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sabato 25 maggio 2019

I Feel Like A Bombed Cathedral - Rec.Requiem

#PER CHI AMA: Ambient/Drone
La memoria ritorna al testo di una vecchia canzone dei Massimo Volume che mi aveva sempre fatto riflettere: "...mi sento come il tetto di una chiesa bombardata..." e più o meno il moniker di questo nuovo progetto solista dell'implacabile mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, esprime, a mio avviso, lo stesso concetto di stordimento emotivo di fronte ad un mondo moderno, divenuto oramai inconcepibile per gli uomini che cercano di vivere sotto la stella sacra della ragione e della libertà. L'artista francese si rimette in pista e fa uscire questo nuovo album, 'Rec.Requiem', sotto il moniker I Feel Like A Bombed Cathedral. Si tratta di un lavoro perfettamente in linea con i clichè della label italiana, Dio)))Drone, ossia drone music a caduta ottenuta da sperimentazioni musicali ed effetti chitarristici in gran quantità, con qualche leggera impronta ritmica a servire la cascata sonica ideale. Quattro brani mirati, lanciati a medio/lungo raggio, tra gli 8 e i 15 minuti, centrano in pieno la cattedrale delle emozioni, lacerandola, rovinando il suo essere arte, rendendola storpia e brutta, priva della sua entità storica e divina, azzerandone il suo stato di monumento ancestrale, lasciando un vuoto, una lacuna interiore che si riflette benissimo con il titolo doloroso del disco. I primi due brani volano sul ricordo del noise più catartico, come se ascoltassimo 'Metalmusicmachine', cambiandone le coordinate al nero, virando il magma sonico in una salsa più nera e immersa nel sentore sacro e misterioso tipico delle chiese monumentali, mastodontiche e spettrali. Per il brano "Req.", l'atmosfera cambia e sulle note lente, profonde e scandite di un battito ritmico potente e cadenzato, ci sembra quasi di assistere al momento esatto del bombardamento, con i fraseggi, le sperimentazioni e i giochi di chitarra che giostrano le immagini sonore delle esplosioni. Il lutto è compiuto con la docile chitarra eterea e ipnotica di "Rev.", dove Mr. Cambuzat richiama la sua migliore parte interiore e si riappropria in solitudine delle splendide atmosfere post-rock tipiche del suo repertorio, provando a farci sognare per chiudere un drammatico ricordo, e iniziare una ricostruzione difficile, segnata dal dolore. Musica d'ambiente visionaria, dove lo stile e la classe di Cambuzat emergono per diletto, sensibilità e gusto, una capacità innata di creare un film sonoro di qualità e spessore artistico. Nuovo progetto, consolidata bravura. (Bob Stoner)

venerdì 24 maggio 2019

Saturnus Terrorism - Pamphlet

#PER CHI AMA: Death/Black
Borgogna, terra di grandi vini e splendidi castelli, ma anche luogo d'origine di questi Saturnus Terrorism (S.T.), duo che ingloba Dies, membro di Malevolentia e Einsicht, e l'ex Grisâtre Païard le Ferré. La musica offerta dai S.T., in questo debut dal titolo 'Pamphlet', riflette in un qualche modo, quanto proposto dalle band madri dei due terroristi sonori, propinandoci un black melodico che vive di guizzi di ferocia inaudita, ma anche di melodie al contempo sinistre e malinconiche. Questo almeno quanto testimoniato in "Division Mysticisme", la lunga traccia che segue l'intro del disco. Una rasoiata inaudita, un black corrosivo, distorto e dissonante, come solo in Francia sanno concepire. Le eminenze del black transalpino convergono nei suoni disarmonici di questo lavoro, ma nella sua espressione musicale, mi sembra di scorgere anche echi di un black metal norvegese di vecchia data, e penso ai primissimi Emperor. Il sound è comunque gelido e ostile. "Il Faut Obéir à la Nuit" è una lunga song black, nel cui pattern vi si trovano echi di epicità sorretti dallo scarno lavoro alle tastiere. La traccia è comunque tagliente, le ritmiche nella sua parte centrale, serratissime, le grim vocals producono un certo pathos, ma quelle declamate sono più evocative, le preferisco. Interessante l'evoluzione della song verso un mid-tempo decisamente più ragionato e lontano dalla violenta brutalità della prima parte, che ritornerà però in chiusura. "Le Philosophe aux Poignards" è uno stralunato esempio di black metal; i riff si confermano glaciali, cosi come le vocals infernali del frontman sembrano provenire direttamente dall'aldilà. L'episodio migliore del disco arriva però a mio avviso con le ritmiche sbilenche di "La Garde d'Acier", che vede in background oscure melodie che hanno una drammaticità paragonabile a certe cose suonate col violino dai Ne Obliviscaris, un tema da sviluppare maggiormente in future release. Assai particolare anche la componente più doomish della song che insieme alle funamboliche scariche death black, la rendono più completa rispetto alle altre. Con le due parti di "La Rhétorique de la Terre" si continua a mantenere ritmi sostenuti in un contesto costantemente spigoloso, sebbene compaiano delle infiltrazioni orchestrali che ne rendono l'ascolto un filo più accessibile. Alla fine quello dei S.T. è un esordio più che dignitoso, dove avrei dato più spazio ad alcune aperture melodiche o a più parti atmosferiche, piuttosto che provare a stordire l'ascoltatore con soluzioni a tratti eccessivamente martellanti. C'è comunque ampio spazio di manovra e crescita per il terrorismo venuto da Saturno. (Francesco Scarci)

(Epictural Prod - 2019)
Voto: 67

https://saturnusterrorism.bandcamp.com/releases

J'ai Si Froid - Loin des Hommes

#PER CHI AMA: Depressive Black Metal, Burzum, Paysage D’Hiver
Da non confondere con l'omonimo film con Viggo Mortensen, 'Loin des Hommes' rappresenta la terza fatica della one-man-band francese J'ai Si Froid. L'act, guidato dal factotum Brouillard, e forte della collaborazione con la Transcendance, ha da offrirci sette tracce (che includono duo pezzi strumentali) di emozionale e atmosferico black metal. Questo probabilmente si evince anche dalla suggestiva cover cd che lascia presagire da quelle montagne all'orizzonte, il senso di solitudine che vivremo durante l'ascolto del disco. Un album, che dopo l'arpeggiata intro, irrompe con "La Débâcle" ed una proposta di depressive black metal, con tanto di strazianti melodie costruite da compassate e ronzanti chitarre ritmiche su cui poggiano i vagiti disperati del mastermind transalpino in un viaggio di 12 minuti, in cui vi ritroverete anche voi come accaduto al sottoscritto, a pensare a qualunque cosa, contemplando il grigiore del cielo. Non solo suoni emozionali però nei lunghi minuti di questa song, ma anche furiose accelerazioni black, in cui ad essere penalizzata è la componente strumentale legata alla batteria, troppo secca e artificiale nel suo asettico programming sintetico. A ciò dobbiamo aggiungere una registrazione globale non proprio al top, forse legata agli stilemi imposti dal genere. Se i dodici minuti iniziali mi sembravano un po' eccessivi, i 13 prima di "Endurer pour Éprouver la Candeur" e i 16 di "Valse Mélancolique" poi, rappresentano uno sforzo notevole da affrontare, visto che a fronte di un approccio di "burzumiana" memoria, l'artista francese ha poco di nuovo e vario da offrire all'audience, se non un notevolissimo break melodico nella seconda parte della prima traccia, dai forti richiami classicheggianti. Poi un nuovo roboante attacco black che questa volta mi ha ricordato i Windir. Se l'incipit di "Valse Mélancolique" sembra più una suoneria del cellulare, la sua evoluzione invece è un black tiratissimo, saltuariamente epico e assai melodico, in cui però accade che si perdano i contorni degli strumenti, offuscati da quella marcescente registrazione low-fi che citavo poc'anzi. Un intermezzo acustico e arriviamo a "L'Espoir est le Dernier à Crever" il penultimo glaciale atto di 'Loin des Hommes', che riflette esattamente lo spirito distaccato, intimista, a tratti misantropico, del polistrumentista francese. "Le Rappel des Plaines" chiude il lavoro con poche variazioni al tema, concludendo proprio come si era aperto questo viaggio spirituale, ossia con un oscuro e malinconico black metal. Un lavoro più che sufficiente, che necessita di una ripulita generale per potersi aprire a platee più ampie, partendo da una pulizia dei suoni, una maggior umanità nelle linee di batteria, e meno derive musicali ampiamente già sentite sino ad oggi. (Francesco Scarci)

