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lunedì 31 marzo 2025

Total Fucking Destruction - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grind/Death
Un caos primordiale irrompe sin dai primi secondi: un’apertura scomposta e stridente, dove un sax lamentoso si scontra con strumenti distorti in un turbine di suoni che aggredisce i timpani come un presagio di tempesta. Una voce s'insinua, un bisbiglio inquietante che sembra emergere da un angolo oscuro. Siamo di fronte a un disco che attinge alle radici dell’hardcore americano più crudo, ma le trasforma in un assalto grind senza compromessi. La band si muove con una precisione brutale: ritmi serrati e convulsi, strumenti che s'inseguono in un unisono feroce, per poi spezzarsi in pause calcolate, minimali, che amplificano l’impatto di ogni colpo. Il suono è spoglio, quasi ascetico, valorizzato da una produzione che lascia respirare gli strumenti nella loro essenza, con una distorsione grezza che non ha bisogno di orpelli. Persino i rari momenti di arpeggio emergono nudi, senza fronzoli, mentre le chitarre si lanciano in armonizzazioni travolgenti, semplici ma taglienti come lame. I brani sono schegge: alcuni brevissimi, altri poco più lunghi, tutti definiti da stacchi secchi, ipnotici e carichi di una violenza fredda. C’è varietà nella struttura – pezzi che si contorcono in cambi repentini, altri che procedono dritti come un ariete – ma l’energia non cala mai. Le voci sono un coro di tormenti: un urlo isterico domina la scena, accompagnato da growl gutturali e rantoli cupi che grondano disgusto. L’ironia, però, si fa strada tra le crepe, un ghigno sinistro che alleggerisce il peso dell’assalto. E poi c’è la batteria, un’entità posseduta suonata da Richard Hoak, ex-Brutal Truth, che martella senza sosta, spingendo i brani in una spirale di pura furia. A spezzare il muro sonoro arrivano assoli di chitarra desertici, dilatati, che si estendono come oasi di desolazione in contrasto con la frenesia circostante – così lunghi da sembrare brani a sé, in un disco dove tutto il resto è compresso in esplosioni di pochi istanti. È un inferno musicale che non fa prigionieri, ma che colpisce per la sua coerenza selvaggia. (Francesco Scarci)

(Deaf American Recordings - 2000)
Voto: 67

https://www.facebook.com/tfdgrind?sk=wall

domenica 30 marzo 2025

Octoploid - Beyond The Aeons

#PER CHI AMA: Melo Death/Folk
Se sei un appassionato degli Amorphis, preparati a essere travolto da 'Beyond The Aeons', il fantastico album di debutto degli Octoploid! Questa si configura come una sorta di side project di Olli-Pekka Laine (bassista degli Amorphis) includendo anche un altro ex, Kim Rantala, il vecchio tastierista che ha lasciato il segno ai tempi di 'Elegy'. E inevitablmente, le influenze non tardano a farsi sentire, in un'opera che si distingue per la combinazione di elementi di death progressivo con influenze folk e sonorità psichedeliche. Vi ricorda niente? L'apertura è un vero colpo al cuore con "The Dawns in Nothingness", dove si fa sentire l’incredibile voce di Mikko Kotamäki degli Swallow the Sun (che ritroveremo anche in "The Hallowed Flame" e nella meno convincente "Concealed Serenity"). Questo brano, come opener, cattura immediatamente l’attenzione con i suoi riff potenti e melodie irresistibili, rievocando il fascino degli anni '70, mostrando una notevole abilità nel mescolare sonorità diverse, creando transizioni fluide tra momenti di pura aggressività e sezioni più melodiche. "Coast of the Drowned Sailors" è un inno agli Amorphis di 'Tales from the Thousand Lakes'. Qui, la voce di Tomi Koivusaari, che mi ha fatto innamorare delle melodie avvolgenti dei finlandesi, si unisce a quella di Janitor Muurinen degli Xysma, creando un connubio di ricordi e nuova magia. L’affinità con gli Amorphis è palpabile: entrambe le band sanno come incantare con la melodia e atmosfere psichedeliche, ma gli Octoploid si divertono a esplorare un approccio più giocoso e variegato. Andando avanti nell'ascolto, cambiano le performance dietro al microfono, con la comparsata di Tomi Joutsen (attuale frontman degli Amorphis) nell'inizialmente allegra - prima di addentrarsi in territori più oscuri e death oriented - "Human Amoral", Petri Eskelinen (dei Rapture) nell'inizialmente vivace - poi più tetra - "Shattered Wings". Infine, Jón Aldará, il talentuoso cantante degli Iotunn, arricchisce con la sua voce "A Dusk of Vex", dando un ulteriore tocco a questo debutto impressionante che, pur richiamando gli Amorphis, conquista per la sua freschezza unica e irresistibile. (Francesco Scarci)

(Reigning Phoenix Music - 2024)
Voto: 80

https://octoploid.bandcamp.com/album/beyond-the-aeons

sabato 29 marzo 2025

Vola - Friend of a Phantom

#PER CHI AMA: Djent/Groove Metal
'Friend of a Phantom', il quarto album in studio dei danesi Vola, consolida ulteriormente – se mai ce ne fosse stato bisogno – il loro sound unico, un mix eclettico di sonorità djent/progressive arricchite da sfumature pop che creano un insieme sonoro vibrante e complesso. L'apertura affidata a "Cannibal" incarna alla perfezione questa formula: un riff djent vigoroso squarcia l’oscurità, accompagnato da melodie accattivanti e dalla voce pulita di Asger Mygind, che si contrappone al growl iconico di Anders Fridén (In Flames). Questo dinamico equilibrio tra aggressività e melodia, già evidente nell'opener, diventerà un leitmotiv dell'intero disco, rappresentando uno dei tratti distintivi del quartetto di Copenaghen. Consapevoli della loro identità e delle loro capacità, i Vola confezionano una serie di tracce irresistibili, arricchite da chitarre incisive e melodie indimenticabili. Basti ascoltare "Break My Lying Tongue", il cui riff iniziale si imprime nella mente al primo ascolto, o lasciarsi catturare dall'intensità emotiva della ballad "Glass Mannequin". L’album si distingue anche per l’abilità nel creare contrasti evocativi, come nelle atmosfere sognanti di "We Will Not Disband" (e della bellissima e malinconica "I Don't Know How We Got Here") o nei synth lussureggianti che avvolgono "Paper Wolf". La versatilità della band emerge inoltre nelle derive post-rock di brani come "Bleed Out", che richiama vagamente l'approccio sperimentale di The Ocean. La qualità produttiva è eccezionale: ogni strumento emerge con una nitidezza impressionante in un mix curato nei minimi dettagli. L’effetto complessivo è un’esperienza immersiva che valorizza ogni sfumatura dell’opera e dimostra la maturità raggiunta dalla band. 'Friend of a Phantom' non è soltanto una conferma del talento dei Vola, ma anche un piccolo capolavoro che merita di essere esplorato e ammirato fino in fondo. (Francesco Scarci)

