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sabato 27 dicembre 2025

Dawn of a Dark Age - Ver Sacrum

Ascolta "Ver_Sacrum_Clarinet_Avant_Garde_Black_Metal" su Spreaker.
#PER CHI AMA: Black/Avantgarde/Folk
'Ver Sacrum' dei Dawn of a Dark Age segna il ritorno della creatura di Vittorio Sabelli, un progetto che ha saputo ridefinire i contorni del black metal d'avanguardia, innestandovi una colta sensibilità jazz e soprattutto radici folk. La nuova opera, la nona della discografia del polistrumentista italico, qui accompagnato peraltro da nuovi fidi scudieri, prosegue chiudendo quell'esplorazione legata alla tradizione rurale sannita di cui Vittorio si è già fatto portavoce in passato, elevando l'artista a figura centrale per chi cerca un sound raffinato che sia narrazione storica oltre che assalto sonoro. Il nuovo disco s'inserisce quindi nel solco di una sperimentazione che da sempre contraddistingue il mastermind molisano. La visione concettuale prende vita grazie a una produzione cristallina, la cui abilità non sta solo nel far convivere il calore della narrazione con la freddezza delle distorsioni black, ma anche nel dare a ciascun elemento uno spazio definito, scongiurando il caos con gli arrangiamenti che si esplicano come un mosaico sonoro di rara coesione. L'album si sviluppa come un percorso narrativo in quattro tappe che vedono il proprio incipit in un brano, "Il Voto Infranto (L'Ira di Mamerte)", in cui il clarinetto di Sabelli si conferma una splendida voce solista in grado di duettare con chitarre stratificate e una sezione ritmica dinamica, mentre il cantato spazia da screaming ferini a passaggi narranti. Il finale si dipana quasi come un rito di iniziazione (complice anche il tema del disco legato alla Primavera Sacra - il Ver Sacrum appunto - dei Sanniti, un antico rito italico di fondazione e migrazione, promesso agli dei per scongiurare carestie o sovrappopolazione) che rafforza quell'idea di fondo di Vittorio di utilizzare la propria creatura per narrare un viaggio antropologico, in cui il legame con la sua terra assume sembianze ben più profonde e viscerali. Il viaggio prosegue con "Il Consiglio degli Anziani (L'oracolo)", in cui buona parte del brano viene affidato alla musica, fatto salvo per alcuni cori che si palesano tardivamente, in un folk black affascinante che tocca il suo culmine di drammaticità a ridosso dell'ottavo minuto. Qui, la musica assume sembianze tribali mentre la voce narrante spiega quale fosse il tributo al dio Mamerte e la devozione alla sua figura. Chiaro che di fronte a questa proposta musicale, il rischio è di rimane incantati o disorientati, anche perchè l'aspetto musicale sembra concatenarsi con quello visuale e concettuale. Sappiate però che il finale del brano è una cavalcata black di 90 incendiari secondi. Si arriva quindi a "Il Rito della Consacrazione", un mid tempo, in cui voci salmodianti in stile Attila Csihar, si ergono sopra un tappeto ritmico glaciale, sciolto solamente dall'estetica calda e suadente del clarinetto di Vittorio e da un'atmosfera che si fa via via più malinconica. "Venti Anni Dopo: la Partenza (Nascita della Nazione Sannita)" è l'ultimo capitolo del disco: 14 minuti di grande intensità ed eleganza, tra ritmiche roboanti, grim vocals, sprazi acustici e dalle tinte epico-folkloriche, narrazioni storiche e ovviamente, l'immancabile clarinetto, che stempera la furia primordiale black che divamperà a più riprese nel brano. Il pezzo è un gioiello di rara eleganza, tra atmosfere bucoliche che sembrano sospese nel tempo, momenti intimistici (attorno al decimo minuto) e un finale affidato a un'invocazione litanica che sembra rievocare la conclusione de 'La Tavola Osca', da cui tutto ebbe inizio. 'Ver Sacrum' alla fine sottolinea la maturità artistica ormai raggiunta da diversi dischi dal buon Vittorio, un lavoro che chiude un capitolo storico e narrativo della discografia dei Dawn of a Dark Age. L'auspicio è che da questa conclusione possano germogliare, proprio come nel rito che le dà il nome, molti altri capitoli futuri. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2025)
Voto: 82

martedì 23 dicembre 2025

Eternal Enemy - Fatal Disease Called Life

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Tra gli album che non ho particolarmente apprezzato in quest'ultimo scorcio d'anno, figura 'Fatal Disease Called Life', opera prima (all'attivo hanno solo un EP) dei canadesi Eternal Enemy. Se al primo ascolto ero stato gravemente critico nei confronti della band originaria di Victoria, tanto da pensare di massacrarli in sede di recensione, al secondo, il buon senso ha prevalso. Questo non significa che andrò a premiare il disco del duo nord americano, ma di certo non lo bistratterò in malissimo modo. Otto i brani inclusi (la cui durata media è di tre minuti) che si rifanno al classico old school americano, fatto di riff cavernosi ultra ribassati e vocals effettate probabilmente dall'utilizzo di soda caustica durante i gargarismi pre-registrazione. La musica sembra piuttosto piattina al primo impatto, la produzione non ne agevola peraltro l'ascolto, ma la proposta viene salvata in un qualche modo, da soluzioni chitarristiche/assoli vari che mi hanno indotto a immaginare la band come un mostro mitologico che combina il virtuosismo dei primi Nocturnus, coniugato con l'abominio degli Autopsy e alla follia recondita degli Akercocke, il tutto annaffiato dalla putrescenza dei teutonici Carnal Tomb. Una bell'accozzaglia di suoni insomma che probabilmente, alla fine non accontenterà nessuno. Tuttavia qualche buon pezzo, almeno musicalmente parlando, c'è: "Dark Days Ahead" non sarebbe infatti male, se poi non ci fosse quella voce mostruosa che rovina il tutto. Anche la successiva "Corpse Stench", song stralunata e sperimentale, potrebbe avere qualcosa di interessante da dire, se solo avesse una componente vocale di tutt'altra caratura. "Massacre the Masters" ha una linea di chitarre fresca, sinistra e melodica, ma nuovamente, il vocalist ci mette del suo per rovinare il tutto. Lo stesso dicasi dell'altrettanto atmosferica "Rivers of Ghosts", e da un taglio progressive completamente devastato da un cantato a dir poco peccaminoso. Il verdetto finale è un peccato che penalizza la proposta del duo. Il potenziale compositivo non basta infatti a superare lacune tanto gravi. La diagnosi è chiara e il rimedio uno solo: rinnovare chirurgicamente le corde vocali del frontman. Senza questo intervento cruciale, sarà impossibile per gli Eternal Enemy ripresentarsi con una proposta più solida e decorosa. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 58

