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mercoledì 24 dicembre 2014

Kong – Stern

#PER CHI AMA: Prog Strumentale, Elettronica, Industrial
Di recente mi è capitato di rivedere il primo Matrix, della trilogia di gran lunga il migliore. Un film che quando uscí mi entusiasmó, come credo sia capitato piú o meno a tutti. Visto oggi, pur rimanendo un'ottima pellicola, il suo impatto appare ridimensionato, e per apprezzarlo al meglio è necessario contestualizzarlo nel periodo in cui venne girato. Ebbene, questo disco mi ha fatto piú o meno la stessa impressione. Un mix tra metal ed elettronica del giorno prima che suona energico e piacevole, ma che oggi rischia di risultare un tantino anacronistico. Gli olandesi Kong sono una band longeva, il loro esordio risale addirittura al 1990, e questo è il loro ottavo album, il terzo con la nuova formazione nata nel 2007, dopo uno iato che durava dal 2000. E la loro musica sembra essere perfettamente centrata nel decennio della loro prima incarnazione, figlia di un periodo iniziato con la caduta del muro, e rappresentativa dell’eccitazione libertaria di un cambiamento epocale, ma che, ad un certo punto, si è lasciata superare dagli eventi. 'Stern' mette in fila una serie di composizioni convinte e convincenti, ma che a lungo andare, risultato un po’ piatte e ripetitive nel riproporre uno stesso schema. Ritmiche sintetiche doppiate da batterie vere, elettronica sottile che sporca i riff di chitarroni di stampo prog-metal, senza peró particolari guizzi di originalità. Meglio i pezzi in cui il contrasto tra le due componenti viene spinto al limite, come la danzereccia "Rage8FA", "NOZL" o "Feast of Burden", oppure "Contenu Inconnu", l’unico brano cantato, mentre purtroppo l’approccio totalmente strumentale non giova al resto della scaletta. Probabilmente la dimensione ideale per la musica dei quattro è quella live, dove i Kong sono famosi per i loro show dal forte impatto sonoro. Dal punto di vista tecnico comunque, nulla da eccepire, specie pensando che si tratta di un’autoproduzione, in quanto l’album è prodotto e suonato benissimo, e viene anche scongiurato il pericolo di un’eccessiva freddezza grazie ad un’ottima cura dei suoni. Bella anche la confezione in digipack apribile. Insomma, un lavoro ben fatto che potrebbe regalare diverse ore di divertimento ai cultori del rock contaminato con l’elettronica. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/KONGband

Isaak & Mos Generator - Stoner Split Of The Year

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock/Psichedelia
Gli Isaak sono tornati e lo fanno in grande stile: uno split su vinile insieme ai Mos Generator. E' vero, il disco non è ancora disponibile, ma quando è stato lanciato in streaming qualche giorno fa, non ho saputo resistere. I primi (ex Gandhi's Gunn) sono una delle realtà italiane più interessanti degli ultimi anni in campo stoner. Il loro precedente album è stato prodotto dalla Small Stone Records, etichetta americana che sforna ottime band come se non ci fosse un domani, mentre questo split è targato Heavy Psych Sounds, label italiana che sta crescendo in modo vertiginoso. I Mos Generator sono una rock band americana che ha già quattordici anni di onorata attività alle spalle, cinque album prodotti e una valanga di concerti in giro per il mondo. Qualcuno li ha definiti come i naturali eredi dei Black Sabbath al tempo di 'Sabotage', noi non possiamo che essere d'accordo. Le due band si contendono ciascuna un lato del lussuoso vinile in colorazione splatter (rosso e nera) che aumenta a dismisura la necessità fisica e mentale di possederlo e metterlo in un posto di rilievo tra la propria collezione privata di dischi. I Mos Generator ci portano in un viaggio onirico, sospeso nel tempo e in balia di forze oscure che tentano di prendere il sopravvento sulla nostra lucidità mentale. Quasi dodici minuti pieni zeppi di suoni vintage, a partire dai synth e sequencer che provengono direttamente dalle migliori colonne sonore sci-fi anni 70/80. Dopo una breve intro strumentale che ci fa tremare per via di un basso talmente distorto che solo il feedback potrebbe buttare giù un grattacielo, inizia il brano vero e proprio e ci sorprendiamo perchè i suoni non sono così esasperatamente pesanti. Quello che ascoltiamo è un sano hard rock ricco di frequenze calde e avvolgenti, tanto groove e riff vagamente prog. Al sesto minuto arriva il primo vero break dove un Hammond ricrea le tanto care atmosfere psichedeliche in pure stile Pink Floyd. Gli assoli cremosi di chitarra e l'ipnotico vocalist recidono il cordone ombelicale che a stento ci tiene stretti a questa terra e il volo pindarico raggiunge la sua massima espressione. I suoni sono semplicemente perfetti e se lo dico ascoltando uno streaming, non oso immaginare cosa succederà quando la puntina del giradischi inizierà a scorrere sui solchi di cotanta manna dal cielo. Ora tocca agli Isaak che dopo un inizio di così alto livello, me li immagino impavidi sul palco, pronti ad esibirsi dopo essere stati virtualmente introdotti da una band possente come i Mos Generator. Le atmosfere e i suoni cambiano all'improvviso, ora la musica diventa più viscerale, quasi religiosa. Una lunga introduzione prepara la nostra mente e questa volta la botta arriva, ci investe completamente e ci inebria. In lontananza si sente profumo di peyote e incenso che ardono su un braciere, mentre il basso e la batteria intonano una marcia epica che le chitarre acuiscono con riff monolitici. Il vocalist completa l'opera con un grido rivolto al cielo in omaggio a madre natura che tutto vede e tutto decide. Il campionamento vocale che aveva prima guidato l'introduzione ora torna a farsi sentire insieme ad una linea strumentale (probabilmente uno strumento ad arco tipo viola o violino) che richiama i potenti arrangiamenti che si ascoltano in gran parte della discografia degli *Shels. Un quarto d'ora che vorreste non finisse mai, che ti lascia si sfinito, ma appagato. Questo split è un lavoro costruito ed eseguito in modo ineccepibile, da avere assolutamente e custodire gelosamente. Se qualche vostro erede lo vorrà reclamare in un lontano futuro, ditegli che dovrà dimostrare di esserne degno. Ora iniziate il conto alla rovescia, personalmente io sto già contando i giorni.(Michele Montanari)

