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lunedì 23 maggio 2016

Wyrding - S/t

#PER CHI AMA: Ethereal Funeral Doom, Decoryah
Più di vent'anni fa, venni ammaliato dalla musica di una band finlandese, autrice di due splendidi album e due EP; dopo il 1997 se ne persero ahimè definitivamente le tracce. Sto parlando dei Decoryah, un quartetto dedito ad un doom etereo, la cui impronta sonora ho ritrovato quando, per la prima volta, ho ascoltato l'album omonimo dei Wyrding. Non è il solito funeral doom quello che scorre nelle tracce di questo disco omonimo, c'è quasi qualcosa di ultraterreno che permea le song del quintetto del Wisconsin. Si percepisce nelle soavi melodie della opening track, "Poltergeist", cosi intrise di straziante malinconia, che lascia però intravedere un filo di speranza. La musica dei nostri è lenta, vibrante e solenne grazie ad un certo approccio corale che mette quasi in soggezione, come se stessimo entrando in chiesa e ci costringessimo al silenzio per non offendere chi è in preghiera. Tuttavia, lo psicotico video disponibile sul sito bandcamp dell'ensemble statunitense, non rende giustizia alle mie parole, dal momento che rischia di inquadrare erroneamente il quintetto come una black metal band. Per fortuna, ci pensa la poesia di "Longin's End" a palesare le qualità assolute dei Wyrding attraverso dilatati suoni doom e ispirate atmosfere decadenti. C'è gran poco nella musica dei Wyrding di quella matrice funeral che siamo soliti recensire su queste stesse pagine. I brani dei cinque di Antigo seguono la spiccata umoralità della band, senza seguire le regole definite impartite dal genere. La sensazione è, ascoltando la seguente "False Concept of Voyage" e in generale tutte le tracce ivi contenute, che i nostri si muovano senza schemi predefiniti, lasciandosi puramente guidare dall'istinto, da una emotività tangibile che qui fluisce tra anfratti oscuri in cui si insinuano le splendide e lamentose vocals di Troy, le suggestive linee di chitarra di Kyle e le introspettive keys di Bret (che si diletta anche nell'uso dell'organo), in un ritualistico lavoro senza tempo che trova la massima espressione in qualche assolo di chitarra (penso a "Ahold A Wren") che mi lascia senza fiato. Drammatici, eleganti e deprimenti, è difficile trovare aspetti ottimistici in un lavoro dai simili connotati; forse solo l'inedito artwork bianco, potrebbe smuovere pensieri positivi in un tale contesto liturgico, come il devastante strazio interiore che captiamo durante l'ascolto di "Impression II". Quello dei Wyrding è un album bellissimo, che implica un ascolto impegnato e impegnativo: in "Agony In Being I" ad esempio, collidono con il funeral semiacustico della band, altri due generi cosi diversi tra loro, il noise e il neofolk, in una traccia sicuramente più sperimentale, ma che innalza ulteriormente il livello di difficoltà nell'approcciare questo disco, lasciandoci in balia della conclusiva "Agony In Being II". Si tratta del pezzo più lungo del lp, e quello certamente più oscuro (non fosse altro per l'utilizzo del growling) sebbene interamente acustico, le cui ambientazioni dark doom raggiungono qui massimi livelli di delirante follia, in grado di condurci nell'abisso più profondo della coscienza umana. Incredibili, davvero! (Francesco Scarci)

