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sabato 10 maggio 2025

Aeonist - Deus Vult

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Dalle placide e misteriose terre slovene emergono gli Aeonist, un progetto solista orchestrato dall’enigmatico polistrumentista Tilen Šimon. Dopo il promettente debutto sulla lunga distanza dello scorso anno, Šimon torna con 'Deus Vult', un EP composto da tre tracce in cui il black metal atmosferico s'intreccia a melodie medievali e suggestioni dungeon synth, evocando un’aura dal fascino antico e templare. Concepito come un viaggio musicale in tre atti, 'Deus Vult' si erge come un monolito di introspezione oscura, un’ode alla volontà divina, immersa in un paesaggio sonoro di gelo e malinconia. Si parte con "Deus Vult I", dove una ritualistica base di synth apre la strada a una chitarra dai toni eterei e spettrali. L’atmosfera evoca le mura di un’abbazia dimenticata, con melodie che s'innalzano come preghiere e un canto disperato che sorge nel cuore del brano. Qui il black metal prende forma su un mid-tempo solenne, mentre cori quasi monastici verso la fine, intensificano l’esperienza, donando profondità al brano nonostante una lieve tendenza alla ripetitività. Con "Deus Vult II", l’EP si addentra in territori più cupi, aprendo con un passo quasi doom che lascerà spazio da l' a poco, a un black più frenetico e soffocante. Šimon modula il suo screaming con una rabbia controllata, accompagnando l’ascoltatore in un viaggio opprimente attraverso le ombre della storia medievale, fatta di fede assoluta e terre flagellate dalla peste. Pur arrivando a sfiorare i dieci minuti di durata, il brano risulta talvolta appesantito da una certa ridondanza compositiva che ne diluisce leggermente l’impatto emotivo. Infine, "Deus Vult III" chiude l’opera con un’atmosfera contemplativa dominata dai sintetizzatori dungeon synth. Sebbene il brano tenda a concludere l’EP forse troppo rapidamente rispetto al potenziale evocativo dei due capitoli precedenti, questo racchiude comunque quel senso di chiusura ritualistica che caratterizza l’intero lavoro. Non vi resta che accendere una candela, chiudere gli occhi e lasciare che queste tre invocazioni vi trascinino in un abisso di gloria e rovina. (Francesco Scarci)

martedì 6 maggio 2025

Sunrot - Passages

#PER CHI AMA: Sludge/Drone
I Sunrot si trascinano fuori dalle fogne del New Jersey con 'Passages', un EP di cinque tracce rilasciato dalla Prosthetic Records, come un caso irrisolto lasciato a marcire. Nato negli stessi vicoli creativi di 'The Unfailing Rope', questo EP in realtà non ne rappresenta un seguito, ma una piaga che si gonfia, un groviglio di sludge e noise che si contorce per sedici minuti in un vicolo cieco di sofferenza. Questo quintetto non ha carezze da offrire, solo il tanfo di un’esistenza schiacciata sotto un cielo di piombo, un biglietto per un passaggio che finisce dritto nell’oblio. "Death Knell" è il primo passo, ma non c’è musica: solo un ronzio che stride come il respiro di un ubriaco che sta tirando le cuoia. È un’apertura cruda, un’ombra sonora che afferra alla gola e non molla. Poi arriva "The First Wound", con Dylan Walker dei Full of Hell alla voce, che si unisce al gioco come un sicario in prestito: i riff strisciano come larve su un corpo freddo, il drumming colpisce come un pestaggio in un parcheggio deserto, e le urla si mescolano in un coro di anime perse. È una ferita slabbrata, un ricordo che puzza di marcio sotto strati di distorsione, un urlo che svanisce nel frastuono di una città che non dorme mai. "Sleep" è un vicolo senza uscita. Con Brandon Hill degli Stress Test alla voce, mi aspettavo un indizio, magari una svolta, ma è solo un rumore informe, voci filtrate che si perdono come parole sussurrate in un confessionale abbandonato. È un sonno da barbiturici, un’interruzione che ti lascia a galleggiare in un nero senza fondo. "Untethered" inizia lento, un bagliore post-metal che si spegnerà subito in un riff sludge in grado di pestarti come un creditore incazzato. In sottofondo, il violoncello di Jack Carino entra in scena come un lamento che taglia il buio, mentre le voci si torcono accanto allo screaming acido del frontman, in un dialogo tra fantasmi in una stanza senza porte. "Ra" chiude il dischetto, ma non c’è soluzione: spoken words si mescolano a disturbanti derive droniche che ronzano come un neon rotto in un motel di quart’ordine. È un addio che non dice niente, un epilogo muto e opaco. (Francesco Scarci)