domenica 21 dicembre 2014

Nami - The Eternal Light of the Unconscious Mind

#FOR FANS OF: Progressive/Avantgarde Death Metal, Opeth, Gojira, Gigan
Another one of those “I-can’t-believe-a-band-came-from-there” countries in Andorra, Progressive Death Metal band Nami has made it to album number two now and it’s still nearly impossible to get a grip as to what the bands’ actually about. There’s some melodic meandering throughout here as well as elements of Groove Metal in the riffing, when it becomes audible that there’s guitars in the mix since far too much of this seems to be based on creating a cacophonous noise of blasting drumming, discordant riffing and the inclusion of keyboards for a truly off-the-wall sound. There’s very little traditional influence of Death Metal throughout this one beyond a few growls and deep heavy riffing spread throughout various arrangements, and in fact the band’s focus on clean crooning is the biggest giveaway that this one’s not intended as a true Death Metal release. It’s all so haphazardly written, though, that it gives off more of an impression of simply placing as many different elements and styles into the music simply because the band is infatuated with those materials rather than finding a coherent way of utilizing them to their advantage as this never so much progresses to another section of the track as much as it does slam head-on into it without warning. This doesn’t become much of a distraction so much as it does a simple observation on the band as there’s certainly something to be said about how intriguing and interesting the numerous amount of work that went into this, but if it can be focused and streamlined better they might be onto something here. Opening track ‘The Beholders’ does offer up a potential clue as to what’s on store as the constantly shifting rhythms, complex arrangements that seem to focus on throwing everything possible into the song and the occasional burst of full-on Death Metal does offer promise but is way too scattershot to be much more. Thankfully ‘Ariadna’ does a better job at being coherent enough to matter with its’ sharp grooves and discordant patterns making for a much enjoyable Death Metal track though the lengthy avant-garde noodling in the middle of this does make itself known. The expansive ‘Silent Mouth’ is the album’s best track here with plenty of atmospheric wandering, a series of tight rhythms and enough energy to really make for an enjoyable time throughout this one. ‘Hunter's Dormancy’ follows up with another enjoyable effort as this one tends to really focus on those enjoyable blasting rhythms and stylized chugging that runs rampant throughout this. The back-to-back shorter efforts are both utter throwaways as ‘The Animal and the Golden Throne’ is as a clanking guitar runs through anguished screaming until a piano-lead outro while ‘Bless of Faintness’ seems like pointless desert-rock meandering with eerie droning guitar notes repeated over whispered vocals and don’t serve much of a purpose here. ‘Hope in Faintness’ at least gets back into more traditional realms but again contains way too atmospheric wandering in its arrangements and wallows in spacey segments that really don’t justify much of a metal tag at all until the final half when it’s all too late to matter much. ‘Crimson Sky’ carries on with the melodic guitar trinkling and light arrangements which don’t sound metal at all and makes for an even harder justification for their inclusion in the genre. ‘The Dream Eater’ finally attempts more traditional manners and executions with the frantic drum-blasts and urgent, intense riffing along with a more charging, destructive atmosphere but again simply contains far too much atmospheric meandering and spacey atmospheres to get much better. Frankly, this one is just too avant-garde and off-kilter to really get a handle on. (Don Anelli)

(Year of the Sun Records - 2013)
Score: 50

Istina - Познание тьмой

#PER CHI AMA: Black Doom Depressive
Non sono in possesso di cosi tante informazioni a proposito di questo duo russo. Formatisi nel 2007 e provenienti da Krasnoyarsk, M. e N. sono le menti che stanno dietro agli Istina (=verità) e al loro debut album 'Познание тьмой'. Dal titolo potrete evincere come tutto, all'interno di questo cupo digipack, sia scritto in cirillico, dal titolo del lavoro a quello dei brani, quindi mi limiterò alla pura descrizione della sola musica. Musica che dopo l'immancabile intro, si presenta sotto forma di un black depressive, che alterna scorribande furiose ad altre più d'atmosfera. Volutamente (?) penalizzati da una registrazione casereccia, il disco prende quota con "Глоток Сознания", la song che vede formalmente debuttare i nostri con la loro misantropica miscela di umor plumbeo e lancinanti vocals, con le tastiere e le ritmiche sghembe, a rappresentare l'unica raggelante forma di mitigazione dell'indigesta proposta dei nostri. "Безграничность Абсолютного Бытия" è una breve traccia strumentale che funge da bridge ai nove minuti di "Пронзая Сомнения Самоопределения", song mid-tempo che mostra le molteplici facce di questo ensemble russo che non va assolutamente sottovalutato. Al di là dei vocalizzi belluini, le chitarre tracciano delle avanguardistiche linee melodiche, mentre il drumming risente non poco della sua artificiosità. Poco male, perché quello che colpisce, oltre alle violente scudisciate inferte, sono le sofferenti ambientazioni lugubri e cariche d'odio, cosi come il buon Conte Grishnackh soleva fare agli esordi nei suoi Burzum. Musica sofferente quella degli Istina o se preferite Истина, che vedono "Познание Тьмой" incanalarsi in un black cadenzato e glaciale, che vanta comunque sempre buone desolanti melodie che rappresenteranno il marchio di fabbrica dei nostri anche nelle successive song. Diciamo che la proposta degli Istina non è affatto male per chi è un fan del genere black doom depressive. Tuttavia si raccomandano una serie di migliorie: una produzione un po' più cristallina, che sgrezzi un suono che risulta a più riprese impastato e difficile da isolare, credo sia la più importante da perseguire soprattutto perché in alcuni punti, i nostri cercano un approccio un po' più orchestrale per la loro proposta ("Безнадёжность"). Inoltre, auspico un miglior uso delle vocals, troppo sgraziate sebbene si tratti di uno screaming vetriolico. La strada intrapresa dall'act di Krasnoyarsk è comunque vincente in un periodo in cui questo genere guida il mercato estremo; non vorremo però dover attendere altri sette anni per sentire parlare di questi duo loschi figuri. Per ora è un voto di incoraggiamento a continuare su questa strada ma con le migliorie di cui sopra. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

Machine Gun Kelly - Lady Prowler

#PER CHI AMA: Hard Rock
Quando la giornata è piovosa e non puoi tirare fuori dal garage la tua amata due ruote, l'alternativa è ascoltare un po' di sano rock. Se non ti affidi ai classici della tua collezione, non resta che buttarsi sui cd nuovi di zecca. Ed è così che mi soffermo sull'album 'Lady Prowler' dei Machine Gun Kelly (MGK). La copertina mostra una gentil donzella che tiene in mano un meno gentile mitragliatore e senza indugio caccio il cd nelle fauci del lettore. Si inizia con "Backstreet Queen" e dopo pochi riff capisco subito che i cinque ragazzotti di Savona amano il rock nella sua coniugazione hard, in puro stile anni '90. La traccia è un classico del genere: ritmica compatta creata, dal binomio basso/batteria e chitarre che guidano la melodia a forza di riff e accordi. La voce ha un tono particolare ed abbastanza acuto, equiparabile a Judas Priest e Alice Cooper. Infatti la band ligure nasce nel 2000 come cover band con una scaletta basata sui classici di questi due gruppi. In seguito prende la propria strada e produce alcuni demo/promo per arrivare nel 2010 con il primo e vero album. "Bad Fun City" inizia con la batteria a preparare l'attacco delle chitarre, che crescono lentamente ed esplodono ma non troppo, nel senso che una bella cavalcata rock avrebbe permesso al brano di decollare, invece rimane in un basso profilo. Assoli e un breve break arricchiscono il brano, ma la struttura si presenta classica e prevedibile, troppo composta negli schemi e non lascia spazio ai musicisti, che vorrebbero picchiare più duro e correre come dei forsennati. Il brano che da il nome all'album è il più riuscito: bei riff che ci inducono fin da subito al headbanging spinto, fino al gran assolo di chitarra che zittisce tutti e spinge i musicisti in erba a tornare in cameretta e ripassare un po' di tecnica. Il vocalist fa il suo dovere, lavora bene trovandosi a proprio agio nella tonalità del brano, ma lo stesso non si può dire per altri pezzi, come "The Hunter", un po' più debole. La band ha tutte le carte in regola per far bene e suonare con gusto un genere che al momento è amato da chi, negli anni 80-90, voleva essere un ribelle e provava ribrezzo per l'elettronica e affini. I MGK sono da ascoltare così, con genuinità e una punta di nostalgia: non ve ne pentirete perché solo le cose fate bene e con il cuore, rimangono nel tempo. (Michele Montanari)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 70

giovedì 18 dicembre 2014

Neige et Noirceur – Gouffre Onirique et Abimes

#PER CHI AMA: Ambient Black Drone
Chiudete gli occhi e immergetevi nel sound ingannatore dei Neige et Noirceur (che abbiamo già avuto modo di ospitare nel Pozzo) e ai loro crudi richiami dei Burzum primordiali. Le chitarre ronzanti del Conte unite alle eteree keys, guidano infatti la musica dei nostri genuini blacksters che da diversi anni ormai si dedicano al culto della nera fiamma. Otto song portatrici di oscurità e di disperazione (confermate anche da una cover cd lunare) che offrono un suicidal black dalle forti tinte depressive. “Future Torture”, la seconda traccia, ci delizia con abrasive e rozze linee di chitarra su cui si stagliano le acuminate screaming vocals del frontman. La song mostra tuttavia anche un'anima epico-pagana che arricchisce i contenuti del platter rendendo il sound meno freddo e meccanico. Le tastiere di “Echo des Abysses” contribuiscono a rendere l'incubo musicale dei N&N dotato di sembianze più simili ad un sogno, mitigando la tagliente verve delle chitarre e le sanguinolenti frustate di un drumming innaturale e plastificato (drum machine?). 'Gouffre Onirique...' è in fin dei conti un black album che poggia virtualmente su mid-tempo non proprio raffinati (soprattutto quando le velocità si fanno più elevate e il sound qui diventa da censura), ma che comunque ha da regalare malinconiche (e talvolta strazianti) melodie (notevole a tal proposito la mia traccia preferita, “La Marche des Astres...”, song dotata di pomposi arrangiamenti), demoniache vocals, tenebrose atmosfere (nell'ambient dell'intera trilogia de “La Caverne de Glace”), per un risultato finale onesto e piacevole. Notturni. (Francesco Scarci)

