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mercoledì 24 settembre 2025

Waste Cult - Blame

#PER CHI AMA: Sludge/Doom/Stoner
È stata una bella sorpresa appurare che i Waste Cult provengono dal nostro Belpaese, Bologna per l'esattezza, e vederli pubblicati dalla Aesthetic Death è stata ulteriore fonte di orgoglio. In una scena doom metal contemporanea poi, dove questo sound spesso oscilla tra revival nostalgici e ibridazioni estreme, i quattro musicisti nostrani si collocano quasi come una voce autentica e introspettiva della scena italica, con 'Blame' che ne segna il debutto sulla lunga distanza. La band si affida a un doom sporcato di venature stoner e post-metal, per dar fiato alla propria voce, provando a consolidare una presenza significativa nell'underground europeo. Per quanto riguarda poi gli aspetti puramente contenutistici del disco, diciamo che ci troviamo di fronte a un lp di 45 minuti, che include otto pezzi, di cui una traccia strumentale ("Kerberos"), che si muovono su un fronte che vede la band proporre un doom classico, ma andando anche a esplorare poi anfratti più moderni. Forti di una produzione equilibrata, il disco si muove con chitarre che dominano attraverso riff potenti e distorti di scuola "sabbatiana", supportati da un bel basso tellurico e da un drumming che varia da ritmi lenti e cadenzati a groove più dinamici. Il primo nome che mi è venuto alla mente durante il mio ascolto è stato quello dei primi (non primissimi) Cathedral (la stoner "Delirium of Manners" mi ricorda parecchio da vicino la band di Lee Dorian e soci) ma anche i Monster Magnet. Questo mi dice almeno l'opener "Ad Astra", che vanta peraltro qualche riffone di scuola Paradise Lost (ai tempi di 'Shades of God'). Più morbida e introspettiva invece la title track, che apre con un tiepido arpeggio di chitarra, prima di sferragliare un rifferama più di matrice post e acquietarsi nuovamente nel caldo abbraccio di melodie crepuscolari. La voce del frontman, sempre pulita, segue un po' pedissequamente i dettami del genere; se la cava bene, ma secondo me c'è spazio per il miglioramento. Altri brani interessanti sono "Blended as One", più atmosferica, più post metal a livello ritmico, più affine anche al mio palato, devo ammettere, fatto salvo sempre per una componente vocale che qui sembra rimanere troppo nelle retrovie. E ancora, ho apprezzato la più ipno-cosmica, "The Warmest Shelter", che si affida a larghi spazi strumentali, mentre il finale consegnato a "Maze", il pezzo più lungo del disco, sembra il giusto compromesso, in bilico tra arpeggi e dinamiche linee di chitarra (e tra vocals pulite e qualche sporadico growl), a chiudere un disco interessante, considerato anche il bagaglio di musicisti che affonda le proprie radici in territori punk/thrash. Diamogli quindi un ascolto a questi Waste Cult e facciamo in modo che la nostra scena si elevi al pari delle altre grandi europee. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2025)
Voto: 70

martedì 23 settembre 2025

Undead - This Side of the Grave

#PER CHI AMA: Swedish Death
Sembra che in queste ultime sere se non ho piantato nelle orecchie un bel disco di death old school, non riesca a dormire bene. Dopo aver recensito ieri gli svedesi Grand Cadaver, oggi mi ritrovo alle prese con gli spagnoli Undead, che sembrano volermi fare un altro giro nelle lande sconfinate scandinave. 'The Side of the Grave' è il loro nuovo EP, il terzo della discografia che conta anche due full length. Le coordinate stilistiche penso siano piuttosto chiare: Swedish death che ricorda non poco quei suoni emersi dai capolavori dei primi Entombed e Dismember, con le classiche chitarre ribassate, un bel growling chiaro e distintivo, ritmiche serratissime e una solidità di base inamovibile. Se da un lato questi sono i punti di forza del quartetto di Madrid, alla fine si riveleranno anche un inevitabile boomerang, che spinge a dire che l'inventiva dei nostri è pari quasi a zero e che gli originali erano decisamente meglio. Eppure, i brani sono interessanti, diretti, oscuri, addirittura con un pizzico di melodia (il mio preferito è il più ipnotico e morboso "I am the Curse") e con tematiche che evocano addirittura la spiritualità orientale (penso a "Samsara" che rimanda al ciclo buddhista di morte e rinascita). Ottima sicuramente la porzione tecnica (pirotecnico l'assolo di "Blood Enemy") ma quello che mi rimane alla fine dopo l'ultimo brano di questo EP, è una forte sensazione di aver ascoltato qualcosa che emula quello che realmente mi faceva impazzire nel 1991. Peccato solo che oggi siamo nel 2025. (Francesco Scarci)