(Prosthetic Records - 2025)
Voto: 65

https://sunrot.bandcamp.com/album/passages

domenica 4 maggio 2025

Onirophagus - Revelations from the Void

#PER CHI AMA: Death/Doom
A volte la buona riuscita di un album dipende anche dal moniker della band, non credete? Gli spagnoli Onirophagus, con questo nome, non partono già bene, diciamolo chiaro e tondo. La proposta poi di 'Revelations from the Void', terzo lavoro per il quintetto catalano, non brilla in fatto di originalità: cinque lunghi brani di death doom canonico che abbiamo sentito e risentito nel corso degli ultimi 30 anni. "The Hollow Valley" apre il cd con riff di chitarra pesanti come un macigno che si trascinano senza mai realmente raggiungere un climax significativo, mentre il growl potente di Paingrinder, evoca un senso di terrore e oscurità. Le percussioni provano ad aggiungere un po' di dinamismo, accanto ad alcune accelerazioni black nel finale, ma il risultato pare alquanto prevedibile. Attenzione, non sto parlando che quello fra le mani sia un brutto album, ma ecco, pur esplorando una vasta gamma di ritmi e stili, con momenti di lentezza opprimente alternati a sezioni ritmiche più dinamiche, non sento la freschezza che mi sarei aspettato. E la successiva "Landsickness" sembra sprofondare ulteriormente in territori derivativi sin dai suoi giri iniziali di chitarra, chiamando in causa le sonorità più retrò di gente come Officium Triste e Saturnus nei momenti più doomish, e Avulsed in quelli più death oriented. Le song scivolano lentamente, proiettandomi con "The Tome" a sonorità anni '90, evocando anche i mostri sacri My Dying Bride e i primissimi Anathema, provandone qui però ad alterare quell'inerzia con deflagranti accelerazioni death, che talvolta riescono anche a colpire nel segno, complice l'utilizzo di vocals più pulite. La ritmica rallentata di "Black Brew", con quei suoi rintocchi di campana, sembra cosa trita e ritrita, ma le caustiche accelerazioni (la parte che alla fine prediligo), ci consegnano una veste differente e meno indolente della band. In chiusura, rimane l'ultimo Everest da scalare, ossia i quasi 16 minuti della conclusiva "Stargazing into the Void", un pezzo drammatico nel suo incedere iniziale, complice anche l'utilizzo di uno splendido violino e di sonorità che rimandano anche a i The Blood Divine. Ciò restituisce lustro a una release che rischierebbe di cadere nell'anonimato della moltitudine di album che ogni giorno viene rilasciato. Il sound è comunque un onesto death doom malinconico che poco altro ha da aggiungere. Insomma, alla fine, mi sento di consigliare il disco ai soli appassionati del genere in cerca di qualcosa per riempire la loro libreria musicale. (Francesco Scarci)

sabato 3 maggio 2025

Versatile - Les Litanies du Vide

#PER CHI AMA: Industrial/Symph Black
La Svizzera si conferma terreno fertile per le sonorità industrial black. Dopo aver scritto di recente sui Borgne, è il turno dei Versatile, che fanno il loro ingresso nella scena con il debut 'Les Litanies du Vide'. Quest'album, un amalgama di black metal dissonante, industrial freddo e una certa macabra teatralità, si presenta colmo di un’energia inquietante. Pubblicato dalla Les Acteurs de l’Ombre Productions, questo lavoro offre un ennesimo viaggio sonoro complesso, arricchito di visioni apocalittiche e influenze ispirate alle catacombe parigine e alla Corte dei Miracoli. Più che suonare sinistro, l'album lo incarna, con una feroce audacia estetica. Il disco si apre con "Géhenne", un'anticamera orchestrale che prepara il terreno al travolgente “Enfant Zéro”, dove riff abrasivi s'intrecciano con un drumming implacabile e le urla strazianti di Hatred Salander. Il modernismo del black metal dei nostri emerge in una fusione di texture elettroniche e grooveggianti, che possono ricordare una sintesi tra i The Kovenant e gli Aborym, ma qui con un’anima più oscura. Inizialmente, devo ammettere che temevo di trovarmi di fronte a un gruppo con poche idee e ben confuse, ma sono stato sorpreso dalla capacità dei Versatile di equilibrare caos e struttura. Se brani come “Morphée” sembrano essere un’esplosione di declamazioni possedute e passaggi onirici, con un’intensità che alterna violenza pura a momenti di oscura poesia, un brano come "La Régente Blême", incarna la moltitudine di anime che permeano questo quartetto di Ginevra, tra ammiccamenti vampireschi e derive elettro-industrialoidi, che si fanno ancor più evidenti nella successiva "Ieshara". "Graisse" si distingue per il suo approccio prog black, con ubriacanti cambi di tempo e campionamenti che ci conducono in un racconto distopico, in una proposta sonora che potrebbe quasi evocare i nostrani Sadist. “Alter Ego” sonda territori cyberpunk, mescolando francese e inglese in un duello linguistico, che amplifica il senso di alienazione. Ciò che rende l’album davvero diabolico è tuttavia il suo approccio eclettico e innovativo. I Versatile non si accontentano di replicare il black metal ortodosso: lo smembrano, lo arricchiscono con partiture industriali e sinfoniche, ricostruendolo poi in una forma moderna e profondamente inquietante. Le chitarre di Cinis e Famine rilasciano arpeggi dissonanti mentre la batteria di Morphée colpisce con precisione cibernetica che sottolinea l'estetica industriale della band. Tuttavia, non suona tutto cosi perfetto ma glielo si può anche perdonare ai Versatile, visto lo status di debutto di quest'opera. L’assalto sonoro ridondante infatti può talvolta risultare monotono cosi come l'eccessiva complessità di alcuni passaggi rischia di attenuarne l’impatto. Ma questi sono peccatucci di gioventù, in un’opera che osa tanto da creare una definita identità. 'Les Litanies du Vide' colpisce per la sua violenza controllata e per un immaginario grottesco, che portano il black metal verso nuovi orizzonti, mantenendone intatta l'anima oscura. È un’esperienza che attrae e respinge, un’aberrazione affascinante e inquietante. Un debutto potente e visionario sicuramente consigliato agli amanti di Dimmu Borgir, Borgne o Blut Aus Nord. (Francesco Scarci)