(Sepulchral Productions - 2014)
Voto: 65

mercoledì 17 dicembre 2014

Goatwhore - Constricting Rage of the Merciless

#FOR FANS OF: Black/Death/Thrash
Okay, so I’m late to the game on this one. Call it laziness, call it not paying attention, call it what you will, but I've never paid attention to Goatwhore until just recently. I had heard some tracks here and there and they didn't do much for me, probably because their previous offerings were more in the realm of black metal. A night of late YouTube browsing led me to “Baring Teeth for Revolt” and my anus just wasn't ready. I can’t quite describe the feeling I had when hearing this, but it was like savage bliss. The guitars, drums, riffs, it sounded so violent I couldn't believe just how awesome this was. Roughly five minutes later I had the album ordered. I had to have this. Sammy Duet is well known for his work in Acid Bath, and for good reason. Acid Bath were an amazing band that pushed the boundaries of what we call rock and metal. Thing is, I had no idea he was in Goatwhore. If I did, I would have paid more attention a long time ago, as I love the fuck out of Acid Bath. Here we kick things off with “Poisonous Existence in Reawakening” and boy, these guys don’t fuck around at all. Straight for the throat, chocking the life out of you, riff after riff. This still has the black metal vibe, which is also very apparent on “Unraveling Paradise”, but it’s done extremely well. The songwriting is top notch, the arrangements are very carefully thought out, and everything just makes sense musically. The production and mix on the album is what I would call perfect for this type of album. Punchy, clear, but not too clear, if you know what I mean. This is still definitely rough around the edges and has a lot of bite to it. It’s not overly polished at all. “Baring Teeth for Revolt” just may be one of the best metal songs ever written. Yeah, I went there. But everything about this song just screams METAL. From the riffs, to the outstanding vocals and perfect drum work, this is just a slice of fucking metal heaven. A big slice at that. Also, that has got to be one of the most brutal, most aggressive guitar tones I've ever heard. Shit is just violent. Sounds like Sammy’s ESP wants to rip your fucking spleen out. The album features some more dynamic work rather than severely punishing death/black metal. The dynamics are laid out nicely and it appears that there’s something here for everyone, though I’m sure Goatwhore couldn't give a fuck about anything or anyone. These guys just play the music they want to hear. I mean you’re not exactly setting yourself up for success with a name like Goatwhore to begin with. This is top notch stuff, definitely check it out if you like your metal fast, aggressive, and no nonsense whatsoever. You will not be disappointed. (Yener Ozturk)

(Metal Blade - 2014)
Score: 90

https://www.facebook.com/thegoat666

Distilling Pain – The Silent Collapse

#PER CHI AMA: Techno Death, Vader, Pestilence, Sadus, Obituary
Riuscite ad immaginare come potrebbe essere un disco death metal quando si uniscono le chitarre degli In Flames migliori, con la forza intellettuale dei Pestilence epoca 'Spheres' e i Sadus psicotici di 'Illusions', il tutto spinto da pulsioni di casa Vader/Obituary? No! E ne avete ben donde, questo album ne riassume il tutto e rappresenterà per voi una sfida esagerata! 'The Silent Collapse' degli spagnoli Distilling Pain, riporta molte influenze e solca linee prog death metal già calcate da altri ma rinvigorite da una luce propria sensazionale. Sarà la qualità del sound e dei musicisti, sarà la fantasia delle composizioni che non demordono mai, né in potenza, né in qualità, tanto meno in velocità, puntando sempre al massimo, sarà che evidentemente siamo di fronte ad un disco che dovrebbe essere in prima fila sulle testate di tutte le riviste specializzate nel genere e supportato da una grande distribuzione. Tecnica e fantasia, equilibrio, classe e violenta orecchiabilità dal retro gusto thrash old school, capitanate da musicisti eccelsi, infangati nel progressive di scuola fusion fino al collo. Ogni strumento ha il suo sacro spazio, anche se le trame di un basso venuto da un altro mondo, riempiono oltremodo le aspettative dell'ascoltatore e così tra inseguimenti sonori e virate tecniche al vetriolo, si rimane esterrefatti da tanta genuina bravura e tanta cognizione verso quel tipo di suono vivo e naturale, mai compresso o artefatto. La band Galiziana, proveniente da Santiago de Compostela, luogo famoso non certo per il metal, porta la sua visione divina di un death metal iper tecnico, corretto e rivisto in modo personale e professionale, nel migliore dei modi, senza saturare il virtuosismo, raccogliendo il succo di un genere molto impegnativo da affrontare. Tutte le soluzioni sonore sono di breve durata in chiave grind d'avanguardia, nove brani per un totale di una quarantina di minuti tutti votati a un funambolico death jazz fusion metallico di rara bellezza. La sobrietà, l'intensità e tutto il lavoro di intelligence che sta dietro a 'The Silent Collapse' è palpabile tra le sue note. Esse penetrano e si lasciano toccare: “Pulling the Strings of Madness” ed il suo finale, ad esempio, ammalieranno ogni tipo di palato e per l'appetito più rigoroso il consiglio cade sull'omonima “The Silent Collapse”, che non a caso dà il nome all'intero lavoro. Il quintetto gallego risulta geniale anche in "Gears of Indoctrination", brano allucinante fin dal suo falso inizio lampo, scherzoso e inaspettato. Un lavoro immenso! Averlo è un dovere assoluto! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 90

Acrosome - Non-pourable Lines

#PER CHI AMA: Black Ambient
Ci sono voluti tre lunghi anni per DA, factotum dei turchi Acrosome, per ritornare sulla scena dopo il non brillantissimo EP di debutto, "Dementia Paecox", fuori per la nostrana Dusktone Records. DA si è rimesso in sella per produrre un qualcosa che rappresentasse un miglioramento di quell'esordio e ne è uscito quindi 'Non-pourable Lines', un cd di sette tracce, tutte identificate esclusivamente da un numero romano, a parte l'ultima "VII - Today is Yesterday". L'album si muove nell'ambito del black dalle tinte depressive, tanto di voga in quest'ultimo periodo. Dopo l'intro, ecco "II", song che esplode in una violenza inattesa, con ruvide chitarre ronzanti frammiste a intermezzi ambient; la cosa strana è che di vocals non vi è traccia. Vado avanti nel mio ascolto con la terza "III", che oltre a inserirsi nel filone post-black, è da menzionare per una sinistra melodia di sottofondo, in quello che sembra il suono di una fisarmonica, che ci accompagnerà per il resto del disco, e per una serie di break quasi blues/lounge. Intrigante, sebbene a qualcuno possa apparire un po' ruffiano. I vocalizzi però risultano ancora non pervenuti. Dovremo infatti attendere "IV" per sentire le prime litaniche vocals dell'enigmatico DA, sopra un tappeto di chitarre serrate, una pioggia di melodici riff esaltanti in una miscela coinvolgente di malinconiche atmosfere. L'aria si fa più scura e pesante in "V", brano che gode di interessanti influenze etniche ma anche di ipnotici giri di tastiera. Io che considero la voce uno degli strumenti più importanti nell'economia di un brano, a questo punto non ne sento più la mancanza; la musica degli Acrosome mi ha letteralmente ammaliato e l'oniricità di "VI" mi fa sprofondare in un sonno rilassato. Giungiamo alla conclusiva "VII - Today is Yesterday" che suona, almeno nella sua prima metà, come una song gothic dark anni '80. Il sound si rivela etereo e pregno di malinconia, ma spinge per esplodere nella sua seconda parte, sancendo comunque l'eleganza di un lavoro decisamente inatteso e consigliato. E allora, scordiamoci il passato e diamo una grande chance all'originalità di 'Non-pourable Lines'. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2014)
Voto: 75