lunedì 24 marzo 2025

Panzerfaust - The Suns of Perdition - Chapter IV: To Shadow Zion

#PER CHI AMA: Black/Death
Ignoravo l’esistenza dei Panzerfaust, e ora mi maledico per questo abisso di ignoranza! È stata una casualità, un inciampo su Spotify, a condurmi tra le spire di 'The Suns of Perdition - Chapter IV: To Shadow Zion', l’ultimo atto dei canadesi, e sono rimasto pietrificato, la bocca spalancata davanti a un’oscurità che mi ha divorato l’anima. Questo disco non è solo un album: è il capitolo finale, trionfale e funereo, che sigilla l'oscura tetralogia iniziata nel 2019, un’opera monumentale che mi ha trafitto con la sua cupezza fin dalle prime note. “The Hesychasm Unchained” mi ha ghermito con ritmiche iniziali che stillano disperazione, mentre i vocalizzi dei due cantanti – simili a lamenti di dannati – s'incastrano in una struttura ritmica che soffoca, un mélange spaventoso e irresistibile di black e death, brutale eppure melodico, marchio di fabbrica di questo quartetto dell’Ontario. È un’epopea macabra, una cavalcata di cinque capitoli che si dipana per tre quarti d’ora, un viaggio nelle tenebre dove l’opener brilla come un faro nero, ma dove ogni traccia pulsa di un’energia maledetta. “When Even the Ground Is Hostile” irrompe con sincopi che tagliano come lame arrugginite, mentre “The Damascene Conversions” si erge più lenta, quasi solenne, con una dinamica che intreccia cambi di ritmo, graffi acustici che lacerano il silenzio e armonie strumentali che affascinano come un rituale proibito. Niente interludi, stavolta: il flusso è inesorabile, un torrente di desolazione sorretto da atmosfere che ti avvolgono come nebbia su un camposanto abbandonato, amplificando una narrazione che stringe il cuore in una morsa. E poi, l’apice del terrore: “Occam's Fucking Razor” è una lama di black/death sghembo e martellante, un assalto che squarcia ogni speranza, seguito dalla conclusiva “To Shadow Zion (No Sanctuary)”, un monolito opprimente che cala il sipario su questo disco come una sentenza di morte. Non ho scampo: questo lavoro mi ha incatenato, obbligandomi a scavare nelle viscere degli altri capitoli della saga. I Panzerfaust sono una rivelazione oscura, e io sono condannato a seguirli nell’abisso!(Francesco Scarci)

sabato 22 marzo 2025

Saor - Amidst the Ruins

#PER CHI AMA: Folk/Black
Dalle nebbie delle Highlands, dove il vento canta inni di un passato dimenticato, i Saor, guidati dal visionario Andy Marshall, hanno rilasciato un nuovo capitolo sonoro in grado di scuotere le fondamenta del tempo. 'Amidst the Ruins', sesto capitolo della loro discografia, si manifesta come un portale verso l’anima selvaggia della Caledonia. Cinque brani, cinque torri di suono che si ergono tra le rovine di un mondo perduto, intrecciando black atmosferico a melodie folkloriche, in un arazzo di tragica bellezza che risuona tra le valli e i glen della Scozia, un inno alla terra e ai suoi spiriti ancestrali. La title track è il primo brano e si presenta, travolgendoci con i suoi riff possenti e i tamburi che rullano come un esercito in marcia, mentre le melodie delle tastiere soffiano come brezze lontane. La voce di Marshall stride come un corvo sopra le rovine, mentre flauti e cornamuse si levano in un canto di gloria e rovina. È un viaggio in epoche lontane tra le pietre spezzate di antichi castelli, dove ogni nota è un colpo di spada e ogni melodia, un’eco di un regno caduto. Ma non scopriamo certo oggi il valore di una band che adoro da sempre. Questo è quanto possiamo godere già dall'opening track e dalle sue eccelse melodie cinematiche, ma anche dalla successiva "Echoes of the Ancient Land", che esplode sin dall'inizio con ritmiche che galoppano come cavalli selvaggi su e giù per le colline. Poi, un’orgia di fiati e archi succede al caos, dipingendo visioni di foreste fiabesche. L’atmosfera è maestosa, un’ode ai tempi in cui gli dèi camminavano tra gli uomini, con un crescendo musicale e vocale - complice per quest'ultimo le splendide clean vocals di Marshall - che spinge verso cime nebbiose, ma solo per lasciarci poi cadere in un abisso di malinconia che si concretizzerà sul finale del brano. Non ci sono parole. E in "Glen of Sorrow", il tono si fa più cupo e solenne inizialmente, per poi lasciar viaggiare melodie folk e fantasie in un sound che sembra evocare anche un che degli Alcest. La voce eterea di una gentil donzella (Ella Zlotos) si affianca a quella del mastermind scozzese in un maestoso tripudio sonico. Arpeggi acustici e i tiepidi sussurri di Andy caratterizzano invece "The Sylvan Embrace"; presto la voce di Ella lo raggiungerà in questo momento di pace inquieta, dove un'ombra sembra tuttavia suggerire l'imminente ritorno del caos. Presto accontentato, visto che "Rebirth" divampa con il suo assalto di chitarre e blast-beat in un titanico inno di rinascita. Quattordici minuti di pura trascendenza in un brano che si muove in realtà su un mid-tempo malinconico e in un'atmosfera che richiama una fenice che risorge dalle ceneri, un ciclo di morte e vita che si chiude con un ruggito eterno. 'Amidst the Ruins' è un album notevole, un black metal atmosferico che non si limita a sfogare oscurità, ma la eleva con melodie folk che colpiscono l’anima. Ogni traccia è un capitolo di un’epopea, un ponte tra il passato glorioso della Scozia e un presente che ne reclama l’eredità. (Francesco Scarci)

