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domenica 6 aprile 2025

Ulver - Liminal Animals

#PER CHI AMA: Electro/Psych Rock
Uscito digitalmente a fine novembre dello scorso anno, e solo fisicamente il 7 marzo di quest'anno, 'Liminal Animals' è l'ultimo lavoro degli Ulver. Non è solo un album, è un lungometraggio audace, un viaggio psichedelico che sfuma i contorni della realtà, un’inquadratura sfocata dove i lupi norvegesi, ormai lontani dai roventi paesaggi del metal, ci guidano attraverso un crepuscolo liminale. La dedica a Tore Ylwizaker, il tastierista scomparso nell’agosto scorso, aleggia come un’ombra sul set, un requiem muto che s'insinua nei suoi fotogrammi. Kristoffer Rygg, il regista visionario un tempo noto come Garm, dirige i suoi fedeli compagni di scena in un abisso di synth malinconici e paesaggi sonori che si stagliano come quinte di un teatro oscuro. La cinepresa si sofferma su "A City in the Skies": un piano sequenza mozzafiato di una metropoli sospesa, costruita con riff sintetici e percussioni che ticchettano come pioggia su vetri ghiacciati. È un miraggio architettonico, una skyline di grandezza fragile che si sgretola sotto il peso del suo stesso splendore, un tableau vivant di synth-pop che si spegne in dissolvenza. Poi, un taglio netto su "Forgive Us": la luce si abbassa, l’obiettivo cattura Rygg in un primo piano straziante, la sua voce è un monologo che vibra di emozione cruda. La tromba di Nils Petter Molvær irrompe poi come un lamento solitario, un suono che stride nel buio, mentre un coro di voci melliflue s'insinua come un flashback ossessivo, un’implorazione che si perde nel vento di una sala vuota. "Nocturne #1" è uno stacco atmosferico, una sequenza muta, un’eco che ricorda quei giorni in cui gli Ulver scrivevano per cortometraggi ambient. La scena si sposta su "Locusts": un montaggio serrato di synth pulsanti e percussioni tribali, con i vocalizzi di Rygg che si liberano come un narratore fuori campo sopra un’invasione di ombre ronzanti, un quadro di tensione che si dissolve in un nero profondo. "Hollywood Babylon" cambia registro: un’inquadratura grandangolare su un boulevard al neon, troppo lucido, troppo pop, un’interferenza che stride nella pellicola oscura, ma che si piega al cinismo delle sue liriche taglienti. "The Red Light" rallenta il ritmo: una ripresa che segue una figura indistinta per strade bagnate con i synth e ritmi spezzati che costruiscono un’atmosfera da thriller notturno, girata tra i vicoli di una città senza nome. "Nocturne #2" è un’interruzione onirica, un montaggio di post-rock cinematico che richiama le distopie di "Blade Runner": pioggia al neon, synth che si espandono come un cielo artificiale, un respiro prima del finale. Si arriva al lungo finale con "Helian (Trakl)", una song di oltre undici minuti che si dipana come un ultimo atto monumentale. Jørn H. Sværen entra in scena, la sua voce recitante che declama Georg Trakl sembra quella di un poeta maledetto su un mare di synth e pulsazioni dub. È un piano sequenza infinito, con la musica che si gonfia in un crescendo di malinconia che si spegne in un fade-out lento, un sipario che cala su un film imprevedibile, seducente, ulveriano fino al midollo. (Francesco Scarci)

(House of Mythology - 2024)
Voto: 75

https://ulver.bandcamp.com/album/liminal-animals

domenica 30 marzo 2025

Octoploid - Beyond The Aeons

#PER CHI AMA: Melo Death/Folk
Se sei un appassionato degli Amorphis, preparati a essere travolto da 'Beyond The Aeons', il fantastico album di debutto degli Octoploid! Questa si configura come una sorta di side project di Olli-Pekka Laine (bassista degli Amorphis) includendo anche un altro ex, Kim Rantala, il vecchio tastierista che ha lasciato il segno ai tempi di 'Elegy'. E inevitablmente, le influenze non tardano a farsi sentire, in un'opera che si distingue per la combinazione di elementi di death progressivo con influenze folk e sonorità psichedeliche. Vi ricorda niente? L'apertura è un vero colpo al cuore con "The Dawns in Nothingness", dove si fa sentire l’incredibile voce di Mikko Kotamäki degli Swallow the Sun (che ritroveremo anche in "The Hallowed Flame" e nella meno convincente "Concealed Serenity"). Questo brano, come opener, cattura immediatamente l’attenzione con i suoi riff potenti e melodie irresistibili, rievocando il fascino degli anni '70, mostrando una notevole abilità nel mescolare sonorità diverse, creando transizioni fluide tra momenti di pura aggressività e sezioni più melodiche. "Coast of the Drowned Sailors" è un inno agli Amorphis di 'Tales from the Thousand Lakes'. Qui, la voce di Tomi Koivusaari, che mi ha fatto innamorare delle melodie avvolgenti dei finlandesi, si unisce a quella di Janitor Muurinen degli Xysma, creando un connubio di ricordi e nuova magia. L’affinità con gli Amorphis è palpabile: entrambe le band sanno come incantare con la melodia e atmosfere psichedeliche, ma gli Octoploid si divertono a esplorare un approccio più giocoso e variegato. Andando avanti nell'ascolto, cambiano le performance dietro al microfono, con la comparsata di Tomi Joutsen (attuale frontman degli Amorphis) nell'inizialmente allegra - prima di addentrarsi in territori più oscuri e death oriented - "Human Amoral", Petri Eskelinen (dei Rapture) nell'inizialmente vivace - poi più tetra - "Shattered Wings". Infine, Jón Aldará, il talentuoso cantante degli Iotunn, arricchisce con la sua voce "A Dusk of Vex", dando un ulteriore tocco a questo debutto impressionante che, pur richiamando gli Amorphis, conquista per la sua freschezza unica e irresistibile. (Francesco Scarci)