domenica 14 dicembre 2014

Thee Maldoror Kollective - Knownothingism

#PER CHI AMA: Avantgarde sperimentale 
Ho conosciuto i Thee Maldoror Kollective (T/M/K) ancora quando si chiamavano Maldoror e esordivano con uno splendido album di black atmosferico, 'Ars Magika'. Era il 1998 e da allora le cose sono mutate notevolmente nella vita dei nostri. Oltre a cambiare monicker più e più volte, la musica dell'act torinese si è evoluta, passando da sonorità electro-black a fughe industrial, per rifugiarsi nel free jazz, nell'ambient e in una serie di sperimentalismi avantgarde, di cui quest'oggi, 'Knownothingism', ne rappresenta verosimilmente la summa. Freschi di contratto con l'Argonauta Records, i nostri sfoderano una prova a dir poco entusiasmante con sette deliranti tracce che potrebbero piacere ai fan di Massive Attack o Portishead, così pure a chi ha amato le intuizioni degli ultimi Ulver o la nuova linea musicale seguita dagli ultimissimi Manes, insomma musica di una certa classe, ma anche dal non facile approccio. Lo capirete di certo partendo dalla circense "Clarity, Oh Open Wound!", song dalle melodie folkloriche che ci conducono in un teatro degli orrori o in una di quelle giostre horror, da cui spuntano teste di clown con le molle o zombie mangia uomini. Se chiudete gli occhi questa è l'immagine che configurerete di certo nella vostra mente, con la voce dell'eccelsa e magnetica Pina Kollars, straordinaria a guidare i vostri incubi, tra riff pinkfloydiani e atmosfere doorsiane e un'altra infinità di influenze che derivano dai generi musicali e filosofici più disparati. Ascoltare questa song è poi come aprire un libro di storia e leggere una parte qualsiasi del suo contenuto, sia esso relativo alla civiltà greca o egizia, indiana o araba. Straordinario. La seconda "An Uncontrollable Moment of High Tide" fa l'occhiolino ancora ai primi Pink Floyd, ma la traccia non tarda ad evolvere verso le sonorità trip hop dei maestri inglesi di Bristol, forti anche di una performance vocale strepitosa del folletto Kollars, con la musica che cresce e nella sua caleidoscopica fluidità, mi fa rizzare il pelo sulle braccia. I 12 minuti di "Cordyceps" sono una dura prova da superare, tra frangenti noisy, ambient e drone, corredati da vocals sinistre, che solo intorno al sesto minuto trovano forma nei tocchi di pianoforte, elettronica e nella ubiquitaria voce di Pina, che vorrei ricordare essere stata scoperta da Peter Gabriel. Con "Mariguanda" si tornano ad esplorare mondi alieni, anfratti dal sapore jazzistico, complice un allucinato sax, spezzoni lounge, frangenti cinematici, blues, rock, soul, etno e chi più ne ha più ne metta. Non c'è più alcun limite invalicabile per i T/M/K e lo dimostrano con i loro deliranti brani, ove tutto oramai è consentito e se "Lhasa & The Naked West" vi sembrerà inizialmente la song più normale del lotto, non temete perché probabilmente alla fine potrà risultarvi la più folle, con quei suoi frastornanti loop, la sua tribalità spiccata e la fragorosa liquidità dei suoi suoni. Non ditemi che siete già ubriachi, perché avrete di che dissetarvi alla scoscesa fonte di "Nirguna" che tra riffoni e ambientazioni psichedeliche, avrà ancora modo di sorprendervi. Mancano ancora i 13 minuti di sonorità Indian rock di "The Ashima Complex" per completare il viaggio spirituale intrapreso con 'Knownothigism': non saranno semplici, ma indispensabili per raggiungere il traguardo purificatore che i Thee Maldoror Kollective hanno tracciato per noi. Innovatori. (Francesco Scarci)

(Argonauta - Records - 2014) 
Voto: 85 

sabato 13 dicembre 2014

Grudom - Fjolkyngi

#PER CHI AMA: Black, Armagedda, Lik
La Scandinavia non smette mai di sorprendere. In questi ultimi anni qualcosa sta rinascendo in quelle gelide terre nordiche, un black metal con sangue nero nelle vene, sempre più aspro e di difficile comprensione ed i Grudom ne sono devoti adepti. Credevo ci fosse un limite al malessere, ma dopo l’ascolto di questo malatissimo 'Fjolkyngi' uscito sotto l'egida della Mysticism Productions, ho capito che questo limite è stato superato. Di questi danesi Grudom si sa ben poco: hanno autoprodotto due demo tapes nel 2012, recentemente rimasterizzati in cd dalla teutonica Darker Than Black e per quanto riguarda il profilo artistico invece, c’è solo il buio. 'Fjolkyngi' è una delle cose più decadenti che le mie orecchie abbiano mai ascoltato ed è di una tristezza sconcertante, una creatura sbilenca, paralitica che si trascina carponi nei più lugubri e cupi boschi che la mente umana possa immaginare. Questo brutto sentiero si snoda tra cacofonie di vario genere, drumming minimale, spazi di vuoto dove nascono melodie nefaste scaturite da organetti spettrali e vocalizzi, gloriosi, distanti, criptici, sfondo di uno screaming putrefatto, disumanamente vaporoso e annichilito. Solo tre tracce di pachidermica durata compongono questa disgrazia sonora. I Grudom ricordano Armagedda, Lik, Lonndom, Hädanfärd, Grifteskymfning e compagnia bella, ma in questo caso gli elementi chiave del genere, sono estremizzati al limite del possibile. Spesso la musica contenuta in 'Fjolkyngi' si autodistrugge per diventare un'aura ambientale, c’è voglia di trascendere qualunque forma di canonicità, questo il pregio primario di tale band. L’assenza di schemi e regole rende questa pietanza appetibile solo per una piccola e elitaria frangia di maniaci, dunque 'Fjolkyngi' è un album non per tutti. Consiglio (anche alle persone di mente più aperta) di ascoltare la traccia che è stata caricata per intero su Youtube prima dell’acquisto e voglio ricordare che l’edizione in vinile è limitata a sole 250 copie dunque, buy or die! Chiudo con una nota di merito nei confronti dell’artwork, con il suo logo infimo e la foto, in bassa risoluzione, di un ceppo radicale divelto dal terreno, radici che ora mai rinsecchite attendono solo la decomposizione. I Grudom (chiunque essi siano) non potevano descrivere meglio l’energia malefica sprigionata da questo meraviglioso e straziante debutto, ottimo artwork dunque! Mi auguro in futuro di poter aver l’onore di ascoltare altri dischi come questo. Supporto totale a questa band e al loro black metal metafisico! (Alessio Skogen Algiz)