giovedì 20 marzo 2025

Sólstafir - Hin Helga Kvöl

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Folk
'Hin Helga Kvöl' è il nuovo album dei Sólstafir, un viaggio sonoro che si snoda come una strada polverosa attraverso un paesaggio desolato, dove il sole tramonta su un orizzonte di emozioni contrastanti. Come da sempre la band islandese ci ha abituato, nel loro sound riusciamo a trovare un mix di post-rock, metal e influenze folk, che cattura l'essenza di una terra antica e misteriosa. L'album si apre con "Hún Andar," un brano che introduce l'ascoltatore a un'atmosfera quasi mistica. Le chitarre vibrano come il canto di una chitarra acustica suonata attorno a un fuoco, mentre la voce di Aðalbjörn Tryggvason si erge come una figura solitaria in un vasto deserto, in un canto antico rafforzato dall'utilizzo delle liriche in islandese, ormai vero marchio di fabbrica per i nostri. La produzione è curata, permettendo a ogni strumento di risaltare senza sopraffare l'emozione trasmessa dalle liriche incentrate su temi emozionali. La title track ha un incipit oscuro che dà ampio spazio alla tribalità possente delle sue percussioni (in certi punti mi ha evocato addirittura gli Slayer), lasciando poi il posto a un riffing serrato, epico che evoca immagini di battaglie passate e paesaggi maestosi, in cui oltre a brandire le spade, è la voce del frontman a ergere il suo grido in cielo. La varietà stilistica è uno dei punti di forza del quartetto di Reykjavík e "Blakkrakki" dimostra la capacità di variazione del tema con la più classica impostazione alternative southern rock della band. "Sálumessa" incarna, con le sue melodie lente e soffuse, quello spirito magico e ancestrale che caratterizza le composizioni dei nostri. "Vor ás" prosegue in una dimensione ultraterrena, aggiungendo addirittura la voce femminile di tal Erna Hrönn Ólafsdóttir in una song oscura e non so ancora, se realmente ben riuscita. Un malinconico pianoforte introduce a "Freygátan", in cui troviamo un altro ospite, Borgar Magnason, al doppio basso, per una song dal forte sapore depressive rock. E a proposito di forza, ecco arrivare "Nú Mun Ljósið Deyja", traccia rabbiosa e ricca di intensità emotiva. In chiusura, la ritualistica "Kuml (Forspil, Sálmur, Kveðja)" offre l'ennesima dimostrazione della sapienza dei nostri nel trasportare l'ascoltatore in luoghi lontani, grazie all'utilizzo di sax e voci pulite all'interno di una elegante cornice atmosferica. Sicuramente, 'Hin Helga Kvöl' non è la migliore opera dei Solstafir, ma comunque è un buon lavoro atto a sancire l'originalità della band nordica. (Francesco Scarci)

martedì 18 marzo 2025

Isleptonthemoon - Only the Stars Know of My Misfortune

#PER CHI AMA: Blackgaze/Depressive Black
Per gli amanti di sonorità depressive/blackgaze, ecco 'Only the Stars Know of My Misfortune', ultimo album della band statunitense Isleptonthemoon. Il tutto è confermato sin dall'iniziale "Safety", che ci permette di inserirci nella trame oscure e introspettive (direi post-rock) della one-man-band di Atlanta, prima delle esplosioni post black che ci accompagneranno invece nella seconda parte della traccia, tra screaming vocals e furenti blast beat. Questo sarà un canovaccio che vedremo ripetersi in più occasioni all'interno del disco, già a partire dalla furiosa ritmica di "Dimming Light", che lascia comunque aperta la porta ad aperture melodiche ed eteree, per quanto, a un primo ascolto, potrebbe suonare come una song caustica e caotica, che trova anche modo di evocare i Deafheaven degli esordi. Sublime per le mie orecchie, tanto che ho già ordinato il vinile. E si prosegue con le chitarre acustiche di "Maybe I Don’t Know It Yet, but Good Things Are Coming Soon", e uno slowcore che ben s'incastra in un contesto più allargato del disco. Il finale è puro depressive/suicidal black metal con un melodico tremolo picking da lacrimoni. Ancora poesia per le mie orecchie con "I Belong to the Void" e le sue atmosfere soffuse che vanno via via crescendo in una evoluzione sonora tesa tra blackgaze (scuola Alcest), luci soffuse post rock e un'emozionalità intensa, immensa. "Like Dying" sembra iniziare con modalità affini ai nostri Klimt 1918 per poi evolvere invece verso sonorità post black di grande impatto e una coda dal piglio ambient. La chiusura affidata alla malinconica "Keep Hidden", ci dice che quella che abbiamo nelle nostre mani è una piccola gemma da tenerci stretti, un lavoro dove ogni traccia è un tassello di un mosaico emotivo complesso e autentico. (Francesco Scarci)
 
(Bindrune Recordings - 2024)
Voto: 80
 

sabato 15 marzo 2025

Ofnus - Valediction

#PER CHI AMA: Black Melodico
Li ho adorati con il loro primo lavoro, 'Time Held Me Grey and Dying'. Ora i gallesi Ofnus ritornano con un disco ancor più severo e oscuro. 'Valediction' è il titolo che racchiude le sei nuove tracce, che esplorano i meandri del dolore e della morte. L'album si apre con "The Shattering", un brano che sembra evocare il momento in cui la realtà si frantuma sotto il peso della perdita. Le chitarre, sparate a velocità estreme, s'intrecciano in un lamento straziante, mentre la batteria pulsa impazzita come un cuore che si rifiuta di fermarsi, nonostante il dolore. È un incipit affidato a un post black arrembante che non lascia scampo, trascinando l'ascoltatore in un abisso di disperazione. Tuttavia, scorgiamo anche parti più malinconiche, in cui le melodie (e le clean vocals) smorzano la furia ancestrale dissipata. Segue la più meditabonda "Reflections of Delusion", un pezzo che si muove tra atmosfere eteree e riff aguzzi, come se la mente cercasse di aggrapparsi a ricordi distorti, ormai corrotti dal tempo. Il canto del frontman rimbalza da uno screaming acuminato a un growl profondo, mentre l'assolo conclusivo regala attimi di una vena progressiva che sembra custodita gelosamente dal quintetto gallese. Con "Throes of Agony", la proposta sembra convolare verso un apice di intensità emotiva, anche se il brano è un vortice di ritmiche tormentate che si perdono nel vuoto. La produzione è cruda e viscerale, andando quasi ad amplificare il tormento che la band vuole trasmettere. È forse con le più lunghe "Proteus" e "Zenith Dolour" (21 minuti totali) che i nostri raggiungono le vette più rappresentative di un album decisamente più feroce del precedente. Qui meglio si bilanciano furia e malinconia, attraverso chiaroscuri chitarristici e atmosfere più delicate. Infine, la title track "Valediction" chiude il cerchio con una maestosità funerea, tra galoppate imbizzarrite e frammenti melodici. È un addio, un ultimo sguardo al passato prima di essere inghiottiti dall'oblio. Qui, gli Ofnus dimostrano tutta la loro abilità nel creare un'atmosfera che è al tempo stesso opprimente e catartica, lasciando l'ascoltatore svuotato, ma stranamente purificato. Un disco da ascoltare per confrontarsi con i propri tormenti interiori. (Francesco Scarci)