(Small Doses - 2015)
Voto: 85

http://wyrdingtheband.com/releases

domenica 1 maggio 2016

Musicformessier - The Pleiades

#PER CHI AMA: Ambient/Post Rock
È una notte fatta di luna che si accontenta del suo ponente. È una notte rotta dal sussurro del vento. È un buio che si fregia del satellite sempre vivo in un imbrunire primaverile. È una premessa che giunta l'ora, sposta l'attenzione sugli ungheresi Musicformessier (inequivocabile il tributo all'astronomo francese Charles Messier, anche per quanto riguarda i titoli dei brani che richiamano i nomi delle stelle che compongono l'ammasso stellare delle Pleiadi). Non vi chiedo alcuna cordata d'insieme. Piuttosto vi invito a disgregare i vostri ascolti condivisi. Ora. Se avrete ascoltato il mio consiglio, sarete pronti a salire su questo velivolo spaziale. L'intro siderale è affidato a "Pleione". La seconda traccia suona come miele che cola su pane caldo nero tostato. "Maia". Dopo avere mangiato, preparatevi a sentire i vostri sensi scossi in una centrifuga di arancia, limone, zenzero e disinteresse. Lasciate che la musica faccia da padrone. Mentre siete ancora predati dalle nuvole agrumate, lasciatevi trasformare in ritmo ripetuto e ipnotico. "Elettra". Occhi serrati. Sensi all'erta e graffi acustici. Il trapasso non è così lontano. "Merope" è vitale, suonata con dita che si sentono scorrere sul metallo della chitarra, è carnale senza chiedere piacere. Diversa è invece l'impronta di "Atlas". Subliminale. Secca. Virtuosa. Pretenziosa. Per lasciare alla vita gli intenti, aspetto "Taygeta", "Alcyone" e "Celeano". Tre pezzi, tre. Suadenti. Graffianti l'estro subliminale dell'anima. Intensamente strumentali. 'The Pleiades' chiude con il duo costituito dal post rock di "Asterope" e dall'enigmatica "Pleiadians". L'ultimo brano, ove le note di speranza sono ormai assenti. Chiudo gli occhi. Apro l'anima. Abbandono la terra. Lievito. Sublimo la musica trasformandola in suoni puri. Chiudo l'album senza accorgermi che ho veleggiato tra ossigeno e suono, immersa in un oblioso ambient celestiale che mai mi ha fatto pensare. Voto? Il più alto! (Silvia Comencini)

(UAE Records - 2015)
Voto: 90

martedì 22 marzo 2016

Parqks - S/t

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Rock
I francesi Parqks sono un trio nato nel 2010, originario di Limoges. Dopo il demo del 2012 (peraltro suonato interamente live), i nostri hanno prodotto la loro opera prima nel 2015, questo 'Slow Ascent Melancholia'. Si tratta di un album strumentale contenente sette tracce che mescolano eteree melodie shoegaze ("Siberia") ad aperture post rock più robuste ("Nubla 93") che sfociano spesso e volentieri, in tappeti sonori distorti ("Shade Is A Light That Faded"). Con "Say Goodbye & Goodnight" invece, a farla da padrone sono flebili attimi di pura malinconica atmosfera, che ha il merito di allentare l'atroce scandire del tempo. Non sempre è scontato trovare in canzoni strumentali una struttura che preveda strofa e ritornello, tuttavia il terzetto transalpino ci riesce degnamente nella opener "The Evening Was Cold But We Felt Warm Inside", ove la mancanza del cantato scompare di fronte a una composizione di questo tipo. In questo caso, le vocals sarebbero addirittura di troppo, grazie all'utilizzo di due chitarre e una batteria, e al fatto che la band non disdegni neppure l'uso di synth, come l'MS20 della Korg, per farsi accompagnare con pad e vari soundscapes. Direi proprio una scelta azzeccata vista la qualità timbrica dei suoni prodotti. Personalmente auspico che i Parqks continuino nella loro evoluzione sonora per poter imboccare nuove strade di sperimentazione sonica. Ho l'impressione infatti che si divertirebbero molto e i loro fans con loro. (Alessio Perro)