(Reigning Phoenix Music - 2024)
Voto: 80

https://octoploid.bandcamp.com/album/beyond-the-aeons

sabato 8 marzo 2025

Shepherds of Cassini - In Thrall to Heresy

#PER CHI AMA: Prog/Psych/Post Metal
Avevo recensito i precedenti due album, rispettivamente nel 2013 e 2015, e li intervistai nello stesso 2015. Poi, un silenzio durato ben 10 anni. E ora, dal cuore pulsante di Auckland, gli Shepherds of Cassini (SoC) riemergono con 'In Thrall to Heresy', terzo capitolo della loro personale saga. Ma questo non è un semplice ritorno, è una metamorfosi, un’opera che spinge il progressive metal in territori inesplorati, intrecciando complessità tecnica, psichedelia turbinante e un’architettura musicale che sfida le convenzioni. Qui, il quartetto neozelandese dimostra come il prog non sia solo un genere, ma un’etica, un viaggio attraverso otto brani che rifiutano la stasi per abbracciare l’evoluzione. Il disco si apre con "Usurper", un'epopea sonora che ridefinisce i limiti del progressive, grazie a giochi in chiaroscuro affidati a un elegante arpeggio di chitarra che andrà successivamente a fondersi con un basso maestoso e con la voce (che faccio tuttavia ancora fatica a digerire, nella veste clean) di Brendan Zwaan. Il flavour sonico ci riporta immediatamente ai Porcupine Tree, ma presto il tutto sarà travolto dal violino elettrico di Felix Lun, con un suono che stride come un oscuro presagio. La struttura del pezzo diventa ben presto un labirinto, tra esplosioni prog e rallentamenti di "opeth-iana" memoria, in bilico in un continuo stato tensivo. Ora ricordo perché li ho adorati nei precedenti lavori. Forse preferivo quando i vocalizzi valicavano il growl e il suono era più orientato al post metal, ma anche in questa nuova veste, è chiaro che i nostri abbiano parecchio da dire, tra assoli di violino (alla Ne Obliviscaris) ed escursioni nel prog rock. Tempo di un intermezzo spaziale e siamo a "Slough", un altro brano dall'intelaiatura sonica tipicamente prog, tra cambi di tempo, atmosfere mutevoli, un groove di basso in sottofondo che ribolle come lo stufato in una pentola a pressione, graffi di chitarra che agitano melodie cerebrali - scuola King Crimson - e furiosi crescendo esplosivi, coadiuvati qui anche da un cantato estremo. Difficile ipotizzare cosa aspettarsi in tutto questo marasma, se dopo le derive estreme, si sfocia in momenti di calma ipnotica che disorientano non poco. Ma questo è il bello degli SoC. "Vestibule" è una lunga (un filo troppo) intersezione di cosmic psych rock che fa da passaggio verso l'ignoto che si materializza con la successiva "Red Veil". Qui, un sincopato riffone di chitarra guida la sghemba melodia, a braccetto con il growling di Brendan, in un brano che potrebbe evocare un che dei Tool, in un pezzo comunque ostico, contorto, furioso, una continua danza tra imprevedibili punteggiature arpeggiate e roboanti partiture ritmiche, in un precario equilibrio tra melodia e prog sperimentale in un continuo crescendo dinamitardo. "Mutineers" è un altro sinistro bridge strumentale affidato a chitarra, violino e tastiere dissonanti, una distopica dilatazione del tempo che ci accompagna ad "Abyss". Qui, realmente si sprofonda in un abisso temporale di oltre 16 minuti che vede il brano spalancarsi con un basso ipnotico, preludio della fine del mondo. Effetti vocali filtrati, percussioni tribali, suoni di synth in sottofondo e la trasfigurazione di nuovi mondi in musica, narrati dalle efficaci clean vocals di Brendan, sono tutto quello di cui avete bisogno. Il brano evolve in una matrice sonora contrastata, da brezze eteree a sezioni più pesanti che si sciolgono in interludi post rock guidati dal violino imbizzarrito di Lun, in grado di guidare l'ascoltatore attraverso un'oscurità densa e affascinante (ascoltatevi gli ultimi due minuti della song e capirete cosa intendo), in un viaggio complesso e avvincente. In chiusura, un pianoforte introduce "Threnody" e la sua melodia fiabesca che chiude un disco pronto a lasciare il segno. (Francesco Scarci)
 

martedì 18 febbraio 2025

Oranssi Pazuzu - Muuntautuja

#PER CHI AMA: Psych Black Sperimentale
Converrete con me che gli Oranssi Pazuzu siano un unicum nel panorama estremo. 'Muuntautuja' è il loro sesto album sempre focalizzato a mescolare elementi black metal, psichedelia ed elettronica, in un'opera che sfida ancora una volta, ogni tipo di convenzione. Con questo lavoro, la band finlandese riesce a mantenere la propria identità unica esplorando nuovi territori sonori mantenendo comunque intatta quell'atmosfera oscura e ipnotica, marchio di fabbrica del combo di Tampere. I brani oscillano tra momenti di intensa aggressività (come nell'iniziale "Bioalkemisti" o nell'ancor più sghemba "Voitelu") e sezioni più tranquille e riflessivo (come accade nella title track, che segna una transizione verso un sound più minimalista e fluido, con l'elettronica che gioca un ruolo centrale, ove dominano sintetizzatori inquietanti e ritmi pulsanti), creando comunque un flusso sonoro avvolgente. I brani possono passare da esplosioni di rumore a momenti di calma quasi meditativa (ascoltare l'angosciante "Hautatuuli"). Un break rumoristico ("●") e siamo già proiettati verso un finale apocalittico con un trittico di song che vede in "Valotus" un esempio di umorale rumoristica espansione primordiale, song straniante dotata di un finale in cui il black sfocia in un puro noise dronico. "Ikikäärme", la traccia più lunga del disco, ha un incipit inquietante e un carattere comunque assai stralunato, quasi stessimo assistendo a un incubo a occhi aperti; il pezzo alterna comunque parti aggressive a sezioni atmosferiche che evocano immagini di paesaggi alieni. La conclusiva e ambientale "Vierivä Usva" conferma l'audacia di un lavoro che si configura a essere come una vera e propria odissea sonora, capace di condurre l’ascoltatore attraverso territori sconosciuti al di là delle Colonne d’Ercole. (Francesco Scarci)

lunedì 10 febbraio 2025

The Bottle Doom Lazy Band - Clans Of The Alphane Moon

#PER CHI AMA: Doom/Stoner/Psichedelia
Ci hanno impiegato ben nove anni i doomsters francesi The Bottle Doom Lazy Band a tornare sulle scene con un nuovo full length, sebbene in mezzo siano usciti un EP nel 2020 e un live album, l'anno successivo. E cosi a squarciare questo lungo silenzio, ecco 'Clans of the Alphane Moon', nuovo album pubblicato dalla Sleeping Church Records. Un lavoro che combina gli elementi pesanti del doom di Pentagram e Trouble (aver detto Black Sabbath sarebbe stato troppo scontato) con influenze spaziali e psichedeliche, andando a creare un'atmosfera coinvolgente che sicuramente ridarà entusiasmo ai vecchi sostenitori della band. Il disco, come da tradizione, è caratterizzato da riffoni belli tosti che, sin dall'iniziale "Ride the Leviathans", fondono nelle loro note, stoner e doom. Ispirandosi alla cultura fantascientifica degli anni '60 e '70, il disco, nel suo litanico incedere, va aumentando i giri del motore con la sinistra "Crawling End", e un giro di chitarra ripetitivo e per questo, parecchio ansiogeno, su cui si andrà a porre la teatrale voce di Bottleben. Poi è ancora l'opprimente sezione ritmica a prendere il sopravvento, con una porzione percussiva davvero impressionante che ci accompagnerà fino a "To the Solar System". Un altro brano intenso che mi ha fatto pensare ai Candlemass di Messiah Marcolin, e comunque a un genere dotato di un canovaccio ben preciso, dal quale fuggire sembra essere compito assai arduo, se non affidandosi a una componente solistica imprevedibile, strumento che sembra non mancare ai nostri e gli consenta di prendere le distanze dai vari mostri sacri del genere. Un bel basso pulsante apre "Castle Made Of Corpses", un brano oscuro che ricorda storie di orrore, e che vede le chitarre intrecciarsi con il basso, lungo il suo ardimentoso cammino. La successiva "The Technosorcerer" (il brano più lungo del lotto) non è da meno per tenebrose ambientazioni e una ridondanza, nella sua componente ritmica, che vede sviluppare, in psichedelici giochi di luce, una significativa evoluzione della narrazione sonora. Quasi dodici minuti di sonorità asfissianti che vanno, grazie a Dio, via via crescendo fino a un finale chiuso, in realtà, un po' in sordina. "Flames of Sagitarius" vira verso suoni decisamente più classici e se da un lato, è un piacere rievocare certe sonorità, dall'altro, sembra anche voler dire che 70 minuti per un disco sono forse un po' troppi per rimanere ad alto livello tutto il tempo. E stancamente (sfiancato già da oltre un'ora di musica), mi appresto ad abbracciare "The Dying Earth", ultima e gustosa traccia di un lavoro mastodontico che magari non brillerà in originalità, ma comunque ci restituisce una band dotata di buon gusto e sfumature innovative, capace di incorporare elementi psichedelici e sperimentali nel proprio sound. (Francesco Scarci)