mercoledì 30 aprile 2025

Borgne - Renaître de ses Fanges

#PER CHI AMA: Industrial Black
Sono quasi tre decadi che gli svizzeri Borgne regnano incontrastati negli abissi dell'industrial black, alla stregua di una macchina sonora implacabile, che plasma paesaggi sonori che oscillano tra il caos nichilista e una malvagità primordiale. Con 'Renaître de ses Fanges', undicesimo capitolo della loro discografia, il duo svizzero guidato da Bornyhake, e affiancato dalla sempre più centrale Lady Kaos, torna a scandagliare le profondità dell’animo umano, dandoci modo di immergerci in un viaggio oscuro e tormentato, come già certificato nell'apertura affidata a "Introspection du Néant", un preludio freddo e inquietante che sembra evocare le atmosfere di un’astronave derelitta, prossima a raggiungere l'orizzonte degli eventi. Dopo un inizio in sordina, è con "Comme une Tempête en Moi qui Gronde" che il disco rivela la sua vera natura: un assalto di black glaciale, con riff distorti, melodie minacciose e una drum machine martellante che scandisce ritmi disumani, ci coglie quasi di sorpresa. La produzione, cruda e glaciale, amplifica un senso di disagio che ritroveremo forte lungo gli oltre 60 minuti del disco, mentre le tastiere di Lady Kaos aggiungono un’epica malvagità, un tocco che dona carattere ma non sempre riesce a elevare i brani oltre una formula già esplorata. Rispetto al precedente 'Temps Morts' infatti, che si distingueva per le sue digressioni elettroniche e una forte aura enigmatica, 'Renaître de Ses Fanges' appare più diretto, quasi a segnare un ritorno a un black più canonico, seppur filtrato attraverso la lente industriale. Brani come "Même si l’Enfer m’Attire Dans sa Perdition" (la traccia più lunga del lotto con i suoi quasi 11 minuti) o l'acuminata "Ils me Rongent de l’Intérieur", vanno a segno, colpendo per intensità e per i riff contorti, ma forse mancano di quei ganci memorabili che hanno reso i lavori precedenti così avvincenti. Qui, la struttura dei brani, sempre lunga e complessa, tende quasi a ripiegarsi su se stessa, con pattern di accordi che, per quanto efficaci, sembrano reiterare soluzioni già proposte nella discografia dal duo di Losanna, e probabilmente da qualche altro interprete del panorama estremo. Un elemento di forza rimane comunque inalterato nell'intelaiatura dei nostri: l’atmosfera. Si, perché anche questo nuovo album ci permette di affondare in paesaggi apocalittici, sorretti da synth eterei e da un senso di vastità che richiama, inequivocabilmente, i Blut Aus Nord o i Lunar Aurora. La conclusiva "Royaumes de Poussière et de Cendre" potrebbe rappresentare il momento più ispirato, con quel suo mid-tempo affranto e un’atmosfera avvolgente che sembra suggerire una profondità stilistica che il resto del disco non sempre mantiene. Eppure, anche qui, si avverte una certa mancanza di audacia: dove 'Temps Morts' osava con deviazioni sperimentali, 'Renaître de ses Fanges' si accontenta di consolidare un suono ormai familiare, senza spingersi oltre i confini che i Borgne stessi hanno tracciato in passato. Forse, non aiuta il confronto con la loro storia, avendo costruito la propria carriera su un’evoluzione costante, alternando pulsioni sperimentali a una ferocia old school. Quest'album, invece, sembra un passo indietro, un’opera che, seppur ben confezionata, non riesce a eguagliare la personalità travolgente di 'Y' o l’audacia di 'Temps Morts'. In definitiva, 'Renaître de ses Fanges' è un album che non delude, ma nemmeno esalta. È un viaggio oscuro e ben eseguito, capace di trascinare l’ascoltatore in un vortice di disperazione e caos, ma che manca di quella scintilla innovativa che aveva reso i precedenti lavori così memorabili. (Francesco Scarci)

domenica 27 aprile 2025

Ex Deo - Year of the Four Emperors

#PER CHI AMA: Symph Death
Gli Ex Deo tornano con 'Year of the Four Emperors', un EP che s'inserisce con decisione nel solco dell’epic death metal, un terreno che la band canadese calca da parecchi anni sotto la guida di Maurizio Iacono. Questo lavoro, ispirato al turbolento anno 69 d.C., si compone di quattro brani che cercano di catturare il peso della storia romana attraverso un sound robusto e narrativo. Non mancano intensità e ambizione, anche se il risultato non scuote le fondamenta come potrebbe suggerire il tema. Il disco si apre con “Galba”, un brano che avanza con riff solidi e ritmi marcati, accompagnati da arrangiamenti sinfonici che tentano di riflettere le tensioni dell’epoca. L’effetto è suggestivo, un’immersione sonora che richiama le lotte di potere di un impero in crisi, anche se non sempre la forza delle note raggiunge l’epicità promessa. Segue “Otho”, più cupo e complesso, un pezzo che richiede attenzione per essere apprezzato, ma che non devia dalla struttura ormai consolidata degli Ex Deo. “Vespasian” e “Vitellius” chiudono l’EP, offrendo un’alternanza di chitarre più controllate e sezioni orchestrali che omaggiano i protagonisti storici, senza però spingersi troppo lontano dal sentiero battuto nei lavori precedenti. 'Year of the Four Emperors' non si limita a essere un semplice episodio di death metal: prova a esplorare territori più ampi con dinamiche variegate e una certa complessità strutturale, suggerendo un’evoluzione, seppur cauta, rispetto al passato della band. Si percepisce come un punto di passaggio, un’interlocuzione tra ciò che gli Ex Deo sono stati e ciò che potrebbero ancora diventare. La produzione è curata e l’intensità rimane costante, ma l’impatto complessivo non travolge. È un ascolto valido per chi apprezza il genere e il connubio tra musica e storia, senza però rappresentare una svolta memorabile. Roma rivive, sì, ma con un’eco che non sempre risuona con la forza che ci si potrebbe attendere. (Francesco Scarci)