(Edged Circle Productions - 2025)
Voto: 63

Vigljós - Tome II: Ignis Sacer

#PER CHI AMA: Raw Black/Psichedelia
Dalla Svizzera con furore. È proprio il caso di dirlo. Gli svizzeri Vigljós tornano con un nuovo album, dopo il debutto dello scorso anno intitolato 'Tome I: Apidæ'. Quanto contenuto in questo 'Tome II: Ignis Sacer' è un feroce black metal che vede come tematica principale la vita delle api, si avete letto bene, il cui senso metaforico è da rapportarsi però ai cicli di vita e di morte della società. Per quanto riguarda gli aspetti puramente musicali, la band fonde la freddezza del black metal con elementi più psichedelici (ascoltate la seconda metà di "A Seed of Aberration" per capire meglio la proposta del quartetto di Basilea) e medievali (l'intro "Sowing" o "Fallow - A New Cycle Begins" sono alquanto emblematiche a tal proposito). Quindi se da un lato la proposta nuda e cruda di un rozzo black metal potrebbe suonare alquanto abusata, tra deliranti grim vocals, blast-beat impazziti e chitarre taglienti più di una lama di rasoio, è in realtà poi il contorno ad arricchire una proposta, che rischierebbe di passare totalmente inosservata. E fortunatamente, il risultato non è affatto male, con le ritmiche incendiarie che rallentano in "The Rot", mentre la voce di L, continua a urlare sgraziatamente, e in sottofondo si palesa un po' ovunque, l'eco di un mellotron. Chiaro che non ci troviamo di fronte a chissà quale proposta innovativa: forse l'idea di fondo era quella di mantenere la ruvidezza del black, con giusto una spolverata di elementi psichedelici. Diciamo quindi che ci sono cose apprezzabili, il tentativo di miscelare raw black con elementi esoterici appunto, mentre altre, quelle più puramente ancorate a una tradizione di stampo '90s, che francamente iniziano un po' a stancare (dae un ascolto a "Claviceps" o "Delusions of Grandeur", con quest'ultimo pezzo che puzza addirittura di black'n'roll, ma che per lo meno sfodera interessanti divagazioni dal sapore settantiano). "Decadency and Degeneration" ha un piglio che richiama ancora il black'n'rock, ma le chitarre in sospensione, il vortice di furia incontrollata che si palesa dopo 90 secondi, e quello screaming, alla lunga fastidioso, la ricolloca nei ranghi, dopo poco. Un altro tentativo apprezzabile lo ritroviamo nel sound compassato di "Harvest", che in sottofondo sforna visioni oniriche di doorsiana memoria. Insomma, l'avrete capito, c'è ancora da lavorara affinchè il sottoscritto diventi un fan della band elvetica anche se, devo pur ammettere, di apprezzare il tentativo di portare nuove idee a un genere quasi in fase di stagnazione. E allora serve più coraggio se si vuole fondere tradizione e innovazione e i Vigljós porebbero anche averlo. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 64