(Self - 2015)
Voto: 70

https://parqks.bandcamp.com/

giovedì 4 settembre 2014

Violet Tears – Outside Your Door

#PER CHI AMA: Dark Wave, Xmal Deutschland, Ghost Dance, Spear of Destimy
Ultima fatica per questo combo italico di stanza a Bari, un lavoro raffinato e ben confezionato, licenziato via Ark Records nel 2013. La band risulta interamente devota al verbo malinconico e sognante della new wave di carattere gotico dei migliori anni ottanta, e forte della sua lunga esperienza ci regala quarantacinque minuti divisi in nove capitoli, di velata tristezza figlia del suono magico di act quali Xmal Deutschland, Ghost Dance (quelli di 'Spin the Wheel') e tanto dell'onda oscura italica lasciata da gruppi storici come Madre del Vizio, Undergrond Life e gli immancabili rimandi ai Diaframma di 'Siberia'. Due brani del catalogo sono cantati in lingua madre e questo conferisce un buon quanto diverso approccio al sound della band (più vicino allo stile canoro dei Calle della Morte), mentre nel resto dei brani la musica si affida ad una voce femminile di notevole estensione, con cantato in inglese, che unisce venature liriche classiche a forme più eteree, come se la mai dimenticata Giuni Russo avesse potuto interpretare brani di Cocteau Twins e primi Dead Can Dance. I suoni si calano perfettamente nelle partiture esuli e cristalline dal mid tempo solenne e glaciale, riscaldato da chitarre e tastiere spesso in linea con il suono dei The Cure più sognanti di 'Disintegration'. L'intero lavoro è attraversato dalle atmosfere insane degli Xmal Deutschland anche se i nostri risultano avere un carattere più classico, pacato, distaccato ed ethereal darkwave. L'effetto vocale è maestoso, disturbante ed ammaliante contemporaneamente, dal tono drammatico ed epico come lo era Kirk Brandon nei mitici Theatre of Hate o ancor più negli Spear of Destiny. Una culla di malinconica bellezza accarezzata da suoni sintetici, ovattati, lontani anni luce dalle false imitazioni di alcune band più famose dei nostri tempi moderni. Un sound ipnotico sorretto da un'ottima performance vocale che sovrasta splendidamente l'impianto strumentale, che reagisce con un suono derivativo, senza mai cadere negli stereotipi del genere o meglio, è così perfettamente new wave che suona come se fosse stato registrato nella sua epoca d'oro. Magari sarà per nostalgici vestiti di nero, dai capelli cotonati e laccati con lo sguardo triste, ma questo album offre emozioni reali ed una intimità crepuscolare degna di nota. Se volete fare un passo indietro, circa metà anni ottanta, ascoltando qualcosa di intelligente e di qualità, non esitate, 'Outside Your Door' farà per voi! (Bob Stoner)

(Ark Records - 2013)
Voto: 75

mercoledì 2 luglio 2014

Mekigah - The Serpent's Kiss

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Dark/Gothic, New Wave, Dead Can Dance, Mercyful Fate
Li abbiamo conosciuti lo scorso anno in occasione del loro secondo Lp, 'The Necessary Evil'; ora vi racconto invece del loro esordio. Sto parlando degli australiani Mekigah e del loro strampalato sound decadente, dove riesce a trovare posto addirittura un sax. Sax che fa la sua comparsa nell'intro iniziale che apre 'The Serpent's Kiss', album del duo australiano formato da Kryptus e Vis Ortis, aiutati da un innumerevole numero di amici. Sono le ambientazioni a la Dead Can Dance a trovare maggiormente spazio in questo concept, con suoni e voci eteree (a cura di Sam Star, nel ruolo di Eva) che si alternano su un tappeto sonoro, che pesca talvolta dal doom d'oltremanica. Diciamo che il risultato che ne viene fuori è qualcosa di inusuale, che mette in risalto (e che verrà confermato successivamente) l'originalità e la stravaganza di questo ensemble. Ovvio che non c'era da stupirsi: pensando all'Australia infatti, mi viene da dire che il 90% delle uscite di quel paese siano originali. Il cd nel frattempo continua ad andare nel mio lettore e, detto dei vocalizzi eterei di "Eve Awoke" e "Campfire", si passa ad una song dove finalmente fa la sua comparsa anche la voce pulita del frontman Dave O'Brien (Lucifero), mentre le chitarre si rincorrono veloci e melodiche. Il suono di una spinetta introduce "Death's Embrace", song melliflua che mi ha ricordato gli olandesi Gandillion e che permette per la prima volta un duetto tra le voci maschili e femminili, mentre la proposta musicale inizia a godere di una spinta maggiore. Meno ambientazioni dark dunque e qualche accelerazione in più all'insegna di suoni più spettrali che possono anche richiamare i Mercyful Fate. Le tracce scivolano via veloci, data anche la loro esigua durata (tra i due e i cinque minuti, con punte di sette) e per il fatto che molte delle 18 song qui incluse fungono semplicemente da interludio acustico o da ponte narrativo tra un pezzo e l'altro. Quando guardo il lettore alla fine della lunga e goticheggiante "Trial by Air" (scuola primi Tristania e mia song preferita), mi ritrovo già a metà del disco che di interessante ha ancora da offrire "Trial by Fire" dove compare finalmente anche il growling del vocalist in una song che sembra più un richiamo di una sirena, a cui è stato affiancato un demone malvagio e la successiva "Trial by Water" song dall'incedere malefico e sinistro, seppur possa suonare come una traccia progressive. Si prosegue con "Trial by Earth" e ahimè inizio a soffrire dei primi segni di insofferenza nei confronti della dolce fanciulla alla voce, un po' troppo piatta alla lunga. Poco importa, perché il ritmo qui è a tratti ben più vivace e guidato dalle vocals maschili. Ancora un paio di intermezzi che coniugano la musica classica con un feeling orrorifico e poi "Return to the Garden", song che vorrei ricordare più per la sua teatrale cavalcata che altro. Mi sa tanto che alla fine 18 brani siano un bel mattone da digerire (quasi 70 minuti di musica) e complice una minor fluidità nella proposta del combo oceanico, inizio ad auspicare fortemente la conclusione del lavoro che giunge con "Exeunt" che mette la parola fine a questo primo concept album degli australiani Mekigah, ma sancisce le ottime qualità di questi ragazzi, dei loro angeli e demoni. (Francesco Scarci)