(Mysticism Production - 2014)
Voto: 90

Handwrist - A Vibe to the Perplexed

#PER CHI AMA: Post Rock/blues strumentale
Torna la one man band portoghese capitanata da Rui Botelho Rodrigues, con un album, 'A Vibe to the Perplexed', che costituisce il settimo sigillo in poco più di due anni. Glassa accartocciata su se stessa dalla musicalità dolce e ripetitiva. "Evolve" apre l'album con fare suadente, orientaleggiante, assistito da creazioni sonore tintinnanti, sostenute da una traccia di sottofondo graffiante, corposa, quasi isterica, non fosse per le distorsioni intercalate ad arte nel brano. Se vi siete lasciati andare con "Evolve", tornate tra noi, ma solo per uno switch che volge a delle note disinibite, in cui la chitarra elettrica fa da padrone e la masticazione metal trova pane per i suoi denti. Tutto vero sino alla chiusura del pezzo, che offre un soffuso ambient jazz lungo, molto lungo, forse un po' spinto, ma assolutamente apprezzabile. Smarrite ogni pensiero e col tocco d'un dito fate partire "Ripple". So che vi piacerà tenere il tempo col pensiero, lasciando che la giornata si annichilisca, a favore di ritmiche pregiate, in cui non sentirete che carezze e scosse sonore modulate come un rally in cui guidate solo voi. Forse debbo destarvi dal visibilio per portarvi in "Perplexed". Indodossate abiti comodi, portatevi un cocktail d'alta scuola e seguitemi, come fossi il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. Si. Perché questo brano mi parla pur essendo strumentale. Perché la traccia ruggisce di gemiti che sguinzagliano suoni improbabili. Perché l'epilogo è ottundimento puro. Fatemi tornare umana. Qualche plettrata e dalla tana del Bianconiglio, ci troviamo proiettati negli anni ottanta. Lasciatemi dire che "Rootkit" è una bella rivisitazione delle nostalgiche suonate, che, che se ne dica sono sempre attuali. Ora un intermezzo. "Sleep". Suoni e voce sembrano amalgamare l'ecletticità passata e futura. Oh sì! Nuova linfa e siamo sempre nello stesso album! "At the Gloomy Carnival". Cambiamo ancora. Lasciamo che questa marcia tamburelli nella mente e costruisca un motivo tortuosamente accattivante. Ripetitività incalzanti smorzate da poche soste ben congegnate, costruiscono un brano originale e così alieno dai precedenti, come ogni brano precedente per ogni brano precedente. Conclusione? Mi sento proiettata per un attimo nelle danze indiane. Sto amando questo album per la sua poliedria. Cosa chiedere ancora a questa band? Credetemi possiamo chiedere! L'album prosegue con "The God of the Machine". Suoni lenti, uno sfiorare corde più animose che metalliche. Un viatico in cui i 9.33 minuti vi faranno rilassare ed al contempo percorrere i sentieri di ognuno dei pensieri che avete lasciato in sospeso. Veniamo ad "Enthropy". Ascoltate. Lo so. Vi sembrerà di stare addentro a una colonna sonora di un film ad alto costo. I suoni vi moduleranno stati d'animo e umore. Proprio così. Stiamo ascoltando un'ottima musica, che senza immagini ne provoca di istantanee. Senza accorgermene e non vi nascondo, con rammarico, giungo a descrivere l'ultimo pezzo. Come potrei, io che vivo di immagini e suoni e sensazioni, non innamorarmi di quest'ultimo brano? Sapete, iniziare una canzone con un temporale cosparso di pioggia è una vittoria facile, ma corollarlo con una batteria lenta, pennellata appena, una voce così decisa eppure effimera, con un volto strumentale che scompare, rende l'essenza del sentire una matrice incorruttibile, che si fa immagine impensata, vivace, personale. Concludo, lasciandovi a questo ascolto che traccia dopo traccia si materializzerà sulla vostra pelle come un tatuaggio indelebile, lasciando i vostri timpani pregni di bramosia che chiede solo il replay. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 85

The Slaughterhouse 5 – Alban B. Clay

#PER CHI AMA: Alternative Rock, At the Drive In, Minus the Bear, Echolyn, Sparta 
I The Slaughterhouse 5 (TS5) sono una band math-rock danese nata nel 2012 e composta da sei signori musicisti. Dico signori perché questo 'Alban B. Clay' è il frutto di un lavoro monumentale: un concept album con cui vengono raccontate le vicissitudini di un misterioso individuo, Mr. Alban appunto. L'album a lui dedicato è composto da sedici tracce arrangiate, registrate ed editate in modo professionale, a queste si aggiungono inoltre degli intermezzi parlati in stile teatrale. Quest'ultimi regalano un'esperienza diversa dal classico rock album dove i musicisti si focalizzano totalmente sui brani, arrangiamenti e suoni. Il loro genere è il math-pop/rock, quindi ritmiche ingarbugliate (ma non troppo), riff iperbolici che mutano dopo poche battute e cantato che per pochi secondi segue la melodia principale e immediatamente si stacca e ne crea una propria. Gli strumenti utilizzati sono i classici del rock, con un forte utilizzo di cori che rafforzano le linee melodiche e anche alcuni campionamenti/loop per aumentare la complessità sonora. Dopo una breve intro cacofonica, l'album apre con "Alban B. Clay the Artistè", un brano talmente ricco di arrangiamenti e suoni che diventa una festa per le nostre orecchie. Provate ad immaginare gli Arctic Monkeys al quadrato, il tutto miscelato alla perfezione, senza mai una sbavatura o un calo di tono. Per tutto il brano non troverete uno strumento solista, ma un'unica sinfonia che veleggia in maniera suadente; "Kill Thrill 2.0" è una canzone totalmente diversa, breve e ritmata, la voce femminile diventa la protagonista e gli strumenti si divertono esibendosi in una sorta di fuga. La batteria in particolare da prova delle sue velleità tecniche, sfoderando una ritmica complessa e rullate velocissime. Un pezzo coraggioso è "Hitler in a Box" che dopo un breve campionamento di un qualche vaneggiamento del Führer, si lancia in una corsa scavezzacollo con il basso e la batteria. Questi creano una ritmica che si impossesserà delle vostra membra e vi troverete a muovervi a scatti, in preda alle convulsioni con tanto di schiuma alla bocca. Ogni singola nota vibra di energia e ogni volta che ascolterete questa brano, vi accorgerete di una linea melodica o un arrangiamento che vi era sfuggito precedentemente. Se continuate l'ascolto di questo cd, soffermatevi su "The Celebrity Snuff Tape pt. 1", un brano che vi riporterà indietro di qualche hanno, quando i Radiohead producevano album come 'Pablo Honey' e in seguito 'Ok Computer'. Per carità, gli arrangiamenti diversi, ma i TS5 hanno studiato bene la lezione e hanno saputo fare tesoro di una struttura compositiva vincente. Concludo confermando quanto detto prima: la band danese è degna di nota, si meritano ampiamente il successo che stanno avendo e non ho difficoltà a pensare che la loro strada sia ancora lunga e piena di successi. Con loro l'idea classica di concerto è forse pronta al cambiamento a diventare un po' più rappresentazione teatrale, per dare così vita ad uno spettacolo che coinvolga appunto altre forme d'arte. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 85

