raw Heart
Manes - Slow Motion Death Sequence

---
Alain González Artola
 

Bloodbark - Bonebranches
Mørke - Death Embraces You All
Antigone´s Fate - Insomnia

---
Michele Montanari

The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic
Spaceslug - Eye the Tide
Night Verses - From the Gallery of Sleep

---
Bob Stoner

Pardans - Spit and Image
Voivod - The Wake
Sinistro - Sangue Cassia


---  
Stefano Torregrossa 

Sumac - Love in Shadow
Sleep - The Sciences
YOB - Our Raw Heart 

--- 
Alejandro Morgoth Valenzuela 

Voices - Frightened
The Antichrist Imperium - Volume II Every Tongue Shall Praise Satan
Acathexis - Acathexis

sabato 26 gennaio 2019

Majestic Downfall - Waters of Fate

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Chissà se i Majestic Downfall avranno pensato di rivalutare la loro scelta di essersi spostati dal Texas al Messico, dopo tutte le tensioni generate dal buon Trump negli ultimi mesi lungo quel confine tanto contestato? Ovvio che si tratti di banalissime speculazioni atte a presentare il comeback discografico dei messicani Majestic Downfall, 'Waters of Fate', arrivato sugli scaffali grazie alla collaborazione tra Solitude Productions e Weird Truth Productions, dopo un silenzio durato tre anni. Al pari degli Helllight, mi fa specie sentire una band proveniente da un paese cosi solare, proporre un genere invece oscuro e deprimente fatto sta che, a differenza dei compagni di scuderia brasiliani, qui non ci troviamo al cospetto di funeral doom, bensì trattasi di un death doom, in grado di srotolare, lungo gli oltre 60 minuti, sei pezzi aggressivi, roboanti, che pescando da una tradizione più vicina ai primi Paradise Lost, faranno la gioia dei vecchi fan dell'act brasileiro, senza tuttavia avere l'ambizione di raccoglierne di nuovi. Al duo di Querétaro infatti sembra mancare quel fattore X in grado di fargli fare il vero salto di qualità. La musica non è male, lo dimostra la lunghissima "Veins" in apertura con i suoi saliscendi death doom, le vocals costantemente orientate al growl, qualche sfuriata al limite del black e il classico arpeggio acustico, tante cose carine ma stra-abusate negli ultimi anni. Non serve nemmeno fare il verso ritmico dei primi Cathedral nella title track per farmi dire che il lavoro ha un che di rilevante, lo trovo un po' piattino e privo della verve che altri dischi della label russa, invece possiedono. Ci sono ancora troppe cose scontate che mi fanno pensare di conoscere già la trama del disco. Apprezzabile il tentativo di trovare delle variazioni al tema, come l'utilizzo di intemperanze black nella già citata traccia che dà il titolo al lavoro. Purtroppo la sensazione forte è quella che la proposta dei nostri sia un po' lacunosa in più di una circostanza. Un peccato perchè poi i Majestic Downfall diventano più interessanti in pezzi come "Contagious Symmetry", song assai strutturata nel suo incedere inquieto e dotata di un buon solo. Più difficile da comprendere l'ultima "Waters of Life", lunga e rumoristico/dronica song che chiude un disco non certo tra i più memorabili rilasciati dall'etichetta là oltre la cortina di ferro. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Weird Truth Productions - 2018)
Voto: 60

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/waters-of-fate

Helllight - As We Slowly Fade

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Altro ritorno storico sulle pagine del Pozzo dei Dannati per i brasiliani Helllight, band che seguiamo sin dalle origini e di cui abbiamo recensito quasi tutti gli album. Mancava a rapporto l'ultimo uscito per la Solitude Productions, 'As We Slowly Fade', un altro, l'ennesimo, monumentale lavoro dei sudamericani. Chi è appassionato di funeral doom, sa di certo di quale preziosa entità flemmatica e funerea stiamo parlando, una band che per quanto provenga dall'assolato Brasile, è in realtà portatrice di un messaggio oscuro e di morte, e per questo divenuta una dei maggiori esponenti della scena funeral mondiale. E pure questo disco, costituito da sei lunghe tracce più intro, conferma quanto di buono il trio di Sao Paolo, produca da oltre vent'anni. E allora addentriamoci nelle viscere della bestia per scoprire le affascinanti trame chitarristiche di Fabio De Paula e compagni, che già con la title track impreziosiscono questa release con lente e strazianti melodie squarciate da decadenti assoli dal sapore progressivo. I quasi 12 minuti della song scivolano via che è un piacere tra growl terrificanti e drammatiche cleaning vocals che stemperano la pesantezza delle prime, mentre la porzione ritmica si mantiene su tempi dettati al rallentatore, soprattutto nella terza disperata e disperante "While the Moon Darkens", brano lento ma dalle keys magniloquenti nella sua seconda parte, che nuovamente si fa accattivante nella sua sezione solistica, vero punto di forza del combo paulista. Qualche anno fa dicevo come gli Helllight avrebbero rappresentato il punto di riferimento del funeral in futuro, oggi posso solo confermare che i nostri abbiano raggiunto quest'invidiabile status, grazie all'ispirato lavoro di chitarre e atmosfere creato nella splendida "The Ghost", in principio dinamica, ma poi sprofondante in territori di opprimente musica funeral. Le sorprese non terminano qui dato che "Bridge Between Life and Death" e "The Land of Broken Dreams" hanno ancora da regalare due putrescenti capitoli di inquietanti sonorità d'oltretomba, sicuramente evocative a livello canoro (a me l'epica performance di Fabio piace assai) quanto nel gigioneggiare a livello chitarristico con queste ardite scale ritmiche e i continui rimandi a sonorità prog rock. L'ultima "Ocean" riserva l'ultima sorpresa nell'ascolto di 'As We Slowly Fade', ossia la presenza di una gentil donzella a prestare la propria suadente voce a duettare con Fabio (qui a tratti non troppo all'altezza, a dire il vero, complici dei rimandi inopportuni agli Arcturus) e chiudere comunque con una certa eleganza questo brillante disco, mi sa tanto, il mio preferito nella discografia degli Helllight. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 80

https://helllight.bandcamp.com/

giovedì 24 gennaio 2019

Délétère - De Horae Leprae

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
It´s time to return to one of the most prolific and respected black metal scenes in the world, the one of Quebec. This Canadian region is well-known due to its strong pro-independence movement. This time and contrary to other highly rated bands, I am reviewing a band with, as far as I know, no political connections at least, if we speak about the lyrical contents of their albums. The band is called Délétère and it was formed in 2009 by Atheos and Thorleïf, who have been the unique permanent members of this project, only accompanied by several musicians who helped them in the studio or on stage. Both members have previous experience in excellent bands like Forteresse or Utlagr, just to say they are strongly connected to the extreme metal scene of Quebec. Though the band exists for nine years, they have only released two albums, the excellent debut 'Les Heures de la Peste' and the new opus 'De Horae Leprae'.