(Reigning Phoenix Music - 2025)
Voto: 68

https://www.facebook.com/exdeo

giovedì 24 aprile 2025

Iotunn - Kinship

#PER CHI AMA: Melo Death
 'Kinship', il secondo album del gruppo danese Iotunn, è un'autentica pietra miliare che ridefinisce i canoni del progressive death metal. Pubblicato il 25 ottobre scorso, rappresenta non solo una degna prosecuzione dell'acclamato debutto, 'Access All Worlds', ma anche una dichiarazione di maturità artistica e musicale che va ad alzare ulteriormente l'asticella. L'album si apre con "Kinship Elegiac", una traccia mastodontica di quasi 14 minuti che cattura immediatamente l'attenzione grazie alla sua imponenza. Qui la band fonde con maestria riff robusti e melodie rarefatte, dando vita a un intreccio sonoro che riesce a essere tanto maestoso quanto intimo, merito soprattutto delle straordinarie interpretazioni vocali di Jón Aldará (Barren Earth, Hamferð, ex-Solbrud), una vera punta di diamante. Il loro stile potrebbe richiamare influenze da band come Wintersun e Amorphis, ma è proprio la voce di Jón, particolarmente incisiva nelle linee pulite rispetto al growl, a rendere l'intero lavoro irresistibile, aggiungendo un valore unico. Non sorprende quindi che 'Kinship' sia rapidamente entrato nella mia personale top 5 del 2024. Ogni brano si sviluppa come un racconto carico di pathos, arricchito da cambi repentini di ritmo e dinamiche che tengono l'ascoltatore incollato, come travolto dall’energia delle ritmiche, dal magnetismo vocale del frontman, dalle melodie di chitarra mozzafiato e dagli assoli coinvolgenti. Pezzi come "Mistland", la travolgente "The Coming End", e la roboante "Earth to Sky" sono veri capolavori: i loro ritornelli epici, le parti più atmosferiche e gli assoli sensazionali (spettacolare quelli della conclusiva e più introspettiva "The Anguished Ethereal") sottolineano una capacità tecnica ben oltre la media. In conclusione, 'Kinship' si profila come un autentico capolavoro nel panorama metal, che non solo supera brillantemente le aspettative dei fan, ma si impone come uno dei lavori più memorabili degli ultimi anni, grazie alla sua combinazione impeccabile di potenza sonora, testi evocativi e una produzione di altissimo livello. Destinato a essere un classico intramontabile, 'Kinship' invita ad ascolti ripetuti per scoprire ogni dettaglio e sfumatura della sua immensa bellezza. (Francesco Scarci)
 
(Metal Blade - 2024)
Voto: 88
 

lunedì 21 aprile 2025

Mesarthim - Anthropic Bias/Departure

#PER CHI AMA: Cosmic Black
Una delle band più enigmatiche del panorama estremo è sicuramente rappresentata dagli australiani Mesarthim, che se ne escono con questo nuovo 'Anthropic Bias/Departure', che raccoglie in realtà, due singoli usciti rispettivamente nel 2022 e 2024. Ora, che siano due brani, non significa che la durata del lavoro sia esigua, visti i quasi 37 minuti di suoni che il duo aussie ci propone, miscelando, come al solito, elementi di black metal atmosferico con pesanti influenze electro-ambient, in grado di evocare immagini spaziali, attraverso una musica che si muove tra momenti di intensità estrema e fasi più contemplative. Il titolo suggerisce una tematica legata al bias antropico (l'inclinazione umana a vedere se stessi come centrali nell'universo) e alla partenza o all'allontanamento da questo punto di vista. Probabilmente (non ho le liriche nelle mie mani), proprio da questi temi cosmologici, i nostri decollano in direzione della loro galassia lontana, sprigionando quel propellente sonoro che si muove lungo le coordinate di un black atmosferico, su cui pennellare quei deliziosi grovigli di synth pulsanti. E poi, proprio su questi due elementi, giocare su un'alternanza tra parti più glaciali di chitarra e partiture elettroniche, che però sulla lunga distanza potrebbero anche stancare, data una certa prolissità nel ripetere certe strutture estetiche. Trattandosi di due soli brani, uno di 17 e l'altro di 19 minuti, non vorrei soffermarmi (e sfiancarvi), descrivendoli nei minimi dettagli. Le peculiarità rimangono infatti le medesime dei precedenti sei album e nove EP, garantendo quindi quelle classiche progressioni melodiche, corredate da un (ab)uso nell'utilizzo dei synth, su cui poi si stagliano le screaming vocals del cantante. Ecco, quindi niente di nuovo sul fronte orientale, tanta buona musica che ha un solo difetto: rischiare di diventare scontata. (Francesco Scarci)

sabato 19 aprile 2025

Wormwood - The Star

#PER CHI AMA: Melo Black
I Wormwood sono noti per il loro sound che mescola elementi di black metal con influenze melodiche e atmosfere evocative. 'The Star' rappresenta la quarta tappa della loro carriera, cominciata ormai nel 2014. E proprio in occasione del decennale della band, lo scorso anno ha visto l'uscita di quest'album ad andare a esplorare temi legati al collasso della società attraverso la loro lente oscura. Sette i brani a disposizione del quintetto di Stoccolma, a cominciare dall'iniziale "Stjärnfall", cantata in lingua madre, e che mette da subito in mostra le caratteristiche della band scandinava, ossia quello di alternare passaggi aggressivi e momenti più melodici (si ascolti il lungo break atmosferico di "pink floydiana" memoria, per capire cosa intendo), creando un contrasto che tiene l'ascoltatore coinvolto per tutto il tempo, nonostante la proposta dei nostri non brilli proprio in termini di originalità. Eppure è proprio grazie a questa modalità, all'uso di vocals sia in screaming che più pulite e accattivanti, che l'attenzione si mantiene sempre ai massimi livelli. Se passiamo a "A Distant Glow", non possiamo non notare le affinità con i Katatonia di 'Brave Murder Day' e non posso che esultare di fronte alle facili e melodiche linee di chitarra proposte. Parimenti, "Liminal", ma in generale un po' tutti i brani qui contenuti, mostrano caratteristiche piuttosto simili, con un uso distorto delle chitarre (spesso e volentieri in tremolo picking) coadiuvate da un ottimo lavoro alle tastiere, una batteria secca ma incisiva e ampie sezioni strumentali che offrono respiro e profondità, e in chiusura non mancano neppure ottimi assoli. Senza dimenticare anche qualche variazione dal sapore folk che possiamo riscontrare qua e là, e che proprio in "Liminal", nella successiva "Galactic Blood" o in "Suffer Existence", ne sento la maggior influenza. Poi citavo per l'opening track, i suoi break atmosferici, ebbene anche quelli fanno parte del corredo della band svedese, che sia attraverso l'uso di parti acustiche o dell'efficace violino di Martin Björklund, contribuiscono a rendere la proposta dei Wormwood costantemente accattivante, arricchendo ulteriormente il paesaggio sonoro. Non mancano nemmeno le tracce mega tirate (la già citata "Suffer Existence" ne è un esempio), tra blast beat, furiose gallopate, screaming selvaggi, voci femminili e parti folkloriche, giusto a ricordare che la band sa muoversi a 360° con grande disinvoltura e abilità tecnica. E il finale affidato a "Ro" rappresenta la summa di tutto questo, ancora con porzioni furiose, voci femminili, delicate componenti atmosferiche e parti più progressive. Insomma, 'The Star' è un lavoro a cui dare più di una chance, ve lo garantisco. (Francesco Scarci)