La scena alternativa mondiale offre chicche da ogni parte del mondo, forte del suo volubile e versatile senso di esplorazione, espone band come questa, che pur essendo autoprodottasi nel 2014, è stata in grado di partorire un disco dalle splendide potenzialità di riuscita. Il sound della band danese, al suo primo album, è asciutto, fantasioso, nervoso, con un'indole selvaggia trattenuta da una verve che lo imbriglia piacevolmente in ambito pop e si intrufola tra i solchi degli Arcade Fire e i mitici Minus the Bear. Il gusto psichedelico e sperimentale della band emerge soprattutto in alcuni brani lampo fatti di pochi secondi, piccole schegge impazzite di forte urgenza creativa. L'intero lavoro è suonato con forte gusto alternative rock/math pop che richiama il metodo canzone classico degli storici The Housemartins, ed è influenzato dal punk alternativo degli Sparta e a tratti anche dal particolare mix sonoro dei rimpianti At the Drive In. Tra queste tracce si elevano le doti del bravissimo vocalist propense a rievocare il miglior Cedric Bixler Zavala, immaginato in contemplazione ai migliori Band of Horses, per poi proseguire a suon di ritmiche sbilenche, di scuola indie, a metà strada tra Sleater Kinney e The Strokes, cadenze romantiche decadenti glam care al buon Marc Almond e canto ecclesiastico stile Dave Gahan nei Soulsavers. "Hitler in the Box" alza il tiro e per la band è un vero e proprio inno assieme a "Light Bulbs", "Fish pt. 2–3" esalta la composizione in chiave neo progressive e li avvicina agli Echolyn in modo eccelso, mostrando le qualità e le virtù del combo danese, mettendo di fronte all'ascoltatore un'opera di ampio respiro e fresca, degna di nota e di composizione musicale superiore. Uno spettacolo interessante e variegato che farà piacere ai cultori del progressive rock come agli estimatori del rock alternativo senza colore ne parte. Liberi di creare senza vincoli, poiché questa è la sensazione netta che da tempo contraddistingue le band di classe dai surrogati proposti dalle major... e The Slaughterhouse 5 ne è la conferma in positivo! Meglio indipendenti, vitali e geniali. Ottimo esordio! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 90 

Valerian Swing - Aurora

#PER CHI AMA: Math/Post, Between the Buried and Me, Irepress 
Dopo suoni catartici, funerei e catacombali, è giusto concedermi la pausa purificatrice che mi consenta di riprendere fiato per poi rituffarmi nei meandri dell'oscurità. Cosa di meglio quindi della follia delirante degli emiliani Valerian Swing, che snocciolano lungo le otto tracce di 'Aurora', la loro passione per suoni decisamente poco scontati. Il viaggio in cui il terzetto ci conduce, ci consentirà di toccare con mano, l'eclettica visione sperimentale di tre ragazzi di provincia che possono realmente raggiungere vette indefinite di successo, se solo una buona dose di culo saprà assisterli, ma credo che i concerti a supporto di Russian Circles, Boris e This Town Needs Guns, possano valere come ottimo biglietto da visita per i nostri. A tutto questo aggiungete una musicalità pazzesca, che partendo da "3 Juno" arriva a "Calar Alto", e attraverso un'inebriante girandola emotiva, vi catturerà fin dalla prima nota scoccata da questi tre fantastici musicisti che hanno fatto un'ottima pensata, coniugare nelle loro note, il sound di alcuni delle migliori bands in circolazione, per cui cito a random: Irepress, Devin Townsend, Between the Buried and Me, Russian Circles, Dillinger Escape Plan e *Shels, ma sicuramente nel corso dell'ascolto dell'album me ne verranno in mente altre. Si insomma mica gli ultimi arrivati e nemmeno troppo semplici da emulare. Il disco dicevo, parte da "3 Juno", un pezzo che si rifà proprio ai mostri sacri di Chicago, RC, con la differenza che in background si riesce a sentire una voce, mentre la musica abbastanza ruffiana (non nel senso negativo del termine, anzi), si muove tra un scintillante math e un arioso post rock. Il viaggio interstellare ci spinge a "Cancer Minor", in cui sono le melodie di fondo a catalizzare ogni vostra molecola sul sound dei Valerian Swing, che si srotola, attorciglia, sgretola e ricompone, tutto nell'arco di una manciata di minuti ipnotici, orchestrali, fotonici (come quella tromba che esplode a fine brano). Wow, it sounds very cool! Con "Scilla", i nostri mi richiamano più da vicino gli Irepress con un sound che si mostra coriaceo quanto sperimentale, introspettivo e disturbante (per quel suo break noisy); sempre più semplice no? Okay proseguiamo, cosi magari i nostri potranno stupirci ancor di più con effetti speciali e colori ultravivaci... Esattamente "Cariddi" è quello che ci voleva. Con questa song sprofondiamo in uno dei miliardi di inferni che popolano il nostro universo: un brano in slow motion, spaventoso e urticante, quanto il liquido delle cubomeduse australiane. Rimango inebetito da questa inusuale veste musicale dei Valerian Swing, che pomposamente va via via ispessendosi tra il suono improbabile di strumenti a fiato. Valli a capire tu questi, che con "In Vacuum" cambiano il loro umore circa un centinaio di volte grazie a un brano le cui parti potrebbero costituire la colonna sonora di un videogame di macchine impazzite, ma anche una qualche pubblicità televisiva o chissà quali altre mille cose. "Spazio"... al delirio. La sesta traccia continua a prendersi gioco dei fan, offrendo nuovamente il mutevole carattere della band italica, come se il trio di Correggio fosse affetto da un ciclo mestruale costante. Follia pura, gran gusto per tutte quelle trovate strumentali e visionarie che costellano 'Aurora', coraggio per metterle in campo e eccezionale bravura nell'applicarle. Schizofrenia, quella che si respira nelle note di "Parsec", più che una canzone, un tracciato di un elettrocardiogramma di un paziente che soffre di pesanti aritmie cardiache: un po' bradicardico, e un po' tachicardico, il sound si sviluppa tra rallentamenti e progressioni cinetiche allucinanti, che ci conducono alla conclusiva "Calar Alto", la song più lunga del lotto che, nei suoi quasi otto minuti, conciglia cinematicamente tutto l'implosivo repertorio dei Valerian Swing. La fortuna aiuta gli audaci, i Valerian Swing lo sono parecchio, quindi mi aspetto grandi cose per il loro futuro... (Francesco Scarci)