The new effort has a similar concept as the debut album. The lyrics deal with medieval times, and specifically with death and mortal diseases. This time, the album´s concept seems to deal with leprosy, another disease very frequent in the medieval times. Musically speaking, Délétère continues with the tradition settled by other bands of the scene. The band plays a kind of aggressive black metal, focused on powerful riffs melodic and atmospheric. If I should compare the band´s sound to, for example, Forteresse, I would say that Délétère has a darker approach fitting perfectly well with the tenebrous lyrical concept the band develops. The second track, “Cantus II-Sagina Caedencis”, is a fine example of somber guitar chords, which open the song and later accompany the main guitar riffs. But it´s not the unique example of this somber tone as a song like “Cantus V-Figura Dysphila” has also some especially dark sections. Though the album has in general terms a very aggressive tone and was very focused on creating powerful riffs, the band adds, from time to time, some elements to enrich its musical offer. For example, the opening track, “Cantus I-Teredinis Lepra” or the fourth song, “Cantus IV-Inopia et Morbo”, have occasional keys sounding like an organ, which of course fits with the medieval concept behind the band´s music. This use is increased in the last track, “Cantus IX-Oratio Magna”, my favourite song, as it sounds more medieval and atmospheric than any other song of the album, mainly thanks to these organs. What about the vocals? Well, I can safely say that Thorleïf delivers as a vocalist. His screams are powerful and high-pitched, they are easily audible as the production is quite good, raw enough, but with the majority of the instruments and the vocals themselves, easily distinguishable. Vocally speaking, we also find tiny tries to add some variety as the band introduces some clean vocals, which sound like a dark choir, very medieval yet again, tough they are scarcely used in songs like “Cantus II-Ichthus Os Tremoris”. The album has overall a quite fast pace, though the drums have a healthy combination of blast-beasts and slightly slower sections, almost never really slow but something between fast and mid-paced patterns, which obviously help to create non-monorithmic songs.

To sum up, Délétère has released a very good sophomore album which I wouldn´t define as a masterpiece, but a very enjoyable black metal album with some nice touches, which make it an interesting listen. Very recommendable if you follow the excellent black metal scene of Quebec. (Alain González Artol)

(Sepulchral Productions - 2018)
Score: 75

https://www.facebook.com/inopiaetmorbo

Borghesia - Proti Kapitulaciji

#PER CHI AMA: Electro/Post-Industrial/Darkwave
Risulta molto difficile catalogare i Borghesia, band di Lubiana che opera in ambito sperimentale ed elettronico fin dal 1982. Industrial, darkwave, trance-dance s'incrociano con un ambient cinematografico (cosa che il gruppo conosce bene visto la loro forte dedizione verso le colonne sonore), la rumoristica ed il post punk elettronico degli anni novanta e duemila. Un'ottima produzione poi dà il giusto appeal ad un lavoro sicuramente intrigante ed intellettuale, di non facile approccio, peraltro cantato in lingua madre, sui versi del giovane poeta Srečko Kosovel, morto di meningite all'età di soli 22 anni. La militanza antifascista, parte del lato artistico della band a cui si aggiunge una visione cupa relativa al declino in cui riversa il mondo di oggi, è sempre padrona della scena. Una scena musicale che è un meltin pot variegato, tra Disciplinatha, Falco, Skynny Puppy, Kraftwerk, Palais Shaumburg, Kirlian Camera, Malaria, un certo art rock/pop/dance, riproposto alla maniera storta dei Chumbawamba, con l'attitudine tipica di una post punk band rumorista, giunta direttamente da Berlino (vedi le analogie di produzione con il recente 'Lament' degli Einstürzende Neubauten). Canti nostalgici , sperimentazione, folk ed elettro-rock vanno a braccetto per tutto il tempo del disco, rilasciando, nel proseguo dell'album sentimenti di tristezza e amarezza, profondità ed introspettiva che prevalgono sull'impatto sonoro in "Europa Umira" e "Razočaranja I", che emergono per ingegno compositivo e delicate atmosfere. L'intento sonoro è comunque di unire ritmiche attraenti, melodie incalzanti e l'uso del cervello, per pensare a cosa ci riserverà il futuro. Anche la techno (quella intelligente) è spesso citata nel sound della band, come in "Moj črni Tintnik", brano che si pone il compito di unire il lato dance dei nostri ad echi in sintonia con la famosa colonna sonora di 007 e con la song tanto discussa ed icona di un'estate di tanto tempo fa, dal titolo, "Da Da Da" della pop wave band Trio. Nello srotolarsi dei brani, alla fine ci si immerge spesso in carrellate di word music e ambient trip hop dal taglio etnico ovviamente dell'est Europa, campane come intro su "Radovnik" e spazio al classicismo per le arie della conclusiva "Blizu Polnoči". Un album 'Proti Kapitulaciji', che ha bisogno di essere assimilato lentamente (perchè quindi non sfruttare il download gratuito su bandcamp?), un lavoro complicato e studiato nei particolari con gusto e dedizione, un lavoro che cerca di emancipare la cultura sonora elettro-industriale di venti/trent'anni fa senza renderla retrograda o insignificante, ridonandole lustro e significato. Disco che non è per tutti, ma che mostra molte potenzialità espressive. (Bob Stoner)

mercoledì 23 gennaio 2019

Self-Hatred - Hlubiny

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Prosegue la nostra esplorazione nell'ambito della musica del destino là, nell'infinito mondo creato dalla Solitude Productions. Questa volta l'etichetta russa ci accompagna in Repubblica Ceca, alla scoperta dei Self-Hatred. Come s'intuiva dalla mia apertura, ci troviamo al cospetto di una band death doom, che di primo acchito mi ha ricondotto a 'For the Loveless Lonely Nights', splendido EP dei Saturnus. Non chiedetemi perchè o per come, ma questo è quanto ho percepito dall'ascolto dell'opener "Konec". Forse un'affinità vocale, un mood malinconico come solo Saturnus e pochi altri sanno trasmettere o chissà, fatto sta che io ci ho sentito questo e l'ho apprezzato non poco. C'è poi chi storce il naso quando ci si muove in territori assai derivativi, ma d'altro canto che altro si può inventare in questo genere? Andare sempre più lenti è già stato fatto, essere più pesanti pure, tanto vale godersi qualche buon pezzo di musica emozionale, atmosferica, insomma del buon death doom (cantato peraltro in lingua madre), come quello sciorinato in "Odraz", una song diretta, melodica che va dritta al punto e alla fine dell'ascolto ti dici anche soddisfatto. Più lenta la title track, ma decisamente efficace nella sua linea di chitarra melodica. Ci si riprende alla grande con "Střepy" e la successiva "Vzplanutí", due song dinamiche dove la band di Plzen si discosta dai dettami del genere lanciandosi in pezzi più movimentati e brevi (tra i 5 e i 6 minuti, sebbene i dettami vogliano durate più importanti e ritmi più lenti). In "Apatie" è lo spettro dei primissimi Novembre a far capolino, con una ritmica (e delle vocals sussurrate) che per certi versi mi hanno ricordato alcune cose contenute in 'Wish I Could Dream It Again...'. A chiudere le danze di 'Hlubiny' arriva la strumentale "Epitaf" che chiude timidamente la prova dei Self-Hatred, una band da tenere sicuramente sotto stretta osservazione. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 75