Oldd Wvrms - Codex Tenebris

#PER CHI AMA: Instrumental Sludge/Doom
Con una copertina che potrebbe evocare i polacchi Batushka e il loro esoteric black metal, ecco arrivare dal Belgio gli Oldd Wvrms, fieri incantatori di serpenti con uno sludge doom strumentale a dir poco malefico. 'Codex Tenebris' è il loro terzo lavoro ed include cinque lunghissime e claustrofobiche tracce, per ben 54 minuti di musica, non certo una passeggiata quando si tratta di musica senza una voce a guidarla. E allora caliamoci negli abissi con l'opener "Ténèbres" e i suoi oltre 10 min di suoni pesanti ed appestati, in un paio di occasioni anche eterei, ma sempre scanditi da una ritmica lenta e ipnotica, ove ahimè, mi duole dirlo, manca proprio una componente vocale che ne esalterebbe certamente il risultato finale. Niente da fare però, gustiamoci il disco cosi come viene, ascoltando la più abrasiva "A l'Or, Aux Ombres et Aux Abîmes", borderline tra black e doom, con intermezzi atmosferici di innegabile interesse ed una componente chitarristica che assai spesso sfocia nel post metal. Il disco è intrigante, non v'è ombra di dubbio, ma complice una durata importante dei brani e la conclamata assenza di un frontman dietro al microfono, rendono la digestione del disco davvero ostica se non accompagnata da un malox in compresse al bisogno. Il sound è lento, strisciante, angosciante; fortuna nostra arriva una song più carica di groove com'è "Misère & Corde" che nel suo riff portante ammicca agli Isis, prima di ingrossarsi maggiormente, dare un'accelerata alla ritmica per poi tornare a rallentare ed instillare successivamente stati di alterazione della psiche in un altro break dal forte sapore oscuro ma pur sempre melodico. Gli incubi indotti dal trio belga proseguono in "La Vallée des Tombes", una song più doom oriented rispetto alle altre che in questo caso mi ha evocato invece a livello ritmico, i primi vagiti di My Dying Bride e Anathema, con la sola differenza legata all'assenza di un growl profondissimo a declamare anche sole poche parole, capaci di dare ancor più potenza al disco. Dopo undici minuti, in cui la band si affaccia anche su lidi non propriamente death doom (ascoltatevi gli ultimi quattro minuti per capire), si arriva al gran finale ove ad attenderci rimane la sola "Fléau est son Àme" ed i suoi interminabili 15 minuti. La song ha un approccio vicino all'ambient e la sua crescita risulta assai diluita nel corso dei primi 600 secondi che vedono la band muoversi con cautela alla ricerca di uno strappo vincente, in un caustico finale che ci conduce fino al capolinea di questo 'Codex Tenebris', un disco affascinante quanto complicato da affrontare, se non con le dovute precauzioni, uno spassionato consiglio per evitare spiacevoli affanni. (Francesco Scarci)
(Cursed Monk Records - 2019)
Voto: 72

https://olddwvrms.bandcamp.com/album/codex-tenebris

giovedì 23 maggio 2019

Stoner Kebab - Everything Fades to White

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Stoner
Abbiamo dovuto attendere sei lunghi anni, ma finalmente è giunto il momento di far godere i nostri lombi con il nuovo frutto offerto dal quartetto pratese, tutto con la benedizione della Santa Valvola Records. Nulla sembra essere cambiato, o per lo meno, la simbologia tanto amata dagli Stoner Kebab si ripercuote sin dall'artwork che vede in copertina un monolite simil '2001:Odissea nello Spazio', simpaticamente battezzato da dello sperma. Nel cielo invece si erge un pianeta che simboleggia un ovulo che sta per essere attaccato da un'orda di spermatozoi affamati, a coronare il titolo del nuovo album che riconduce il tutto al richiamo della natura. Otto brani per riprendere là dove la band ci aveva lasciato, ovvero l'album 'Simon' e la sua ironica vena satanica (ricordate il pentagramma a tutta copertina?) con l'inconfondibile sound traboccante di fuzz e riff granitici. "Virgo", l'opening track, parte di slancio con chitarre giganti impreziosite dall'effetto psichedelico per antonomasia, ovvero il phaser che avvolge le distorsioni come un volo a spirale in caduta libera verso lo spazio in cerca di forme di vita fertili. Il cantato è aggressivo ed offuscato da un pesante riverbero lo-fi in stile Electric Wizard, mentre la comparsa del sintetizzatore nel break strumentale ci fa intendere che il quartetto toscano ha voluto espandere le proprie sonorità. Il brano va verso la chiusura con un crescendo psichedelico, cambi di ritmo ed infine il ritorno alla strofa e ritornello che ci hanno schiantato nei primi secondi di ascolto. La goliardia degli Stoner Kebab è solo pari alla loro bravura, per questo mi ricordano i Red Fang che come loro hanno scelto la strada dell'autoironia che in un ambiente underground come lo stoner, manca quasi totalmente. "Everything Fades to White" ci porta in una dimensione metafisica grazie alla chitarra acustica e le percussioni che creano una trama dalle sfumature mediorientali, mentre nel retro cranio si percepisce un flebile synth che amalgama il tutto. Un brano strumentale primordiale, intimo e che arriva diretto al nostro cervello sempre più sovraccarico di stimoli, un toccasana per una lunga sessione di yoga sessuale come pratica(va) il buon Sting. Ma i vecchi casinisti non cambiano ed ecco che "For Demonstration Purposes Only" ci riporta alle origini con una traccia arrogantemente grezza, sporca e assolutamente sconsigliata agli hipster con i risvoltini. Il cantato è sempre stato un elemento di riconoscimento degli Stoner Kebab, infatti le voci s'intrecciano e si sovrappongono con maestria sopra ad una composizione musicale sempre ben fatta. Le influenze date dal corollario Black Sabbath e affini, è talmente ovvia che non va neppure menzionata, stop. Un brano lungo, complesso che abbraccia il genere e lo arricchisce con i suoni e lo stile che ha sempre caratterizzato gli Stoner Kebab in questa lunga carriera che da circa vent'anni li porta ancora a calcare i palchi di tutta Italia. Chiudiamo con "To See Coming Inside From the Inside", la canzone forse più oscura di questo quinto lavoro, dove le accelerazione prog sono state messe da parte per farci immergere in una pozza oleosa in cui è difficile addirittura arrancare e si ha solo voglia di farsi trascinare giù nel profondo. Le atmosfere doom vengono spezzate a metà dal break con protagonista il tampura (uno strumento a corde indiano) che alleggerisce l'esecuzione strumentale donandoci un momento di rilassamento emozionale. Una vera sessione psichedelica in stile '70s che ci fa desiderare un integratore a base di sativa. Ovviamente il cerchio dei dannati riprende il suo lento incedere, mentre il cantato si ripete come un mantra e ci porta alla fine del brano che chiude in fade out. Un album bello, carico, complesso ed affascinante, a dimostrazione che gli Stoner Kebab sono vivi e minchia, spaccano i culi come se avessero vent'anni. Inchiniamoci davanti ad una delle band più longeve e brave della scena heavy italiana. Accaparratevi una copia fisica al più presto, leggende narrano che al suo interno ci sia un piccante e saporito regalo. (Michele Montanari)