Weather Systems - Ocean Without A Shore

#PER CHI AMA: Prog Rock
Sono sempre stato un grande fan degli Anathema e il loro split del 2020 è stato un macigno da sopportare. Per alleviare questo dolore, ecco arrivare i The Radicant (nuova creatura di Vincent Cavanagh, ex voce degli Anathema, che magari avremo modo di recensire più avanti) e 'Ocean Without a Shore' dei Weather Systems, un significativo ritorno per l'altro fratello, Daniel Cavanagh e con lui, l'ex batterista della band inglese, Daniel Cardoso. È però quest'ultimo lavoro a suonare come ideale progressione musicale degli Anathema, riflettendone la sua evoluzione artistica anche nel moniker, che altro non è che il titolo dell'album dei nostri del 2012. E allora, a fronte di tutte queste situazioni, e alla voglia di Daniel di non porre la parola fine alla band che ha guidato in compagnia dei fratelli per trenta lunghi anni, ecco la proposta che non ti aspetti, con un sound che appunto prosegue la parabola stilistica degli Anathema, attraverso nove nuove composizioni. E si parte dalle splendide melodie di "Synaesthesia" e "Untouchable - Part 3" che proprio al disco 'Weather System' afferiscono musicalmente, esibendo melodie al chiaroscuro, tocchi di una malinconia disarmante, la collaborazione alla voce con vari personaggi (Soraia, Petter Carlsen e Oliwia Krettek) che ci permettono di avere tra le mani un lavoro introspettivo che strizza l'occhiolino a Porcupine Tree e Pink Floyd, sempre votato alle sperimentazioni psichedeliche ("Do Angels Sing Like Rain?"), ai loop ritmici ("Ghost in the Machine"), ai reprise di vecchi e strazianti brani ("Are You There? Part 2"), che fanno capire quanto sia ancora forte e durevole il legame con il passato dei nostri, cosi come il contatto con le ultime cose più elettroniche di 'The Optimist' ("Still Lake"). Insomma, 'Ocean Without A Shore' sembra rivelarci una sorta di continuità musicale quasi a dire che gli Anathema non sono ancora morti. Quale somma gioia per il sottoscritto. (Francesco Scarci)

(Music Theories Recordings - 2024)
Voto: 77

https://weathersystems.bandcamp.com/album/ocean-without-a-shore

lunedì 20 gennaio 2025

Fickle - Tacet Tacet Tacet

#PER CHI AMA: Ambient/Noise
Il lavoro che è appena uscito, via Bloody Sound, del progetto sonoro denominato Fickle, è da ritenersi un'interessante proposta in ambito ambient sperimentale, proponendo un album che, ascoltato per intero, si avvale dell'aura tipica delle soundtrack cinematografiche, con un suono astratto, visionario, a volte minimale, a volte più complesso, ma che non perde mai la sua corposità, e con un'attitudine che lo contraddistingue e lo fa emergere nella sua essenza più cristallina. Concepito tra i numerosi viaggi fatti tra Islanda e altre parti d'Europa dal titolare del progetto, Francesco Zedde, con l'intento di fondere parti strumentali, realmente suonate, con registrazioni d'ambiente e campioni, rimodulandole, filtrando ed elaborandone l'effetto elettronicamente, emulando gli alfieri del sound ambient e post rock dell'isola di ghiaccio e non solo. Così possiamo trovare all'interno di 'Tacet Tacet Tacet', umori rubati al suono fresco ma pensieroso di album come 'Utopìa' di Murcof, che interagiscono con le ritmiche destrutturate e disturbate da continue interferenze noise, alla maniera dei Mùm in "Yesterday was Drammatic, Today is Ok", riviste in una maniera più cupa e messe spesso in prima linea. Queste interferenze rumorose sono molto affascinanti e sono seminate qua e là su tutto il percorso strumentale dei Fickle, e in qualche modo, riescono a governare tutte le direzioni che intraprende la musica di questo disco, con il pregio inoltre, di non riuscire mai a dargli una via unica e definita, lasciandogli un ampio spettro d'azione sonora, indefinito e libero da scontate strutture. Per questo motivo, lo paragono a una sofisticata colonna sonora futurista, musica che omaggia i suoi precursori e caldamente consigliata ai cultori di questo genere. Al suo interno ci sono anche collaborazioni di valore, come Rea Dubach e Jacopo Mittino dei 52 Hearts Whale, nella composizione e nell'interpretazione di alcuni brani, e bisogna aggiungere che il tempo di incubazione per la nascita di questo album è stato assai lungo, infatti è stato registrato in giro per l'Europa tra il 2017 e il 2023, parecchio tempo a disposizione che va a giustificare cotanta peculiarità e ricerca nella varietà dei suoni. Il brano più indicativo è, a mio avviso, "Recurrence", ossia quello che chiude il disco, il più lungo e il più carico di profondità oscura, lacerato dal suono di una presunta campana che risulta devastante, incastonato in un sound d'ambiente dal ritmo frastagliato e lontano, con un finale a sorpresa sul filo di una svolta ritmica dal gusto etnico. Non possiamo dimenticare poi, senza togliere niente all'intero disco, la verve ritmica di "Pertinence", ai confini con i primordiali concetti compositivi della drum'n'bass, rivista in maniera minimale e fusa a certa new wave riletta in chiave elettronica. Aggiungerei infine una nota per l'ipnotica "Dissimulation". Per chiudere, direi che 'Tacet Tacet Tacet' è un buon disco, curato e avvolto in atmosfere intriganti e dai colori sfuocati, un disco che sarebbe un peccato lasciarsi scappare. (Bob Stoner)

venerdì 6 dicembre 2024

Motorpsycho - Neigh!!

#PER CHI AMA: Psych Rock
Non sarà l'incompiutezza suggerita (e ascoltate il bridge strumentale della sfilacciata ma gradevole e slightly CrosbyS & Ney "Return of Sanity") o conclamata (nella sinistra e invero insignificante "Edgar's Bathtub") a sorprendere in questo (estrapoliamo direttamente dalle note nel sito ufficiale) "non-concept di tutti i concept (...), rifugio per tutte quelle parti che non sono state invitate al party - OK, funziona meglio in inglese - ma che si rifiutano di tornarsene a casa". E nemmeno il (peraltro divertente) giochino "indovina la frattaglia" (mettete "This is Your Captain" da qualche parte dentro a 'Gullible's Travails' e nessuno la prenderà mai più sul serio). Provate semmai a costruire una proporzione che metta nel giusto rapporto "Elysium, Soon", "The Crucible" (la canzone), questo 'Neigh!!' nella sua interezza, "Ozone Baby" dei Led Zeppelin, e gli stessi nel loro 'In Through the Out Door' senza scordarsi l'infedele ma fideistica "All My Life (I Love You)", misconosciuto singolo di un certo Skip Pence, anche primo batterista dei Jefferson Airplane. Sarà invece, forse, quel sound a metà strada tra i Kinks sotto anfetamina e l'electropunk dolente dei Morphine a cui hanno appena ammazzato il sassofonista, tutto così squisitamente graham-coxon-iano, e stiamo parlando del primo doveroso singolo "Psycholab" abbellito da una insospettabile tastierina manzarecchiana ("It's a party tune, ask Caligula", sono le parole di presentazione sempre dal sito ufficiale) ma soprattutto della nebulosa, eccellente "Crownee Says", così fangosamente glam eppure quintessenziale nel penetrare sotto la scorza di questo scorbutica e poco fascinoso 'Neigh!!'. Altrettanto eccellente ma clamorosamente fuori contesto la avvedutamente conclusiva "Condor", insinuante, riders-of-the-stormey e, a tratti, attitudinalmente Lynch-iana. (Alberto Calorosi)