https://self-hatred.bandcamp.com/

martedì 22 gennaio 2019

Taur-Im-Duinath - Del Flusso Eterno

#PER CHI AMA: Black, Umbra Noctis
Se Cristo si è fermato ad Eboli, proprio da qui parte la proposta dei Taur-Im-Duinath (che in lingua "tolkeniana" sta per foresta fra i fiumi), one-man-band di F., già membro dei Pàrodos e live session degli Scuorn. 'Del Flusso Eterno' è il full length d'esordio del musicista campano che affronta in queste otto tracce, il tema del viaggio spirituale, teso ad abbracciare la circolarità dell'Universo e le sue forze di creazione e distruzione. Temi filosofici interessanti che si accompagnano a quelli altrettanto delicati della condizione umana, sorretti da un sound votato ad un black metal epico e feroce, il tutto rigorosamente cantato in italiano. Scelta azzeccata, un po' controcorrente rispetto ad un monicker che si rifà invece alla tradizione elfa, ma niente da obbiettare sia chiaro, solo un pensiero ad alta voce il mio. Si parte con la classica sognante intro e poi spazio a "Rinascita" e ad un black secco ed essenziale, forte nell'epicità delle sue chitarre, un po' meno nel minimalismo artificioso della drum machine. Ottime le vocals, graffianti, e sempre intellegibili, che ci permettono di seguire le liriche del factotum italico. "Cosi Parlò il Tuono" irrompe selvaggia, con un sound che potrebbe ammiccare ai Windir per epicità, ma anche agli Emperor e ai nostrani Umbra Noctis, sebbene non manchino momenti più doom oriented, soprattutto nella parte conclusiva del brano che segue peraltro uno splendido assolo dal forte sapore rock che attenua una ritmica incessante, di nero sentore post-black. La title track è una traccia più classica, legata a schemi canonici e derivativi dalla fiamma nera: chitarre zanzarose, il classico screaming, buone melodie mid-tempo e apparentemente poc'altro. La song cattura l'attenzione infatti per un malinconico break centrale di chitarra acustica e delle voci sussurrate, e per una conclusione finalmente accattivante. Un mini break di quasi due minuti per prendere fiato e ripartire dalla primordiale "Il Mare dello Spirito", una song che miscela il black ad una sempre più sentita vena malinconica. Un intro di un minuto e mezzo prepara "Ceneri e Promesse", song dal piglio solenne, strisciante nel suo incedere, quasi al limite dello sludge, che sembra prendere le distanze dalle altre song del lotto. Insomma, gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, sebbene un certo ancoraggio a sonorità del passato un po' troppo abusate e a certe leggerezze a livello di produzione. Peccato poi per un outro francamente inutile, avrei optato per qualcosa più in linea con la proposta della band. Considerato lo status di debutto, 'Del Flusso Eterno' è comunque una release positiva, per cui auspico una maggior cura nei dettagli nei lavori a venire. (Francesco Scarci)

Ananda Mida - Cathodnatius

#PER CHI AMA: Psych-rock '70s/Stoner/Garage, Brant Bjork
Gli Ananda Mida sono una creatura strana: il collettivo veneto è guidato da Max Ear (ex OJM) e Matteo Pablo Scolaro, entrambi coinvolti direttamente nell’etichetta GoDown Records. Da un primo, acerbo EP del 2015 a questo secondo full–length (che segue l’ottimo 'Anodnatius'), i due hanno suonato con line-up modulari, con o senza cantanti, aggiungendo tastiere, organi, percussioni a seconda delle necessità. Le coordinate musicali degli Ananda Mida, pur con la dovuta maturazione, sono tuttavia sempre rimaste costanti: l’ispirazione settantiana è fortissima, e premia una attitudine più garage che stoner (“Blank Stare”, con quel rullante insistentemente in battere), e sicuramente più psichedelica che metallara. Le vocals — c’è un ottimo Conny Ochs al microfono — sono calde, coinvolgenti, persino mistiche (la ballad acustica “Out Of The Blue” ne è un ottimo esempio). Melodia e timbrica ricordano da una parte il Jim Morrison dei The Doors, e dall’altra i recenti lavori di Brant Bjork — con i quali gli Ananda Mida condividono anche una certa passione per il rock/blues tinto di roots (“Pupo Cupo”). Fra i cinque brani di cui è composto 'Cathodnatius' spiccano i 22 minuti di “Doom and the Medicine Man”, che chiude il lavoro: una sorta di manifesto degli Ananda Mida, una suite lisergica dalle tinte southern (intendiamoci: qui di doom c’è solo l’ispiratissima lentezza dei bpm!), guidata dalle ottime chitarre di Matteo e Alessandro che trasudano delay e riverberi mentre macinano riff, accordi e soli. Bisognerà attendere la metà del brano per la prima accelerazione verso sonorità più stoner e spinte — ma il feeling è sempre lo stesso: occhi chiusi, braccia al cielo e testa che ciondola a tempo — per chiudere poi in un finale strappa-mutande dove a spiccare è nuovamente la voce del bravo Conny. Un lavoro scritto, arrangiato, registrato e prodotto con una precisione maniacale, che conferma gli Ananda Mida come vero gioiellino del panorama italiano. (Stefano Torregrossa)

lunedì 21 gennaio 2019

Ivan - Memory

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Nella definizione di mattone, accanto a quella di materiale laterizio o di cose o persone pesanti e noiose, dovremo aggiungere anche gli Ivan, un duo proveniente dall'Australia che ha rilasciato questo terzo lavoro, 'Memory', sottoforma di due brani davvero ostici da digerire. E non solo per una lunghezza estenuante, oltre 48 minuti, più che altro per un andamento davvero lento ed inesorabile. Come immaginerete, siamo nell'ambito del doom estremo, peraltro ben suonato, però a questi ritmi, davvero sfiancante. Si apre con il decadente suono di "Visions" e quello che preme innanzitutto sottolineare, è la performance (apparentemente) meravigliosa al violino, di Jess Randall, session man della band accanto ai due virgulti che portano avanti il progetto. Il violino di Jess si prende infatti la scena per quasi quattro minuti di strazianti melodie su cui poggeranno le vocals e la ritmica dei due musicisti di Melbourne. Tuttavia, il violino persiste nell'essere il vero driver del flusso sonoro degli Ivan, occupando per la maggior parte del tempo, il ruolo di indiscusso protagonista del cd, da un lato edulcorando la proposta del duo, dall'altro, mi verrebbe da dire che dopo un po', l'espressività, la poesia e l'effetto sorpresa legate al suono di quel magnifico strumento, vengono meno. Ed ecco, dopo una decina di minuti trovarmi a lamentarmi dell'ingombranza del violino stesso che alla fine si prende tutta l'attenzione, onori ed oneri, di un sound si claustrofobico, ma che alla lunga risulta troppo monolitico. Dura sorbirsi gli oltre 22 minuti dell'opener, privi di un vero spunto vincente, non parliamo poi dei 26 di "Time is Lost". La song apre con un'abbinata pianoforte/violino, che preannuncia quanto dovremo attenderci in quest'infinita suite, che vede proporre le classiche ritmiche funeral, abbinate a lamentose linee melodiche di chitarra e al growling da orco cattivo del vocalist, questo però propagato all'infinito. Certo, aspettatevi ancora qualche break affidato al solito strumento a corde, ma nessun altro particolare sussulto teso ad interrompere lo scorrere struggente di un disco che dire impegnativo è poco. Si, insomma un buon mattone da cui partire per costruire le basi future di un suono auspichiamo più dinamico. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 65

https://ivanbandau.bandcamp.com/album/memory

Velvet Dream - Darkened Mysteria

#FOR FANS OF: Ambient, Vinterriket
Now that the winter is with us, it is the perfect time to enjoy some freezing and cold music. On this occasion, I reviewed the new opus of a German project called Velvet Dream. I have no information about the memberst of this mysterious project, which I suppose only increases the veil of mystery that this project tries to create around its music. Velvet Dream plays a very bleak and cold form of ambient music, which inevitably reminds me one of the titans of the scene, the mighty Vinterriket. This project has obviously some similarities though they try to add elements which try to enrich a style not known for being very varied. 