(Self - 2010)
Voto: 70

sabato 12 maggio 2012

Ophelia's Dream - Not a Second Time

#PER CHI AMA: Ethereal, Neoclassic, Dead Can Dance
Per chi ha apprezzato i primi due lavori del gruppo di Dietmar Greulich, il ritorno degli Ophelia's Dream costituisce una gradita sorpresa. Ci avevano lasciati ben cinque anni prima, dopo l'uscita di “Stabat Mater”, per chiudersi in un lungo silenzio spezzato solamente dalla ristampa del primo album, “All Beauty is Sad” (pubblicato in origine per la defunta Hyperium nel lontano 1997), comprendente anche le otto canzoni facenti parte dell'ep. Sentir nuovamente parlare del progetto tedesco, che a suo tempo non riuscì a godere di grande esposizione, almeno qui in Italia, ha risvegliato il ricordo sopito di atmosfere neoclassiche e di aggraziati arrangiamenti ed ha caricato di una certa aspettativa l'attesa dell'uscita del nuovo album. Un ritorno firmato Kalinkaland che ci presenta gli Ophelia's Dream per nulla mutati, sia nella forma sia nella sostanza: ad accompagnare Dietmar troviamo, infatti, ancora Susanne Stierle alle voce e, inoltre, il cambiamento è praticamente minimo da un punto di vista stilistico, tanto che i nuovi brani sembrano non aver affatto risentito della pausa "compositiva" e proseguono in modo genuino e coerente il discorso lasciato in sospeso. In quest'occasione Dietmar ha preferito, tuttavia, non incentrare il proprio lavoro su melodie squisitamente neoclassiche, per arricchire il suono di ricami atmosferici tessuti con arrangiamenti sintetici che hanno il pregio di infondere maggiore pienezza e riverbero emotivo ai brani. Elementi già riconoscibili anche in “All Beauty is Sad”, ma se in quell'album essi costituivano un requisito di contorno, in “Not a Second Time” divengono caratteristica principale e si contrappongono al suono naturale del violino e del violoncello. Le partiture sono enfatiche, cariche di inquietudine e i suoni, colmi di colori dalle tonalità meste, abbracciano armoniosamente la voce garbata di Susanne, che raggiunge vette di fragile eleganza. In alcuni passaggi è riconoscibile un'evidente ispirazione ai Dead Can Dance, ma vi sono momenti nei quali Dietmar cita addirittura sé stesso attraverso il richiamo a melodie da lui già composte o eseguite in passato, come nel caso di “Saltarno”, il cui incipit ricorda inequivocabilmente la sua versione del “Saltarello” apparsa in “All Beauty is Sad”. “Not a Second Time” non si distingue, dunque, per originalità ma ciò non sguarnisce il lavoro della sua bellezza pittoresca e sontuosa che si mantiene intatta nel tempo, anche dopo numerosi ascolti. (Laura Dentico)