sabato 20 dicembre 2025

Who Bastard - Ghoul

#PER CHI AMA: Black/Punk
Della serie album diabolici e come evitarli, vi presento oggi il nuovo EP (il secondo della loro discografia) degli australiani Who Bastard. Quattro brani, soli dieci minuti di black punk che vi corroderanno le orecchie. Ecco in soldoni 'Ghoul', uscito da poche settimane autoprodotto. Si parte col basso assassino di "Raven" che innesca la prima traccia, tra ritmiche punk e screaming vocals che, in poco meno di un minuto, risolverà la pratica in tutta la sua banalità. Si prosegue con la lunga title track, ben quattro minuti di sonorità che evocano, almeno a livello musicale, un che della creatura che ha preceduto gli Entombed, ossia i Nihilist, qui solo in una veste più thrash metal e meno death furibondo. Un bel tuffo indietro nel passato quindi, tra suoni old school che s'intrecciano con l'acidità del black odierno e addirittura sprazzi doomish che si palesano a metà brano. Poca tecnica, zero solismi, una gran voglia di spaccare culi e poco altro. Il tutto si conferma anche in un brano più compassato, come il sulfureo "Grave Hag", un pezzo che inizia piano per poi aumentare il numero di giri in un paio di riprese. Per evocare (ma sarebbe stato meglio invocare) i mostri sacri svedesi, ecco la conclusiva "Deathbringer", un'altra zampata di diabolico black punkeggiante che chiude un dischetto di cui io farei francamente a meno. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 58

giovedì 18 dicembre 2025

Dusk - Repoka

Ascolta "Dusk_Repoka_Industrial_Metal_Breakdown" su Spreaker.
#PER CHI AMA: EBM/Industrial/Black
Costa Rica "Pura Vida": questo era il mantra che i costaricensi continuavano a pronunciare durante il mio soggiorno in quel paese meraviglioso, un luogo fatto di sole, mare e natura sconfinata. E da un posto cosi assolato, mai mi sarei aspettato di ritrovarmi un lavoro come il qui presente 'Repoka', un emblematico esempio di industrial black a dir poco disturbante. I Dusk non sono certo dei pivelli, avendo alle spalle ben cinque full length e tre EP, tra cui il dischetto di oggi. La proposta dei nostri è un furibondo esempio di fredda estetica cibernetica nichilista che evoca i fasti dei Mysticum, miscelati alla pesantezza dei Godflesh. Al pari del sound sparatoci in pieno volto, un iceberg frantumaossa, la produzione è un monolite di freddezza chirurgica, costituita da un'indiavolata drum machine su cui si stagliano effetti sintetici ubriacanti, beat meccanici e spietati, con suoni in bassa frequenza. Dall'iniziale "Dark Shaman .2.25" alla conclusiva, e qui sta la sorpresa, "Raining Blood .2.25" (cover degli Slayer), il quartetto di Heredia, ci spiattella uno sciame di effetti alienanti, accompagnati da uno screaming de-umanizzato che resta sepolto nel sottosopra, come un rantolo proveniente da un mainframe impazzito. L'effetto finale è quello di un'atmosfera sospesa (special modo in "Directive7 .2.25") in cui la componente elettronica unita a quella estrema, collidono con violenza inaudita. La scelta di coverizzare "Raining Blood" degli Slayer poi non credo sia un omaggio alla band californiana, piuttosto una radicale operazione di rielaborazione. L'aggressione primordiale e viscerale del classico thrash viene qui trasmutata in un terrore freddo, psicologico e meccanico: il brano è quasi irriconoscibile, se non per il riff portante che emerge a fatica da un inedito e terrificante turbinio musicale in cui convogliano EBM, interferenze industrial noise, voci che sembrano uscite direttamente da 'Stranger Things', elettronica e tanta malvagità. ‘Repoka’ è un'opera di una coerenza feroce. Dall'inizio alla fine, i Dusk perseguono la loro visione estrema senza il minimo compromesso, costruendo un'esperienza sonora che non cerca di piacere, ma di sopraffare. Il risultato è un disco volutamente ostico, un assalto sensoriale che definisce con precisione chirurgica il proprio pubblico di riferimento. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