Malclango - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock strumentale, Primus
“Due bassi e una batteria per denudare il math-rock fino a lasciarlo in mutande”. Questo il manifesto dell’anonimo trio strumentale romano (dal vivo, i Malclango indossano scimmie da gorilla e, a quanto sembra, nessuno sa davvero i loro nomi), che sforna un disco essenziale nei suoni ma molto intelligente dal punto di vista compositivo. Essenziale, ma non minimale: scordatevi la forma-canzone, scordatevi ritornelli da fischiettare o melodie catchy. I due bassi si muovono eclettici tra distorsioni e pulizia, tra accordi e soli, note e riff; imponente anche il lavoro ritmico, sempre preciso e mai troppo autoreferenziale. A colorare il risultato finale, campionature assortite tra versi di scimmie, battimano, vento che soffia, spezzoni di notiziario. Si passa senza indugio dalla velocità dispari di “Nimbus” alle ritmiche tribali di “Petricore”, dalle dissonanze di “Ostro” alla malinconia deviata di “Anatomia di un battibecco”, dalla rabbiosa “GranBurrasca” alla saltellante “Sant’Elmo”. Ci vuole un attimo a trasformare tanta varietà e libertà compositiva in un prodotto freddo e studiato a tavolino. Ma non è il caso dei Malclango che, anzi, confezionano un vero disco rock: di un rock essenziale e primitivo (le tre scimmie nella tempesta, in copertina, la dicono lunga), che rompe le convenzioni e fluisce — non a caso: il tema dell’acqua e della pioggia è un leit-motiv trasversale a tutti i pezzi —, libero da strutture o ritmiche pari, libero da etichette di genere. È un lavoro che pesca contemporaneamente da Primus e Sonic Youth, Fluxus e jazz, primi Soul Coughing e dalla musica folk, destrutturando e ricomponendo tutto senza paura ma con molta, molta ironia.(Stefano Torregrossa)

(SubSound Records - 2017)
Voto: 74

Teverts/El Rojo - Southern Crossroads

#PER CHI AMA: Stoner/Psych Rock
Due band, due brani, venti minuti in tutto: questi gli ingredienti di 'Southern Crossroads', lo split degli italianissimi Teverts e El Rojo. I primi, con oltre dieci anni di attività alle spalle, aprono le danze con la spettacolare “Road To Awakeness”: oltre sette minuti di cavalcate stoner e psichedelia, dove il sound settantiano alla Hawkwind si unisce ai riff più contemporanei di Kyuss e soci. Il risultato è compatto, solido, costruito anche grazie alla lunga esperienza della band. A legare il tutto, lo splendido lavoro vocale di Phil, che passa con facilità dalle allucinanti melodie sussurrate a timbri più ruvidi e sostenuti. Memorabile il finale strumentale (dai sei minuti in avanti), con lunghe chitarre riverberate a colorare un perfetto riff di basso. Con “The Longest Ride” degli El Rojo (band di Cosenza alla seconda uscita ufficiale) ci muoviamo sostanzialmente lungo la medesima highway nel deserto. C’è meno psichedelia forse, e più colore alle ritmiche (ottimo il lavoro alle pelli). Completamente diverso il contributo vocale, qui più ispirato ai The Melvins che al gusto blues di Jon Garcia. “The Longest Ride" scorre ruvido e ossessivo fino alla prevedibile accelerazione intorno ai cinque minuti, che lascia sfogare la chitarra con un solo indovinatissimo. Non c’è nulla di davvero innovativo in nessuno dei due brani, intendiamoci: ma non avrebbe senso giudicare la personalità di una band ascoltandone solo 10 minuti scarsi. Aggiungete una produzione senza fronzoli — che però permette di entrare bene nei pezzi, senza essere né troppo fredda, né troppo sporca — e un design della copertina ad opera del sempre bravissimo SoloMacello, e non resta che chiedersi: quando arriveranno i due full-length? (Stefano Torregrossa)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 70

https://tevertselrojo.bandcamp.com/album/southern-crossroads

Serpents - Scongiuri

#PER CHI AMA: Ambient/Esoteric/Dark
I Serpents non sono una band usuale, e non è facile collegare la loro proposta con altre band esistenti, il che è davvero un sollievo, ogni tanto un po’ di personalità ci vuole. A ben guardare, potrei citare come somiglianza di intenti alcuni loschi figuri della scena underground come Petrolio, Sigillum S, Alos e Naresh Ran, tutti artisti che nel male ci sguazzano e che dell’ignoto si nutrono. La spinta esoterica del duo formato da Karyn Crisis e Luciano Lamanna è chiara ed è corroborata dalla capacità per niente scontata di trasmettere questa pulsione alla stregoneria in un ambiente tetro e macabro, rarefatto ma allo stesso tempo denso di atmosfera e di oscurità. La maestria nello stendere tappeti elettronici e nel decorarli con bisbigli, sospiri a tratti qualche vocaleggio spiritato, è la parte più interessante del progetto, non avrei mai pensato che con così pochi elementi si potesse costruire un’architettura così intensa e così emozionante. La sensazione è quella di star assistendo ad un rituale tra antichi stregoni neri dove un’innocente vergine viene sacrificata ed il suo sangue condiviso tra gli astanti che godono della visione delle gocce scarlatte che scendono sulla candida pelle della vittima. Se non mi credete provate a spegnere la luce ed ascoltare 'Scongiuri', c’è una buona probabilità che vi troverete a contemplare gli occhi infuocati di Lucifero. (Matteo Baldi)