(Naturmacht Productions - 2025)
Voto: 74
 

giovedì 13 marzo 2025

Sear Bliss - Heavenly Down

#PER CHI AMA: Symph Black
I Sear Bliss potrebbero essere annoverati tra i pionieri del black metal atmosferico-avanguardistico. Me ne innamorai infatti quando nel 1998 uscì 'The Haunting', in cui faceva la comparsa nell'intelaiatura ritmica della band, la tromba. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e i nostri sono tornati alla carica nel 2024 con 'Heavenly Down', nono album per la band che non solo conferma il loro status di maestri del genere, ma li proietta verso nuove dimensioni sonore. Questo disco è un viaggio cosmico, un’esplorazione tra cieli tempestosi e abissi emotivi, dove ogni nota sembra avere un’anima, tra atmosfere epiche e tromboni trionfali che già si svelano nell'opening track, "Infinite Grey", che ci dà buone sensazioni di come sia la band oggi, dopo un silenzio durato sei anni. E se c’è una cosa che i Sear Bliss sanno fare meglio di chiunque altro, è quello di fondere il potere distruttivo del black metal con melodie che ti sollevano da terra. E questo nuovo disco non fa eccezione, dando largo spazio ai tromboni, vero marchio di fabbrica della band, che risuonano maestosi e aggiungono un’aura epica, quasi cinematografica ai brani. "Watershed" rappresenta il secondo indizio, con il suo mid-tempo ragionato e i suoi fiati a prendersi il giusto spazio che meritano. "The Upper World" è il terzo indizio, e a questo punto, come diceva Agatha Christie, tre indizi ci consegnano la prova di come il quintetto magiaro sia in grado di offrire melodie taglienti, passaggi orchestrali, creando un contrasto perfetto tra caos e armonia, epicità e melodia che troverà modo di esplicarsi anche attraverso altri splendidi brani, tra cui la più mite e onirica title-track e la cosmico-sperimental-elettronica "The Winding Path", un pezzo di notevole spessore che racchiude l'essenza di questo sorprendente 'Heavenly Down'. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Productions - 2024)
Voto: 80

https://searblisshhr.bandcamp.com/album/heavenly-down

martedì 11 marzo 2025

Räum – Emperor of the Sun

#PER CHI AMA: Raw Black
Dagli abissi di Liegi, ritroviamo i Räum che tornano a squarciare la realtà con 'Emperor of the Sun', secondo sigillo scagliato nel vuoto in questo inizio 2025, come sempre sotto l’egida della Les Acteurs de l’Ombre Productions. Dopo aver recensito, non troppo brillantemente a dire il vero, il precedente 'Cursed by the Crown', mi ritrovo oggi ad ascoltare una band che nel frattempo dovrebbe aver affinato la propria arte, costruendo un altare di gelo e fiamme che brilla di un’oscurità tanto feroce quanto ipnotica. Sette lame di un black metal che sanguina melodia (poca) e disperazione (tanta), laddove non c’è redenzione, ma un inno alla caduta, un’eco di grandezza e rovina che si riflette nei resti di un’umanità condannata a divorare se stessa. Il nuovo disco si apre con "Eclipse of the Empyreal Dawn" e uno squarcio di chitarre gelide che si leva su un drumming furioso, mentre folate atmosferiche s'intrecciano a un cantato che sembra emergere dalle viscere della terra. L’atmosfera è densa, quasi sulfurea, ma vi garantisco che lo sarà ancor di più in "Grounds of Desolation", un’eclissi che soffoca la luce con melodie eteree, un lamento da terre desolate spezzate da un black mid-tempo, che vede in un asfissiante break centrale, un interludio spoglio, quasi spettrale che lascia spazio a un vuoto che inghiotte. Ci eravamo persi "Nemo Me Impune Lacessit", ma che dire di un brano sparato alla velocità della luce e tagliente come schegge di ossidiana, grazie al suo black crudo, selvaggio e lacerante? E sulla medesima falsariga, ecco accendersi le fiamme di "Towards the Flames", un assalto furioso, al fulmicotone, con un riff impetuoso, uno screaming indemoniato che si eleva su un drumming martellante. Non troppa originalità per i nostri, ma questo già lo immaginavo. E la causticità sonora prosegue anche in "Obscure", un altro brano in cui non c'è il benché minimo avviso di tregua. Solo blast-beat feroci e chitarre in tremolo picking che urlano la propria malvagità, guidandoci attraverso il puro caos. Con la title track, il ritmo sembra finalmente rallentare in un'introduzione lenta e inquietante che dura, ahimè, solo pochi secondi. Poi spazio ad altre sciabolate ritmiche, sebbene il riffing torni a muoversi su ritmi più compassati e oscuri. Quello dei Räum è un suono alla fine troppo glaciale per i miei gusti, non che sia male ma mi trasmette poco, ma questo l'avevo già sottolineato un paio di anni fa. E la conclusiva "A Path to the Abyss" non stravolge la mia valutazione finale, vista la sua viscerale brutalità che chiude la porta di quell'abisso infernale in cui siamo sprofondati. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 64

https://ladlo.bandcamp.com/album/emperor-of-the-sun

lunedì 10 marzo 2025

Vuur & Zijde - Boezem

#PER CHI AMA: Post Black/Post Punk
'Boezem' degli olandesi Vuur & Zijde è un debutto audace e sorprendente, che fonde abilmente elementi di post-punk, shoegaze e black metal, in un'unica esperienza musicale avvolgente. La band, composta da membri di Terzij de Horde, Witte Wieven, Laster (tutta gente che abbiamo già incontrato qui nel Pozzo), ha creato un album che si distingue per la sua personalità e originalità, attraverso un viaggio sonoro peculiare, che vede aprirsi con "Onbemind", song roboante, melodica e malinconica, complice anche la voce della brava Famke, dotata di una timbrica pulita che si pone su un'architettura ritmica presa in prestito dal post black. L'impatto è dei migliori, perché decisamente inaspettato e soprattutto perché, a fronte di una possente ritmica, c'è sempre la calda voce di Famke (stravagante peraltro l'uso dell'olandese nelle liriche) a smorzare toni altrimenti collocati su un mid-tempo, sempre teso a improvvise accelerazioni, ma anche a momenti più onirici, proprio come accade nella seconda traccia. L'album è comunque un susseguirsi di buoni pezzi, con le chitarre sempre cariche di profondità malinconica, capaci di intrecciarsi e ben amalgamarsi con synth sognanti e ritmi a tratti, danzanti. Chiaro, ci sono anche momenti più ostici da digerire, e "Ús" è un bell'esempio di sonorità lente e dissonanti. Ci pensa poi "Omheind" a far ripartire le danze con il suo post punk incisivo e raffinato, con quel bel passo pulsante a guidarne le melodie, cosa che si riproporrà anche in "Adem". "Kuier" è decisamente lenta e oscura, più affine musicalmente a "Ús", ma forse la sua ridondanza ritmica la rende meno convincente rispetto alle altre. Meglio "II", sebbene anche qui, ci si attesti su sonorità claustrofobiche non cosi facili da digerire. Con "Nest" ci troviamo di fronte a pura e semplice furia black, corredata però dalla pulizia vocale di Famke a stemperarne ancora le frustate ritmiche. Alla fine, 'Boezem' è un album complicato che invita a inevitabilmente a numerosi ascolti per poterne cogliere ogni sfumatura più recondita. Bravi, buon esordio. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2024)
Voto: 75