mercoledì 17 dicembre 2025

Cathedral - Society’s Pact With Satan

#PER CHI AMA: Psych/Doom/Stoner
'Society’s Pact With Satan' è un pezzo inedito che risale all'ultima incisione dei Cathedral in studio, prima del loro scioglimento, un pezzo che era andato perduto ma ritrovato dal produttore dell'ultimo 'The Last Spire', che con la band ne ha concordato la sua pubblicazione. Il degno atto conclusivo della loro metamorfosi stilistica? Come sempre, ai posteri l'ardua sentenza. Questa song, di quasi 30 minuti, sigilla la transizione magmatica che ha condotto la band dal doom metal più asfissiante e primigenio degli esordi, a una matura e complessa psichedelia occulta di inequivocabile matrice settantiana. Il DNA musicale del quartetto di Coventry è quello di sempre, ancorato quindi a un patto oscuro siglato tra la pesantezza monolitica dei Black Sabbath e l'estetica gotico-orrorifica di una certa cinematografia anni '70. A livello prettamente musicale, non si può certo rimanere delusi dalle chitarre di Gaz Jennings, che impartiscono una lezione di abrasività controllata, con la sua sei corde che gratta l'aria come carta vetrata su un muro di cemento grezzo, scolpendo riff che sono al contempo primitivi nella loro essenza e diabolicamente efficaci nel definire il mood opprimente del disco. Il basso di Scott Carlson è un'àncora che impedisce ai riff psichedelici di Jennings di dissolversi nell'etere, mentre la performance alle pelli è una scossa tellurica, che detta la cadenza di una marcia funebre inesorabile (i primi sette minuti) ma anche quella delle sfuriate che imperversano verso il dodicesimo e ventiduesimo minuto. Su questo fondale strumentale, si erge la performance vocale di Lee Dorrian che oscilla costantemente tra le urla acide quasi hardcore (sentitevela tra l'ottavo e il decimo minuto, sembra quasi il vocalist degli Entombed), il lamento e l'evocazione teatrale, a veicolare l'immaginario occulto che permea la traccia. Una song che si muove da un incedere lento, quasi liturgico, prima di virare improvvisamente verso sonorità più grooveggianti, dove a mettersi in mostra sarà sempre la chitarra ispirata del buon Gaz, sia a livello solistico che di costrutto melodico, per poi trascinare l'ascoltatore verso un abisso inevitabile. Voci da più parti aprono alla possibilità che i nostri possano ritornare, sarebbe un bel colpo per i maestri del psych doom. (Francesco Scarci)

(Rise Above Records - 2025)
Voto: 74

martedì 16 dicembre 2025

Belnejoum - Dark Tales of Zarathustra

Ascolta "Dark Tales of Zarathustra" su Spreaker.
#PER CHI AMA: Symph Black
I Belnejoum nascono dalla mente di Mohamed Baligh "Qaswad", che con questo 'Dark Tales of Zarathustra', vorrebbe imporsi nel vasto e competitivo panorama del symphonic black/death metal, con un'opera dall'ambizione parecchio evidente, forse troppo. L’album attinge a piene mani dall’eredità di giganti come Nile e Fleshgod Apocalypse, due influenze non proprio messe qui a caso, che emergono chiaramente sia nell'approccio tematico, sia nell'opulenza degli arrangiamenti orchestrali, accompagnati a una marcata vena mediorientale che ne fanno un prodotto alquanto originale, capace di distinguersi in un genere spesso affollato da imitazioni. La produzione, elemento fondamentale per una proposta così articolata, si presenta tuttavia come una lama a doppio taglio. Da una parte, gli arrangiamenti sinfonici, impreziositi da strumenti tradizionali orientali come il ney, sono curati nei minimi dettagli. Dall'altra, la sezione ritmica, nonostante la presenza di musicisti del calibro di George Kollias (Nile), Fabio Bartoletti e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalypse), sembra mancare di quella potenza necessaria per rendere l'esperienza d'ascolto memorabile. Eppure, le chitarre spiccano con un sound incisivo e affilato come ci si aspetta nel black metal, mentre le harsh vocals si alternano a growl profondi, calandosi alla perfezione nella narrazione drammatica dell'opera. L'aspetto lirico è sicuramente uno dei punti di forza del disco, con i testi che scavano nella figura e nella filosofia di Zarathustra, esplorando la sua progressiva corruzione con un viaggio tra desolazione, insanità e discesa spirituale. A livello musicale invece, tra i brani più rappresentativi, citerei la lunga opener, "Prophet of Desolation", che emerge come un manifesto della ferocia sinfonica dell’album, abbinando maestosità orchestrale a martellanti blast-beat. "Tower of Silence", aperto dalla dolcezza del ney (il flauto tradizionale della musica mediorientale), combina aggressività e momenti più atmosferici, con tanto di vocals femminili, a celebrare l’essenza orientaleggiante del concept. "Elegie" è un interludio caratterizzato da un pianoforte e dal raro (fato da tal Rugieri a Cremona nel 1695) violoncello di Jeremy Garbarg che stempera la poetica (per la presenza dello splendido violino di Mohamed Medhat) irruenza di "On Aeshma's Wings", sigillando uno dei brani più brutali dell’album. "In Their Darkest Aquarium", con la sua melodia cinematica, sembra condurre l'ascoltatore in un film di fantasmi, sebbene poi le liriche narrino la storia di un bambino intrappolato in un acquario oscuro. L'arrangiamento alterna momenti eterei con esplosioni di blast-beat e cori spettrali, creando un'atmosfera sinistra che lo distingue come uno dei momenti più evocativi e disturbanti del disco. In sintesi, 'Dark Tales of Zarathustra' è un’opera che merita l'attenzione di chi cerca nel metal estremo non solo velocità e violenza bruta, ma anche profondità narrativa e costruzioni sonore intricate e suggestive, un disco che potrà essere una tappa obbligata per chi è appassionato di sonorità sinfoniche, dal sapore esotico. Un debutto che fa ben sperare per il futuro. (Francesco Scarci)

(Antiq Records - 2025)
Voto: 73

Starlit Pyre - Veins of Sulfur

#PER CHI AMA: Melo Death
Il debut EP dei francesi Starlit Pyre, 'Veinsof Sulfur', si colloca con una certa prepotenza nel panorama del melo-death con qualche robusta iniezione di metalcore, per un sound che evoca tanto la potenza degli Arch Enemy, quanto la vena melodica degli In Flames, pur mantenendo un'identità fresca e contemporanea. La produzione è pulita, quasi chirurgica: le chitarre sono affilate e tridimensionali, con un croccantezza ben definita che non sovrasta mai il basso, presente e roccioso; la batteria poi è dinamica e potente. La voce di Nicolas Potiez infine, è una buona amalgama di growl e scream più ruvidi che aggiungono uno strato di aggressività ben calibrata. Il dischetto si apre con la marcia inarrestabile di "Empire's Downfall", che s'impone come un inno di battaglia, caratterizzato da riff cadenzati e un coro che è pura adrenalina, un vero manifesto della loro miscela melo-death di scuola svedese, che si confermerà anche attraverso la ritmica, forse ancor più incisiva, della successiva "Solar Rays". La title track, "Veins of Sulfur", è un altro pezzo roccioso che si dipana tra sassate di grancassa e ringhiate di chitarra, in un viaggio sonoro che non rinuncia neppure a momenti tecnici, a un bridge di grande impatto e a un assolo da urlo. "On My Own" si affaccia, almeno inizialmente, sul lato più melodico e orecchiabile della band, con un'architettura più aperta, che ben presto si trasformerà, attraverso incisive dinamiche compositive, in un'arma tagliente e letale che chiude alla grande un lavoro convincente e da ascoltare obbligatoriamente. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 73