(Det Nordenfjeldske Grammofonselskab - 2024)
Voto: 72

https://motorpsycho.bandcamp.com/album/neigh

giovedì 5 dicembre 2024

Misha Chylkova – Dancing the Same Dance

#PER CHI AMA: Electro/Shoegaze/Folk
Dopo una manciata di singoli, esce finalmente il full length di Misha Chylkova, compositrice sofisticata dalla voce vellutata e intensa. Il disco si muove a ripetizione tra cantautorato dalle sonorità attuali e un'elettronica minimale e cinematica. Loop ripetitivi e circolari fanno da veri e propri tappeti volanti, visto che l'artista londinese di origine ceca, sa costruire brani sognanti e intimi, con quel pizzico di malinconia che non scade mai nel banale, mostrando un lato intimo che non si cosparge di miele ma che, al contrario, incita alla dilatazione delle pupille in una costante ricerca di qualcosa che va oltre il definito, fin dal primo ipnotico brano strumentale, "Coffee". Difficile accostare Misha ad altri artisti; la sua musica, per quanto minimale, è ricercata e certosina, dalla pulizia del suono al bilanciamento dei bassi, la produzione è infatti assai buona e gioca un ruolo importante per poter assaporare l'intero lavoro. Sonorità moderne per un incrocio di stili difficili da focalizzare, forse la Chelsea Wolfe di 'Apokalypsis' e 'Birth of Violence', in una veste meno dark e più dreampop, un folk cristallino dalla vena grigia, per ascoltatori sognanti che non rimarranno impassibili di fronte ad un brano brillante come "Sparrows", che per certi aspetti mi ha ricordato la magia del suono dei Cigarettes After Sex dell'omonimo album, ma anche le ipnotiche sperimentazioni di Anna Von Hausswolff, in chiave meno apocalittica. La bella voce della Chylkova ha venature molto velate e dolci, che ricordano molto le qualità vocali di Tracey Thorn degli Everything but the Girl, mostrando una versatile capacità d'interpretazione, con cui sposta facilmente l'ago della bilancia tra folk ed elettronica, senza cadute di stile, con piccole toccanti ed ingegnose variazioni vocali sparse tra i brani, che ne aumentano il valore e la qualità ad ogni ascolto. "Dead Plants" è un brano killer che si muove sullo stile ritmico di anthems del calibro di "Atmosphere" dei Joy Division, anche se il brano non è così oscuro ma la sua progressione mette in risalto il fatto che tra le note di 'Dancing the Same Dance', esista anche un legame sonoro con certa new wave che ha fatto giustamente la storia. Questo disco nel suo sembrare, al primo ascolto, fragile e dispersivo, nasconde invece un carattere inquieto e variegato, con punte di sperimentazione non impetuose ma peculiari, pacate e curate, tra sonorità vicine ad un moderno post rock ed un fine tocco di musica elettronica d'ambiente. Un album che non si assimila con un solo ascolto, sarà necessario ascoltarlo più volte per carpirne la giusta essenza, magari di notte guidando in solitudine. Un album comunque, che merita e che conquisterà la vostra attenzione. (Bob Stoner)

lunedì 25 novembre 2024

Maverick Persona – In the Name of

#PER CHI AMA: Post Rock/Experimental Sounds
In quante occasioni ci siamo persi nel vasto mondo della musica pop internazionale, cercando qualcosa di interessante da ascoltare, senza mai guardare ai confini nazionali? Ecco, con il nuovo album dei Maverick Persona, vi renderete conto che l'album della "porta accanto" esiste e può avere un respiro internazionale, risultare intrigante e destare la vostra curiosità senza nemmeno passare per il mainstream, preconfezionato e molto spesso vuoto di spessore e idee (vedi ultimi Blur o simili). Il progetto dei due musicisti italiani, Amerigo Verardi e Matteo "Deje" D'Astore, esprime tra le sue note proprio questo, la volontà di essere liberi di creare musica per come la si intende, senza confini o condizionamenti. Infatti, in una intervista uscita al tempo del loro primo album, 'What Tomorrow?', dichiaravano quanto segue: "Non abbiamo la possibilità di investire migliaia di euro in promozione, foto o videoclip; tanto meno siamo in grado di comprare i passaggi nelle radio o in tv, né ci interessa acquistare pacchetti di ascolti virtuali in playlist del cazzo. Adottiamo invece una forma promozionale tutta nostra che si misura in energia piuttosto che in economia: provare a liberare un flusso creativo tale da permetterci di registrare anche due album in un anno, possibilmente uno migliore dell’altro". La magia di questo nuovo disco si misura proprio in questa libertà, e se ci si associamo i testi, cantati in lingua inglese, volti alla critica di una società al limite tra ipocrisia e decadimento culturale e sociale, il gioco è fatto. Il duo cita i generi electronic, experimental, psychedelic, pop, rock, spoken word, new jazz, world music e gli ingredienti ci sono tutti, e si srotolano con un enorme piacere di ascolto. "Somewhere We Have Landed" e "Underword Conspiracy" sorprendono per la maturità del suono, musica ad elevato impatto psichedelico ed emotivo ad ampio respiro internazionale, un elettro-ambient sofisticato, ma non solo; l'impazzito jazz di "Sirshka" e i sussulti new/acid jazz di "Where Are You", confondono ed ampliano gli orizzonti musicali. L'insieme dei brani mi ricorda le teorie ricostruttive di Bugge Wesseltoft in 'New Conception of Jazz' del 1996, aggiornate con rianimata verve e suoni di nuova provenienza, ma l'album nasconde anche tante stanze segrete tra le sue note, sentori di acido trip hop per "Try to Get the Sun", mentre per "Dreaming Laurel Canyon", come dice tra le righe anche il titolo, dream pop e drone, si fondono per donarci una vera e propria sensazione di volo. 'In the Name of' è un disco di palpabile spessore artistico, carico di sorprese, adatto ad un pubblico moderno, che ama il sound variegato, curato e dalla trama intelligente. Un disco che allieterà i vostri ascolti, portandovi anche alla riflessione in più momenti, perché la rivoluzione nel mondo passa anche da suoni che sembrano innocui e pieni di luce ma che in realtà esprimono tanta ribellione. Consigliato l'ascolto! (Bob Stoner)

giovedì 21 novembre 2024

Traum - S/t

#PER CHI AMA: Psych Rock
Il motorik esotermico "Kali Yuga" in apertura, possibilmente la traccia più atmosfericamente sludge dell'album, tinteggia scenari assolati e materici, immanenti e maestosi, roba da nu-scemenze stile Mad Max, forse per via della chitarra fuzz/osamente cosmica, o della batteria magmatica e incendiaria. Suggeriscono continuità, con un landscape, se possibile, di proporzioni ulteriori, la successiva "Vimana" e, a modo suo, anche la contrazione siderale di "Katabais", a generare un compendio sonoro psych-free ("Ummagumma/Zabriskie/iano") da gola secca e, in chiusura, il secondo motorik che introduce il retro del disco (come se i Kraftwerk di 'Karl Barthos' ascoltassero "Remain in Light" dei Talking Heads, annuendo in piedi davanti al PC, senza tralasciare i momenti psych-trance dei Motorpsycho anni '20 in "Inner Space") a comporre una sorta di cosmicissima suite frattale e decostruita. Da qui in avanti, gli indizi si fanno più radi e il percorso più ardimentoso. Tra le sonorità marcatamente ambient (il Vangelis di 'Spiral' o certo Jarre mid-ottantiano) ecco "Antartic Dawn" e "Erwachen" (che evoca anche i primi Sigur Ros e il Robert Fripp ante-Thrak, quindi in sostanza quasi tutto Robert Fripp), il dub elettrogeno e spavaldo di "Infraterrestrial Dub" e la conclusione onirica e fuzz/orchestrale affidata a "Eterno Ritorno", con tanto di campionamento pasoliniano sugli orrori del consumismo. D'altro canto, "Inner Space" è il nome che Holger Czukay diede allo studio di registrazione realizzato da lui medesimo. Traum, in tedesco, significa sogno. Alla fine tutto torna. (Alberto Calorosi)