(Bloodrock Records - 2019)
Voto: 78

https://lucianolamanna.bandcamp.com/album/scongiuri

The Pit Tips

Francesco Scarci

Elegy - Dead to a Dying World
The Elysian Fields - New World Misanthropia
Nocturnus AD - Paradox

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Matteo Baldi

LEDA - Memorie dal Futuro
Nadsat - Feral
Orsak:Oslo - S/t
 

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Alain González Artola

Seraph In Travail - Lest They Feed Upon Your Soul
Abnormality - Sociopathic Constructs
Garsdghastr - Slit Throat Requiem

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Shadowsofthesun

Gojira - L'Enfant Sauvage
Red Apollo - The Laurels Of Serenity

Altar of Plagues - Mammal

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Five_Nails

Chapel of Disease - ... and as We Have Seen the Storm, We Have Embraced the Eye
Waldgeflüster - Mondscheinsonaten
Bloody Heathen - Carnal Ruin

mercoledì 22 maggio 2019

Cambrian - Mobular

#PER CHI AMA: Sludge/Doom/Hawaiian
Superata la (opportunamente breve) sciocchezzuola introduttiva "Melt", una sorta di equivalente stoner del concetto di accordatura di chitarra, la successiva, straordinaria, "Seaweed Shaman" convoglia gli intenti del disco in un modo che potrebbe ricordare certe cose dei We Hunt Buffalo così come potrebbe non farlo. Una chitarra aeriforme voluttuosamente floydiana-sì-ma-rigorosamente-pre-darkside e una sezione ritmica visibilmente concrezionale. La dicotomia elementale così codificata è destinata a propagarsi per l'intero disco, seppure con tinteggi marcatamente gilmouriani (cfr-tate "Hooded Mantanaut" con "Sorrow" e "Embryo") o ancora più marcatamente gilmouriani ("Mobular" potrebbe sostituire "Marooned" in una ipotetica reincisione sludge di 'The Division Bell' o, ancor meglio, commentarne lo straordinario videoclip, ricorderete, girato a Prypjat), e nonostante certe mutevoli devianze post (le sensazioni post-tumultuose di "The Lethargic Hours" in quota Mogwai; "Emperor Seamount", una volta contratta, potrebbe chiudere un album dei Faith No More) emergenti nelle istanze finali del disco. (Alberto Calorosi)

(Taxi Driver Records - 2017)
Voto: 70

https://cambriandoom.bandcamp.com/releases

martedì 21 maggio 2019

Orso – Paninoteca

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Pelican
Sono sincero, con una copertina del genere e un titolo così, ho fatto fatica a prendere sul serio la proposta degli Orso. Tuttavia, alla prova del play sono rimasto piacevolmente sorpreso, a riprova del fatto che non va mai giudicato un album dalla sua copertina. La proposta degli Orso è un post metal sludggione strumentale, pregno di ambienti e di dissonanze che penetrano come lame sotto la pelle. Più si prosegue nel disco poi, più i toni oscuri e maligni entrano nel cervello come una colata di petrolio incandescente. L’incipit "Sloppy Joe" riversa lapilli di lava nei timpani dell’ascoltatore, tra bordate di batteria violente, arpeggi in stile Deathspell Omega da far rabbrividire anche il più efferato metallaro. "Choripan" con i suoi otto minuti abbondanti di ambienti, descrive degli scenari da film, senza privarsi di momenti pesanti dove i distorsori prendono il sopravvento sulle scie dei delay. "Horseshoe" dimostra poi come i quattro ragazzi di Losanna siano in grado di scrivere ottimi riff sludge riuscendo ad ottenere quei landscapes alla Pelican, ma anche alla Melvins, fino a sfociare in sfuriate vicine al post hardcore. In generale, ogni pezzo si svolge come una storia a sé e definisce come un racconto, fatto di pieni e vuoti, di rilassamento e di intensità. Un disco non facile 'Paninoteca', dove la sua seconda parte si dimostra assai più ardua da ascoltare, diciamo che avrei apprezzato fosse durato la metà, in ogni caso non è un difetto che disturba più di tanto, quanto la mancanza di significato. Mi spiego meglio, questo disco non manca di tecnica, non di buone canzoni o di arrangiamenti, semmai manca di un messaggio, tutto quello che sta intorno alla musica. Dobbiamo sempre ricordarci che le canzoni sono fatte per essere ascoltate e che l'ascoltatore ha bisogno di un contesto e di un significato per capire in cosa sta investendo, in questo caso quasi un’ora della sua vita. Ecco 'Paninoteca' non mi pare proprio un messaggio adeguato alla proposta musicale degli Orso; se non avessi ricevuto questo disco dal Pozzo dei Dannati, non mi sarei mai e poi mai lanciato nell’ascolto di un lavoro con un titolo del genere. Sarebbe un disco quasi perfetto musicalmente, con personalità, talento e attenzione ai suoni ma ragazzi, siate più seri, la mollica di pane in copertina non si può proprio guardare. Esistono artisti grafici talentuosissimi, per nominarne un paio STRX e Coito Negato che per un investimento esiguo avrebbero potuto rendere graficamente la vostra musica in maniera decisamente migliore; allo stesso modo in cui avete affidato il mix al chitarrista dei Converge e il master a Magnus Lindberg (Cult of Luna), avreste dovuto curare la parte grafica e il messaggio allo stesso modo. Un vero peccato che penalizza pesantemente il mio voto conclusivo. (Matteo Baldi)

(Czar of Crickets - 2019)
Voto: 62

https://orsoband.bandcamp.com/album/paninoteca

lunedì 20 maggio 2019

Orsak:Oslo - S/t

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock, Mogwai
Il post rock è un genere ormai inflazionato e vanta una produzione di band e dischi vicina alla saturazione. Tuttavia fa sempre piacere sentire una band che interpreta il genere in modo personale e originale, come nel caso di questo disco dei Orsak:Oslo, una lavoro che ricorda gli Earth ma anche gli Alcest e i Mogwai con una tendenza all’oscurità e alla meditazione. Sono paesaggi i pezzi di questo disco che si susseguono come in un lento viaggio percorso a piedi, con calma, senza la fretta di arrivare da qualche parte ma solo con la volontà di viaggiare e di scoprire nuovi luoghi. I pezzi scorrono con intensità tracciando scenari fiabeschi a tratti, e a tratti inesorabili e maestosi. Seppur il disco sia strumentale, la soddisfazione delle nostre orecchie così come l’attenzione mentale, è completamente catturata dai sentieri lunghi e impervi che questi ragazzi hanno costruito per noi. Si percepisce distintamente che non si tratta di una prima prova e che tra i musicisti ci sia un’alchimia particolare, un equilibrio unico in cui ognuno riesce a dare esattamente il contributo che serve alla musica, nulla di più, nulla di meno. Tra tutte le tracce spicca la cadenzata "Sleepwalker", decisamente la mia preferita del disco, che con i suoi gravi tonfi di chitarra e la sua ritmica mi fa sentire come se stessi partecipando ad una seduta di meditazione profonda, in mezzo ad incensi e candele, al cospetto dell’immagine del divino così severa nella suo palesarsi a chi l’ha invocata, e così piena allo stesso tempo di risposte e di domande, una contemplazione intensa e purificatrice. La seguente "Crying For Sleep" invece presenta degli spunti più trionfali, quasi celebrativi con i suoi ambienti rarefatti e i suoi arpeggi sbilenchi sembrano delle foglie di una foresta infinita che si muovono all’unisono sui rami di alberi millenari che mai saranno toccati da mano umana. Orsak:Oslo è un bell’intreccio d'improvvisazione e di composizione con degli sprazzi di psichedelia e blues ben amalgamati tra loro con grande maestria e con forte personalità. Davvero un ottimo disco, consigliato a tutti gli amanti del post rock e in generale a tutti quelli a cui piace perdersi nei pensieri, fissare il tramonto o guardare le nuvole che sornione passano e continuamente cambiano forma. (Matteo Baldi)