mercoledì 10 dicembre 2025

Nimbifer – Vom Gipfel

#PER CHI AMA: Raw Black
L'ultimo assalto sonoro dei tedeschi Nimbifer, l'EP 'Vom Gipfel', è una nuova incursione in quel black metal crudo e ferale, che li ha resi uno dei nomi caldi della scena underground dopo l'ottimo 'Der Böse Geist' dello scorso anno. Un nuovo trittico di tracce a incarnare il nucleo più gelido e battagliero del black teutonico, che potrebbe riecheggiare nella potenza grezza e nello spirito nichilista dei primi Darkthrone, con una vena epica che non disdegna neppure l'influenza di certe atmosfere dei Bathory più ancestrali. La produzione sembra volutamente lo-fi, funzionale e in linea col genere, un muro sonoro dove il tremolo picking delle asce, affilate come lame di ghiaccio, si fonde in un impasto sonoro che lascia poco spazio a pulizia e modernismi, mentre il basso si muove in sottofondo come un'ombra minacciosa e la batteria, martellante e primordiale, suona secca e distorta. Il cantato di Windkelch è poi un urlaccio disperato, che squarcia il magma sonoro con urgenza quasi ritualistica. "Der Berg" spicca per la sua marcia inesorabile e le sue algide melodie ossessive, un'esemplificazione perfetta della loro miscela tra furia ed epicità, mentre il lancinante cantato del frontman, fa sgorgare sgraziatamente dalla propria gola tutto il proprio dissapore. Subito dopo, "Das Ende" s'introduce più compassata, ma non temete perché il ritmo sfocerà ben presto in un blast beat corrosivo con una qualche venatura folk in sottofondo a evocarmi un che dei Windir, soprattutto nella parte conclusiva. La chiusura "–Rückkehr–" è ahimè un inutile brano ambient che nei suoi quattro minuti scombina tutto quanto ascoltato sin qui. In conclusione, 'Vom Gipfel' è un lavoro di raw black metal, essenziale, onesto e brutale, caldamente consigliato a chiunque sia devoto al suono dei primi anni '90, ma soprattutto a chi non cerca produzioni patinate o elementi progressivi. (Francesco Scarci)

(Vendetta Records - 2025)
Voto: 66

lunedì 8 dicembre 2025

Asunojokei - Think of You

#PER CHI AMA: Blackgaze/Post Hardcore
Il terzo album dei giapponesi Asunojokei, 'Think of You', rappresenta un ulteriore e deciso passo avanti nella definizione del loro stile unico, da loro battezzato Blackened J-Rock. Questa particolarissima commistione di blackgaze, prende vita grazie a un sapiente equilibrio tra la grinta del black metal atmosferico e l’eleganza melodica tipica del pop e del post-hardcore nipponico. È un mix che s'ispira a illustri predecessori come i Deafheaven, ma che porta queste sonorità su un piano inedito, aggiungendo una profondità emotiva rara. La produzione è incredibilmente pulita, fin quasi al limite della perfezione per un genere che solitamente abbraccia una certa ruvidità sonora. Questo rende però possibile cogliere ogni singolo dettaglio degli arrangiamenti. Le chitarre di Kei Toriki brillano con un carattere cristallino, dove i riff in tremolo picking si distendono in melodie aperte e luminose. Il basso fretless di Takuya Seki dona una dimensione jazzata che sorprende per quanto s'integri naturalmente nel tessuto sonoro. Alla batteria, Seiya Saito si muove con estrema versatilità tra frenetici blast beat e passaggi più lenti e riflessivi. Dal canto suo, Daiki Nuno si destreggia tra urla screamo cariche di intensità emotiva e linee vocali pulite molto più confidenziali rispetto ai lavori precedenti. Ci sono momenti in cui il suo screamo, talvolta dal taglio quasi punk, può sembrare un po' in contrasto con la ricchezza strumentale, ma questa scelta aggiunge una tensione che non passa inosservata. L’album si apre con "Dawn", una traccia che funge da dichiarazione d’intenti. Qui i toni post-hardcore iniziali sbocciano in una travolgente esplosione blackgaze, stabilendo subito il mood del disco. "Stella" è un altro snodo fondamentale: i delicati arpeggi iniziali creano un’atmosfera sospesa che viene poi interrotta da growl rabbiosi, in un gioco di contrasti tra presente e ricordi più oscuri. "Angel" si distingue per una tonalità più melodiosa nella sua apertura e si impreziosisce ulteriormente con un assolo di basso sinuoso e jazzato che sembra quasi avvolgere l'ascoltatore nel cuore della notte, prima di sfociare nell’inevitabile climax sonoro. Il richiamo ai Deafheaven rimane ben percepibile lungo tutto l’album, ma gli Asunojokei sanno come affermare la propria identità, seppure con influenze evidenti. Ad esempio, in "Zeppelin", il gruppo intraprende un viaggio che parte da un’introduzione emo-punk dal taglio malinconico per arrivare a esplosioni di riff travolgenti e orecchiabili. Questa traccia emerge come uno degli inni più memorabili del disco, rimanendo impressa nella mente molto dopo l’ascolto. 'Think of You' alla fine brilla per personalità: ogni brano mostra la maturazione della band, sia nella composizione che nelle intenzioni emotive. Il risultato è un lavoro potente e ben definito, in grado di sposare la forza del metal con una sensibilità più melodica e riflessiva. È una colonna sonora perfetta sia per le giornate illuminate dal sole sia per le notti cariche di malinconia. Un ascolto consigliatissimo per chi ama il lato più emozionale e intimo del metal, dove le atmosfere "gaze" prendono il sopravvento sull’austerità tipicamente associata al genere. (Francesco Scarci)