'Darkened Mysteria' is in fact a long work, lasting one hour, that for the profanes in this genre, it may be too repetitive or boring, but as I supporter of this kind of music, I can find tiny details which make the album interesting. The keys have in general a dark tone, but sometimes they also sound ethereal and otherworldly. In contrast with the aforementioned ambient legend Vinterriket, the keys sound really hypnotic but not exclusively cold and wintry. Sometimes they are accompanied by other sounds, like footsteps in the snow, which can be heard the album opener “Winter im Gebirg”. In other occasions, the band adds some natural sounds, like water flowing as occurs in the second track “Calling of Morpheus”, or a thunder. Thanks to these adds, some songs sound like a soundtrack of a remote and isolated landscape and they have a more natural approach, which reminds me those nature themed ambient albums.

Anyway, the album has a general dark and tenebrous tone with songs which sound especially bleak and mysterious, like the third, the longest track “Im Kristallsaal des Herrschers”. But the project shines, if I can use this term taking into account the content of the album, when they combine those dark and monotonous keys with others more ethereal and gorgeous, like it happens in “In den Hallen des Basaltberges”. In those moments, the combination looks inspired and makes Velvet Dream´s music more enriching and interesting.

In conclusion, Velvet Dream has released a quite good album of dark ambient, which obviously sounds cold and bleak, but also warmer when the band introduces nature-esque sounds. Moreover, the project appears more interesting when they combine different keys avoiding too long and monotonous sections, so I hope they will offer us in the future, more songs in the vein of the excellent “Calling of Morpheus”. (Alain González Artola)

(Into Endless Chaos Records - 2018)
Score: 70

https://www.youtube.com/watch?v=ySpMV-iKs9g

domenica 20 gennaio 2019

HolyArrow - Fight Back for the Fatherland

#PER CHI AMA: Epic Black/Thrash, primi Bathory, Darkthrone
Una sorta di rivisitazione della marcia funebre apre questo 'Fight Back for the Fatherland', secondo lavoro per la one man band cinese HolyArrow, capitanata da Shi Kequan, membro dei Demogorgon, ed ex dei Black Reaper, due realtà che già abbiamo incontrato qui nel Pozzo dei Dannati. La proposta del factotum della provincia del Fujian, è legata ad un black melodico pervaso da una certa vena folklorica ma anche da un più classico heavy metal. Niente per cui strabuzzare gli occhi o fregarsi le mani, per carità, però l'artista cinese offre un sound onesto che, partendo dall'intro "Upon the Ashes and Ruins" fino a "The Massacre Feast", regala quasi cinquanta minuti di estremismi sonori narranti stralci di storia cinese. E cosi diventa interessante ascoltare i quasi undici minuti di "Flames of War" e quel suo sound intriso di un'epicità guerresca che si traduce in lunghe cavalcate melodiche. Quello che a volte stride però, e sarà palese anche nei pezzi successivi, è una certa caoticità di fondo a livello sonoro, con gli strumenti che a volte s'impastano un po' troppo tra loro. "To Defend Fatherland" è un buon pezzo black thrash che mostra più di un'affinità con i primi Bathory, non fosse altro per un'alternanza vocale tra lo screaming ed un cantato epico in stile 'Hammerheart'. "The Ispah Rebellion" narra con una certa irruenza, una serie di guerre civile occorse nella provincia del Fujian nel 14° secolo sotto la dinastia Yuan. Quindi, ancora una volta, ecco al nostro servizio una lezione di storia combinata con la giusta colonna sonora a supporto, in cui sottolineerei la prova delle chitarre, non tanto a livello tecnico ma per le melodie tessute che ricalcano propriamente attimi di veemenza magari legati alle narrazioni di battaglie, con altri più calibrati e melodici. Più thrash oriented la title track, che vive comunque di un carattere ondivago legato ai molteplici cambi di ritmo in essa contenuti, in un incedere che sa anche di Darkthrone. A chiudere, arriva "The Massacre Feast", e il suo attacco ferale in stile death floridiano che mette un po' di subbuglio alla proposta degli HolyArrow, considerato quel tremolo picking a livello ritmico e i suoni folk che da li a breve esploderanno nell'incasinata proposta dell'act cinese. 'Fight Back for the Fatherland' è alla fine un disco interessante, soprattutto per i contenuti storici affrontati nelle sue liriche, che soffre tuttavia ancora di qualche ingenuità di troppo e leggerezza che dovrà essere limata nelle prossime uscite. Nel frattempo l'ascolto del disco è per lo meno consigliato per avvicinarsi ad un'altra esotica creatura del panorama estremo asiatico. (Francesco Scarci)

Revolutio - Vagrant

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Nevermore, In Flames
A volte le copertine degli album hanno il potere di invogliarne l'ascolto. Ho provato quest'esperienza con i bolognesi Revolutio: quando ho visto la cover di 'Vagrant' infatti, ne sono rimasto affascinato e cosi mi sono avvicinato alla band. 'Vagrant' rappresenta il debutto sulla lunga distanza per i quattro musicisti nostrani, dopo l'EP d'esordio uscito nel 2013. Dopo un lustro di messa appunto, i nostri tornano con dieci pezzi nuovi di zecca che si aprono con le sirene dall'allarme di quella che immagino essere un'esplosione nucleare. Ciò che successivamente deflagra nei vostri impianti hi-fi con "Meek and the Bold", è una canzone iper pompata all'insegna di un thrash metal ultra carico di groove, che in fatto di sonorità mi ha ricordato un ibrido tra Nevermore, Overkill, In Flames e Gojira, mentre a livello vocale, la voce del frontman, si presenta assai graffiante. Quello che mi prende è comunque la carica energetica che i nostri sanno generare con le loro rincorse metalliche. Bella la cavalcata in "What Breaks Inside", che mette in mostra le abilità nei cambi di tempo del quartetto italico. Meno esagitata invece "The Oracle", ben più ritmata e ricca di cambi di tempo, con la voce di Maurizio Di Timoteo a mostrare le sue molteplici sfaccettature, dall'urlato, all'accenno di un cantato in growl, alle spoken words di inizio brano e molto altro ancora, a ricordarmi peraltro la performance di un vocalist, quello dei Rage, che non sentivo da quasi vent'anni. Insomma c'è un po' di tutto in questa centrifuga sonora, che ha anche il merito di sciorinare un bell'assolo di classica scuola metallica ed un break che evoca un che anche dei Pantera. Si torna a pestare sull'acceleratore con "Ozymandias", una traccia che definirei in classico stile Revolutio, che sfoggia un altro bel solo di scuola rock, con il sound che diviene via via sempre più possente. Più malinconica invece "Eclipse" un pezzo strumentale, dove la chitarra sopperisce adeguatamente all'assenza della voce. Un bel basso metallico apre "Silver Dawn", dove la voce cupa e sofferta di Maurizio, viene accompagnata da ottime percussioni e da un riffing oscuro di chitarra, in quella che è la song più stralunata del lotto che suona come una sorta di semi-ballad. Dall'orrorifico break centrale con tanto di riferimenti ai King Diamond, ad un'ascesa ritmica di matrice Metallica (e questa volta lo scrivo maiuscolo per indicare nei Four Horsemen il chiaro riferimento). Una chitarra acustica apre "Requiem", un pezzo che potrebbe essere accostabile ad una "Nothing Else Matters" o "The Unforgiven", con la voce di Maurizio che ammicca, pur non arrivandoci, a quella di James Hetfield. Ottimo il lavoro del chitarrista solista, che nella successiva "Daydream" sembra lanciarsi in atmosfere di settantiana memoria che si miscelano alla grande con l'irruenza dei nostri. La sensazione che mi ha colpito è però quella di stare ascoltando un album totalmente diverso da quello delle tracce iniziali, e questo assolutamente non è un male, perché alla fine di 'Vagrant' mi ha colpito la sua eterogeneità. Quello che invece ho trovato incomprensibile, più che altro per l'estenuante durata - quasi 15 minuti, è il finale affidato a "The Great Silence", che sembra essere il rumore di fondo che rimane dopo l'esplosione atomica, beh ecco, di una decina di minuti ne avrei fatto volentieri a meno. Ci resta alla fine una buona prova di una band che, pur essendo agli esordi, mostra già una certa maturità tecnico-compositiva. (Francesco Scarci)