lunedì 22 settembre 2025

Grand Cadaver - The Rot Beneath

#PER CHI AMA: Swedish Death
Nel vasto universo del metal, spesso orientato verso tendenze fugaci e mode effimere, i Grand Cadaver si ergono come un autentico baluardo di integrità musicale. Questo supergruppo svedese, attivo dal 2020, ha saputo riportare alla ribalta il classico death metal di Stoccolma, infondendovi un'elettrizzante energia brutale che lo rende fresco e intramontabile. Formati da veterani di spicco della scena musicale come Mikael Stanne (Dark Tranquillity), Christian Jansson (Pagandom) e Daniel Liljekvist (ex-Katatonia), i cinque svedesi si sono guadagnati un ruolo di rilievo nel rinascimento old school, mescolando l'eredità sonora di leggende come i primi Entombed, Unleashed e Dismember con una vitalità sorprendente. Il loro ultimo EP, 'The Rot Beneath', condensa in quattro brani l'essenza del loro stile, che sia chiaro, non inventa certo nulla di nuovo. Si tratta di un manifesto sonoro che celebra la tradizione dello Swedish death metal, pertanto aspettatevi chitarre ronzanti e iper ribassate che creano un'atmosfera viscerale di decomposizione, mentre ogni traccia testimonia la loro abilità nel salvaguardare un genere che rifiuta ostinatamente di soccombere al tempo. La conclusiva "Darkened Apathy" si distingue per il suo audace rallentamento, quasi a voler dimostrare che anche nel caos devastante del metal, c'è spazio per momenti di inquietante e deturpante introspezione. Lasciatevi travolgere allora dall'aggressività incandescente delle chitarre, dalle vocalità abrasive di Mikael Stanne e dai bombardanti blast beat di Daniel Liljekvist. Per chi ancora custodisce con reverenza l'inarrestabile potenza dei mostri sacri degli anni '90, i Grand Cadaver sono una band che merita un posto rilevante. (Francesco Scarci) 

(Majestic Mountain Records - 2025)
Voto: 70

martedì 9 settembre 2025

Postmortal - Profundis Omnis


#PER CHI AMA: Funeral Doom
Dici Aesthetic Death e, il più delle volte, dici funeral doom. E cosi, in quel vasto e spesso soffocante regno, dove ogni nota sembra un passo verso l'abisso, i Postmortal emergono come un sussurro pronto a trasformarsi in un rombo sotterraneo. 'Profundis Omnis' è il loro debutto su lunga distanza, sebbene altri vagiti siano emersi dalle viscere nel 2018. Questo disco si palesa attraverso quasi un'ora di meditazione lugubre su temi di dolore, morte e disperazione, incarnando i dettami del funeral doom, nella sua forma più primordiale e intransigente. Ascoltando il duo di Cracovia sin dall'opener "Fallen", posso dire che è inequivocabilmente ispirato ai maestri del genere quali Thergothon, Shape of Despair ed Evoken. Pur non reinventano la formula, la distillano in un'essenza cruda e malata, complice peraltro un contesto low-fi che privilegia l'opacità e la profondità emotiva su ogni artificio tecnico. Il suono è un monolite compatto, con un basso e voce cavernose che rimbombano come un'eco nelle catacombe, mentre le chitarre striscianti, sembrano avvolte in un velo di riverbero che amplifica quella fastidiosa sensazione di soffocamento. Insomma, non di certo una scampagnata in un verde prato in una giornata di primavera, tutt'altro. Direi piuttosto una lenta discesa negli inferi, accompagnata da uno slow-tempo funereo con sporadici cambi di tempo che contribuiscono a opprimere ulteriormente quel peso che grava su un cuore già in agonia. Non sono sufficienti quelle tiepide tastiere in "Darkest Desire", che aggiungono un velato alone gotico all'incedere del disco, per provare alleggerire un lavoro pachidermico, e in grado di generare solo una plumbea angoscia esistenziale. Come quella sprigionata nelle note iniziali di "Decay of Paradise" da spettrali vocals che provano a fare da contraltare al growling profondo di Dawid in un pezzo comunque asfissiante, che non vede troppi sussulti, fatto salvo per una seconda parte di brano più atmosferica. Il disco continua a presentarsi come una montagna invalicabile e i quasi 22 minuti delle successive "Prophecy of the Endless" e "Queen of Woe", non mi agevolano certo il compito nel descrivervi un classico sound funeral doom che persiste nel mantenerci intrappolati in una profondità abissale dalla quale sarà assai complicato venirne fuori. Per pochi impavidi coraggiosi. (Francesco Scarci) 
 