Time Lurker/Cepheide - Lucide

#PER CHI AMA: Post Black, Au Dessus
Time Lurker e Cepheide, due band che qui all'interno del Pozzo dei Dannati conosciamo assai bene. Uno split, 'Lucide', che consta di sole tre tracce per oltre trenta minuti di musica. Partono i Time Lurker con un paio di pezzi ("No One is Real" e "Unstable Night") che confermano quanto di buono avevamo già sentito nel debut della one-man-band di Strasburgo, capitanata dal buon Mick (qui peraltro accompagnato da un secondo vocalist, Thibo dei Paramnesia), ossia un post black atmosferico dalle forti tinte apocalittiche, con tanto di cavalcate infuocate, spezzate da ombrosi rallentamenti doom e grida disperate (e soffocate) in sottofondo. Questo è quanto si sente nell'opener track, ancora peggio (o forse meglio) con la seconda impetuosa "Unstable Night", un fiume in piena di abrasive quanto mefistofeliche melodie che sembrano prepararci al nostro incontro con il Signore delle Mosche e a quello che sentiremo da li a poco, con la lunghissima traccia (quasi venti minuti) dei Cepheide. Il duo parigino ci propina proprio la title track dell'album, che per genere, potrei ammettere di essere assimilabile a quello del collega che ha aperto il disco, con la sola differenza nell'uso di vocalizzi più strazianti (di matrice suicidal black metal). La musica poi è per certi versi affine ad "Unstable Night", deviata, diabolica, malvagia e melodica quanto basta per disturbare i sensi e il nostro sonno notturno. Un lungo incubo da quale sarà difficile destarsi, anche nella parte più ambient della traccia, alla fine quella che differenzia le proposte dei due gruppi transalpini. Un succoso split album che sa di riempitivo in attesa delle nuove fatiche delle due compagini, un breve malatissimo viaggio nelle perverse menti di Time Lurker e Cepheide, che conferma, ancora ce ne fosse bisogno, l'eccellente stato di forma della scena estrema francese. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l’Ombre Productions - 2019)
Voto: 72

https://cepheide.bandcamp.com/album/split-with-timelurker

Iron Flesh - Forged Faith Bleeding

#PER CHI AMA: Death Old School, primi Entombed, At the Gates
Diavolo, la Epictural Prod. mi ha da sempre abituato a release sinfonico/medievali, non potete pertanto immaginare quanto io abbia strabuzzato gli occhi quando il death purulento dei francesi Iron Flesh sia esploso nel mio stereo. La band di Bordeaux esordisce cosi con questo 'Forged Faith Bleeding', dopo un paio di EP rilasciati nel biennio 2017-18. La prima cosa che ho pensato ascoltando l'opener "Invade, Conquer & Dominate" è stato "cazzo i vecchi Entombed sono tornati", visto che si tratta di una scheggia impazzita di death old school di scandinava memoria con tanto di saliscendi ritmici, sassate solistiche e il classico cavernoso growl. Con "Malignant Kingdom" rimescoliamo, almeno inizialmente, le carte, con un sound decisamente più lento e malvagio, anche se poi il finale si lancia a tutta velocità come un camion contro una folla di persone, con arrembanti riff di chitarra. Il che prosegue selvaggiamente anche in "Ripping the Sacral", un'altra breve mazzata nei denti inferiore ai tre minuti, in una sorta di rivisitazione anche del vecchio e immortale 'Reign in Blood'. I nostri amici francesi non hanno però tempo da perdere, e nella successiva "Harbinger of Desolation" ecco un altro colpo di scena con un asfissiante rallentamento che ci conduce nelle viscere dell'Inferno con tanto di death doom abissale. Un caso isolato a quanto pare, visto che con "Celestial Disciple's Incarnation" si torna a correre come i vari Grave, Dismember e At the Gates erano soliti fare nei primi anni '90. Tanta ferocia, sfuriate brutali, vocalizzi efferati, ma anche una discreta dose di melodia che stempera le intemperanze messe in scena dal quartetto transalpino. Per quanto riguarda il resto del disco, non ci si discosta troppo da quanto proposto sin qui, quindi un death metal di scuola svedese, ben armonizzato, che non disdegna precetti doom ("Stench of Morbid Perversion" e la conclusiva "Where Universes Collide" dal forte sapore "katatonico") o sgaloppate di matrice punk hardcore dai contenuti comunque assai melodici ("To the Land of Darkness & Deep Shadow"), per un lavoro alla fine realmente indicato ai veri nostalgici del genere. Per gli altri, direi di andarvi a recuperare gli originali delle band qui menzionate. (Francesco Scarci)

Space Traffic - Numbness

#PER CHI AMA: Psych Rock
L'ho sudata (e fatta sudare) questa recensione, vuoi perchè ad un certo punto mi sono trovato dall'altra parte del mondo con la band che giustamente mi sollecitava alla sua pubblicazione sul sito, vuoi perchè, chi originariamente doveva scrivere queste righe, è scomparso. Alla fine è toccato a me descrivere le sensazioni emanate da questo primo capitolo dei valdostani Space Traffic intitolato 'Numbness'. Un salto indietro nel tempo che mi ha riportato ai vecchi e sempre più rispolverati ultimamente - penso ai The Mighties - anni '60. Lo si evince dall'opener "Numbness", la title track, ma in successione anche dalle varie "U Say U Love Me", "Power and Pride" e "Fire from the Depth". Inizio col raccontarvi di quanto sia suggestivo il motivo del moniker della band, legato a quel momento d'interruzione delle comunicazioni tra la navicella Apollo 10, in orbita nel 1969 sul lato oscuro della Luna, e la Nasa, e la comparsa contestuale a bordo della capsula di una strana musica che venne attibuita poi al traffico degli oggetti spaziali in collisione col campo magnetico della Luna stessa. Ma volgiamo lo sguardo verso il cielo e torniamo a parlare di musica e a quel suo sound parecchio vintage rock che scomoda facili paragoni con grupponi anni '60. Con "Time Machine" penso ad un ibrido tra blues/hard rock, psichedelia nelle sue note iniziali e quella spruzzatina di stoner che non guasta mai. Toni decisamente più pacati con la già citata "Power and Pride", la classica ballata strazzamutande dei vecchi dischi primi anni '70, la song che si metteva alle feste per il classico ballo lento, quello del tête-à-tête con la ragazza dei sogni, in una song che potrebbe richiamare Beatles e Pink Floyd allo stesso tempo. Non male, anche se devo ammettere di aver apprezzato maggiormente il basso, a braccetto con la chitarra solista, di "Hails of Love", un altro pezzo che per certi versi mi ha evocato i Floyd più rock oriented e meno sperimentali. "Mirror Game" tiene invece un ritmo più tirato con la voce del frontman qui più convincente che in altre parti nel cd. Si ritorna a suoni più compassati con "Blue Moon", almeno nella prima parte, cosi delicata e malinconica anche nel cantato di Marco Pica, prima di un finale che si lancia in un chitarrismo sfrontato di scuola zeppeliana (ripresa poi dal bravo Slash) che me la fa optare come mio brano preferito di questo 'Numbness'. C'è ancora tempo per un altro paio di brani, l'intimista "Tear it Down", dove largo spazio è riservato alla chitarra ispirata di Fabio Baldassarri e "Fire from the Depth" che menzionavo all'inizio come classico pezzo di rock'n roll sessantiano. Rimane un'ultima song, "The Dream", qui in versione live, per undici minuti di inossidabile psych rock di scuola floydiana che esalta le qualità del terzetto di Aosta in questa loro prima fatica. Sprazzi di luce, ma anche qualche ombra su cui lavorare (penso ad un perfezionamento a livello vocale ad esempio), ma la strada su cui si sono incanalati gli Space Traffic sembra promettere bene. (Francesco Scarci)