(Subsound Records - 2024)
Voto: 75

https://traumofficial.bandcamp.com/album/traum

giovedì 3 ottobre 2024

O.N.O.B. - Viva! Underground (retrospettiva sotterranea)

#PER CHI AMA: Alternative Rock
È successo di nuovo. Lo stravagante collettivo veronese dell'associazione culturale Teuta Gwened, è tornato sotto nuove spoglie. Un po' alla stregua dei Thee Maldoror Kollective, che a ogni album modificavano il proprio moniker, anche i nostri, che includono peraltro il buon Bob Stoner, si presentano sulla scena con differenti sembianze: Cardiac, Agatha, De La Croix, giusto per fare alcuni nomi delle varie incarnazioni, e oggi sotto questo intrigante acronimo, O​.​N​.​O​.​B. (Onirica Notturna Ostentazione di Bellezza), pronti a sfornare un nuovo lavoro, 'Viva! Underground'. Il disco consta di otto tracce che nascono ai tempi dello scioglimento dei Cardiac, e da lì ripartono sfoggiando suoni sperimentali, che si palesano sin dall'iniziale "Torture", song dotata di un riffing impastato su cui poggia un parlato quasi indecifrabile. Tutto assai normale direi, almeno fino a quando il ritmo viene alterato dal diafano poetico cantato di Betty che mi ipnotizza con le sue parole "...il tempo fa tic tac..." che si imprime nella mia testa e da lì non è più voluto uscire. La ritmica non è certo delle più raffinate, buono il lavoro di basso in sottofondo, ma ecco nulla di memorabile, perchè tutta la mia attenzione si focalizza sulla seducente ma al contempo sgangherata, voce della frontwoman, una sorta di italica Julie Christmas, forse meno rabbiosa della vocalist americana, ma sicuramente dotata di una buona dose di personalità. Con "La Madre, l'Inaspettato e l'Apocalisse, il sound dei nostri sterza verso sonorità più garage rock punk, coadiuvate peraltro da una porzione vocale decisamente più accessibile, un peccato, visto che ho adorato la prova della cantante nell'opening track. Il brano è dotato di una buona carica di groove, la voce di Betty è si qui calda ma le mie aspettative forse si erano troppo elevate. Con "Contessa" ci imbattiamo nella prima cover del disco, che ci riporta al 1980, quando quei Decibel, guidati da Enrico Ruggeri, la proposero al Festival di Sanremo. Il pezzo, riletto in chiave più moderna (e molto meno beat nel comparto tastieristico), mostra quella ripetitività marziale tipica della musica italiana di fine anni '70, dando sempre comunque rilievo alla vocalità della brava cantante e a un brano che vede una brusca accelerazione nel finale. Con "Destino" si torna a esplorare territori oscuri di punk sperimentale: buona la ritmica (ma tenete presente che la produzione Lo-Fi ne penalizza notevolmente l'acustica) che esalta costantemente la pulsione del basso, a discapito delle chitarre; eccellente ancora una volta la prova vocale, che sembra tenere a galla le velleità artistico-sperimentali degli O.N.O.B. "Anima Sbagliata" è un mattone di oltre 10 minuti che ci trascina in ambientazioni da film horror, che per certi versi mi hanno evocato alcune cose proprio di quei Thee Maldoror Kollective che avevamo citato inizialmente e del loro ultimo 'Knownothingism', complice la voce irrazionalmente espressiva della frontwoman, che ci accompagna fino a un certo punto, prima di abbandonarci in sonorità lisergico-catartiche davvero ispirate, che sfoceranno addirittura in un assolo dalle tinte psych rock. Il disco ha ancora modo di offrirci altre piccole chicche: dal noise rock di "Agli Occhi degli Uomini" alla più sghemba "Ombre", che chiuderà il disco, passando attraverso la seconda cover del disco, la più normale e rockeggiante "Diversa", a firma The Underground Frogs. Un disco quello degli O.N.O.B., in grado di esaltare la filosofia del DIY e farci potenzialmente ampliare nuovi confini della nostra mente. (Francesco Scarci)

giovedì 2 maggio 2024

Bloody Sound – Sound Bloody Sound

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La marchigiana Bloody Sound Record, per festeggiare i sui vent'anni di attività discografica in nome del più arcigno concetto "do it yourself", ha collezionato una raccolta di 14 tracce inedite estratte dai lavori dei tanti artisti del proprio rooster, passati nei corridoi sonori fin dal 2004, e inglobandoli in una raccolta molto interessante e intelligentemente confezionata, che porta il titolo mirato di 'Sound Bloody Sound', ovvero lo stesso della prima compilation fatta uscire appunto nel 2004, quando l'etichetta era ancora una fanzine. Calcolando il vasto territorio del suo patrimonio sonico, l'ambiente musicale trattato è alquanto variegato, e spazia dal punk alternativo dei Lleroy, per arrivare alle sperimentazioni dei Saturday Night Dengue. Da questa etichetta che conta uscite di artisti assai quotati, tra cui OvO, Fuzz Orchestra e Jesus Franco and the Drogas, salta fuori una compilation che si fa ascoltare con tanto interesse dal primo all'ultimo brano, passando per punk, alternative, afro jazz, hip hop contaminato, elettronica, ambient e avanguardia. Si parte con "Cilicio", brano esplosivo degli ottimi Lleroy, per continuare con un'altra bomba che scuoterà le folle, il brano "Borgobio" di Zolle, a cavallo tra l'alternative e quel modo di intendere il rock potente, in aggiunta al glam dei Turbonegro. Di seguito i già citati Saturday Night Dengue, sperimentali, quanto l'interessante canzone di Esseforte, tribali ed etnici i primi, hip hop dal suono singolare con influenze elettro jazz il secondo. Māyā ci parla con morbida verve psichedelica; psych più elettronica invece per la coppia Mattia Coletti/Marco Bernacchia in "Night Monk", più rumorosa a tratti la proposta dei Kaouenn, mentre più luminosa quella di Terenzio Tacchini in "Plein Air". Scansionando il tutto a settori musicali e non nell'ordine di scaletta del disco, si passa poi al lato più sperimentale d'ambiente, sulla falsa riga di soundtrack ispirate e visionarie, come quella di Loris Cericola ("Tutto Tondo" sarà uno dei miei brani preferiti) o l'inconfondibile stile chitarristico del noto musicista/produttore, Bruno Dorella con la sua strumentale, cupa e desertica interpretazione del brano "Ghost Wolf". Tonto presenta una canzone dal taglio elettrodub, peraltro bella coinvolgente ma la mia attenzione cade sulla bella traccia dei Sapore, che trovo deliziosa, dal canto stregato e dalla sua sonorità astratta, acida e ipnotica. Gli Heat Fandango ci regalano una bella performance, con la loro "Giro di Giostra", al limite tra '60s garage e rock italiano, assai godibile, che riporta l'ago della bilancia verso il rock più sanguigno e nervoso che si va a incanalare perfettamente a "Sea of Darkness" dei CUT, cult band bolognese in corsa nel circuito rock da parecchio tempo. Un elenco esteso ma dovuto per cercare di darvi un motivo valido per addentrarsi in una compilation di questo tipo, compito che molti ascoltatori stupidamente, saltano volentieri a piè pari. Il bello di questa collana di titoli, è proprio il gusto musicale che fa da filo conduttore, e si muove in perfetta sintonia tra brani molto diversi tra loro, riuscendo a tessere una trama credibile e di qualità, che aiuta l'ascoltatore ad appassionarsi al disco, traccia dopo traccia. La Bloody Sound ci ha fatto proprio un bel regalo per festeggiare i suoi primi vent'anni di musica alternativa, con la release peraltro disponibile in cassetta, cd deluxe handmade a tiratura limitata, e ovviamente in formato digitale. L'ascolto, a questo punto, direi che è doveroso. (Bob Stoner)