(Aesthetic Death - 2025)
Voto: 67
 

Mellom - The Empire of Gloom

#PER CHI AMA: Black/Death
In un panorama metal dove l'oscurità è spesso un'arma a doppio taglio, i teutonici Mellom irrompono con 'The Empire of Gloom', debut album uscito a inizio 2025, un disco che trasforma il black/death metal in un monolito di piombo fuso, pesante come un sudario di cenere che si deposita lenta ma inesorabile. Questo duo originario di Francoforte, costituito dai musicisti David Hübsch e Skadi, emerge dalle nebbie dell'underground come un'entità che non urla solo la propria rabbia, ma la sussurra attraverso corrosivi strati di black metal atmosferico. Radicati in una tradizione black metal dal piglio scandinavo, i Mellom non reinventano di certo la ruota, ma la ricoprono sicuramente di una ruggine stridente, con un lavoro che pesa sull'anima senza bisogno di artifici di alcuna sorta. La produzione, affidata a un approccio diretto e senza troppi fronzoli, sembra essere il vero collante di questo impero di tenebre, in cui gli arrangiamenti si mostrano minimalisti ma stratificati, con l'incedere sonoro che si muove tra serrate scorribande black ("Rules of the Universe" e a ruota, la successiva "The Last Dance") e frangenti più mid-tempo oriented (ascoltatevi "Burden", la title track o la più doomish "Feed the Machine", in cui ho sentito qualche eco dei Rotting Christ nella marzialità delle sue chitarre). Alla fine, quello che ne viene fuori è un disco sano e onesto che, come detto, non scopre certo l'acqua calda, ma trasforma il metal estremo in una terapia oscura e senza compromessi, con il caustico screaming di Skadi ad accompagnare un riffing glaciale, a tratti disturbante, con linee melodiche non troppo catchy, ma comunque presenti. Il disco è sicuramente ostico da ascoltare, complici le laceranti vocals della frontwoman, ma anche l'assenza di certi picchi melodici, a cui recentemente il black ha aperto. Ciò non toglie che per chi è un fan di certe sonorità "old fashion", 'The Empire of Gloom' potrebbe rappresentare un'alternativa ai vecchi classici. Prima di chiudere, vorrei citarvi un ultimo brano, "Beyond the Endless Waves", che con il suo melodico tremolo picking, e le sue clean vocals, potrebbe rivelarsi il pezzo più accessibile del lotto, sicuramente il mio preferito, emblema di un disco che presenta al mondo questi nuovi Mellom, che con qualche aggiustamento in futuro, potrebbero essere anche una paicevole sorpresa. (Francesco Scarci)