(Black Lodge Records - 2024)
Voto: 76

https://wormwood-official.bandcamp.com/album/the-star

mercoledì 16 aprile 2025

Gonemage - Entranced by the Ice Storm

#PER CHI AMA: Experimental Black Metal
Dallas, Texas: è da qui che arrivano i Gonemage, la creatura solitaria di tal Galimgim che propone un EP di due pezzi che dovrebbe fare da apripista al nuovo album. 'Entranced by the Ice Storm' è cosi un assaggio di quello che ci dovremmo verosimilmente aspettare nel prossimo futuro. Il sound del factotum americano suona come una celebrazione, un frammento di un universo sonoro dove il black sinfonico degli anni ’90 si scontra con l’eco spettrale di sintetizzatori 8-bit e 16-bit, un’ode al caos digitale e alla furia primordiale. In queste due brevi ma dense composizioni, il mastermind statunitense sembra fondere l’eredità black con le texture di un computer anni '80 (ah, il mio bel Commodore 64, che ricordi/nds). È in questo contesto che il sipario si apre con "Entranced by the Ice Storm", una song in cui convivono synth retrò con riff affilati come stalattiti e Galimgim che si palesa dietro al microfono con grim vocals demoniache. L’atmosfera sintetica mi ha evocato un che dei nostri Progenie Terrestre Pura, anche se la proposta della band strizza l'occhio a un symph black industrialoide, contaminato da derive old fashion dei Dødheimsgard. I chiptune della seconda "Giga Axe Beam" pulsano invece come la scheda madre del mio computer mentre ascolto black metal, in un contrasto ipnotico e disorientante, per un esperimento che certo non si piega alle convenzioni, mentre le voci si sdoppiano o forse triplicano, in un tripudio di suoni che sembrano addirittura evocare un che dei Mr. Bungle, in un lavoro che alla fine è tutto da scoprire. (Francesco Scarci)

(Lilang Isla - 2025)
Voto: 69

https://gonemage.bandcamp.com/album/entranced-by-the-ice-storm

martedì 15 aprile 2025

Dark Oath - Ages of Man

#PER CHI AMA: Symph Death
I Dark Oath, band portoghese che sembra essermi sfuggita negli ultimi anni, tornano in scena con il loro secondo album, 'Ages of Man', pubblicato ben otto anni dopo il debutto 'When Fire Engulfs the Earth'. Questo nuovo lavoro rappresenta un ambizioso viaggio attraverso le epoche dell’umanità, narrate secondo la visione del poeta greco Esiodo. Si tratta di un concept album suddiviso in nove tracce, ognuna dedicata a una delle cinque età della storia dell'uomo – Oro, Argento, Bronzo, Eroica e Ferro – mescolando con maestria death metal melodico, orchestrazioni sinfoniche e suggestioni folk. Il risultato è un’opera sonora che si muove tra il maestoso e l’opprimente, capace di trascinare l’ascoltatore in atmosfere mitologiche dense di grandezza e decadimento. La forza della band risiede nel possente growling di Sara Leitão e nella raffinata abilità compositiva di Joël Martins alle chitarre, che donano spessore tecnico all’intero lavoro. Tuttavia, è proprio la densità dell’album a renderlo, forse, eccessivamente monolitico in alcuni episodi. Nonostante ciò, ogni traccia sembra delineare un capitolo distinto di questo viaggio epico, dipingendo affreschi sonori ricchi di pathos e dettagli evocativi. Il disco si apre con "Gold I (Dawn of Time)", un’introduzione che evoca l’alba di un’era primordiale. Un’orchestrazione dai toni delicati trasporta in un’utopia lontana prima che l’irruenza del death metal prenda il sopravvento con riff taglienti e blast beat incisivi. L’atmosfera iniziale è insieme trionfale e fragile, come a suggerire l’inevitabile caducità dell’età dell’oro. La voce di Sara Leitão entra potente, come un manifesto della perfezione originaria dell’uomo in armonia con il divino. Il viaggio prosegue con "Gold II (Fall of Time)", dove melodie accattivanti si intrecciano a un ritmo più serrato, mentre le orchestrazioni volgono verso tonalità malinconiche. Qui i Dark Oath raggiungono una delle vette del disco, ma il successivo "Silver I (A New King)" cambia registro: pur mantenendo alta l’intensità con un drumming preciso e quasi marziale, le melodie restano accessibili e memorabili. Con "Silver II (Life of Sorrow and Pain)" emerge invece una dimensione più oscura e malinconica: i riff si fanno più densi, la batteria rallenta in passaggi carichi di dramma, e le orchestrazioni ricamano un sottofondo di tristezza elegiaca. L’età del Bronzo prende forma con "Bronze I (Stolen Flame)", che omaggia il mito di Prometeo con riff più posati ma comunque potenti, mentre "Bronze II (Raging Waters)" incarna un caos primordiale attraverso percussioni impetuose che evocano tempeste marine e muri sonori travolgenti. In questa sezione l’equilibrio tra violenza e armonie sinfoniche, influenzato dalla scuola dei Fleshgod Apocalypse, raggiunge un punto culminante, creando suggestioni tanto intense quanto seducenti. Segue l’età Eroica, che si apre con "Heroic I (Sons of Gods and Mortal Men)", un brano intriso di gloria cinematografica e tragedia epica, arricchito da accenni folk che aggiungono una nota di unicità. Si giunge infine a "Heroic II (Elysian Fields)", un inno solenne che ci traghetta verso l’ultimo capitolo: "Iron (Through the Veil of Night)". Questo brano conclusivo si avvale della partecipazione di Paolo Rossi dei Fleshgod Apocalypse, le cui appassionate clean vocals si intrecciano magistralmente con gli elementi dark e sinfonici del pezzo. Il crescendo finale è una danza evocativa tra oscurità e magnificenza, chiudendo il disco in modo potente e appagante. Con 'Ages of Man', i Dark Oath dimostrano di avere la capacità di creare un’opera complessa e coerente, capace di trasportare l’ascoltatore in un mondo mitologico tanto affascinante quanto imponente. Un album che richiede attenzione ma ripaga con atmosfere e visioni musicali profonde e coinvolgenti. (Francesco Scarci)