(Kalinkaland Records)
Voto: 70

domenica 22 gennaio 2012

Flëur - Magic

#PER CHI AMA: Ethereal Folk
La Prikosnovénie non poteva inaugurare in modo migliore le sue pubblicazioni di primavera se non con questo nuovo lavoro dei Flëur: “Magic”, opera seconda per il progetto proveniente da Odessa, città situata nella parte meridionale dell'Ucraina. Il gruppo (ma sembra riduttivo volerlo chiamare con questo nome!) si compone di ben undici musicisti, tra i quali spiccano le due cantanti e principali compositrici/liriste Olga Pulatova ed Elena Voynarovskaya. La lista degli strumenti suonati in quest'album è tale da far intuire subito cosa ci aspetta dall'ascolto: flauto, violoncello, violino, percussioni, pianoforte, per citarne qualcuno... sicuramente un lavoro di musica eterea, ma non la "solita" musica eterea! I titoli delle canzoni sono tutti in inglese, come a voler permettere all'ascoltatore di catturare l'idea che ha generato ogni pezzo, ma i testi sono in ucraino e l'espressività musicale di questa lingua è decisamente unica. Il titolo “Magic” sembra proprio calzare a pennello, l'album è infatti un sentiero magico costellato di tredici melodie che accarezzano l'anima, cullandola dolcemente attraverso immaginari fiabeschi dalle tinte tenui, delicatissime. Olga ed Elena si alternano alla voce accompagnate da un trionfo di armoniose tessiture di melodie pop impreziosite da eleganti disegni neoclassici, ma spesso i Flëur sembrano attingere anche dalla tradizione russa, o almeno così appare ad orecchie profane come le mie cui sembra di percepire nel cantato ritmato di alcune canzoni quali “Never”, “The Russian Roulette” e “Horizon” echi di una tradizione slava, comunque fortemente ed egregiamente contaminata da sonorità più attuali. L'avvicendarsi di Olga ed Elena alle voci, oltre a caratterizzare il lavoro di una certa varietà, segna anche tangibili differenze stilistiche nei brani, così che a Olga, dalla voce più severa e che si accompagna sempre al piano, sono affidati i brani di connotazione decisamente pop, dove gli strumenti a corda creano melodie più morbide e classicheggianti (“The Emptiness”, “Formalin”, “Repair”, “I Will Do it” e “The String” sono tra le più caratteristiche in tal senso), mentre Elena, che si accompagna con la chitarra classica ed è dotata di una timbrica più dolce, canta nei brani più raccolti e spesso malinconici, dove emergono influenze folk o che sono caratterizzati da ritmiche più decise (“Almost Real”, “The Ballad of White Wings and Scarlet Petals”, “Medaillion”). Lasciatevi ammaliare dai Flëur, scoprirete un mondo abitato da fate e sogni che non vorrete mai abbandonare. (Laura Dentico)

(Prikosnovénie)
Voto: 80
 

venerdì 23 dicembre 2011

Elend - Winds Devouring Men

#PER CHI AMA: Ethereal Music, Ambient, Dark, Dead Can Dance
Era il 2003: contro ogni aspettativa, il progetto austro-francese più oscuro della scena gotica orchestrale decise di ripresentarsi con un nuovo album, "Winds Devouring Men", distante anni luce dalla produzione passata, seppur in qualche modo vicino al precedente "The Umbersun", il quale già evidenziava un desiderio di abbandonare le tensioni profondamente drammatiche dei primi due lavori ("Leçons de Ténèbres" e "Les Ténèbres du Dehors") facenti parte della trilogia ispirata all'"Officium Tenebrarum", conclusasi appunto con "The Umbersun" e che con esso sembrava aver esaurito il significato del progetto Elend. Invece, nei cinque anni di oblio, gli Elend hanno maturato una nuova perla dal fascino profondamente oscuro, questo "Winds Devouring Men", con il quale sembrarono volersi scrollare di dosso i complicati intrecci classici che avevano ispirato la produzione passata, per donare alle canzoni una leggerezza e una dose di essenzialità che rendono la loro musica più facilmente apprezzabile, pur non intaccando la maestosità tipica delle loro composizioni. E lo si scopre fin dalle note di apertura della bellissima "The Poisonous Eye", cui spetta l'onore di iniziarci all'album più intimista mai creato dagli Elend. L'opera prosegue poi con uno scorrere di quiete melodie che a tratti si tingono di scuro per ritrarre immagini di foschi scenari tormentati, per dar vita ai quali l'ensemble ricorre a passaggi sperimentali dalla forte potenza evocativa e a strumenti percussivi che conferiscono maggiore spessore alle strutture sonore. Echi del passato lirico degli Elend si risvegliano in alcuni momenti nei quali si percepisce la presenza della voce femminile e in particolare la bonus track "Silent Slumber: a God that Breeds Pestilence" ricorda la dolcezza struggente che si poteva catturare nell'album di passaggio "Weeping Nights". Non più confrontarsi con l’assoluto, con l’essenza divina che permea la vita dell’uomo, non più la lotta eterna tra Bene e Male, non più la discesa di Lucifero agli Inferi, bensì un tentativo di aprire le porte della propria intimità per guardarsi dentro e, almeno per una volta, lasciarsi cullare dal fluire intenso dei propri pensieri, lasciarsi accarezzare dalla dolce malinconia delle proprie sensazioni più profonde, senza il timore di scoprirne i lati più nascosti. Nei passaggi melodici di canzoni quali "Under War-Broken Trees", "Away from Barren Stars", "Vision is all that Matters" e "A Staggering Moon", dove la voce maschile si colma di una calma pacatamente sofferta, sento che per la prima volta l'eredità lasciata dai Dead Can Dance è stata veramente raccolta per essere trasformata, rielaborata e rivestita di una nuova eleganza e delicatezza. E' possibile raggiungere la perfezione artistica? Se possibile, allora gli Elend ci sono riusciti, con un album così bello e profondo da far venire i brividi. Letteralmente. (Laura Dentico)