(Vinyl Junkie Recordings - 2025)
Voto: 73

Tsorvat - Reflections of Solitude

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal
M piace andare a pesca negli acquitrini più isolati, lo trovo decisamente stimolante. Il pescato di oggi mi porta negli States con la one-man band dei Tsorvat e il demo di debutto, 'Reflections of Solitude', che si colloca nella scia del depressive suicidal black metal, con riferimenti stilistici che vanno dai primi Shining (quelli svedesi) agli umori rarefatti e disperati di altre formazioni più atmosferiche (Lustre). Come spesso accade in questi casi però, non si va a reinventare la ruota, si prova semmai a farla girare nel modo più corretto per i canoni del genere. Questo per sottolineare che il mastermind originario della California, non propone nulla di nuovo, regalando riff glaciali, tetri e al contempo introspettivi in un contesto estremo, mitigato dalla presenza di sinistre tastiere ("From the Ruins of Memory"), quasi una rinnovata versione dei Burzum dei tempi d'oro, quelli dotati di un suono monotono e ipnotico, in cui il gracchiato isterico delle vocals s'insinua in una ritmica in cui la batteria predilige blast beat veloci ("White Nail") per contrastare la melodia delle chitarre o un sound che si farà decisamente più oscuro ("The Murmuring Grove"). La catarsi si raggiunge nella conclusiva "Spiritbound", il pezzo migliore del lotto, per frenesia, convinzione, melodie e disperazione delle sue vocals. Insomma, un disco per pochi fan incalliti del depressive, che cercano nella musica, uno specchio delle proprie angosce più profonde. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 61

Elfsgedroch - Voor de Groninger Poorten - Hoogmoed Eindigt in As

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
L'EP 'Voor de Groninger Poorten, Hoogmoed Eindigt in As' degli olandesi Elfsgedroch, è un'immersione profonda nel black metal venato di lievi influenze folkloriche. L'EP è interessante in quanto le sue liriche rappresentano una cronaca in musica di un momento cruciale della storia olandese, ossia l'assedio di Groninga del 1672, noto anche come il Gronings Ontzet. A livello musicale tuttavia, la proposta non può dirsi altrettanto entusiasmante, in quando i tre brani che compongono l'EP, tra l'altro concepiti come capitoli narrativi, si dipanano con una musicalità alquanto piatta e scontata che non rende giustizia alle tematiche storiche affrontate. "1665 – De Slag bij Jipsinghuizen" alterna momenti furiosi a passaggi acustici, creando un contrasto dinamico che simboleggia la calma prima della tempesta. "1672 – De Opmars" ricomincia laddove si era conclusa la precedente song, ossia con una ritmica furiosa, un cantato che è un grido rauco e stridulo e un sound che cerca di trovare attimi di atmosfera per stemperare una ferocia intrinseca. La conclusiva "1672 – Gronings Ontzet" conclude l'assedio con una risoluzione quasi epica, in cui il riffing sembra farsi più celebrativo e compassato, pur mantenendo una tonalità cupa e severa. Alla fine però, non mi rimane nulla dentro, se non l'amarezza di aver sprecato una bella occasione di mettersi in mostra. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 55

mercoledì 3 dicembre 2025

In the Woods... - Otra

#PER CHI AMA: Prog Death
Che cambio stilistico hanno fatto gli In the Woods... dai loro esordi a oggi! Li ho amati nel loro black primordiale ma atmosferico di 'Heart of the Ages', passando per le porzioni progressive di 'Strange in Stereo' e 'Three Times Seven on a Pilgrimage', fino ad arrivare alle ultime uscite, con "Otra" a riaffermare la band nella scena norvegese non come black metal puro, ma come una raffinata fusione di avantgarde, progressive e death melodico, in grado di richiamare l'epos degli Enslaved più riflessivi e la malinconia dei Katatonia. Una produzione pulita e atmosferica, essenziale per gli arrangiamenti complessi contraddistinguono il lavoro; le chitarre sono stratificate, bilanciando un rifferama accattivante a passaggi acustici e melodici, con il basso a pennellare una base progressiva e la batteria a privilegiare ritmiche elaborate. La voce è pulita, baritonale e drammatica, un recitato epico che troverà spesso modo di spezzarsi in scream e growl più crudi. Affidandosi a tematiche introspettive poi, i nostri ci consegnano sette nuovi pezzi: "The Things You Shouldn't Know" è una sintesi prog-black, "A Misrepresentation of I" è un pezzo più diretto con un groove marcato, mentre "The Crimson Crown" è una traccia più riflessiva e compassata nella sua ritmica possente ma pur sempre mid-tempo, che si spingerà verso orizzonti di Katatonia memoria, pur mantenendo presente il cantato growl. Poi spazio alle oscure atmosfere di "The Kiss and the Lie", un brano che dopo un tiepido approccio, deflagra in un'esplosione death melodica. "Let Me Sing" lascia intravedere qualche influenza folk rock, mentre le conclusive "Come Ye Sinners" e "The Wandering Deity" aprono a ulteriori orizzonti musicali, capitanati da Amorphis e soci. Insomma, 'Otra' è un album complesso, non proprio immediato di primo acchito, ma che necessita di ripetuti ascolti per capire la nuova dimensione musicale in cui gli In the Woods... saranno in grado di portarvi. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2025)
Voto: 75