venerdì 11 aprile 2025

Harakiri for the Sky - Scorched Earth

#PER CHI AMA: Blackgaze/Post Rock
Ragazzi, credo di aver già spolpato questo disco a forza di ascoltarlo! 'Scorched Earth', sesto capitolo degli austriaci Harakiri for the Sky, è una bomba che non tradisce lo stile che li ha resi grandi, ma ci aggiunge quel tocco in più, quei dettagli sonori che fanno la differenza. Qui si sente un’influenza post-rock ancora più marcata, che amplifica la vena introspettiva che colpisce dritto al cuore. Si parte con "Heal Me", un’apertura che è un’esplosione di (post-) black melodico, con accelerazioni da brividi e la voce di Tim Yatras degli Austere, che s'incastra alla perfezione. Tra squarci eterei e una malinconia che ti prende alla gola, grazie a chitarre, tastiere da standing ovation e alle urla taglienti di J.J., questo pezzo è già un biglietto da visita pazzesco. E poi arriva "Keep Me Longing" e, giuro, pensavo che la prima traccia fosse il top, ma qui si sale ancora! Melodie che ti mandano in estasi, raffiche furiose, atmosfere shoegaze da sogno e break acustici che ti avvolgono: c’è tutto, e funziona alla grande. La complessità di questi brani è impressionante, ti travolge con emozioni forti, anche grazie a testi che parlano di un mondo che cade a pezzi e della sua fragilità – roba che ti fa pensare. Le canzoni sono belle lunghe, siamo sugli otto minuti di media, e nella mia versione limitata (oltre 70 minuti con due bonus track, tra cui la cover spettacolare di "Street Spirit (Fade Out)" dei Radiohead cantata dal cantante dei Groza), diventano vere e proprie mini-suite dove il duo viennese-salisburghese riversa tutto il proprio talento. Sentite "Without You I'm Just a Sad Song": quel break acustico alla Alcest è pura poesia, un brano elegante e sfaccettato che farà impazzire i fan di vecchia data e conquisterà chiunque si avvicini alla band per la prima volta. Il livello resta altissimo con "No Graves but the Sea" e soprattutto "With Autumn I'll Surrender", dove una melodia catchy guida un pezzo oscuro e avvolgente che ti tiene incollato dall’inizio alla fine. Ok, magari la durata totale del disco potrebbe spaventare i meno pazienti, ma la cura e la raffinatezza con cui questi due austriaci si muovono tra le tracce sono semplicemente da applausi. Non posso non citare poi, "Too Late for Goodbyes", con la voce potente di Serena Cherry degli Svalbard che affianca J.J. in un duetto che spacca, e la chiusura con "Elysian Fields", dove Daniel Lang dei Backwards Charm porta un vibe quasi pop, spingendo gli Harakiri fuori dalla loro comfort zone con un risultato sorprendente. Insomma, 'Scorched Earth' è un disco riuscitissimo, un viaggio sonoro che consiglio a chiunque a occhi chiusi. (Francesco Scarci)

giovedì 10 aprile 2025

Zéro Absolu - La Saignée

#PER CHI AMA: Post Black
Gli Zéro Absolu rappresentano la rinascita dei Glaciation, storica band black metal francese attiva dal 2011 al 2016 e poi tornata in scena tra il 2021 e il 2024. A causa di dispute legali legate ai diritti sul nome, il gruppo ha deciso di ripartire con una nuova identità. E così, dalle ceneri di una battaglia ancora calda, prende vita 'La Saignée', un album che si presenta come una ferita aperta, intrisa di rabbia e tormento. Questo senso di sofferenza si manifesta attraverso due composizioni mastodontiche: la title track, "La Saignée", un brano di oltre 20 minuti che apre il disco, e i successivi 13 minuti di "Le Temps Détruit Tout". Il progetto, guidato da Valnoir, si sviluppa su un campo sonoro dove il black atmosferico incontra il post-black, tracciando paesaggi cupi e struggenti, arricchiti da melodie strazianti e sintetizzatori lucenti come ghiaccio sotto un cielo plumbeo. La band, supportata da membri di Regarde les Hommes Tomber e Alcest, sorprende per la sua abili nell'unire riff taglienti come lame gelide a melodie eteree e celestiali, generando un flusso musicale tanto travolgente quanto emotivamente intenso. Nonostante l'essenza black rimanga dominante, ci sono momenti di straordinaria bellezza atmosferica, chiaramente influenzati dall’approccio onirico tipico degli Alcest. Tuttavia, proprio quando sembra regnare una calma paradisiaca, il caos si risveglia e irrompe con la sua furia devastante. Il secondo capitolo dell’album non si discosta da queste atmosfere, proponendo un attacco sonoro implacabile, con ritmi feroci e urla graffianti che trasudano veleno puro attraverso uno screaming viscerale. Eppure, le sezioni ambient, arricchite da spoken word e sintetizzatori sinistri e ipnotici, tendono progressivamente a emergere, conducendo l’ascoltatore in un paesaggio desolato e mortifero. È qui che l’album si avvia verso il suo epilogo: un ultimo riff che esplode in tutta la sua possente disperazione e un grido finale destinato a dissolversi nel vento gelido. (Francesco Scarci)