(Inverse Records - 2018)
Voto: 70

https://revolutio.bandcamp.com/

sabato 19 gennaio 2019

Voidhaven - S/t

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema, My Dying Bride
In Germania la corrente death doom sta prendendo una piega interessante: dopo Ophis e Doomed, ecco arrivare anche i Voidhaven, con il loro EP omonimo di debutto. E dove il doom è di casa, c'è sempre lo zampino dietro della Solitude Productions, abile a mettere sotto la propria ala protettiva, anche questo quintetto di Amburgo. Solo due i pezzi a disposizione dei nostri amici teutonici, che in poco più di diciotto minuti ci fanno comunque capire di che pasta sono fatti. L'opener, "The Floating Grave" è una song lenta, dai tratti malinconici, con un basso a metà brano che mi ha rievocato, ovviamente con le dovute proporzioni, "A Kiss to Remember" dei My Dying Bride. La song affonda le sue radici quindi in quel death doom di metà anni '90, affidando a ritmiche lente e profonde growling vocals, tutto il suo armamentario, senza dimenticarsi comunque di parti arpeggiate e clean vocals che rendono il tutto atmosfericamente più morbido e accessibile ad un più ampio pubblico. "Beyond The Bounds Of Sleep" apre con un altro arpeggio e delle voci sussurrate che si tramutano ben presto in un rifferama di scuola Anathema, quelli dei tempi di 'The Silent Enigma', combinandosi poi in parti più ariose (con voce pulita annessa) che chiamano in causa gli Swallow the Sun. Insomma 'Voidhaven' è un bel biglietto da visita per i nostri, in attesa di un album di durata più corposa. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 70

https://voidhaven.bandcamp.com/releases

Pensées Nocturnes - Grand Guignol Orchestra

#PER CHI AMA: Avantgarde Orchestral Black Metal
Nel Pozzo dei Dannati, ci eravamo fermati alla recensione di 'Nom D’Une Pipe!', quarto disco uscito per la Les Acteurs de l'Ombre Productions, poi il successivo 'À Boire et à Manger' fu autoprodotto e finalmente oggi il ritorno per l'etichetta francese, con il nuovissimo 'Grand Guignol Orchestra'. I Pensées Nocturnes sono tornati, con altre dieci tracce all'insegna di una follia avanguardistica grottesco musicale. Non sbagliano un colpo i nostri trapezzisti parigini, con un lavoro che fin dall'artwork e il booklet interno, colpisce per fantasia e originalità. Li ho definiti dei trapezzisti, ma potrei aggiungere clown, giocolieri, funamboli, mangiafuoco, ammaestratori di pulci o addestratori di serpenti, il risultato non cambierebbe. La band nelle dieci tracce qui contenute ne combina, come sempre, di tutti i colori, dal black orchestrale con tanto di fisarmoniche incorporate di "Deux Bals Dans la Tête" alla tanghera "Poil de Lune", cosi ricca di una serie di citazioni musicali e letterarie al suo interno, da far impallidire un candidato al premio Nobel. Pura follia musicale, lo dicevo all'inizio, delizia per il mio palato e per i miei sempre più delicati timpani, che ringraziano solennemente. Ovviamente intersecato a questo delirio musicale, ci ritroviamo sempre il personalissimo black pomposo dei nostri, che talvolta dirotta nel swing ("L'Alpha Mal"), non dimenticandosi tuttavia come creare atmosfere orrorifiche da Luna Park del terrore. I Pensées Nocturnes sono dei fottuti geni, che tuttavia non potranno piacere a tutti, data la complessità estrema della loro musica, che trova riferimenti ancora con la lirica, il jazz, musica etnica e classica, avendo cosi modo di completare un quadro musicale che potrebbe avere le fattezze della 'Guernica' di Picasso, il tutto poi cantato in lingua madre, giusto per non rinunciare alla grandeur francese. La violenza prevale in "Les Valseuses", ma si sa quanto possa essere passeggera nella musica del quintetto transalpino, che tra controtempi ultra-tecnici, stop & go, inserti di musica anni '30, stralunatissime vocals e sax (che torneranno anche nella successiva, inizialmente oscura, ma poi dai profumi quasi caraibico-balcanici, "Gauloises ou Gitanes?"), c'è da divertirsi non poco. L'improvvisazione è la parola d'ordine per questi mattacchioni francesi, con cui francamente mi piacerebbe fare due chiacchiere per capire realmente quanto la loro psiche sia veramente deviata. Da colonna sonora "Comptine à Boire", una song forse leggermente meno fuori dagli schemi, che evoca un che degli Arcturus, ma che evidenzia sempre una certa abilità negli arrangiamenti, nella composizione e qui anche nei solismi, con una fuga di sax nel finale, davvero incredibile. C'è ancora tempo per gli ultimi minuti di follia con le rimanenti "Anis Maudit" e "Triste Sade". La prima ci conduce in un qualche nobile salotto dove tra lirica e jazz, c'è spazio anche per devastanti incursioni black. La seconda chiude invece, con una certa vena malinconica, quest'ennesimo e folle piccolo gioiellino targato Pensées Nocturnes. (Francesco Scarci)