Haiku Funeral - Decadent Luminosity

#PER CHI AMA: Industrial/Dark/Ambient, Esoteric, Godflesh, Samael
In un mondo dominato dal conformismo, dove ogni forma d’arte e d'intrattenimento tende sempre più ad appiattirsi allo scopo di compiacere la maggioranza del pubblico e sulla spinta di logiche di mercato, è naturale che le voci fuori dal coro esplorino sentieri totalmente opposti, puntando su proposte singolari ed estreme, per porsi come alfieri di coloro che non accettano di essere omologati e incatenati alla deriva generale. Nobile scopo senza dubbio, ma da perseguire con accortezza, perché il confine tra provocazione e forzatura è molto breve. Prendiamo l’ultimo lavoro degli Haiku Funeral, duo francese (in realtà un americano e un bulgaro trapiantati chissà come a Marsiglia) che nel 2016 si era fatto notare con ‘Hallucinations’, album dalle coordinate nettamente metal, per quanto ricco di contaminazioni elettroniche e sonorità a cavallo tra l’industrial e le melodie orientaleggianti dei Septicflesh. Questo ‘Decadent Luminosity’ si libera invece di ogni elemento tradizionale, dando preminenza alla componente elettronica e danzando ipnoticamente tra la pesantezza apocalittica dei Godflesh, i tribalismi meditativi alla OM, e l’esasperante lentezza degli Esoteric. Il tentativo di diluire tutti questi elementi ha ovviamente influito sulla durata di questo mastodonte musicale, che si presenta come un doppio album di un’ora e mezza: da un lato ‘Decadent’, dove dominano la freddezza marziale della drum-machine e i rabbiosi giri del basso di William Kopecky, dall'altro ‘Luminosity’, che invece si muove in malsane paludi dark ambient in cui di luminoso troviamo ben poco. Sempre presente invece l’elemento vocale, con Dimitar Dimitrov che ci accompagna in questa specie di discesa negli inferi come un blasfemo Virgilio, alternando il cantato cadenzato in stile Blixa Bargeld allo scream black metal, a cui si aggiungono poi svariati effetti orchestrali, sax, violini, voci femminili e mormorii indistinti che non fanno altro che aumentare la sensazione di trovarsi in gita sulle rive del Flegetonte. È dunque la debordante ricchezza di elementi ed influenze, più che il minutaggio, a rendere quest'album molto ostico: delle due parti è sicuramente ‘Decadent’ a risultare più accessibile, caratterizzata da pezzi in cui la forma canzone è più definita e dove risaltano la marziale e meccanica "The Crown Of His Glory", le grandiose atmosfere sinfoniche di "The Dreams Of Celestial Beings" (in cui è avvertibile l’influenza degli ultimi Samael) e l’allucinante orgia ritualistica di “Dreaming Kali In The Temple Of Fire”, dove si combinano elementi orientali con la teatralità dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. I richiami al collettivo olandese fanno capolino anche nella seconda parte dell’album ("Vision Pit"), ma qui basso e drum-machine ci abbandonano per dare spazio a stridenti feedback ed oscuri effetti elettronici, mentre si compie la metamorfosi del cantante da guida dantesca a vero e proprio sacerdote demoniaco, apparentemente impegnato nell’evocazione di creature non euclidee. Bisogna ammettere che la scelta di dedicare interamente metà dell’opera alla componente ambient rende faticoso anche per l’ascoltatore più eterodosso arrivare alla fine senza skippare qualcosa, questo perché il passaggio tra le pulsanti dinamiche di ‘Decadent’ all’esasperante lentezza di ‘Luminosity’, è forse troppo brusco (un po’ come passare da 'Pretty Hate Machine' dei Nine Inch Nails ad un disco dei Raison d'Être) e le due parti finiscono per avere ognuna vita propria. Il risultato finale è un esperimento affascinante ed ambizioso, ma poco equilibrato, talmente trasgressivo da rischiare di non essere preso del tutto seriamente. Una maggior sintesi delle varie tendenze della band e un minutaggio più contenuto avrebbe permesso a ‘Decadent Luminosity’ di risaltare maggiormente tra le uscite estreme di questi ultimi 12 mesi, ma forse gli Haiku Funeral preferiscono muoversi nella buia desolazione dei gironi infernali più profondi. (Shadowsofthesun)

(Aesthetic Death Records - 2018)
Voto: 66

https://haikufuneral.bandcamp.com/album/decadent-luminosity

domenica 19 maggio 2019

Primus - The Desaturating Seven

#PER CHI AMA: Funk Rock
Nella rilettura musicale de 'I Coboldi dell'Arcobaleno' di Ul de Rico musicata ed eseguita nientescoreggiadimeno che dallla formazione originale dei Primus, una prevedibilmente liquidissima (ed eccessivamente lunga) introduzione lascia spazio all'ahimè ormai consueta carrellata di (peraltro godibilissimi) trademarks Primus-Clapypoll-iani: sbilenchi vaudeville stompeggianti da stivali sporchi, orecchie a punta e parecchia birra in circolo ("The Trek" e, nel prosieguo, la più prosaica "The Storm", eppure in grado di trasmettere un certo senso di pathos stupefatto), marcette incazzofunky di quelle che ascoltereste volentieri mentre pigliate Anthony Kiedis a schiaffoni sul muso (la nervosa "The Scheme", oppure nella materica "The Seven", che durante l'ascolto assumerà fattezze proprie, fuoriuscirà dall'album, dal vostro lettore mp3, dalle cuffie, dalle vostre orecchie, per attraversare lo spazio ed il tempo e finire per collocarsi direttanete sul lato B di 'Discipline' dei King Crimson) e filastrocche strumentali ("The Ends?") che vi sembrano collocarsi grosso modo tra 'Chocolate Factory' e la torta di compleanno degli undici anni di Mercoledì Addams. Virale. (Alberto Calorosi)