https://vuurenzijde.bandcamp.com/album/boezem

sabato 8 marzo 2025

Shepherds of Cassini - In Thrall to Heresy

#PER CHI AMA: Prog/Psych/Post Metal
Avevo recensito i precedenti due album, rispettivamente nel 2013 e 2015, e li intervistai nello stesso 2015. Poi, un silenzio durato ben 10 anni. E ora, dal cuore pulsante di Auckland, gli Shepherds of Cassini (SoC) riemergono con 'In Thrall to Heresy', terzo capitolo della loro personale saga. Ma questo non è un semplice ritorno, è una metamorfosi, un’opera che spinge il progressive metal in territori inesplorati, intrecciando complessità tecnica, psichedelia turbinante e un’architettura musicale che sfida le convenzioni. Qui, il quartetto neozelandese dimostra come il prog non sia solo un genere, ma un’etica, un viaggio attraverso otto brani che rifiutano la stasi per abbracciare l’evoluzione. Il disco si apre con "Usurper", un'epopea sonora che ridefinisce i limiti del progressive, grazie a giochi in chiaroscuro affidati a un elegante arpeggio di chitarra che andrà successivamente a fondersi con un basso maestoso e con la voce (che faccio tuttavia ancora fatica a digerire, nella veste clean) di Brendan Zwaan. Il flavour sonico ci riporta immediatamente ai Porcupine Tree, ma presto il tutto sarà travolto dal violino elettrico di Felix Lun, con un suono che stride come un oscuro presagio. La struttura del pezzo diventa ben presto un labirinto, tra esplosioni prog e rallentamenti di "opeth-iana" memoria, in bilico in un continuo stato tensivo. Ora ricordo perché li ho adorati nei precedenti lavori. Forse preferivo quando i vocalizzi valicavano il growl e il suono era più orientato al post metal, ma anche in questa nuova veste, è chiaro che i nostri abbiano parecchio da dire, tra assoli di violino (alla Ne Obliviscaris) ed escursioni nel prog rock. Tempo di un intermezzo spaziale e siamo a "Slough", un altro brano dall'intelaiatura sonica tipicamente prog, tra cambi di tempo, atmosfere mutevoli, un groove di basso in sottofondo che ribolle come lo stufato in una pentola a pressione, graffi di chitarra che agitano melodie cerebrali - scuola King Crimson - e furiosi crescendo esplosivi, coadiuvati qui anche da un cantato estremo. Difficile ipotizzare cosa aspettarsi in tutto questo marasma, se dopo le derive estreme, si sfocia in momenti di calma ipnotica che disorientano non poco. Ma questo è il bello degli SoC. "Vestibule" è una lunga (un filo troppo) intersezione di cosmic psych rock che fa da passaggio verso l'ignoto che si materializza con la successiva "Red Veil". Qui, un sincopato riffone di chitarra guida la sghemba melodia, a braccetto con il growling di Brendan, in un brano che potrebbe evocare un che dei Tool, in un pezzo comunque ostico, contorto, furioso, una continua danza tra imprevedibili punteggiature arpeggiate e roboanti partiture ritmiche, in un precario equilibrio tra melodia e prog sperimentale in un continuo crescendo dinamitardo. "Mutineers" è un altro sinistro bridge strumentale affidato a chitarra, violino e tastiere dissonanti, una distopica dilatazione del tempo che ci accompagna ad "Abyss". Qui, realmente si sprofonda in un abisso temporale di oltre 16 minuti che vede il brano spalancarsi con un basso ipnotico, preludio della fine del mondo. Effetti vocali filtrati, percussioni tribali, suoni di synth in sottofondo e la trasfigurazione di nuovi mondi in musica, narrati dalle efficaci clean vocals di Brendan, sono tutto quello di cui avete bisogno. Il brano evolve in una matrice sonora contrastata, da brezze eteree a sezioni più pesanti che si sciolgono in interludi post rock guidati dal violino imbizzarrito di Lun, in grado di guidare l'ascoltatore attraverso un'oscurità densa e affascinante (ascoltatevi gli ultimi due minuti della song e capirete cosa intendo), in un viaggio complesso e avvincente. In chiusura, un pianoforte introduce "Threnody" e la sua melodia fiabesca che chiude un disco pronto a lasciare il segno. (Francesco Scarci)
 

mercoledì 5 marzo 2025

Peacemaker - Internal Revolution

#PER CHI AMA: Thrashcore
Mi mancava ascoltare un po' di musica "marciona" e direi che 'Internal Revolution', secondo atto dei polacchi Peacemaker, incarna al meglio questa mia definizione. Questo disco è una dichiarazione di guerra alle schifezze commerciali che ammorbano l’aria, un pugno in faccia tirato da cinque tizi di Rawicz che non scherzano di certo. Nove pezzi, di cui gli ultimi tre pescati dritti dall’EP 'Words of My Life' del 2017, ti sbattono contro un muro di suono puro e semplice, a partire da "(We Come) From Nowhere". Qui i riff ti aggrediscono come un pitbull scappato dalla catena, con quel sapore thrashcore dei primi ’90 che urla Suicidal Tendencies nei cori e ti fa pensare ai nostri IN.SI.DIA che spaccavano tutto ai tempi d’oro. È roba che ti entra nelle ossa e non ti molla più. Il virus si diffonde veloce: "Stay Human" rallenta un filo, ma ti colpisce con una pesantezza che sa di Machine Head, anche se non siamo ancora al livello dei titani di Oakland. Eppure, se sei uno che vive per le chitarre che tagliano come rasoi e i ritmi che ti fanno sbattere la testa contro il muro, qui c’è pane per i tuoi denti. "Infected Mind" ti spara in faccia un’apertura che sembra un martello pneumatico, con cambi di tempo che tengono alta l’adrenalina e un finale dove la batteria pesta come se volesse sfondare il pavimento – roba da far tremare i vetri! La voce? È un casino strozzato, un mix tra un growl che non decolla e un pulito che inciampa, ma cazzo, funziona alla perfezione col sound corrosivo di questi cinque selvaggi. Il copione è quello classico del thrash ’90: "Today Is the Day" e la title track non inventano niente, ma ti trascinano in un vortice di riff compatti e ritmi che non accelerano mai fino a velocità folli, preferendo affogarti in una melma sludge che puzza di marcio. Poi arrivano i pezzi ripescati dall’EP – "The Rat Race Has Started" è un’esplosione breve e feroce, "99 Thousand of Lies" ti pesta con quel groove distorto che strizza l’occhio ai Pantera. 'Internal Revolution' non è un disco che rivoluziona il mondo, ma è un blocco di granito, genuino e incazzato, con le radici piantate dritte nei gloriosi anni ’90. Se sei uno di quelli che rimpiange i giorni in cui il thrash si suonava con le budella e non con i computer, questo album ti farà pogare fino a spaccarti il collo! (Francesco Scarci)