mercoledì 3 aprile 2024

Lato - Karisma

#PER CHI AMA: Indie Psych Rock
Onde d’acqua circostanziale. È "Soul of Blood". Un suono che si trasforma in concentrici cerchi vitali. Ed è improvviso quanto imperante l’incipit dell’album, con quel graffio di elettricità strumentale a breve trasformata in una risacca cantata. Se amate l’acqua pura e i suoi abissi incantati, addentratevi in questo mare apparentemente calmo. Questa prima song dei milanesi Lato parte con la sinuosità dell’acqua che preda sia l’ascolto che l’empatia distorsionale del cantato. Muoviamoci poi verso "Certainty and Disenchantment", secondo pezzo incluso in questo 'Karisma' (che dovrebbe essere anche il secondo disco per la band italica). Stride l’esordio del brano. Picchia forte. Graffia gole arse. E poi inizia quel cantato che scalda improvvisamente. Direi una versione futurista di Jonny Cash, ma senza le tipiche inflessioni country. Il pop si mescola in una disillusione dell’attesa. Funziona bene. Anzi molto bene. E mi ritrovo trepidante. La terza traccia sarà diffratta dalle precedenti? A voi "Millions of Us", che non risparmia l’usura delle corde metalliche in un riff piuttosto accattivante, reiterato, ricco di mordente. Il fondo del brano è sempre mosso, come sballato sistematicamente da sonorità etnico percussionali, morbide. Entra il pop della voce, ma anche quello che credo sia uno stralunato sax. Non posso fare a meno di sentire rimembranze anni '90. Per una attimo sono tornata agli U2 e alla loro "Achtung Baby", ma ne siamo comunque lontani. Approvato il presente nel passato. Ma veniamo al momento oscuro del disco con "Stars Spangling". Un treno d’altri tempi sbuffa ritmicamente. E poi arriva alla stazione dolcemente. Il brano dondola in una bolla di zucchero. La voce accarezza lasciando piccole ferite tra pelle e anima. Il ritornello vorrebbe spaziare, ma accompagna. In quattro parole. Una song piacevolmente sospirante. Spezziamo la malinconica dolcezza con "Triangular". Si, perché questa song è distratta, ipnotica, e dal taglio alternativo. Posso farvela immaginare come una danza sinuosa, a tratti spinta, ma mossa da abbandono e utopia. Una traccia per dimenticarsi di se stessi, ascoltandola e riascoltandola. Elettronica, strusciante, digitale. Parte la robotica "Hole in My Head". Solo il cantato ci fa aggrappare alla realtà, mentre la base ritmica potrebbe collegarci a un gioco della Playstation. Ascoltiamo poi la robusta "Diamonds". Torna un indie pop, spaccato a metà strada tra gli Oasis e quel post punk da pub underground londinese, ove ballare e isolarsi dalla realtà, e null'altro. Arriviamo al penultimo pezzo con "Deep". La traccia parte da lontano con una lunga e tiepida carezza, e prosegue in pallide nuvole senza pioggia. È cupa, eppure non porta pioggia. È vento, eppure le foglie sono immobili. È malinconicamente emozionante eppure invisibile in un sospiro in cui la si può solo sentire, ma non vedere. Un climax emozionale in cui è la voce a guidarci nel buio. Chiudiamo l’ascolto di 'Karisma' con "Dancing with Decadence". Armonica e la voce suadente del frontman. Nostalgia e consapevolezza. Stile e coraggio. Avvolgente e caratterizzante questo album. Un incontro di suoni e voci che spezzano, accarezzano, avvolgono, sfiorano, giocano con noi. (Silvia Comencini)

martedì 19 marzo 2024

Above The Tree & Drum Ensemble Du Beat - Afrolulu

#PER CHI AMA: Psych/Noise/Indie
Quanto di nuovo ci sia in questo secondo album degli Above The Tree & Drum Ensemble Du Beat, album che arriva esattamente dieci anni dopo al loro debutto, lo lascio al libero arbitrio degli ascoltatori. Il fatto che sia un buon disco non lo metto nemmeno in dubbio, d'altra parte la band è composta da musicisti navigati ed esperti, ma trovo che gli manchi qualcosa per aprire una breccia nei cuori del pubblico contemporaneo, non per sua mancanza propria, ma perché penso che questo tipo di sound sia tanto nostalgico e di rimando ai concetti sonori che animavano a suo tempo, i Banco de Gaia, che oggi per i più, potrebbe risultare purtroppo poco attraente. L'intuizione di un suono analogico con il sodalizio tra vibrazioni retrò e psych, che ricordano alcune pagine scritte ai tempi d'oro della musica afrobeat degli anni '70, saranno apprezzate solo da persone esperte in quest'ambito musicale, e da chi come me, ama riscoprire questo tipo di sonorità. Analizzandone il lato più sperimentale dei brani, ci rendiamo conto che 'Afrolulu' gode e soffre delle stesse virtù del suo suono, lasciandoci stupiti per quei suoi ritmi e canti rituali tipici del continente sub-sahariano, condito da percussioni e riverberi che possono ancora destare qualche sorta di effetto sulla nostra conoscenza musicale, dopo la scomparsa della prima ondata della musica trance, quella più ipnotica e cerebrale, quella che mostrava ancora segni di intelligenza. Quindi i brani "Bufalo" e "Lagos", giocano facilmente la carta etnica e nostalgica, mentre "Talker X" si abbandona al flusso d'ispirazione lavorando sulla falsariga di cose apparse sullo splendido album 'Deceit' dei This Heat, mentre "Fc Lampedusa", e infine "Sabbie", si espongono a un suono più sperimentale, che se godesse del potere di certo Hi-Fi, potrebbe gareggiare con le uscite "high-tech" della Ultimae Records. Un disco quindi cerebrale che al primo ascolto risulta ostico, ma che a un ascolto più approfondito, mostra una saggezza psichedelica fuori dal comune e anche aspetti krautrock in più occasioni. Un album liturgico nel segno di 'Freeform Flutes & Fading Tibetans' dei già citati Banco de Gaia, per un bagno ipnotico, suoni familiari, e costruzioni che si dissetano nel mare del già conosciuto e sentito, ma che sprigionano nell'ascoltatore un cosmo di allucinogene fughe dalla realtà, un allargamento sonico della propria percezione temporale. Un viaggio sonoro in un mondo primordiale immaginario, a cui vale la pena partecipare, costellato di mille rimandi, dai campionamenti vocali delle voci di Malcom X e Martin Luther King, fino ad arrivare ai canti tradizionali africani. Musica fatta con un cuore d'altri tempi. (Bob Stoner)