(Cavity Records/To Lose La Track/Subsuburban/Small Pond - 2014)
Voto: 90

venerdì 12 dicembre 2014

Aeurtum - The Depths of Which These Roots Do Bind

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Birmingham da sempre è indicata come essere una delle città di riferimento della scena hard rock, al pari di Liverpool. Se quest'ultima è famosa per aver dato i natali ai Beatles o più recentemente a Carcass e Anathema, Brum non può esserlo da meno, visto che Led Zeppelin, Black Sabbath, Judas Priest e Napalm Death (mica poco) nascono qui, giusto per citarne qualcuno. Oggi tra la folta schiera di band che fioriscono nel West Midlan, annoveriamo anche gli Aeurtum, che con 'The Depths of Which These Roots Do Bind' giungono a distanza di due anni da 'The Fall', al traguardo del secondo disco. La band non è altro che il solo progetto di tal Jonathan Collins, factotum musicale, qui coadiuvato da alcuni ospiti, tra cui, immagino anche la sorella, Alice Collins, che presta i suoi soavi vocalizzi nell'eterea e ingannevole opening track. Ingannevole per la leggerezza e sensualità che la contraddistingue, e che verrà spezzata dall'oscurantismo sonoro di "Antithesis", la song che traccia il percorso musicale che gli Aeurtum intendono tracciare, un death doom dalle cupe linee progressive. Virtualmente influenzato dagli esordi del trittico Anathema, My Dying Bride e Paradise Lost e dagli ormai immancabili Saturnus, Jon esibisce tutto il suo armamentario sonoro alla ricerca di uno stile che sia in grado in primis di catturare l'emotività dell'ascoltatore e direi che le chitarre solistiche riescono in pieno in questo proposito. In secondo luogo, credo che il mastermind britannico voglia buttar fuori, attraverso la propria musica, quel nichilistico senso di perdita che ne avvinghia l'animo inquieto. Il risultato non è certo dei più facili da assimilare, anzi talvolta risulta ostico da digerire, segno comunque di una ricerca sonora quanto mai scontata. Citavamo i gods del passato dai quali Jon prende spunto, e da qui si allontana cercando di inseguire e definire un proprio personalissimo sound che trova sfogo nei malinconici fraseggi di "Within the Ashes of the Deadwood" (ove di nuovo Alice presta la sua voce, cosi come pure nella title track) che apre con un classico riffing doom che si rifà proprio ai già citati Black Sabbath, mentre i vocalizzi del frontman si muovono tra il growling viscerale (un must per il genere) e qualche urlo demoniaco, che sinceramente avrei omesso. La ritmica è abbastanza andante, ma tenete presente che si muove più verso il fondo (dell'anima?) che in estensione, anche se "Shade of a Behemoth" gode di una certa dinamicità che non ne guasta affatto la riuscita; tra l'altro fa capolino in questa song anche un cantato in sussurrato. Lontano dagli estremismi funeral, 'The Depths of Which These Roots Do Bind' è un lavoro che offre una valida alternativa alle cavernose band provenienti dall'est Europa, un disco che va ascoltato e ascoltato più volte, per poter solo lontanamente carpire il poliedrico e intimistico mood di Mr. Collins, che trova modo di sfogare la propria rabbia nella selvaggia "…of Ebony Branches & Bone" per poi rabbonirsi (relativamente) nella successiva title track, in cui sembra vedersi un pizzico di luce in più negli occhi del bravo Jonathan, sensazione confermata anche dall'ascolto dell'ultima lunghissima e quasi spensierata, "Frozen into the Grain" (alla fine la mia preferita), che degnamente conclude un disco che apprezzerete di sicuro solo dopo alcuni svariati passaggi nel vostro lettore. Per molti ma non per tutti. (Francesco Scarci)

(Insidious Voices - 2014)
Voto: 75

giovedì 11 dicembre 2014

Polaroids - I Still Have Dreams/In My Past Life


#PER CHI AMA: Hardcore, Ska Punk, Emo
Basta ascoltare "Fort Knight", 1’:39’’ di furioso hardcore punk melodico, per capire da dove arriva il nome della band: quelle dei Polaroids, infatti, sono istantanee di vita quotidiana, che riescono a catturare sguardi, espressioni, colori ed emozioni in modo estremamente diretto e sincero. Il loro primo album 'I Still Have Dreams' si compone di 10 brani veloci, potenti ed emozionanti. Lo stile oscilla di continuo tra l’hardcore e lo skate punk melodico, che spesso vanno a braccetto nei pezzi più “lunghi” (solo 3 su dieci superano i tre minuti, e altri 3 non arrivano a completare il secondo giro di lancette), sposando vocals strozzate in stile quasi screamo ad altre invece più pulite e ariose (come nell’ottima "Red Herring"). Quando poi schiacciano forte sul pedale dell’intensità emotiva, complici testi densi e tormentati, riescono a cambiare marcia e allora è davvero difficile rimanere indifferenti di fronte a "Soul Mates", la sofferta "Immigrant Song pt.II", "Blue Period" o "Rearview". C’è anche spazio per la splendida strumentale "Somnia", che chiude come meglio non si potrebbe un disco intenso. L’Ep 'In My Past Life', uscito all’inizio del 2014, non sposta la questione e regala un’altra decina di minuti (per 4 tracce) di hardcore e struggimenti post-adolescenziali da cameretta. Questi ragazzi del New Jersey suonano con una passione che traspare da ogni piccolo particolare, a partire dall’artwork dei loro CD-r, realizzati come se fossero delle vere e proprie fotografie Polaroid e riccamente corredati di testi e informazioni, il tutto in perfetto stile DIY. La cura del dettaglio è poi evidente anche nella loro musica, registrata benissimo, e nella varietà della strumentazione usata, che arricchisce il suono in densità e profondità, un suono che si stratifica sovrapponendo chitarre elettriche e acustiche, percussioni, pianoforti, perfino un contrabbasso. Impossibile non guardare benevolmente a realtà come queste, dove l’amore per la musica è talmente evidente da risultare commovente. Impossibile non volergli bene. (Mauro Catena)

(Self - 2013/2014)
Voto: 70

mercoledì 10 dicembre 2014

Endname - Demetra

#PER CHI AMA: Post-metal, Doom, Ambient
Un disco concettualmente diviso a metà: due lunghe tracce da una parte, due dall’altra, come suonate da band differenti (sono quattro tracce, ma è un full-lenght vero e proprio: l’intero lavoro dura quasi 45 minuti). I russi Endname sono in grado di mescolare ingredienti estremamente diversi in un unico flow strumentale che, strano ma vero, fila via dritto come un missile. 'Demetra' si apre con “Duplication of the World”: pesante e ossessiva, delirante nei tempi dispari, carica di intensità doom. A seguire “Union”: la traccia più complessa, dove distorsioni e ritmiche si inseguono per quasi 12 minuti di oscurità e groove, tra crescendo e calando di pulsazioni metalliche e sonorità nerissime. Ce ne sarebbe abbastanza per fare un EP, catalogabile banalmente come post-metal strumentale. Ma gli Endname osano di più e si avventurano in territori completamente diversi. La seconda parte del lavoro si apre con una lunghissima (17 minuti) suite ambient, “Forest”. Emerge il lato riflessivo e inquieto del terzetto di Mosca: campioni elettronici, suoni sottili, lunghi respiri del vento. La foresta è buia e avvolta nella nebbia, siamo soli nell’oscurità e qualcosa di terrificante sta per accadere. È “DOTW RX”: come un mostro che emerge dalla notte, gli 8 minuti della traccia di chiusura sono sconvolgenti e folli: dissonanze, lunghe cavalcate noise, disturbi elettronici. Pazzia pura, come nelle malate dimensioni alternative pensate da H.P. Lovecraft: si perde il senso del ritmo con la batteria completamente sfalsata, che accelera e rallenta ignorando il percorso degli altri strumenti per esplodere in un finale rumoroso e disturbante. Pur penalizzato qua e là da una produzione non sempre all’altezza della situazione, questo 'Demetra' è proprio un bel lavoro: rompe le regole del post-metal proponendo un ascolto complesso, difficile, denso di dettagli, stili, riferimenti. Un disco per pochi. (Stefano Torregrossa)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 75