martedì 4 marzo 2025

Deus Sabaoth - Cycle of Death

#PER CHI AMA: Symph Black/Doom
Dal gelo infernale dell’Ucraina, emergono i Deus Sabaoth con 'Cycle of Death', un debutto che lacera il silenzio sotto il vessillo indipendente di un’auto-produzione. Sette tracce che si accodano a un black melodico, in un’ode alla desolazione che non si limita a urlare nel vuoto, ma lo veste di armonie strazianti e sinfoniche. Qui non troverete il caos primordiale tipico del black nudo e crudo: qui la melodia è un’arma, affilata e intrisa di un dolore che si riflette nelle steppe desolate e nel peso di un’esistenza vana. Forgiato in un paese spezzato dalla guerra, il disco respira un’atmosfera di resilienza e malinconia, un rituale che rifiuta la luce per abbracciare l’eterno crepuscolo. Il disco si apre con "The Priest", il cui gelido rifferama s'intreccia a un cantato gutturale che sembra sputare veleno sugli altari corrotti di quel prete menzionato nel titolo del brano. La melodia, di chiara ispirazione classica, si srotola come un lamento funebre, mentre la batteria martella con furia controllata. "Mercenary Seer" apre con un arpeggio ben calibrato, ma è solo un inganno, visto che il brano esploderà in un vortice di riff taglienti e ritmi serrati che richiamano un che dei Cradle of Filth, complice l'evocativo black melodico che si fa traino come un’àncora in un mare in tempesta. L'alternanza vocale tra scream/growl e salmodianti voci pulite, fa il suo dovere mentre le chitarre si rincorrono come gazzella e leone nella savana. Ancora un arpeggio ad aprire elegantemente la title track, contraddistinta da uno stile barocco presto travolto da chitarre possenti e un growl davvero lacerante, che andranno a intrecciarsi a orchestrazioni intriganti ma forse ancora un filo da affinare e ripulire a livello di suoni. Però il brano ha il suo fascino, e si lascia facilmente ascoltare assimilandosi a una versione death dei CoF, ma alla fine lascia il segno, prima dell'arrivo inesorabile di "Executioner". Qui, ritmi doom sembrano imperversare nelle note del trio ucraino, creando un'atmosfera di condanna in un pezzo in cui la melodia, guida come una lama che affonda piano le carni. Ancora musica classica in apertura - un po' sullo stile degli austriaci Angizia - con il turno della più densa "The Blind", un altro pezzo che fondamentalmente, si accoda alle precedenti song, pur abbracciando uno stile più lento e compassato, che vedremo riproposto anche nella successiva "Faceless Warrior". Forse è proprio in questa leggera staticità di fondo, in tema di variazioni al tema, che rischiamo di trovare il punto di debolezza dell'album, che ha ancora nella conclusiva "Beginning of New War", l'ultima arma a disposizione. Qui, riff glaciali e blast beat irrompono veementi, mettondosi a braccetto con la melodia che mostra comunque un ruolo cardine nell'economia di un brano feroce eppure elegante. Alla fine 'Cycle of Death', pur non inventando nulla di nuovo, mostra le più che discrete capacità compositive del terzetto ucraino. Certo, c'è ancora da affinare la tecnica, migliorare la pulizia del suono, ma diciamo, che la strada imboccata, sembra quella giusta. (Francesco Scarci)

Hell:On - Shaman

#PER CHI AMA: Thrash/Death
Quando il vento gelido delle steppe ucraine si mescola al clangore di un death brutale e primordiale, ecco nascere 'Shaman', settimo sigillo degli Hell:On. Avevo amato il precedente 'Scythian Stamm' e quindi, le mie aspettative per questo nuovo lavoro, devo ammettere fossero piuttosto elevate. Questa nuova fatica del quintetto di Zaporizhia si presenta come un rituale sonoro, un viaggio nelle tenebre che ci ricorda che la musica non è solo una forma d'arte, ma un modo per esplorare i recessi più profondi dell'anima. L'apertura dell'album, "What Steppes Dream About", è un pezzo che evoca immagini di antichi rituali tribali, sostenuta da un riff di chitarra che s'insinua come un serpente venefico. Il growl del frontman solca l'aria, trasmettendo un senso di invocazione, come se stesse chiamando a raccolta le forze oscure dei nostri antenati, mentre le chitarre di Hellion e Anton, costruiscono un muro di suono che crolla in un assalto death metal. "When the Wild Wind and the Soul of Fire Meet" è la classica quiete prima della tempesta: in principio, solo flebili suoni poi sostituiti da riff travolgenti e una batteria martellante che si fondono in un crescendo implacabile, atto a creare un muro sonoro che travolge l'ascoltatore, in un finale sincopato che mi ha evocato i primissimi Septic Flesh. Ma è forse con "Tearing Winds of Innerself", che la tempesta interiore prende forma in un assalto di blast beat e killer riff, un tornado sonoro che squarcia ogni difesa, anche laddove persistono le porzioni tribali, ma che prende il sopravvento quando i nostri ci lasciano cadere in un ubriacante maelstrom sonoro e ci avvolgono in un epico assolo conclusivo che lascia un’atmosfera incandescente. Si prosegue con il misticismo sciamanico di "Preparation for the Ritual", che va a fondersi con una brutalità sonora, creando un incantesimo che non lascia scampo, in una sorta di versione death metal dei Melechesh. Con "He with the Horse’s Head", il galoppo ritmico è un’eco di zoccoli su una pianura arida, mentre le chitarre intrecciano melodie mediorientali a un death metal possente, e in cui va sottolineata, ancora una volta, la performance solistica delle due asce e il dualismo vocale di Olexandr Bayev, abile a muoversi tra growl e vocals strozzate in gola. La caduta si approfondisce in "A New Down". Riff spezzati si uniscono a un ritmo forsennato, in una furente cavalcata che mi ha ricordato i Sepultura di 'Arise' uniti ai Death di 'Human', mentre un assolo vertiginoso squarcia la matrice sonora nella seconda metà del brano. Il drumming è un ruggito continuo, un tuono che non si ferma davanti a nulla, anche nella successiva "I Am the Path". Qui, la batteria di Leshiy colpisce con precisione brutale, alternando raffiche a pause cariche di un silenzio inquietante, mentre le chitarre s'intrecciano in armonie oscure e taglienti, e la voce ruggisce come un oracolo posseduto. A chiudere il disco, ecco la title track, un pezzo che apre con roboanti ritmiche scuola Morbid Angel, per poi cedere il passo a un’atmosfera doomeggiante, che è un misto tra misticismo e nichilismo. Alla fine, 'Shaman' non raggiungereà i livelli eccelsi del suo predecessore ma comunque si dimostra come un album solido, un rito, un cerchio di fiamme e teschi che chiama a sé gli spiriti di un tempo, di un’Ucraina ferita che respira guerra e sopravvivenza. (Francesco Scarci)