lunedì 7 aprile 2025

Caelestra - Bastion

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze
Il debutto dei Caelestra mi decisamente aveva catturato, un’eco di emozioni crude e immediate che ancora risuona nella mia memoria. Con 'Bastion', pubblicato nel dicembre 2024 senza clamori o annunci roboanti, Frank Harper propone un lavoro che porta il peso della lotta della moglie contro la fibrosi cistica. È un disco che si muove tra ombre di tristezza e barlumi di celebrazione, un riflesso di vita che, pur non eguagliando la scintilla diretta del predecessore, si staglia come un’opera dignitosa, carica di un’intensità velata di malinconia. 'Bastion' si dipana attraverso una fusione di post-metal e progressive black metal, tessendo un arazzo sonoro ricco e stratificato, ma forse meno immediato di quanto ci si potesse aspettare. L’apertura con “Halcyon” è un abbraccio dolceamaro, un’intro che si espande in paesaggi sonori che richiamano il respiro cosmico di Devin Townsend, accogliendo l’ascoltatore in un’atmosfera densa di nostalgia. Laddove il primo album brillava per la sua accessibilità, qui Harper opta per una complessità più meditata, come si sente in “Soteria”: un brano che dal post-black vira verso lidi shoegaze, con vocalizzi che dallo screaming si dissolvono in sospiri eterei, accompagnati da synth celestiali che sembrano guidarci verso un aldilà irraggiungibile. È un momento di rara bellezza, un punto di forza che testimonia la capacità di Harper di bilanciare aggressività e delicatezza. “Finisterre” colpisce con ritmiche che ruggiscono come un urlo soffocato, eco del dolore che abita l’anima del mastermind, ma si placa in sezioni più quiete, quasi a voler offrire un respiro, un equilibrio che dà corpo al suono della sua one-man band. L’effetto sorpresa del debutto, tuttavia, sembra essere svanito, lasciando spazio a una sensazione di déjà-vu che a tratti, ne offusca l’impatto. Eppure, in pezzi come “The Hollow Altar”, gli arrangiamenti si ergono con un’aura cinematografica: dai cori iniziali che si librano come un lamento sacro, si passa a un’esplosione ritmica che evolve in un intreccio denso di significato, un altro segnale della cura che Harper riversa nel suo mestiere. La chiusura arriva con “Eos”, una suite di 11 minuti che si snoda lenta e struggente. Le sue melodie malinconiche, intrecciate a una musicalità estrema – veloce, dinamica, a tratti furiosa – colpiscono nel profondo, come un addio che non trova pace. È qui che 'Bastion' rivela il suo cuore: un disco che, pur non raggiungendo l’altezza del predecessore, si distingue per la sua sincerità e per la capacità di trasformare il dolore in arte. Non è un trionfo, ma un viaggio significativo, un’ode alla resilienza che merita di essere ascoltata con attenzione, anche se con un pizzico di rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere. (Francesco Scarci)

domenica 6 aprile 2025

Ulver - Liminal Animals

#PER CHI AMA: Electro/Psych Rock
Uscito digitalmente a fine novembre dello scorso anno, e solo fisicamente il 7 marzo di quest'anno, 'Liminal Animals' è l'ultimo lavoro degli Ulver. Non è solo un album, è un lungometraggio audace, un viaggio psichedelico che sfuma i contorni della realtà, un’inquadratura sfocata dove i lupi norvegesi, ormai lontani dai roventi paesaggi del metal, ci guidano attraverso un crepuscolo liminale. La dedica a Tore Ylwizaker, il tastierista scomparso nell’agosto scorso, aleggia come un’ombra sul set, un requiem muto che s'insinua nei suoi fotogrammi. Kristoffer Rygg, il regista visionario un tempo noto come Garm, dirige i suoi fedeli compagni di scena in un abisso di synth malinconici e paesaggi sonori che si stagliano come quinte di un teatro oscuro. La cinepresa si sofferma su "A City in the Skies": un piano sequenza mozzafiato di una metropoli sospesa, costruita con riff sintetici e percussioni che ticchettano come pioggia su vetri ghiacciati. È un miraggio architettonico, una skyline di grandezza fragile che si sgretola sotto il peso del suo stesso splendore, un tableau vivant di synth-pop che si spegne in dissolvenza. Poi, un taglio netto su "Forgive Us": la luce si abbassa, l’obiettivo cattura Rygg in un primo piano straziante, la sua voce è un monologo che vibra di emozione cruda. La tromba di Nils Petter Molvær irrompe poi come un lamento solitario, un suono che stride nel buio, mentre un coro di voci melliflue s'insinua come un flashback ossessivo, un’implorazione che si perde nel vento di una sala vuota. "Nocturne #1" è uno stacco atmosferico, una sequenza muta, un’eco che ricorda quei giorni in cui gli Ulver scrivevano per cortometraggi ambient. La scena si sposta su "Locusts": un montaggio serrato di synth pulsanti e percussioni tribali, con i vocalizzi di Rygg che si liberano come un narratore fuori campo sopra un’invasione di ombre ronzanti, un quadro di tensione che si dissolve in un nero profondo. "Hollywood Babylon" cambia registro: un’inquadratura grandangolare su un boulevard al neon, troppo lucido, troppo pop, un’interferenza che stride nella pellicola oscura, ma che si piega al cinismo delle sue liriche taglienti. "The Red Light" rallenta il ritmo: una ripresa che segue una figura indistinta per strade bagnate con i synth e ritmi spezzati che costruiscono un’atmosfera da thriller notturno, girata tra i vicoli di una città senza nome. "Nocturne #2" è un’interruzione onirica, un montaggio di post-rock cinematico che richiama le distopie di "Blade Runner": pioggia al neon, synth che si espandono come un cielo artificiale, un respiro prima del finale. Si arriva al lungo finale con "Helian (Trakl)", una song di oltre undici minuti che si dipana come un ultimo atto monumentale. Jørn H. Sværen entra in scena, la sua voce recitante che declama Georg Trakl sembra quella di un poeta maledetto su un mare di synth e pulsazioni dub. È un piano sequenza infinito, con la musica che si gonfia in un crescendo di malinconia che si spegne in un fade-out lento, un sipario che cala su un film imprevedibile, seducente, ulveriano fino al midollo. (Francesco Scarci)