Broken Down - Drop Dead Entertainer

#PER CHI AMA: Industrial/Electro, Ministry
Da Bordeaux ci arriva il nuovo lavoro dei Broken Down, un miscuglio musicale non del tutto originale ma funzionale e ben fatto. Racchiuso in un album di ben diciotto tracce tutte di breve durata che strizzano l'occhiolino all'industrial metal dei Ministry e al punk/hardcore vecchia maniera, confezionato con un artwork che potrebbe essere tranquillamente l'immagine ideale per un disco shoegaze. A detta dell'artista, questo cd sarebbe l'apice di una ricerca sonora intrapresa qualche anno fa dall'autore, un viaggio di scoperta sonica, libera da ogni convenzione che dovrebbe portare effetti innovativi sull'uso di suoni ritmici e inventiva elettronica originale e assai personale. Il risultato è 'Drop Dead Entertainer', un buon disco giocato sul tiro dell'industrial rock ed un'elettronica old school (Nitzer Ebb), dotato di una gran fantasia nel creare vocals e cori ad effetto, con richiami agli inni migliori degli anthems dei Misfits. Le canzoni sono tutte carine e piacevolmente orecchiabili, buona la composizione che tocca stili particolari come in "Balance" dove il canto richiama persino lo spettro degli straordinari The Stranglers! Il cantato si alterna tra toni irriverenti che calcano anche i passi dei The Damned di metà anni ottanta e le liriche vengono spesso intervallate da chitarre e growl in odor di electro metal teutonico in stile Atrocity (ricordate 'Werk 80'?). Colpisce la volontà di comporre musica ad effetto che per quanto dura sia, mantiene una sorta di contatto con l'art rock ed anche con una certa veste glam digitale e sarcastica ("Raging Inside") che fa di questo disco un catino di tanti rimandi musicali per intenditori e nostalgici di generi alternativi in voga qualche decennio fa, un modo di fare musica per certi aspetti vintage, anche se rimodernato e rimodellato con passione. La produzione è ben curata ed il suono è volutamente reso sporco, acido e alternativo; canzoni come "You Turn Now" ricordano il suono più cavernoso di certo death rock, oppure un primordiale gothic metal lastricato di ricercate soluzioni radiofoniche che si rendono sempre efficaci e mai banali, coinvolgenti come pochi riescono ancora a fare oggi. Così potrei accusare questo lavoro di rifarsi ai miti citati prima ma non potrei mai sbagliarmi nell'affermare, che questo è un buon disco, sicuramente interessante a suo modo, una raccolta di brani che lasciano l'ascoltatore con la drammatica scelta di dover decidere se odiarli od amarli... ma la vera domanda è: come resistere ad un brano come "Down the Stairs"? (Bob Stoner)

(Altsphere - 2018)
Voto: 70

https://broken-down.bandcamp.com/

Moss Upon the Skull - In Vengeful Reverence

#FOR FANS OF: Prog Death, Gorguts
The way a band presents itself can sometimes be a perfect prelude for how it will sound. Inky details across a blank canvass show Belgium's Moss Upon the Skull as a band elaborating on a sound as filled in by the noise of generations as it is emblazoning itself on a new fiber. Moss Upon the Skull does its death metal well, not brilliantly with the frills that many a band may use to seem out of the norm and stretch its streaks across the death metal soundscape, but this band brings more a methodical and appropriately concocted conclusion able to burn slower and baste in its ideas. Smooth brilliance striped through simple motions make for calligraphy upon this tapestry of guitars that is seldom seen in a world of jagged edges and sharp poignant pieces. This band's jazz is as potent as its catastrophe and both work beautifully, intermixing each to form a disillusioning and disorienting world as seen through lucid eyes the burdens of horrific fate.

Technical, intricate, and intoxicating in its disorientation, Moss Upon the Skull festers and grows as harmonic leads are entangled and choked by an imposition of malignant bass, contorting each pleasant moment into an impending horror. Relentless rhythmic interchanges and an everflowing river of creativity ensure a consistent tension accompanies this bewildering Lethean journey as progressions meet ruination, animation is governed by decay, and each new structure builds off the last while simultaneously denoting the large swaths of time that elegantly acknowledge crumbling old pillars and the rises of new monuments sprouting up like mushrooms on the rotting carcasses of fallen giants. True to its name and album title, Moss Upon the Skull shows in its genetic coding the filth of the past generations of the metal milieu, playing 'In Vengeful Reverence' many terrifying twists on the harmonies of old to shore up a new technical monument to the past decades of abnormal progress.

Gritty and chewy guitars in “Disintegrated” masticate a rhythm, like a toothless hunger gumming down on a steak with sinew slowly dissolving in a wave of saliva, each enzyme breaking down molecules and reconstituting them in squalid squelching strings. However, that gushing sound is not an uncommon rejoinder to these unusual structures but a consistent foil to the burgeoning beauty behind these laborious deconstructions. Compelling harmonies and riffing in “Impending Evil”, searing guitar chords with prickly sprays of black metal sleet employed in an almost grunge fashion through “Lair of the Hypocrite” before a dingy disorienting harmonic breakdown, and, in an interlude as funky as it is contorted by the preeminence of evil in this band's sound, gorgeous riffing at the end of “Serving the Elite” show that these scraping riffs are the estuary from which spout intricate tributaries culminating in swamps of filth from elaborate contortions through rich mindful landscapes.

Unlikely to longingly linger on a nostalgic note or allow a breakdown to fester in its deterioration, the title track ensures that its fury retains an amorphous structure as it engineers a guitar bridge while under fire from volleys of blast beats. “In Vengeful Reverence” molds a monstrous amalgamation of prominent death metal structures while laying bare their bones as though witnessing the construction of Parisian catacombs. Throughout this album is an ever-focused timeless eye, one that utilizes its alchemy to piece together these contorted monuments and finally, by the time of reaching “Unseen, Yet Allseeing”, arrives with such fanfare akin to the metal standard that it sounds like a renaissance movement unearthed while exploring underground.

Homage finds itself imbued in the details among these intricate abnormalities. It comes through well in the end of “Peristalith” with the accursed Demilich round as it awkwardly walks through a storm of blast beating reminiscent of “The Echo”. This filthy and elaborate delivery expounds upon the technical squeals of a caged race enduring the bidding of its captors as songs flow with impressionistic fluidity underscoring the roles of numerous notes added to each flowing sound and the sharp grotesquerie of a structure when stripped down to its most basic components. Through a calculated mid-paced punch accentuated by a dragging lead guitar, “The Serpent Scepter” shows these swaths coming through in delirious distortions of chords and scrambles the harmony with scratchy technicality as it increases in intensity backed up by long drumming fills and crafty changeups. The anarchical desire to punch through these riffs with such funky drumming ensures that even the most rote moments of rise and drop smoothly worm their ways into impactful routines of technical exercise.

Gritty, cavernous, and intricate Moss Upon the Skull intermixes fierce technicality with gorgeous harmony to journey through its awkward and inverted 'In Vengeful Reverence'. Laying a groundwork of horror from which harmony must claw makes this inversion of every modern musical sensibility come through with elaborate and slyly perverse enjoyability. Esoteric curling harmonies and aggressive amorphous drumming show off a band unable to find contentment in sitting on a structure for too long while the decaying delay on the guitars works well to sharpen the impact of each note and also ensures a simultaneously dreary and dreamlike delivery. A flow that is as debilitating as the jarring madness of traversing the Leth river and humbling in its simultaneously haunting and enchanting, familiar and esoteric offerings, the cleanliness of the band's production compliments the relentless interchanges and ever-flowing creativity typifying an album that shows death metal remaining ripe in 2018. (Five_Nails)