(Archivist Records Ukraine - 2025)
Voto: 80

https://hellonband.bandcamp.com/album/shaman

lunedì 3 marzo 2025

Aquilus - Bellum II

#PER CHI AMA: Atmospheric Black Metal
Gli australiani Aquilus emergono come un’ombra misconosciuta nel vasto abisso del panorama estremo. Il loro primo vagito, 'Griseus', mi aveva avvinto nel 2011, un lamento primordiale che mi aveva rapito l’anima, per poi svanire in un silenzio tombale durato un decennio, un vuoto che mi aveva indotto a considerarli perduti nelle tenebre. Dieci anni di muta oscurità, spezzati solo dall’eco lontana di 'Bellum I' nel 2021, e poi, come un fulmine che squarcia un cielo catramoso, l’anno scorso è giunto, inatteso, 'Bellum II', secondo capitolo di una saga maledetta. La formula di questa one-man-band orchestrata dall’enigmatico Waldorf, si erge ancora come un monolito, un’opera titanica che intreccia il black metal atmosferico a spettrali influenze classiche, trascinando chi osa ascoltare in un viaggio sonoro che è al contempo epico e soffocante. L’album si spalanca con “By Tallow North”, un breve squarcio che non è solo un’introduzione, ma un’entità a sé, un portale che proietta immediatamente in un regno di maestà oscura ed eterea grandezza. Qui, riff taglienti come lame si fondono a melodie fragili come cristalli di ghiaccio, plasmando un paesaggio sonoro che geme sotto il peso di emozioni torbide. Ma è con “Into the Earth” che si precipita nel cuore del disco: ogni traccia si dipana come una piccola epopea, un intrico di dettagli sonori e mutamenti repentini che incatenano l’ascoltatore in una morsa implacabile. Siamo nei territori del black atmosferico, eppure chiamarlo così appare un insulto, una semplificazione che non rende giustizia alla complessità di questi passaggi strumentali, intricati come ragnatele di un’antica cripta, che tessono atmosfere cinematografiche e spettrali. È come assistere a un film muto e funereo, dove melodie struggenti, orchestrazioni sinistre e fughe vertiginose si intrecciano, tenute insieme solo dal filo rosso dello screaming lacerante del polistrumentista australiano, un urlo che sembra provenire da abissi insondabili. Le tracce più lunghe, come “Nigh to Her Gloam” – un colosso di quasi diciassette minuti –, si snodano come serpenti attraverso una serie di movimenti inquieti: raffiche di pura ferocia si alternano a pause di quiete ingannevole, dove arpeggi di chitarra dalle venature folkloriche, emergono come fantasmi di un passato dimenticato. È qui che si manifesta la genialità compositiva di Waldorf, un demiurgo che plasma il caos con mani insanguinate. E poi c’è “My Frost-Laden Vale”, un’altra suite di oltre diciassette minuti, un abisso in cui il mastermind di Melbourne, scatena una tempesta di visioni: dai primi sussurri atmosferici, che evocano una primavera morente, si scivola in sezioni più oscure, squarci cinematografici che si tingono di una dolcezza malinconica, quasi insopportabile, in contrasto con le sferzate più brutali dell’album. Il risultato è un’aberrazione gloriosa, un’opera che travalica i confini del genere, un’esperienza sonora che si insinua nella mente come un veleno, costringendo a contemplare il baratro e risvegliando emozioni che è meglio lasciare sopite. (Francesco Scarci)

(Northern Silence Productions - 2024)
Voto: 85

https://aquilus.bandcamp.com/album/bellum-ii

martedì 18 febbraio 2025

Oranssi Pazuzu - Muuntautuja

#PER CHI AMA: Psych Black Sperimentale
Converrete con me che gli Oranssi Pazuzu siano un unicum nel panorama estremo. 'Muuntautuja' è il loro sesto album sempre focalizzato a mescolare elementi black metal, psichedelia ed elettronica, in un'opera che sfida ancora una volta, ogni tipo di convenzione. Con questo lavoro, la band finlandese riesce a mantenere la propria identità unica esplorando nuovi territori sonori mantenendo comunque intatta quell'atmosfera oscura e ipnotica, marchio di fabbrica del combo di Tampere. I brani oscillano tra momenti di intensa aggressività (come nell'iniziale "Bioalkemisti" o nell'ancor più sghemba "Voitelu") e sezioni più tranquille e riflessivo (come accade nella title track, che segna una transizione verso un sound più minimalista e fluido, con l'elettronica che gioca un ruolo centrale, ove dominano sintetizzatori inquietanti e ritmi pulsanti), creando comunque un flusso sonoro avvolgente. I brani possono passare da esplosioni di rumore a momenti di calma quasi meditativa (ascoltare l'angosciante "Hautatuuli"). Un break rumoristico ("●") e siamo già proiettati verso un finale apocalittico con un trittico di song che vede in "Valotus" un esempio di umorale rumoristica espansione primordiale, song straniante dotata di un finale in cui il black sfocia in un puro noise dronico. "Ikikäärme", la traccia più lunga del disco, ha un incipit inquietante e un carattere comunque assai stralunato, quasi stessimo assistendo a un incubo a occhi aperti; il pezzo alterna comunque parti aggressive a sezioni atmosferiche che evocano immagini di paesaggi alieni. La conclusiva e ambientale "Vierivä Usva" conferma l'audacia di un lavoro che si configura a essere come una vera e propria odissea sonora, capace di condurre l’ascoltatore attraverso territori sconosciuti al di là delle Colonne d’Ercole. (Francesco Scarci)