Meteora - Broken Mind

#PER CHI AMA: Symph Death
Gli ungheresi Meteora si ripresentano sulle scene con l'EP 'Broken Mind ', nonostante un altro EP sia uscito solamente ad agosto, ma in realtà, questo lavoro è il secondo capitolo di una trilogia. Il dischetto affonda inequivocabilmente le proprie radici nel death metal sinfonico, epico e grandioso, rievocando la maestosità orchestrale degli Epica, ma anche accostabile a certe sfuriate dei Dimmu Borgir, pur mantenendo una vena progressiva che ricorda i momenti più complessi degli After Forever. E per proporre questo sound, la produzione cristallina è un must, ideale per esaltare ogni strato sonoro: il muro di chitarre e gli arrangiamenti sinfonici sontuosi, tra pianoforti e i cori operistici affidati alla cantante della band, Noémi. La sezione ritmica è bella potente, e l'opener "Broken Mind" lo conferma subito, grazie a un basso che gronda presenza e una batteria dinamica che spazia tra cavalcate furenti (ma melodiche) e groove più compassati, mentre l'alternanza vocale si dipana tra la suadente e potente voce di Noémi e il growling possente di Máté Fülöp. "Morningstar" s'introduce con una vena più melodica, con la voce della frontwoman che tesse delicate linee vocali, un'esemplificazione del bilanciamento tra durezza e melodia che i Meteora hanno affinato nel corso della loro carriera. In "Elysion" compare invece un cantato maschile pulito che sottolinea la versatilità della band magiara, ma che non mi convince pienamente. Il pezzo migliore, a mio avviso, è la conclusiva "In My Name," il brano più lungo del lotto e forse anche quello più ambizioso, che funge da cattedrale sonora, dove tutte le caratteristiche della band convogliano in un unico punto: voci pulite maschili e femminili, riff pesanti sorretti da orchestrazioni sinfoniche e growl, accelerazioni rabbiose, interrotte solo da un intermezzo di piano e violoncello, rievocando le atmosfere più riflessive del doom, prima di riesplodere in un finale di intensità epica. 'Broken Mind' alla fine è un disco che, sebbene di breve durata, è denso e stratificato, un ascolto che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di sonorità sinfoniche ma che non disdegnano incursioni anche nel death metal più tecnico. Ora, non possiamo far altro che attendere il terzo capitolo. (Francesco Scarci)

(H-Music - 2025)
Voto: 70

lunedì 1 dicembre 2025

The Old Dead Tree - London Sessions

#PER CHI AMA: Gothic/Prog/Dark
I The Old Dead Tree sono sinonimo di qualità nella scena prog francese e non solo. Quasi trent'anni di esperienza, per carità inframmezzati da sospensioni della loro attività, e i cinque parigini sono ancora qui. Dopo l'ottimo lavoro dello scorso anno, 'Second Thoughts', ecco arrivare un EP registrato nientepopodimeno che negli Abbey Road Studios di Londra. Da qui 'London Sessions' appunto. Quattro pezzi che si muovono sempre con diligenza ed eleganza nei paraggi di un gothic dark rock possente e ispirato, e in cui la voce di Manuel Munoz la fa sempre da padrona. "Feel Alive Again" apre le danze con una dichiarazione d'intenti ben precisa, guadagnarsi la credibilità dell'ascoltatore con un prog dark ordinato, senza sbavature, e in cui i tremolo picking delle chitarre s'intrecciano con le vocals del frontman, in un contesto malinconico e atmosferico. Nessun atto di forza, non c'è voglia di stupire con chissà quali architetture musicali, ma il solo puro desiderio di emozionare. Un'emozione che si fa più riflessiva nella seconda "Time Has Come", in cui la linea melodica delle chitarre rimane compatta, ma in cui la voce di Manuel, forse si fa più rancorosa. Al contrario della successiva "By the Way", un brano uscito in realtà nel lontano 2005 nello straordinario 'The Perpetual Motion', e qui riproposta semplicemente in modo più cupo e languido, al pari dell'ultima "What Else Could We've Said" (anch'essa presente su 'The Perpetual Motion') per una più melliflua reinterpretazione, con tanto di archi a sostegno, di una vecchia hit della band, che alla fine mi fa riflettere se queste sessioni londinesi siano una semplice mossa commerciale o un dischetto a testimoniare la vitalità della band? A voi l'ardua sentenza. (Francesco Scarci)

(Season of Mist - 2025)
Voto: 70

domenica 30 novembre 2025

Oceans - We are Nøt Okay II

#PER CHI AMA: Metalcore/Nu Metal
Secondo capitolo per la saga "non stiamo ancora bene" degli abrasivi austro-tedeschi Oceans. Portatori di un post metal/metalcore, la band torna a distanza di un anno dall'album 'Happy', che buoni consensi aveva raccolto all'epoca, con questo 'We are Nøt Okay II'. I quattro musicisti proseguono il loro percorso musicale, in grado di mescolare sonorità a tratti caustiche con altre più malinconiche, frutto probabilmente di testi sempre convogliati verso tematiche di depressione e disturbi mentali. Temi pesanti insomma. Altrettanto la musica, bella tosta, ruvida e aggressiva, già a partire dall'opener "...Ghost" che in quasi quattro minuti, davvero smuove quei fantasmi che forse albergano, e non lo sappiamo, il profondo della nostra anima. Sonorità violente e voci urlate che vengono stemperate dalla delicatezza delle clean vocals e da parti più atmosferiche, come nel break al secondo minuto. Bel biglietto da visita, insomma. Fantasmi nu-metal si palesano invece nella seconda "Still Not Okay", che scomoda facili paragoni con i Korn, ma i cui cori super ruffiani e un cantato al limite del rap, ancora una volta, attenuano quella violenza che è possibile riscontrare in alcuni frammenti della song. La terza "Make me Bleed", il cui titolo sembra quasi voler evocare "Make me Bad" dei Korn, è una song più mid-tempo oriented almeno a livello ritmico, visto che il growling furibondo di Timo Rotten, sprigiona tutta la propria rabbia, a più riprese. A chiudere l'EP, ecco arrivare in soccorso "Atlas", aperta dalle delicate vocals del frontman, in un contesto decisamente più melodico ed educato, anche laddove le ritmiche sembrano accelerare più vorticosamente, a quasi un minuto dalla fine. Il risultato in conclusione, è soddisfacente e consigliato a tutti gli amanti del genere. Una stranezza da sottolineare: il lavoro è uscito su tutte le piattaforme digitali il 7 novembre eppure, non vi è traccia di questa release né sul sito ufficiale della band, né su Metal Archives. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