venerdì 8 marzo 2024

Monoscopes - Endcyclopedia

#PER CHI AMA: Psych Rock
Devo ammettere che mi sono sempre piaciute queste band ispirate dalla neo psichedelia, e il loro rifarsi, come nel caso dei Monoscopes, alla musica dei La's, è un toccasana. Quel modo di fare arte, tipico di questo genere musicale, di essere omogenei e coerenti con la propria musica, col rischio di risultare costantemente fuori moda, anche quando negli anni '90, le band potevano vantarsi di un buon seguito e il look e il taglio di capelli alla Tim Burgess, era trendy per i teenagers più scaltri di allora. Non griderò al miracolo per questa nuova band patavina, che per i miei gusti personali, rimane sempre un po' troppo alla larga dall'essere sonica e lisergica in maniera pesante, ma non posso negare che riesca a creare degli ottimi brani, cantabili e cristallini, e ben confezionati, con gusto e capacità, ripercorrendo le terre della neo psichedelia virata al pop d'autore e al folk. Poco contano le relazioni con Travis o in ambito folk rock, ai Camper Van Beethoven al netto del violino, o come dicono loro stessi, con il lato più morbido dei Velvet Underground, i Monoscopes, non tradiscono chi cerca questo tipo di sound, morbido e luminoso, contornato anche dai due bei video psichedelici di "Hey Atlas" e "The Electric Muse", usati per il lancio di questo nuovo disco. Per cercare di descrivere l'opera dei Monoscopes, aggiungerei un tocco della scena psych australiana con echi lontani alla The Dream Syndicate, un'andatura sempre moderata delle composizioni, con poche e controllate deflagrazioni soniche, nello stile dei The Third Sound, e una linea costante di rock evoluto e maturo. Se mi è concessa una critica, direi che l'approccio così soft del cantato, in alcune parti andava trattato con una mano più pesante a livello di effetti, per renderlo più interstellare: è il caso di "The Maker", dove la voce mi sembra troppo normale nei confronti delle incursioni di chitarra noise presenti nel brano, mentre in "This Silly Night", dove un leggero effetto eco si rivela ideale, per rendere una ballata standard, in una passeggiata lunare di scuola Mercury Rev. Questo è solo un punto di vista di un eterno innamorato dei suoni lisergici, e non cambia la mia idea sul fatto che 'Endcyclopedia', sia a tutti gli effetti un buon album, ricordando peraltro l'importante partecipazione di Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione, di Francesco Candura dei Jennifer Gentle e di Paolo Mioni al basso in "Today Today Today". Nota di merito per "It's a Shame About You", che sembra un brano tra Swirlies e Weezer d'annata, con quel superbo tocco garage, vintage e retrò, proprio una splendida canzone. La ballata "The Thinghs That You Want to Hide", con appunto Cerasuolo come ospite, risente chiaramente della sua influenza, ha la luminosità e il fascino del sole in una giornata d'inverno, per una canzone che ti obbliga a dilatare le pupille verso l'infinito, mentre la conclusiva "Today Today Today", riporta l'orecchiabilità e il suono del paisley underground all'attenzione delle masse. "You're Gonna Be Mine", rilasciando una formula di suono più corposo e saturo di distorsione e reverberi, rimanda piacevolmente il mio udito ai gloriosi fasti dei mai dimenticati The Wedding Present, per un'altra affascinante emozione sonora. Disco da scoprire nei suoi sofisticati rimandi, nei suoi tanti cunicoli musicali nascosti. Vietato fermarsi al primo ascolto e da evitare l'ascolto a basso volume. (Bob Stoner)

(Big Black Car Records - 2024)
Voto: 74

https://monoscopes.bandcamp.com/album/endcyclopedia

martedì 6 febbraio 2024

The Cosmic Gospel - Cosmic Songs For Reptiles In Love

#PER CHI AMA: Psichedelia/Indie Rock
Nel valutare il primo full length dei The Cosmic Gospel, mi sono trovato in difficoltà, per la difficoltà nel dargli una giusta collocazione. Si tratta infatti di un album pieno di belle sonorità, ricercate con dedizione nei cassetti della psichedelia del passato, ma le derivazioni sonore, per quanto efficaci e rieducate a dovere in ambientazioni più moderne, di scuola lo-fi, non lasciano molto spazio a un'autentica originalità. L'amore per i The Beatles più allucinati è palese, basti ascoltare "The Richest Guy On The Planet Is My Best Friend", e in parallelo esiste anche una certa devozione, come annunciato dal polistrumentista di Macerata, unico responsabile del progetto, per Damon Albarn, Beck e Donovan, con il sound cosmico di "Hurdy Gurdy Man" e quella velata felicità dai toni pacati, a tratti malinconici, coperti da una finta spensieratezza esistenziale, tipica dei '60s o dell'album 'Odelay' del già citato Beck. Questo approccio in stile power flower, dona a giusta ragione, un'immagine d'artista completo, e mette in evidenza un amore viscerale per un certo tipo di psichedelia, fino a renderlo, anche se solo sporadicamente, ossessivo. Il musicista italico trova quindi sfogo tramite questi otto brani solari, dal taglio psych folk, ipnotici e molto space rock oriented, creando cosi un album colorato, curato e ben confezionato, quasi perfetto, che nel suono dei synth di "Core Memory Unlocked", oppure in quello di "Hot Car Song", trova la sua collocazione ideale. Il disco è interessante e vivace, eppure soffre del fatto che in taluni frangenti, sembra incombere il pericolo di ricordare in qualche pezzo, altri artisti o composizioni famose. Questo non è un male assoluto ma crea nel sottoscritto un certo sconcerto, un dubbio atroce sul come giudicare quest'opera, se un capolavoro o una normale buona replica di musica del passato. Quello dei The Cosmic Gospel è sicuramente un buon progetto che lavora al di sopra della media dando vita a una musica surreale, pop e dal gusto vintage, avvalendosi peraltro di nuove e moderne tecnologie di registrazione, con eccellenti esiti di produzione, e sono sicuro che il passo futuro sarà ancora più articolato e personalizzato, in un ambiente non certo facile come quello della psichedelia. Mi piace il coraggio della proposta di questo musicista che impugna i The Beatles come gli EELS, cercando di fonderli assieme e lo immagino proiettato nel raggiungere il cosmo, inspiegabile e floreale, del genio di Julian Cope, magari sulla scia del suo ultimo album 'Robin Hood', dello scorso anno. Un disco da assaporare lentamente, sposandone l'ottica derivativa ma anche assaporandone le sfumature di colore e luce che vi sono nascoste tra le note delle sue composizioni. Un album che ha dei centri di gravità permanenti molto definiti ma al tempo stesso ben rimescolati tra loro, per un consigliato, gradevole ascolto, ovviamente al limite dell'allucinogeno. (Bob Stoner)