venerdì 18 gennaio 2019

Anna Sage - Downward Motion

#PER CHI AMA: Hardcore, Converge
Grazie a Wikipedia, oggi ho scoperto che Ana Cumpănaș o Anna Sage era il nome di una prostituta austro-ungarica di origine rumena, soprannominata "la donna in rosso", che si rese famosa, non solo per aver aperto un bordello a Chicago, ma anche per aver aiutato l'FBI nel beccare il gangster John Dillinger. Forse affascinati da questa storia, i quattro ragazzi di Parigi devono aver scelto questo monicker per dare vita alla loro band che con l'EP 'Downward Motion', arrivano al loro secondo atto dopo l'EP del 2014 intitolato 'The Fourth Wall'. La band propone un feroce concentrato di hardcore sparato a tutta forza già dall'iniziale "Last Dose", una song che non lascia molto spazio alla melodia ma che anzi si diletta con un sound all'insegna della distruzione più totale. Due minuti e venti di ritmiche tese, voci rabbiose al vetriolo e rallentamenti apocalittici, che disorientano non poco l'ascoltatore. Con "Goddess", le cose non cambiano più di tanto: vi troviamo suoni dissonanti, vocals che tra urla varie, si danno una ripulita e trovano modo di fare l'occhiolino al post-hardcore, con un approccio più ruffiano. Non fatevi ingannare però, i nostri non devono essere proprio dei gentiluomini, anzi mi verrebbe da dire che sono crudeli violentatori della loro strumentazione che solo in un'apertura atmosferica, sembrano riuscire ad essere più avvicinabili. Per il resto, quelle che ascoltiamo, sono ritmiche di difficile digestione, che si muovono tra rallentamenti sludge e sfuriate metalcore. Ancor più fangosa la terza "When Prophecy Fails", che nella melodia di chitarra posta in sottofondo, sembra evidenziare un briciolo di umanità che pensavo non esistesse nelle corde dei nostri. Ma ripeto, non fatevi fregare, il quartetto transalpino ha un che di malvagio nel proprio sound, il che lo reputo estremamente seducente e caratterizzante. Non è però la solita solfa distruttiva quella che ascoltiamo nelle note nude e crude di questo 'Downward Emotion', la band infatti, nel suo rabbioso incedere, ha la capacità di catalizzare la nostra attenzione con un sound che vanta contenuti interessanti. L'incalzante interludio in posizione quattro del cd, fa da ponte con le ultime due canzoni del dischetto, gli ultimi sette minuti e qualcosa fatti di riffoni controllati, cattivi abbastanza per suggerirmi che ci sono punti di contatto tra gli Anna Sage ed i Converge ad esempio, e che "Missing One" è forse il pezzo più martellante, seppur più cadenzato, del disco. "Rope", l'ultima scheggia impazzita di questo 'Downward Emotion', è invece la song più incazzata delle sei qui contenute, sebbene a metà brano, i nostri espongano un vertiginoso cambio di ritmo, una tirata di freno a mano che provoca il più classico dei testa a coda in tangenziale, per gli ultimi novanta vertiginosi secondi di questo EP, che delineano la grande capacità dei nostri a muoversi sia su tempi serratissimi che su mid-tempo più ragionati. Sicuramente dei tipi da cui diffidare. (Francesco Scarci)

Doomed - 6 Anti-Odes to Life

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost e My Dying Bride
'6 Anti-Odes to Life' è il sesto album per l'artista teutonico Pierre Laube, il quarto recensito sulle pagine del Pozzo. Da sempre tessiamo le lodi del mastermind sassone, non possiamo pertanto esimerci dall'elogiare anche questo nuovo lavoro, che forse rappresenta la summa della discografia dei Doomed. Il sound del factotum tedesco, qui aiutato alle chitarre da quello che ipotizzo essere il fratello, Yves Laube, da Ina Lüdtke al basso e da tutta una serie di guest star (Willian Nijhof dei Faal, Andreas Kaufmann dei Charon e Uwe Reinholz), prosegue con quel suo flusso sonico dedito ad un death doom atmosferico che s'incanala fin da subito nelle note della lunga "The Doors": nove minuti di melodie dal forte sapore malinconico che evocano gli esordi di My Dying Bride e Paradise Lost, senza dimenticare le strazianti linee di chitarra di un altro grande gruppo nell'ambito, i Saturnus. I Doomed però hanno carattere a sufficienza per divenire ben presto un altro pilastro per questo genere, coniugando delle ottime sonorità con un impianto vocale che si muove altrettanto bene tra un growling profondo ed un pulito assai convincente. La chitarra acustica di Uwe in apertura di "Aura" chiama in causa gli Anathema di 'The Silent Enigma', cosi come pure la ritmica che s'innesca dopo il delicato pizzicare della 6-corde. Ampio spazio poi è affidato alla musica, sempre sognante, delicata e nostalgica, che vede la componente melodica accrescersi ulteriormente rispetto alle ultime release, anche grazie ad una proposta musicale che non esce mai dal seminato e si mantiene su un mid-tempo sempre ottimamente bilanciato. La musica si fa più minacciosa con "Touched", una traccia dal piglio iniziale vagamente post-black e da una ritmica potente definitivamente death; ottime anche le spettrali melodie di tastiera e le spoken word, cosi come il fluttuante ed ipnotico incedere della song che in undici minuti ne combina un po' di tutti i colori, visti i vari cambi di tempo, di cantato o un assolo virante al progressive, che sancisce l'accresciuta autostima della band. Un'inquietante base percussiva apre "Our Gifts": qui il pianoforte accompagna con raffinatezza, i tamburi ed una calda voce, mentre progressivamente entrano in scena anche le chitarre, in un brano che sa molto dei primi Riverside (fatto salvo quando riappare il cantato growl). Prova notevole, che merita qualche ascolto in più per essere capito nella sua interezza, visto che rimangono ancora da ascoltare la liturgica "Reason", lenta ma avvolgente nel suo solenne avanzare, con le vocals pulite che emulano quelle del mastermind dei Septicflesh e le chitarre che si confermano ancora una volta ispirate dal prog. "Insignificant" è un'altra perla di oltre 10 minuti di death doom di stampo '90s come i primi Anathema erano soliti fare. Diciamo che rispetto alle precedenti song, questa, più legata alla tradizione, rimane un gradino sotto le altre, tuttavia è innegabile la classe del combo germanico, soprattutto per la scelta di accompagnare la ritmica pesante con quella splendida chitarra acustica in background in un finale arrembante davvero violento (ancora al limite del post-black). A chiudere il disco, ci pensa l'ambient di "Layers (Ode to Life)", che sebbene i suoi sette minuti, funge fondamentalmente da outro del cd, uscito sia in formato digipack che standard. Insomma, altro gioiellino rilasciato dal buon Pierre, che a questo punto non dovete farvi assolutamente scappare. (Francesco Scarci)

lunedì 14 gennaio 2019

Miles Oliver – Color Me

#PER CHI AMA: Folk/Alternative/Indie Rock
La nuova fatica del compositore parigino Miles Oliver è da considerarsi la vetta di un iceberg, il punto più alto di una ricerca artistica molto personale e intima. Miles suona chitarra acustica ed elettrica, campiona loop e suona il piano, suona in solitudine, offre sempre performance altamente emotive, niente è lasciato al caso, nulla è banale, solo canzoni che aprono il cuore e dilatano le pupille, c'è sempre un misto di malinconia e speranza nel suo canto, una forma canzone fatta per raggiungere sentimenti nascosti e scavare nei meandri complicati dell'animo umano. Lo stile si alterna tra un osannato e acustico Bonnie Prince Billy di periferia ed una certa vena romantica tra dark rock ed elettrico, estraneante, astratto, acido, immediato e psichedelico post rock stradaiolo, carico di chiaroscuri e luminosità come nella bellissima "Saturdaze", una canzone geniale che fa trattenere il fiato. Il disco è in un continuo contrasto logico tra un brano acustico e distorto, un percorso raccontato a piene mani con una scrittura musicale d'alto livello e di godibile ascolto, una produzione più che ottima dove lo stile del cantautore trova la giusta via di espressione. Oliver non si scosta molto stilisticamente dai suoi lavori precedenti, rivisita e riordina il suo stesso modo di far musica, le sue azioni sonore, i rintocchi ritmici minimali vengono affilati, il tono della voce più maturo e le canzoni mirano dritte al cuore, colpendo e ferendo chi le ascolta. Un cantautorato alternativo che guarda al classico alternative country e al folk come all'indie noise con una profondità piena di pathos e un sound pieno di umanità, credibile, vivo ed interessante, un suono che non annoia mai e che al contrario stupisce e fa tanto riflettere. Spezzo una lancia per i tre brani più importanti, secondo me, di questa bellissima raccolta: la già citata "Saturdaze", "Synth Mary" e "Black Fence" con una coda nel finale che gode di un tocco di genio. 'Color Me' è un album curato nei particolari, alimentato da una vera anima artistica, ispirato e autentico, un'ottima prova, un disco consigliato per anime inquiete e sognanti. (Bob Stoner)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 80