domenica 7 dicembre 2014

Gilgamesh - The Awakening

#PER CHI AMA: Black/Death, Behemoth, Melechesh
L'epopea babilonese di Gilgamesh, che narra le gesta di un antichissimo e leggendario re sumerico, appunto Gilgamesh, alle prese con il problema che da sempre assilla l'umanità, la morte e il segreto dell'immortalità, mi ha sempre affascinato per quelle sue affinità con i testi biblici (diluvio universale, la pianta della vita e il serpente). Cosi dopo Melechesh e Absu, possiamo dare il benvenuto ai bavaresi Gilgamesh, che contribuiranno ad arricchire la nostra conoscenza in fatto di civiltà mesopotamiche. Se poi accanto all'aspetto prettamente culturale ci piazziamo anche quello musicale, corredato da un sound black death all'insegna dell'occultismo, statene sicuri, che questo potrebbe essere l'album che fa per voi. 'The Awakening' si apre col cielo oscurato da "Eclipse", una breve intro che mi riconduce con la mente a fantasticare su popoli e terre lontane. Mi ritrovo pertanto tra i palazzi di quella misteriosa civiltà di cui si sa che amasse profondamente la musica e io con loro. E cosi i nostri eroi finiscono per sfoderare una prova da paura, giocando ad annichilire gli ascoltatori con un attacco frontale fatto di muri di chitarre imperturbabili che macinano riff schiacciasassi su cui spicca l'ottima prova del drummer e della porzione d'asce che in "Astaroth", sciorina riff taglienti come la lama più affilata, dibattendosi con i blast beat ossessivi di Matthias Wedler, su chi possa primeggiare come migliore performance sonora. Vi dirò che è un pari merito: pesante, elaborata e serrata la batteria, frastagliate, chirurgiche ma assai melodiche, le chitarre. Aperta da un arpeggio dal sapore orientale, "Slaying in the Name of Ishtar" divampa col suo sound incendiario, che si muove tra il death bombastico, corredato da profondi vocalizzi growl che si alternano con clean vocals e arabeschi che arricchiscono la proposta del quartetto di Monaco. Mi piacciono parecchio questi Gilgamesh, mi inducono a riprendere in mano la lettura della mitologia mesopotamica. "The Astronomer" è un altro pezzo che merita menzione a se stante: rifferama melo death, porzioni corali e assoli da urlo, con le liriche che si affacciano su un mondo fatto di antichi e oscuri cerimoniali e il misticismo del culto delle divinità. Con "Aeons of Hate", il ritmo è leggermente più cadenzato, i mid-tempo si inframmezzano infatti al ripetuto e impazzito martellare sulle pelli, in un ritmo che va intensificandosi con chitarre perennemente in tremolo picking. La song però non emerge come le altre, fatto salvo per le scudisciate alle 6-corde del duo formato da Schorsch H. e Emanuel Daniele, quest'ultimo anche vocalist. "Evocating Enlil" parte in sordina, quasi in punta di piedi, come se si trattasse di un outro e cosi si comporta fino e oltre metà brano, in cui rinvigorisce in termini di energia e devastazione, mantenendo una certa epicità vocale. Con i quattordici minuti finali di "The Curse of Akkade" e il suo suono marziale accompagnato da una linea di chitarra magistrale, i nostri ci mostrano la loro veste più thrash oriented, con cavalcate che si muovono tra i primi Testament, miscelati con la ferocia dei Behemoth e i suoni orientali stile Orphaned Land, per un risultato che rappresenta la summa di un album, 'The Awakening", assolutamente da far vostro. Tecnicamente mostruosi, accattivanti da un profilo visuale, i Gilgamesh sono la new sensation che arriva da lontano, anzi no, da molto molto vicino. (Francesco Scarci)

sabato 6 dicembre 2014

Oltrevenere - S/t

#PER CHI AMA: Rock, Teatro degli Orrori
Gli Oltrevenere sono stati una bella scoperta quando ho avuto la possibilità di calcare lo stesso palco durante un contest che hanno poi vinto. Il quartetto vicentino nasce nel 2009 e si rivela al grande pubblico nel 2014 con l'album in questione e tutta una serie di live per presentarlo. La loro musica è un mix di rock e cantautorato con chiari riferimenti ai Teatro degli Orrori, vecchi Litfiba e influenze prog della gloriosa scena italiana che fu qualche anno fa. I testi sono intensi e gli arrangiamenti graffianti, il tutto condito da suoni moderni ma non troppo. Si aggiunga anche un po' di sana elettronica come nel brano "L'Albero delle Mele", un mix di electro-industrial con un filo di pianoforte e voce, e i giochi sono fatti. Forse un esercizio stilistico o semplicemente la band ha voluto levarsi uno sfizio, anche perché la traccia poteva essere sviluppata maggiormente e diventare un brano con molto personalità. Passando agli altri brani, ci si imbatte ne "Il Sesto Giorno", la canzone con maggior tiro dell'intero album, potente e dalla ritmica che prende da subito l'ascoltatore. I riff sono in puro stile hard rock e il basso spara cannonate che ingrossano il sound del brano per tutti i quattro minuti di durata. L'assolo finale trasmette rabbia e nervosismo che vengono mitigati subito da un breve break di chitarra acustica che permette di tirare il fiato e arrivare alla fine della traccia. Poi arriva "Colt-Love" che apre con il basso che resta il protagonista indiscusso per gran parte della canzone caratterizzata da un'impronta più oscura e introspettiva, ma sempre con una possibilità di riscatto. Infatti gli Oltrevenere giocano molto bene sui cambi di ritmica e di riff, regalando tracce con molte sfaccettature che mettono in risalto anche le loro doti tecniche. I testi riescono a parafrasare tematiche comuni in maniera mai superficiale ed il vocalist interpreta i brani in maniera profonda, quasi teatrale, ecco perchè parlavo di somiglianza con Il Teatro degli Orrori. "Senza Fili" ricorda invece quelle atmosfere del rock italiano quando i Timoria e i vecchi Litfiba, ci regalavano delle gran chicche. Su quest'onda nostalgica, gli Oltrevenere elaborano a loro piacimento un brano ben fatto con qualche arrangiamento che odora di citazione alla storia del rock, il tutto discretamente amalgamato. Verso la fine i riff s'incattiviscono e ciò ci fa un po' rammaricare perché forse avremmo voluto tale energia sin dall'inizio. Resta il fatto che la band è tecnicamente preparata, ha cercato di crearsi una propria identità e questo album ne è la prova. Molto può ancora essere fatto e ora che sono usciti allo scoperto, dovranno dimostrare di che pasta sono realmente fatti. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70

Wrøng – Doomed From the Start

#PER CHI AMA: Grind/Hardcore, primi Napalm Death
Parlare di grindcore metal o noise per questa band è decisamente riduttivo. Di casa a Melbourne, Tim - bass / vocals - lyricist e Crispin - drums / vocals – editor, sfoderano nel 2014 ben sei opere devastanti tra singoli, e.p. ed album, tutte autoprodotte e dal copione selvaggio, iconoclasta e mostruosamente realistico. Un grido di rabbia e disperazione reso possibile distorcendo esageratamente ogni cosa, dalle voci alle trombette giocattolo, dai trapani elettrici al basso, senza nessuna remora o forma canzone, una illogica/logica contorsione intellettuale della forma sonora. L'amore per i primi Napalm death e per l'hardcore primordiale, uniti alla rumoristica sperimentale più oltranzista, quella che prevede tutto il rumore possibile nel più breve tempo possibile, ha voluto la genesi di questo album che a parer nostro risulta, nella sua inaccessibilità, una geniale follia sonica. Il suono è pregno di violenza ma non fine a se stessa, una crudeltà a scopo artistico, ispirata, incomprensibile e rumorosissima. Cercare il bandolo della matassa nelle sette tracce che compongono 'Doomed From the Start' nella sua durata di soli tredici minuti risulterà arduo, così se adorate il teatro dell'assurdo, sconcertante, profondo, riflessivo ed intelligente, adorerete anche quest'album, al contrario, il consiglio è di non ascoltarlo. Non troverete niente o poco di suonato veramente, niente di tecnicamente dotato, niente di stilisticamente corretto ma se avete amato gli albori rumoristici degli Einsturzende Neubauten (il paragone è valido solo tenendo conto dell'attitudine alla sperimentazione che accomuna queste due diversissime band), allora tuffatevi senza timore tra le sue fila rumorose, troverete la stessa voglia estroversa di far musica disagiata e di confine. Lasciatevi tentare a cuore aperto dal caos sonoro provocato dai due artisti australiani. Considerateli figli illegittimi dei Black Flag in super low-fi. Sparatevi in faccia questi loro brani che suonano come un bootleg degli Atari Teenage Riot registrato con un walkman anni '90 dentro una cantina, mentre emulano pezzi dei Napalm Death sbagliando il dosaggio dei distorsori di basso e batteria!?! Questa musica è avanguardia noise, hardcore per menti superiori, intelligenza che sfocia in rumore accecante, di bassa fedeltà, contornato da immagini underground eversive, musica catartica, evoluta per le orecchie di chi la saprà realmente apprezzare. Un'arma delicata e fatale chiamata rumore... Genialmente underground! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80