sabato 16 dicembre 2023

Vokonis - Exist Within Light

#PER CHI AMA: Stoner/Psych Rock
Un po' di sano stoner con gli svedesi Vokonis che con 'Exist Within Light', ci stanno fondamentalmente dicendo di metterci comodi, che dopo le tre canzoni di questo EP, arriveranno anche quelle di un nuovo quinto lavoro, che verosimilmente uscirà nel 2024. E allora godiamoci il sofferto esempio di stoner doom dei nostri, che si arricchisce qui di ulteriori influenze. L'iniziale "Houndstooth", oltre ad evocarmi un che dei primi Baroness/Mastodon, mostra una prepotente ritmica rabbiosa nella sua seconda parte che va a braccetto con le growling vocals della gentil donzella Simona Ohlsson, che nella parte più pulita sembrerebbe in realtà un uomo, mah. Comunque, la proposta dei nostri si fa ancor più obliqua, e dalle venature progressive nella seconda "Revengeful", che oltre a mostrare ritmiche poco lineari, si conferma super sghemba anche nella componente solistica. Il suono per quanto più caustico e forse più difficile da digerire, sottolinea la progressione sonora dei nostri, dovuta anche ai vari cambi di line-up. Ma il terremoto in casa Vokonis non sembra aver minato le qualità del quartetto di Borås. In chiusura, la lunga title track mostra il lato più psichedelico dei nostri (anche a livello vocale), che mantiene comunque ancorati i capisaldi ritmici nello stoner, per una performance soddisfacente che potrebbe addirittura portare nuovi fan alla band scandinava. Ora non ci resta che attendere i nuovi sviluppi con l'iiminente Lp. (Francesco Scarci)

(Majestic Mountain Records - 2023)
Voto: 70
 

martedì 28 novembre 2023

Turangalila - Lazarus Taxa

#PER CHI AMA: Psych/Post Metal
Li avevo recensiti un paio di anni fa con quel sorprendente 'Cargo Cult', che delineava una band in preda a psichedelici slanci math/post rock. Li ritrovo oggi con un nuovo lavoro, 'Lazarus Taxa', e una maturità artistica rinnovata che sottolinea l'eccellente stato di forma della band barese. Dieci nuove tracce quindi per assaporare ancora quell'irrequietezza di fondo che permea il sound del quartetto pugliese, che si materializza immediatamente con le soffuse ma granitiche melodie shoegaze dell'introduttiva "Wow! Signal", un pezzo che in un qualche modo, sembra evocare quel post metal che avevo descritto nell'ultima "Die Anderen" del precedente album. Un pezzo timido che lascerà ben presto il posto a "Neopsy" e a una ritmica potente ma forte di una linea melodica più dinamica e coinvolgente, che si muove comunque in un'alternanza tra sonorità più fluide e altre più oblique che giocano, non poco, a disorientare l'ascoltatore. Effetto quanto mai recepito durante il mio personale ascolto di questa song, cosi incisiva e ipnotica, e convincente soprattutto a livello vocale. Soffice invece l'approccio offerto in apertura della spettrale "Ugo", dove un senso onirico perdura fino a quando i nostri non decidono di aumentare il numero dei giri, in una strategia musicale che vede una successione ritmica tra atmosfere più pacate e altre più movimentate, dove peraltro a palesarsi, c'è anche una sezione d'archi. Suggestiva non c'è che dire, anche nella porzione più rabbiosa nel finale che ci introduce alla più nevrotica "P38", traccia che si muove tra ritmiche sincopate e vocals eteree, altro effetto che potrebbe essere confondente a chi approccia la band per la prima volta. Ma questo è ciò che vogliono trasmettere i Turangalila, ne sono certo: in "Antonio, Ragazzo Delfino" la band ci scuote con una ritmica di tooliana memoria, anche se ad un certo punto (verso il terzo minuto), il sound diviene più lisergico nelle sue deliranti e ossessive linee di chitarra. Ancora tanta sofficità nelle note sognanti della title track, almeno fino a metà brano, quanto farà capolino l'asprezza delle chitarre che per 50 secondi ringhiano come lupi inferociti, ma che successivamente ci accompagneranno in incorporee atmosfere ultra sensoriali. "Reverie" è una schiva (e stranita) strumentale traccia arpeggiata che tuttavia sembra cullarci in modo psicotico, prima di un'altra breve song, "A Pilot With No Eyes", che sembra lontanamente odorare di un che dei Neurosis più sognanti. Lo sludge più torbido e melmoso di questi ultimi si fa più evidente nelle note di "To The Boy Who Sought Freedom, Goodbye", costituita da atmosfere dense e dilatate al tempo stesso, esplosioni convulsive e spasmodiche e rallentamenti angoscianti, che la innalzano quale brano più strutturato del lotto e anche mio preferito, e dove, i vocalizzi del frontman abbandonano la componente shoegaze per abbracciare quella più pulita e profonda del buon Scott Kelly. A chiudere ci pensa un ultimo buffetto sul viso, ossia le delicate note strumentali (con tanto di malinconico sax) di "Jisei" che fissa nuovi ed elevati standard artistici per i Turangalila. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2023)
Voto: 78

https://turangalila.bandcamp.com/album/lazarus-taxa

domenica 19 novembre 2023

The Spacelords - Nectar of the Gods

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Eccomi di nuovo a recensire gli space rockers teutonici The Spacelords, quelli che prima di scrivere un nuovo disco, devono assumere un bel po' di funghetti allucinogeni (quelli in copertina tanto per capirci) accompagnati in sottofondo da una "Light My Fire" qualunque dei Doors, senza tuttavia rinunciare anche ai dettami dei Tool e forse di qualche altra combriccola del sottobosco kraut rock. Ecco, in pochi spiccioli come recensirei questa nuova fatica del trio di Reutlingen, che rispetto alle precedenti release, si affida questa volta a quattro nuove tracce, anziché le consuete tre. 'Nectar of the Gods' apre con il basso tonante della title track, in un déjà-vu di tooliana memoria per poi stordirci con melodie caleidoscopiche che potrebbero fare da colonna sonora all'Holi Festival in India, in un tripudio di colori cangianti atti a celebrare la psichedelia offerta dal terzetto. Molto più cauta e timida, "Endorphine High" si muove nei meandri di un ipnotico post rock in salsa psych progressive, tra delay chitarristici ed atmosfere dilatate ma comunque soffuse, che con un bel narghilè e sostanze proibite a portata di mano, potrebbero stimolare ampiamente i vostri sensi. Se ci mettete poi che le durate dei brani oscillano tra i nove e i 14 minuti, beh preparatevi ad affrontare uno di quei trip che vi lascia schiantati sul divano. Un trip come quello che inizia con la terza e tribale "Mindscape", tra percussioni etniche e fascinazioni oniriche, a cui fa seguito un riffing di Black Sabbath (iana) memoria, tra stoner, montagne di groove rilasciate dal rincorrersi delle chitarre, saliscendi emozionali che servono a rendere la proposta il più appetibile possibile, senza correre il rischio di sfracassarsi le palle nell'ascoltare questi pachidermici pezzi. E invece, i The Spacelords ci impongono di mantenere costantemente la guardia alta, di settarsi armonicamente con i loro viaggi atemporali, in turbinii sonici e cosmici davvero apprezzabili. Ma questo non lo scopriamo di certo oggi, visto la maturità ormai acquisita dal terzetto germanico nei quindici anni di onoratissima carriera. Carriera che oggi vanno a celebrare con l'ultima "Lost Sounds of Lemuria", una maratona di 14.14 minuti che parte cupa, pink floydiana nei suoi tratti cosi educati, tra chitarre riverberate, atmosfere sognanti di settantiana memoria, e un organo che chiama in causa il buon Ray Manzarek, in una progressione sonora che di fatto, ci indurrà fino al suo epilogo ad ascoltare in religioso silenzio. Ancora una volta, obiettivo centrato. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2023)
Voto: 75