martedì 25 novembre 2025

Nornes - Thou Hast Done Nothing

#PER CHI AMA: Death/Doom
Ecco quel che serviva per questa nevosa fine di novembre: death doom atmosferico affidato alle mani di questi Nornes, quartetto originario di Valenciennes in Francia. 'Thou Hast Done Nothing' rappresenta il loro debutto ufficiale su lunga distanza, dopo un paio di EP usciti tra il 2018 e il 2020. Sono solo cinque i pezzi presenti in questo album, ma per quasi un'ora di musica, che sin dall'iniziale "Never Ending Failure", ci consegna delle ritmiche piuttosto opprimenti, non quelle canoniche abissali del funeral, ma comunque un rifferama pesante, contraddistinto da un mid-tempo meditabondo, le classiche growling vocals, con il tutto a evocare i My Dying Bride e i Paradise Lost degli esordi. Quindi, niente di nuovo sotto il sole, se proprio vogliamo essere schietti. Zero aperture all'originalità, il solo tentativo di inserire delle clean vocals a fare da contraltare alla voce da orco cattivo del frontman, un breve break acustico verso l'ottavo minuto per salvare le apparenze di quella che poteva essere una traccia anonima, e che trova modo di risollevarsi con un assolo elegante in chiusura. "A Rose to the Sword" non sposta fondamentalmente di un capello la proposta dei quattro musicisti transalpini, seppur si scorga qua e là il desiderio di non limitarsi ai meri insegnamenti della "Mia Sposa Morente": interessante a tal proposito, il break atmosferico percussivo al quarto minuto, laddove le due porzioni vocali si uniscono all'unisono. Altrettanto interessante la lunga parte strumentale che per un paio di minuti ci delizierà nella seconda parte del brano, con buone melodie chitarristiche e atmosfere sospese, prima di un finale un po' più ostico da digerire. "Our Love of Absurd" conserva quelle melodie malinconico-evocative di 'Shades of God' dei Paradise Lost, innalzando, in fatto di emotività, la qualità del brano per un uso più massivo (e apprezzabile) delle voci pulite a discapito di un growling qui più in secondo piano. Dopo il break atmosferico, come sempre inserito a metà brano, davvero pregevoli bridge e solo che per un minuto e mezzo ci regalano grandi emozioni. Poi il tutto si fa inevitabilmente più cupo e minaccioso, con sfuriate ritmiche estemporanee che si accompagnano al growl del cantante. E proprio da qui ripartire nella successiva "Perceptions in Grey", con un cantato più strozzato in gola, in un brano che vede il suo primo acuto a ridosso del secondo minuto, complice una chitarra più ispirata e nuovamente le salvifiche clean vocals che alla fine risulteranno quello strumento che meglio toglie dall'imbarazzo una release altrimenti troppo scontata. A chiudere, i quasi 13 minuti di "Oneness", che sono aperti da una lunga parte acustica: la prima apparizione vocale appare al terzo minuto, a sottolineare ancora una volta la voglia dei nostri di dar maggior spazio alla componente strumentale. Poi il brano si rivelerà piuttosto simile per quasi i sette minuti seguenti (e francamente limerei queste lunghe parti per aumentare la dinamica del brano), il canonico break atmosferico e una coda doom rallentante, a chiudere un disco che se fosse durato un quarto d'ora in meno, forse ne avrebbe beneficiato enormemente. Ora invece mi ritrovo a consigliarlo ai soli amanti del genere, per non rischiare di farlo cadere nell'oblio del dimenticatoio. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2025)
Voto: 68

giovedì 20 novembre 2025

Suffering Hour - Impelling Rebirth

#PER CHI AMA: Death/Black
In rete ho trovato ovunque recensioni notevoli su questo lavoro, ma dopo averlo ascoltato, mi domando se sono io la solita voce fuori dal coro o se gli altri abbiano preso un clamoroso abbaglio. Ora non voglio dire che questo 'Impelling Rebirth', degli statunitensi Suffering Hour, sia una ciofeca, ma nemmeno sto gran discone, che da più parti invece ho letto. Per me si tratta infatti di onesti mestieranti che mettono in piazza un cupo black death caustico e veloce. E su questo non ci piove, visto l'incipit violento dell'iniziale title track, dove accanto alla devastazione della ritmica, compare una voce che sembra uscire dall'oltretomba, pronta peraltro a un rituale satanico. Le chitarre, belle sghembe e ribassate, viaggiano a velocità vertiginose, il tutto con scarsi accenni melodici, fatto salvo una leggera melodia in sottofondo a ridosso di una parte più atmosferica. Poi spazio a una vena fragorosa, che ci investe come un treno uscito dai binari. La seconda "Anamnesis" palesa influenze punk thrash, in un contesto comunque sparato ai 1000 km orari. Ancora un break atmosferico a metà pezzo, giusto per stemperare una furia che, a tratti, sembra ingestibile. Attacco grind invece per "Revelation of Mortality", una song animalesca, sanguigna, dissonante e ferale che, in tre minuti, non fa prigionieri, ma lascia una striscia di sangue dietro di sé, in un finale permeato da un umore nero e abissale, in cui il suono sembra quasi implodere. Nonostante sia un pezzo di una durata appena inferiore ai tre minuti, sembra stranamente ne duri una decina. Sfiancante. Come la successiva e psicotica "Incessant Dissent", un pezzo incessante che sembra chiamare in causa i Morbid Angel più feroci. Ancora fortissime influenze thrash/death/black old school per la lunatica e conclusiva "Inexorable Downfall", che chiude un dischetto di poco meno di 15 lunghissimi ed estranianti minuti di follia. (Francesco Scarci)