(House of Mythology - 2024)
Voto: 75

https://ulver.bandcamp.com/album/liminal-animals

venerdì 4 aprile 2025

Zeal & Ardor - Greif

#PER CHI AMA: Alternative/Avantgarde
Prosegue il percorso alquanto accattivante intrapreso dagli svizzero-statunitensi Zeal & Ardor, che giunge al traguardo del quarto album, il qui presente 'Greif'. L'audacia di Manuel Gagneux, leader della band, si conferma sin dalle prime battute con dei pezzi solidi, orecchiabili, originali e che vanno a consolidare la reputazione dei nostri come pionieri del crossover tra metal, blues e gospel. "Fend You Off" è subito una bomba, con le chitarre che s'intrecciano con percussioni evocative e le spettacolari melodie vocali del frontman, che si esibisce sin da subito, con un'eccellente performance, soprattutto nel ritornello azzeccatissimo del brano. "Kilonova" parte da quello che sembra essere il battito di un cuore per poi continuare su una ritmica tribale oscura e ipnotica. "Are You The Only One Now?" sembra uno di quei brani intimistici dei Radiohead che però va in crescendo a sfociare territori più estremi, ma comunque sempre molto melodici. "Go Home My Friend", al pari di "369", è il classico brano gospel di scuola Zeal & Ardor che abbiamo imparato ad apprezzare sin dal primo straordinario 'Devil is Fine'. Con "Clawing Out" ci muoviamo nei paraggi di band come i francesi CROWN, coniugando il metal con elettronica industriale. Qua e là troviamo anche pezzi che rappresentano un po' una novità per la band: penso alla cantautorale "To my Ilk" o a "Thrill" che chiama in causa addirittura gli ultimi Muse, palesando quindi una eterogeneità di fondo in questo lavoro più spiccata che nei precedenti album, spalancando le porte quindi a nuove frotte di fan. Insomma, "Greif" è un'opera che non solo soddisfa le aspettative degli storici fan degli Zeal & Ardor, ma probabilmente le supera ampiamente. Con la sua combinazione di sonorità robuste, testi evocativi e una produzione impeccabile, quest'album dimostra come gli Zeal & Ardor possano essere una forza innovativa nel panorama musicale alternativo, offrendo un'esperienza sonora che invita all'ascolto attento e alla riflessione profonda. (Francesco Scarci)
 
(Self - 2024)
Voto: 77
 

lunedì 31 marzo 2025

Total Fucking Destruction - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grind/Death
Un caos primordiale irrompe sin dai primi secondi: un’apertura scomposta e stridente, dove un sax lamentoso si scontra con strumenti distorti in un turbine di suoni che aggredisce i timpani come un presagio di tempesta. Una voce s'insinua, un bisbiglio inquietante che sembra emergere da un angolo oscuro. Siamo di fronte a un disco che attinge alle radici dell’hardcore americano più crudo, ma le trasforma in un assalto grind senza compromessi. La band si muove con una precisione brutale: ritmi serrati e convulsi, strumenti che s'inseguono in un unisono feroce, per poi spezzarsi in pause calcolate, minimali, che amplificano l’impatto di ogni colpo. Il suono è spoglio, quasi ascetico, valorizzato da una produzione che lascia respirare gli strumenti nella loro essenza, con una distorsione grezza che non ha bisogno di orpelli. Persino i rari momenti di arpeggio emergono nudi, senza fronzoli, mentre le chitarre si lanciano in armonizzazioni travolgenti, semplici ma taglienti come lame. I brani sono schegge: alcuni brevissimi, altri poco più lunghi, tutti definiti da stacchi secchi, ipnotici e carichi di una violenza fredda. C’è varietà nella struttura – pezzi che si contorcono in cambi repentini, altri che procedono dritti come un ariete – ma l’energia non cala mai. Le voci sono un coro di tormenti: un urlo isterico domina la scena, accompagnato da growl gutturali e rantoli cupi che grondano disgusto. L’ironia, però, si fa strada tra le crepe, un ghigno sinistro che alleggerisce il peso dell’assalto. E poi c’è la batteria, un’entità posseduta suonata da Richard Hoak, ex-Brutal Truth, che martella senza sosta, spingendo i brani in una spirale di pura furia. A spezzare il muro sonoro arrivano assoli di chitarra desertici, dilatati, che si estendono come oasi di desolazione in contrasto con la frenesia circostante – così lunghi da sembrare brani a sé, in un disco dove tutto il resto è compresso in esplosioni di pochi istanti. È un inferno musicale che non fa prigionieri, ma che colpisce per la sua coerenza selvaggia. (Francesco Scarci)

(Deaf American Recordings - 2000)
Voto: 67

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