Evoking Winds - Your Rivers

#PER CHI AMA: Black/Epic/Folk
L'album 'Your Rivers' degli Evoking Winds si è rivelato per il sottoscritto una delle sorprese più entusiasmanti del 2024, consolidando il talento di questa band bielorussa che continua a stupire con la sua capacità di fondere black metal e folk in un equilibrio impeccabile. Giunto al loro sesto lavoro, il gruppo dimostra una maturi artistica notevole, spingendosi verso nuove direzioni sonore senza tradire il proprio stile distintivo. Questo disco, composto da dieci tracce per un totale di 51 minuti, si distingue per la sua atmosfera incredibilmente evocativa e malinconica, un viaggio musicale che intreccia riff di chitarra possenti con melodie folk ricche di profondità e intensità emotiva. Brani come l'opener "Verily Said" o le straordinarie "The Lights of Skellige" e "Lilac and Gooseberries" sono perfetti esempi della versatilità della band: momenti di feroce aggressività si alternano a sezioni melodiche e contemplative, intrise di una magia eterea che deve molto anche alla presenza di vocalizzi femminili sognanti. La strumentazione usata dalla formazione a otto elementi, è un vero punto di forza dell’album: flauti, arpe, cornamuse e ben tre chitarristi creano un senso dinamico e stratificato, arricchendo ogni traccia con contrasti affascinanti. Questo connubio tra strumenti acustici e parti elettriche si fa particolarmente evidente in episodi come "Brotherhood of Brenna" o la title track, dove soluzioni orchestrali amplificano l'aspetto epico e cinematografico del disco. La produzione è impeccabile, riuscendo a valorizzare ogni dettaglio senza mai sacrificare l’impatto emotivo o l’intensità dei brani. Blast beat furiosi, tremolo picking raffinati e arrangiamenti curati convivono in un insieme che non stanca mai, offrendo un’esperienza sonora a dir poco immersiva. I testi affrontano con sensibilità e profondi temi universali come i mutamenti del mondo, i conflitti, l’amore, la morte e il ciclo perenne della vita, conferendo ulteriore spessore a un’opera già straordinaria sotto il profilo musicale. Seppure disponibile solo in versione digitale unico piccolo rammarico 'Your Rivers' si guadagna, senza esitazione, un posto tra i migliori album dell’anno, almeno per il qui presente. È un lavoro imprescindibile per chi cerca autenticità, innovazione e una freschezza rara nel panorama musicale contemporaneo. Una scoperta che merita tutta l’attenzione possibile. (Francesco Scarci)

giovedì 13 febbraio 2025

Hippotraktor - Stasis

#PER CHI AMA: Post Metal/Djent
Io non gli avevo dato molto credito all'inizio ma 'Stasis', dei belgi Hippotraktor, è uno di quegli album che ha ricevuto un'accoglienza entusiasta da parte della critica e dei fan, consolidando la band come una delle nuove promesse nel panorama post-metal. Alla fine anche il sottoscritto si è ricreduto, e non è rimasto immune al fascino emanato dal secondo album del quintetto di Mechelen, per un disco che si distingue per la sua fusione di generi, combinando elementi djent (l'opener "Descent", cosi come la title track, con il loro groove sincopato alla Meshuggah, ne rappresentano il manifesto programmatico), post-metal (palesi, a tal proposito, le influenze di scuola The Ocean in "The Reckoning") e progressive metal (e qui, "Echoes" e "The Indifferent Human Eye", potrebbero essere dei buoni esempi della combinazione di questi ultimi due generi). In questo modo, la band riesce a mantenere un equilibrio tra complessità e accessibilità, con brani che si sviluppano in modo dinamico e coinvolgente, mantenendo la componente melodica una parte importantissima nell'economia del disco. Questo approccio diretto è, alla fine, una delle caratteristiche distintive dei nostri, che sembrano non amare le introduzioni lente, privilegiando l'immediata immersione dell'ascoltatore nel cuore dell'azione, in cui a primeggiare sono le vocals pulite del chitarrista Sander Romi (che strizza l'occhiolino al bravissimo frontman dei The Ocean), a cui fanno da contraltare i grugniti di Stefan de Graaf, mentre la ritmica è un macigno che si muove talvolta sinuosa ("Renegade"), e in altri casi più robusta ("Silver Tongue"), comunque garantendoci alla fine un ascolto coinvolgente, ispirato, e certamente destinato a lasciare il segno nel panorama post moderno, soprattutto tra tutti quelli che amano un sound più ricercato e originale, io in primis. (Francesco Scarci)

(Pelagic Records - 2024)
Voto: 80

https://hippotraktor.bandcamp.com/album/stasis

martedì 11 febbraio 2025

Unreqvited - A Pathway to the Moon

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze
Il buon William Melsness (aka 鬼), nonostante la sua giovane età (30 anni compiuti da poco), è arrivato al ragguardevole traguardo del settimo album con gli Unreqvited, senza contare poi EP, split sotto lo stesso moniker e altri album sotto il nome H V N W R D ., The Ember, the Ash, il fantasy dungeon dei Ilúvatia o l'emo dei Write Home. Insomma, un artista a tutto tondo che in 'A Pathway to the Moon' trova, a mio avviso, la sua consacrazione. Il nuovo album si presenta come un'opera audace e intensa, che esplora le profondità dell'emozione umana attraverso sonorità ricche e stratificate che portano avanti il marchio distintivo del blackgaze/post black degli Unreqvited. Dopo l'intro di rito, ecco esplodere, quasi inaspettatamente, il black di "The Antimatter", un brano che sembra coniugare l'orchestralità dei Dimmu Borgir con atmosfere più eteree, mescolando splendide melodie con passaggi più violenti (quasi djent), creando un contrasto in grado di destabilizzare chi conosce bene la one-man-band canadese, tra cui il sottoscritto. Riconosco invece il marchio di fabbrica del polistrumentista nord americano in "The Starforger", un pezzo onirico, dannatamente malinconico, quasi straziante nelle sue melodiche linee di chitarra e nel dualismo vocale tra voci pulite e scream. Un brano, subito eletto come il mio preferito, che avvolge come un tenero abbraccio da cui sarà difficile staccarsi. Ma il disco è un susseguirsi di emozioni in grado di indurre una profonda analisi introspettiva. Pezzi come "Void Essence/Frozen Tears" e "Into the Starlit Beyond", offrono altri esempi ineccepibili di un sound incentrato su uno shoegaze evocativo, coinvolgente, delicato che merita di essere ascoltato e soprattutto vissuto, con tutto quell'impatto emotivo che da essi ne deriva. 'A Pathway to the Moon' è un gioiello che vede ancora in "Departure: Everlasting Dream", l'ideale colonna sonora del nuovo capitolo della saga di Avatar, 'Fuoco e Cenere', di prossima uscita, per quella sua capacità di creare paesaggi sonori complessi ed evocativi. Un lavoro questo che, enfatizzato da una produzione spettacolare, permetterà di accogliere nuovi adepti tra i fan degli Unreqvited, per un viaggio sonoro che merita di essere esplorato da chiunque. (Francesco Scarci)