(Prawn Song - 2017)
Voto: 63

http://www.primusville.com/

Bruce Lamont - Broken Limbs Excite No Pity

#PER CHI AMA: Drone/Ambient Rock
Languida eppure dronizzata (la ficcante "Excite No Pity", successivamente deliquescente verso un noise eversivo alla Godspeed You Black Emperor) od, oppostamente, etno-liofilzzata ("Neither Spare Nor Dispose"), la litania messianica Michael-Gira/ffazzonata messa in scena nei momenti più avant-garde del secondo disco solista di Bruce Lamont, appare comunque di primo acchito come una sorta di schizo-frantumazione del jazz-core stanziale nelle ineffabili menti disturbate dei chicaghesi Yakuza. Un (white) noise liquido, kelviniano (il gelo cosmico espresso in "8-9-3" ne è un esempio) o termodinamico (il caos ronzante di "The Crystal Effect" potrebbe ricordarvi anche un Minipimer rotto), oppure morfologicamente stratificato (gli infiniti loop di "Maclean", ma anche il divertito hereafter-surf "Goodbye Electric Sunday", volendo) nella direzione, sempre che quello di direzione sia un concetto vagamente significativo all'interno di questo album così scarsamente cartesiano, nella direzione dicevo, di una dissolvenza quintessenziale e definitiva: sostenuta da una riverberante chitarra acustica, la straordinaria "Moonlight and the Sea" in chiusura vi suonerà come una sorta di "Space Oddity" kubrickiana. Da ascoltare in cuffia mentre attraversate un buco nero pentadimensionale a velocità curvatura. (Alberto Calorosi)

mercoledì 15 maggio 2019

He Comes Later - Cognizance

#PER CHI AMA: Deathcore
La scuola americana deathcore fa proseliti anche in Italia. È il caso dei bolognesi He Comes Later, una band nata nel 2010 e votata inizialmente al metalcore, che ha poi virato il proprio tiro verso il deathcore con l'ingresso in formazione nel 2013 del bravo vocalist Andrea Piro. I punti di riferimento guardano ovviamente agli USA, dove negli ultimi tempi si è visto un pullulare frastornante di una miriade di gruppi dediti a queste sonorità che puntano ad emulare, ahimè senza grossi risultati, i gods Rivers of Nihil e i compari Fallujah. Con i nostrani He Comes Later siamo però un po' più distanti dalle melodie sognanti e un po' ruffiane di quelle due realtà, sebbene un uso massiccio dei synth già a partire dalla malinconica opener di questo 'Cognizance', intitolata "Despondency". Quello che mi sento immediatamente di sottolineare è la potenza di fuoco messa in mostra dal quintetto italico e da quel rifferama ribassato (coadiuvato da martellanti blast beat) che evoca, per forza di cose, i maestri Meshuggah. Il growling di Andrea poi è davvero notevole nella rabbia profusa e nella profondità della sua timbrica. Il disco avanza attraverso tracce quali la sincopata e djentleliana "Execution" e la più atmosferica "Detachment", detonando ritmiche possenti su cui s'installano i synth cibernetici (a tratti psichedelici) dei nostri, che per certi versi richiamano gli americani Honour Crest. In "Torment" il gruppo sperimenta soluzioni alternative, miscelando un urticante death metal (con tanto di pig squeal vocali) con la musica classica, rallentamenti paurosi ed una onnipresente dose di melodie, peccato solo che la traccia sfumi in modo brutale sul finire. Ancora atmosfere e ritmiche incendiare con la brutale "Healing", dove accanto ad ubriacanti sterzate ritmiche e vocalizzi animaleschi, la band trova ancora il modo di coniugare ottime melodie con stop'n go da cavare il fiato. Cosi come convincente è l'arrembante "Guidance", tra riffoni serrati, una buona sezione solistica ed ottime keys, quasi a evidenziare che di cali fisiologici la band emiliana non ne vuole sapere. Lo stesso dicasi di "Atonement", song assai ispirata a livello atmosferico, con keys spettrali davvero convincenti che non rappresentano un semplice corollario alla sezione ritmica ma che assumono invece un ruolo da assolute protagoniste. "Quiescence" è un breve brano strumentale che funge da bridging con la dinamitarda "Resurgence", song dalla ritmica a tratti compassata che mi ha ricordato un che degli statunitensi Kardashev. A chiudere ecco la furibonda title track ed i suoi quasi quattro minuti di killer riff, rallentamenti da paura, vocals belluine, synth di "tesseractiana" memoria e quanto di meglio possa offrire oggi il panorama deathcore. Interessante anche il concept che si cela dietro al disco, ossia la vicenda di un ragazzo depresso, voglioso di suicidarsi che tuttavia, nell'attimo di compiere l'atto fatale, fallisce entrando in uno stato cognitivo di pre-morte che lo porterà a vivere varie esperienze che lo arricchiranno di una nuova consapevolezza verso la vita. Insomma, 'Cognizance' è un buon debutto sulla lunga distanza dal quale iniziare la scalata verso le vette del deathcore mondiale. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 74