https://milesoliver.bandcamp.com/

domenica 13 gennaio 2019

Oak Pantheon/Amiensus - Gathering II


#FOR FANS OF: Atmospheric Black/Prog/Folk/Metalcore/Post Metal
Short, sweet, and direct to the point of being curt, this fresh perforation of the heart is a worthwhile listen that shows each band involved eschewing much of the surplusage that held back the previous 'Gathering'. After half a decade and Oak Pantheon and Amiensus return for a follow-up to their first collaboration with a co-created song between an original apiece. Starting with a tune reminiscent of a cowboy clip-clopping into a town ready to gun down the gang controlling it, “A Demonstration” comes in with a combination as vividly Western as it is driven by the esoteric folkloric sound that has been driving European metal for years. Razor sharp guitars take this pace into a gallop down the deserted foresty path where Oak Pantheon is most accustomed, ensconced in the darkness of ancient growth and paying homage to the many bands before this new altar. This rambling pace makes pinches of strings and raps of snare slightly escape the flow of the song with a sort of earnest and humble folksy Celtic sound before tightening up into a tear and blast that quickly dissipates. The variety throughout this song flows majestically as the quick drastic hits fall back into the resonating reverence to conjure a series of solos that get knocked around by snare. Closing with the simple and impactful trickle of guitar notes, Oak Pantheon is a far cry from its early and more single-minded days in 'The Void' and 'From a Whisper' and now the band is showing a scope in a single song far wider than it once could explore in an album.

After Oak Pantheon's example of its increasingly inspiring course is the collaborative piece “Tanequil”, showing off a very melodic soundscape brutalized by aggressive drumming and rhythmic changes in a chorus of splendid scraping deviation, a flow that moves in a mixture of indie rock and grinds out the raging aspect of each band beautifully between dulcet verses dripping with emotion. As though tsunami waves overcome a seaside tower, these drastic deluges successfully compliment this more modern metalcore bounce and post-metal treble to create a sound that hints at the atmospheric blackened style of Oak Pantheon and the technical proclivities of Amiensus with a more streamlined flow able to gracefully combine these sounds without compromising their melancholy or fury respectively.

Amiensus' offering shows a stark change in the band's music from the first collaboration, as well as provides an astute cap to the experience. With a more emotional track, lilting in guitars and vocalization alike, as drumming continues to roar through technical tapestry alongside deathcore beatdowns, “Now Enters Dusk” shows off soloing guitars, a more straightforward blackened sound at the end joined by drawn out blasting, and a labyrinth of strings flowing in crisp harmony across the razor sharp atmosphere to round out the song. Providing compositional prowess without being too artsy for its own good as well as backing this sound with varied and moving production that captures the strengths shown throughout this track ensure that Amiensus has been on a steady path to improvement and presents it well throughout “Now Enters Dusk”. Years back, “Arise” did exactly as its title suggested, rising and rising in a relentless blinding elaboration with no payoff but pain with nerves seared by sunlight as more and more layers drive upward into the tones of tortured cats. Conversely, “Now Enters Dusk” inverts that explosion as it falls more gracefully, tumbling at times and bringing both the coldness and darkness to overcome the world as it becomes enchanted with the lengthening of shadows and waning of the sun.

Five years to the day after their first 'Gathering' Oak Pantheon and Amiensus have even tighter entwined their fates with a strong sequel, one where both bands show off some major strengths and especially show how they have come into their own over this past half decade. Where the last 'Gathering' seemed so disparate and Oak Pantheon came across looking the better, this release shows each band playing incredibly well and Amiensus coming out just a hair ahead of the other. Though this is no contest, both these bands are in the running for audience affections at any given time and their inspired collaboration in “Tanequil” shows the incredible accomplishments that can be made through this partnership as new ideas enhance the deliveries of both bands rather than highlight their differences as was too obvious five years ago. A tighter fit in the songwriting and production departments has also influenced each band's approach to 'Gathering II' making for such a cohesive combination that it seems as though written by a single band. (Five_Nails)
 
(Self - 2018)
Score: 85
 

Burial Hordes - Θανατος αιωνιος (The Termination Thesis)

#PER CHI AMA: Death/Black, Portal, Deasthspell Omega
Da sempre ho una passione per il mistico sound ellenico, quell'ancestrale e malvagia forma di estremismo sonoro che con Necromantia, Varathron e Rotting Christ, diede vita ad una scena più unica che rara. Quando vedo pertanto release arrivare da quell'angolo di Mediterraneo, ripenso a quei suoni che da trent'anni rieccheggiano nelle mie orecchie. Da Atene ecco giungere i Burial Hordes, band che include membri di Dead Congregation, Embrace of Horns e Ravencult, con quello che è il loro quarto album in carriera dal 2001 a oggi. Non troppo prolifici per carità, sebbene nella loro discografia compaia anche un considerevole numero di split, EP, demo e compilation. 'Θανατος αιωνιος (The Termination Thesis)' è un album di sei pezzi che irrompe con la fuligginosa "Human Condition", un mid-tempo all'insegna di un doomish black death catartico e mortifero, che sembra trarre ispirazione proprio dai Dead Congregation. Più arrembante ma decisamente più obliqua, la seconda "Thrownness and Falleness of Being", una traccia che vede nelle ronzanti chitarre l'elemento black dei nostri, mentre nel growling oscuro di Chtonos, l'elemento death metal; in tutto questo aggiungeteci poi un approccio chitarristico dissonante degno dei Deathspell Omega più ispirati, dei rallentamenti al limite del funeral e dei cambi di tempo da far venire un bel mal di testa. Le deviazioni di scuola transalpina si fanno ancor più palesi in "Lurk in the Shadows", psicotica in quel suo incedere vicino anche a qualcosa di Portal ed Aevangelist, in una song che mantiene comunque costante quell'articolata commistione tra sonorità estreme, siano esse votate alla morte, all'apocalisse o alla fiamma nera. Spettacolare nella sua divampante furia "Erkenntnis", mirabolante a livello ritmico in quelle sue improvvise accelerazioni quanto in quelle brusche frenate che, da 200 km/h ci conducono a 0 in pochi terrificanti attimi. Con "Death is Omnipotent" si torna al classico mid-tempo, con un sound decisamente melmoso in cui a mescolarsi questa volta sono death, sludge e black. L'ultima "From Synthesis to Aposynthesis" è una lunga suite di quasi 17 minuti, suddivisa in tre parti, che irrompe con una prima parte dal piglio più classico, death/black. La seconda parte suona più malefica, decisamente più vicina al black soprattutto per la velocità d'esecuzione e le sue chitarre cosi taglienti. La terza e conclusiva sezione, invece si affida ad un sound dapprima ferale ma che va via via divenendo più ritmato, oscuro, sublimando verso lidi funerei che sanciscono la diabolica proposta del combo ellenico. (Francesco Scarci)