(Prophecy Productions)
Voto: 85
 

sabato 20 agosto 2011

Dwelling - Humana

#PER CHI AMA: Folk, Neoclassic, Dead Can Dance, Miranda Sex Garden
I Dwelling nascono nel 1998 come progetto solista di Nuno Roberto e con l'intento di creare musica basata interamente su strumenti acustici, ispirata ai paesaggi costieri dell'Algarve. Col passare del tempo il progetto si arricchisce dell'apporto di altri musicisti e nel 2001 esce un mcd, "Moments", per Equilibrium Music, etichetta personale di Nuno Roberto. La line up del gruppo portoghese in tale lavoro si è estesa a cinque musicisti, grazie all'ingresso in formazione di Catarina Raposo alle voci, Silvia Freitas al violino, Nicholas Ratcliffe alla chitarra e Jaime Ferreira al basso. La natura esclusivamente acustica rimane un segno distintivo nei Dwelling, che nel 2003 pubblicarono "Humana", il primo full length. Nove canzoni vibranti di emozioni dense e struggenti, nelle quali la voce incantevole di Catarina Raposo gioca, intrecciandosi, con le chitarre acustiche e il violino e che si sviluppano in passaggi dal tocco sensibile e appassionato. Sembra essere un tratto tipicamente portoghese l'ardente malinconia che si posa con grazia nelle note di quest'album, soprattutto in "Silêncio Intemporal", "Tecelões da Nova Realidade" e "O Cinzel do Tempo", cantate in lingua madre e, non nascondo, le mie preferite, in quanto sono i momenti più sentiti. Lo spazio di silenzio tra i pezzi è quasi ridotto al minimo, forse a voler trasmettere un senso di dinamica evoluzione che fa di "Humana" un'unica opera in divenire, dove le canzoni hanno senso solo se inserite nel contesto generale, perché singolarmente perderebbero la loro intensità e apparirebbero come un tassello al quale manca il resto della struttura. Degne di menzione anche le altre canzoni che compongono l'album: "The Wheel", "Remember Virtue", "As the Storm Chants", dove la componente neo-classical si sprigiona in tutta la sua leggiadria, "Lingering Stupor", "Chasing the Rainbow's End" e "Reality that Remains", nelle quali si scorgono gradevoli episodi dal sapore folk e tradizionale. Unica pecca è forse da ricercarsi nel fatto che al primo ascolto l'album può risultare un po' troppo uniforme e non immediatamente emozionante, ma sicuramente è un'opera che va scoperta e merita di essere ascoltata con attenzione, solo così si può apprezzarla fin nel profondo della sua anima. "Humana" non è un'opera per tutti, ma solo per chi sa lasciarsi carezzare dal romanticismo degli strumenti classici. (Laura Dentico)

(Equilibrium Music)
Voto: 75