(Profound Lore Records - 2025)
Voto: 66

Mastiff - For All the Dead Dreams

#PER CHI AMA: Crust/Sludge/Hardcore
Non sono un grande fan dell'hardcore scavezzacollo, ma se ci mettete un po' di sludge/doom a corrompere le intemperanze di una band, ecco che mi trovo più a mio agio a scrivere di questo genere. Gli inglesi Mastiff sono fortunatamente uno di questi esempi, con un sound si, granitico, violento, potente e profondo, ma che comunque in questo nuovo EP di cinque pezzi, 'For All the Dead Dreams', si riesce ad apprezzare sin dalle fondamenta dell'opener "Soliloquy". Riffing iperdistorto, acuito dalla pesantezza dello sludge, vocals incatramate, pochi accenni alla melodia, e alla fine solo disperazione dilagante nei tre minuti e mezzo di questa traccia. Il registro non cambia poi di tanto con la successiva "Rotting Blossoms", anche se il ritmo si fa più sostenuto, e un piccolo accenno di melodia si riesce addirittura a cogliere nelle linee di chitarra, mentre il bel caustico vocione di Jim Hodge, si fa breccia in un sound che diventerà più ritmato nella seconda parte. "Decimated Graves", al pari di "A Story Behind Every Light", ci prendono a scarpate in faccia con parti più compassate e asfissianti, che si alternano a schegge al limite del grind. È un piacere essere investiti da cotanta violenza anche per la qualità di una registrazione che sembra inghiottirci nel wormhole creato dalla brutalità soffocante della band. Violenza pura infine per la poderosa e conclusiva "Corporeal", in grado di bastonarci ancora con la sua portanza ritmica, forte di un drumming inviperito e un basso che picchia a livelli di un fabbro nevrotico. Provare per credere. (Francesco Scarci)

(Church Road Records - 2025)
Voto: 70

Hellwalker - Reincarnation

#PER CHI AMA: Death Strumentale
Se sei un cantante death metal e stai cercando una band con cui dar sfoggio della tua ugola da orco cattivo, i portoghesi Hellwalker stanno probabilmente cercando proprio te. No, non si tratta di un annuncio commerciale, ma semplicemente quello scrivono gli Hellwalker sul proprio sito bandcamp, visto che stanno cercando un vocalist che presti la propria voce per questo EP strumentale di cinque tracce. E che volete che vi dica su un disco death dove la componente vocale è totalmente inesistente? Se ci fosse un cantato qui sarebbe inserito in un contesto di death dalla vena melodica ("Boiling Point") ma che non rinuncia nemmeno a un rifferama inizialmente compassato per poi proiettarsi nella più classica galoppata di stampo scandinavo (da una traccia che si intitola "Entombed", d'altro canto che cosa vi potevate aspettare?). Granitica la quarta "Ressurector", ma di fronte alla mancanza di un vocalist, mi pare che perda il 50% in fatto di potenza. Sono certo che con un growling robusto, la proposta acquisterebbe infatti credibilità. Per ora, null'altro da segnalare, se non un tentativo di ricerca di maggior melodia nella conclusiva "Forgotten". Curioso di riascoltare il tutto con un cantante in carne e ossa. (Francesco Scarci)

(Rot'em Records - 2025)
Voto: SV

mercoledì 19 novembre 2025

Psycho Symphony - Silent Fall

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Thrash/Progressive
I rumeni Psycho Symphony non si sono mai sciolti eppure non esistono uscite ufficiali dal 2002, quando venne rilasciato l'EP 'Schizoid'. Quest'anno tuttavia, ritorna in auge 'Silent Fall', il lavoro che uscì originariamente in cassetta nel 1997 e poi CD-r nel 2000, e che soltanto oggi, vede la luce formalmente grazie alla Loud Rage Music e a un nuovo remastering. La band di Carei muove i propri passi lungo un sottile confine fra il progressive anni '70 e il techno thrash progressive degli anni '80/'90 (per intenderci, gente del calibro di Watchtower, Anacrusis o Psychotic Waltz). Ascoltando l'album vi accorgerete infatti i vari punti di contatto con le band suddette attraverso la sofisticazione degli arrangiamenti che con l'iniziale "The King", vi farà già capire come il quartetto fosse in grado di costruire una matrice ritmica davvero complicata alternata a momenti più tecnici, evocando in certi passaggi, anche i Cynic di 'Focus' (assai palese ad esempio nel break atmosferico centrale "Temptations"). Solida e talvolta debordante ("Bloodthirsty Desires") la prova del bassista, a fungere da collante tra melodie e ritmica, al pari della folgorante prova alle pelli del drummer Gindele Gábor "Gabica", fantasioso e preciso nel passare da momenti dal piglio jazzy a esplosioni thrash. Notevole anche la prova delle chitarre, abili nel ricamare riff ultra tecnici o assoli raffinati (spettacolari a tal proposito "The Temple of Delight" o la disturbante e assai complessa, "Over the Walls"). Ho tenuto per ultimo la prova del cantante, che a mio avviso, rappresenta il punto debole dei nostri. Non sono infatti riuscito a digerire la sua voce nasale per quanto, in un contesto del genere, potrebbe essere anche particolarmente originale ed espressiva nella propria drammaticità. In chiusura, la lunga suite "Reality Falls Asleep I & II" è perfetta a riassumere la vena onirico-lisergica dei nostri (nella prima parte) combinata con la componente più veemente della band (la seconda metà). Insomma, se anche voi come il sottoscritto, vi siete persi questa release quasi trent'anni fa, beh avrete modo di rifarvi e capire come il thrash progressivo si sia ahimè nascosto nel sottobosco in un'epoca e in un contesto geografico alquanto complicati. (Francesco Scarci)

(Self/Loud Rage Music - 1997/2025)
Voto: 76