From Another Mother - ATATOA

#PER CHI AMA: Math Rock/Punk
Al giorno d’oggi l’offerta musicale è talmente ampia e ramificata che si fatica a tenere il passo delle nuove proposte: inutile dire che le produzioni di formazioni affermate provenienti da scene “storiche” catalizzano l’attenzione di pubblico e critica, forti della maggior visibilità guadagnata nel corso degli anni. Tutto questo ha un prezzo: molto promettente materiale di realtà dell’underground non riceve la meritata attenzione, così come il lavoro di artisti provenienti da scene ancora lontane dalla luce dei riflettori. Ho pensato a questo quando mi sono imbattuto in 'ATATOA', seconda fatica dei croati From Another Mother, eclettico terzetto in azione dal 2013 che promuove una sorta di fusione tra math rock cerebrale alla Dillinger Escape Plane, sfuriate punk-rock e passaggi più orecchiabili: una gran bella miscela che richiede non poca abilità per essere concepita e amalgamata. La ricetta concentrata in queste nove tracce è ricca di sfumature e sicuramente interessante (per quanto un po’ acerba), tuttavia le informazioni presenti in rete sulla band sono davvero scarse e risulta quindi difficile farsi un’idea su ciò che ha portato alla genesi dell’opera: lasciamo dunque parlare la loro musica. La prima traccia “May” ci fornisce subito una chiara indicazione di come si svilupperà l’album: partenza leggera e accattivante, caratterizzata dal cantato scanzonato e dalla chitarra pulita, che dopo meno di un minuto lascia bruscamente spazio ad un esplosivo ritmo serrato a supporto di un travolgente assolo di chitarra e voci urlate. Il repentino alternarsi di parti melodiche e riff furiosi sembra essere il marchio di fabbrica del gruppo e viene ripreso anche in “First Things First” e “Song Number 9”, dove possiamo apprezzare l’abilità dei tre musicisti nel destreggiarsi tra i cambi di tempo e le irrequiete dinamiche che costituiscono l’ossatura di 'ATATOA'. Decisamente più atmosferiche e sognanti sono invece “Supernova” e “Walnut”, brani che risaltano grazie alle forti influenze post-rock e che richiamano i britannici And So I Watch You From Afar, ma nemmeno in questi i From Another Mother lesinano nello spingere sull’acceleratore, lanciandosi in tumultuosi crescendo rumoristici quasi shoegaze. “I Will Atone” e Slightly Wrong” si distinguono invece per le divagazioni jazzy e gli elaborati giri di basso, mentre in coda troviamo “Keep Your Head” e “Baited”, i brani più diretti e pesanti del mazzo, i quali meglio esprimono l’anima “heavy” della band senza per questo cadere nel banale. 'ATATOA' è un album che incanala l’entusiasmo del gruppo e trasmette per tutta la sua durata emozioni estremamente positive, riuscendo a coinvolgere l’ascoltatore e rendendo l’ascolto piacevole e leggero, malgrado i repentini cambi di tempo e le nervose strutture delle canzoni. Se da un lato la tecnica nell’esecuzione e la ricercatezza degli arrangiamenti non sono in discussione, va detto però che i pezzi, per quanto validi, si sviluppano in modo troppo eterogeneo, suscitando spesso la sensazione di ascoltare la registrazione di una divertente jam session. Nel complesso il lavoro sembra mancare di un’idea di insieme e fatica a trasmettere un concetto unitario, disperdendo molte ottime idee in un’impetuosa ricerca di varietà stilistica. I From Another Mother giocano tutte le loro carte sulla creatività sregolata, dando liberamente sfogo ad ogni idea e confezionando un disco energico e diretto; la band, invece di puntare con decisione verso percorsi più ambiziosi per valorizzare il proprio notevole bagaglio tecnico, sembra volersi accostare più ai rassicuranti filoni punk e alternative rock, ma per una giovane realtà dell’est europeo, ancora alla ricerca di un posto al sole, probabilmente va bene così. (Shadowofthesun)

(Kapitan Platte - 2019)

The Mighties - Augustus

#PER CHI AMA: Punk/Garage Rock, Ramones
Non sono proprio la persona più indicata a recensire questo genere di suoni, ma visto che il lavoro è finito tra le mie mani (si tratta di un vinile), mi adatto e vi racconto quello che ho sentito. Sicuramente quello che si evince da "Caprice de la Drama", la opening track di 'Augustus', opera prima dei The Mighties, è che il disco dei nostri (non certo degli sprovveduti, avendo all'attivo già quattro EP ed una miriade di concerti alle spalle) abbia voglia di portarvi indietro di una cinquantina di anni e farvi divertire con il loro garage rock. Immaginatevi un po' la sigla di Happy Days, la sit com americana famosa a cavallo degli anni '70-80 per Fonzie e compagni, e quei ragazzi che ballavano il rock'n'roll, ecco l'intento della band umbra, ovvero quello di immergervi in quei suoni, riportando in voga il rock di quegli anni e diventando prodromico del punk che in paio di lustri si sarebbe sviluppato. E allora balliamo selvaggiamente al ritmo incalzante di "Chinese Drop", che ammicca ad un che dei Ramones, mentre con la successiva "Everybody's Doing" lasciatevi trascinare dal groove infuocato dei nostri per poi trovarvi a cantare a squarciagola col ritornello assai catchy della song. Non è musica certamente impegnata quella che ci offre 'Augustus', accogliendo un sound caldo e divertente, che la maggior parte dei giovani di oggi crederà appena concepito o peggio, inventato dai Blink-182, mentre in realtà affonda le radici proprio negli anni '60. Alquanto inusuale, almeno per il sottoscritto, è "Church of R'n'R", rilassata quanto affascinante nel suo sinuoso incedere. Le mie song preferite però sono "Girl in the Zoo", cosi oscura e maledettamente rock, sebbene nel suo refrain ci senta un che di "Seven Nation Army" dei The White Stripes e "Casablanca", scanzonata ma seria allo stesso tempo, con un assolo conclusivo davvero incazzoso. Insomma, con 'Augustus' c'è da divertirsi non poco per scoprire o riscoprire la freschezza di suoni che alcuni di noi pensavano persi nella notte dei tempi. (Francesco Scarci)

(We're at Fruit Records/SOB Records - 2019)
Voto: 72

lunedì 13 maggio 2019

Ho Gravi Malattie - Lithium (Mental Illness)

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Altro capitolo targato Ho.Gravi.Malattie, progetto che associa noise ed arte nell'intento di mostrare e svelare le sofferenze che stanno dietro alle tante malattie che affliggono l'uomo. Una malattia, un disco, questo è il format, con confezione handmade in CDr a tiratura limitatissima (solo 7 copie) ed in futuro prevista anche la versione in cassetta, oltre al formato digitale. Riporto una parte della presentazione dell'artista, perchè troppo bella: è il misantropo (H)organismo.(G)ravemente.(M)alato, un passato da recensore musicale per due importanti webzine italiane e performer del progetto merda-noise chiamato, appunto, HgM. Costui è anche il mentore e custode di questa coraggiosa, morbosa e fantasiosa label DIY torinese, che sforna idee così stravaganti e scomode, e nonostante lo shock iniziale dovuto ai temi non certo allegri delle opere trattate, una volta capito l'intento artistico ci si inoltra nella musica reale, o meglio nel rumore reale. Ho trovato questo a proposito di sperimentazione medica sui ratti: il litio rimane il trattamento più utilizzato per il disturbo bipolare, tuttavia, i meccanismi molecolari alla base delle sue azioni terapeutiche non sono stati completamente chiariti. A tal proposito presumo che il titolo scelto, seguito dalla dicitura "Mental Illness", si sposi benissimo con l'intento di portare in musica il concetto della malattia mentale e qui troviamo molto su cui riflettere. Un deserto sonoro fatto di lunghissimi rumori ambientali di sottofondo, come se fossimo sotto un cavalcavia di un'autostrada cosmica che porta verso l'ignoto, grida disperate e solitudine, isolamento, la tecnica della stratificazione del suono per ottenere un wall of sound fatto di noise e cicatrici sonore rubate all'ambiente che ci circonda. Due sole tracce molto lunghe di quindici ("Lithium") e venti minuti ("Arsenic Death") rispettivamente, esplorano questo triste declino della mente umana, cercando di esportarne le controverse e disperate emozioni che possono convivere in un paziente affetto da tale patologia. Detto questo, per capire al meglio quest'opera, ci si deve apprestare ad un ascolto assai emotivo ed impegnato, visto che stiamo parlando di un ambient/noise ortodosso e mal disposto ai compromessi. Un'opera dura, minimale ma d'impatto e corposa, una nebbia fitta che rapisce i sensi e rende palpabile questa forma atroce di malattia. Un disco/concetto molto violento, non tanto per la musica in sé ma in quanto alle sensazioni malate, è il caso di dirlo, che esso emana. Ovviamente, musica per ascoltatori forti di stomaco ed amanti del noise d'ambiente più estremo. (Bob Stoner)