lunedì 8 settembre 2025

Contemplation - Au Bord du Précipice

#PER CHI AMA: Atmospheric Death/Doom
Nell'underground più profondo, la one-man band francese dei Contemplation sembra volersi distinguere come un progetto visionario, guidato dal polistrumentista francese Matthieu Ducheine. Il secondo full-length (ci sarebbe anche un disco in collaborazione con i Chrono.fixion), 'Au Bord du Précipice', vorrebbe infatti rappresentare un audace esperimento in grado di fondere doom death con elementi atmosferici, pagani e folk, nel tentativo di creare un ibrido unico nel suo genere. Attivo dal 2021 con un debutto omonimo, all'insegna di un death più sinfonico, il factotum Ducheine si lancia in sonorità affini (seppur più cupe e funeral) anche in questo lavoro, sciorinando arrangiamenti complessi, coadiuvati da un violino contemplativo, che lui stesso suona, chitarre super ribassate, e in generale, una linea ritmica solida e profonda, ammorbidita da eterei synth, e imbestialita da uno spaventoso growl cavernoso (per cui auspico a breve di affiancare clean vocals). Se i testi sembrano esplorare temi introspettivi, la musica esprime, attraverso il malinconico suono del violino, immagini di paesaggi desolati e montagne intese come rifugio spirituale, con il titolo dell'album a suggerire una condizione al confine dell'abisso esistenziale, decisamente in linea con l'estetica doom. Musicalmente, ho adorato "Endless Mental Slavery", per la sua atmosfera pesante e meditativa, frutto di un riffing pachidermico che s'intreccia con le splendide dinamiche offerte dal violino. La title track, introduce elementi sperimentali (qualcuno li definisce addirittura dub) più marcati con ritmiche che emergono da un'intro atmosferica, a cui il violino fa costantemente da contraltare, senza scordare comunque una linea melodica notevole, sempre presente nell'intelaiatura musicale dei Contemplation. Fatto sta, che la proposta della band transalpina si lascia piacevolmente e sorprendentemente ascoltare, pur proponendo un genere di per sé, assai ostico. Eppure, con sperimentazioni vocali che mi hanno evocato un che dei Violet Cold ("Le Recours Aux Montagnes"), raffinate linee melodiche e ampie parti atmosferiche ("Dust to Dust"), il disco ha saputo conquistarmi per la sua originalità sin dalle prime note. (Francesco Scarci)

mercoledì 3 settembre 2025

She’s Green - Chrysalis

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Uscito poco più di due settimane fa, 'Chrysalis' è il secondo EP dei She’s Green, quintetto originario di Minneapolis e attivo dal 2022, che si muove con disinvoltura tra indie rock, shoegaze e dream-pop. Composto da Zofia Smith (voce), Liam Armstrong e Raines Lucas (chitarre), Teddy Nordvold (basso) e Kevin Seebeck (batteria), il gruppo conferma con questa uscita un’evoluzione sonora che amplia i confini del loro sound, mantenendo intatto quel gusto etereo che li aveva fatti emergere sulla scena a suo tempo. Il risultato che ne viene fuori è un suono che coniuga densità evocativa e limpidezza: le chitarre in tremolo picking s'intrecciano malinconicamente a timbri naturali in una stratificazione che trasforma l’ambient in un organismo vivo con una poetica affascinante che lascia spazio a ogni strumento per respirare e mantenere la propria identità. Questo è quanto si evince già in apertura con "Graze", un crocevia di immagini intense che, a braccetto con la potenza sonica dei nostri, instaurano un’atmosfera d'inquietudine palpabile. A ruota segue "Willow", più vibrante e ritmata, in cui la voce di Zofia, si fa fragile ma urgente, e sembra stagliarsi calda al tramonto, al termine di una giornata di fine estate. "Figurines" è più introspettiva e forse troppo melliflua per il sottoscritto, con quel suo dream pop assai spinto, mentre "Silhouette" opta per un minimalismo (anche nella durata) romantico e poetico, costruendo un climax emotivo soffuso e sospeso. A chiudere il tutto, ecco "Little Birds", la giusta conclusione per un lavoro del genere, una traccia commovente, un vellutato ed etereo viaggio intimistico nel profondo delle nostre anime. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)

martedì 2 settembre 2025

Tetramorphe Impure - The Sunset Of Being

#PER CHI AMA: Death/Doom
Immaginate un crepuscolo che non svanisce mai, un orizzonte avvolto da una nebbia di piombo che inghiottisce ogni barlume di luce. Ecco, questo potrebbe essere il mondo evocato da 'The Sunset of Being', debutto discografico dei Tetramorphe Impure, via Aesthetic Death, dopo una gavetta durata quasi vent'anni nel sottobosco italico. Quello che vi presento, è il progetto solista di Damien, uno che ha suonato nei Mortuary Drape ai tempi di 'Buried in Time', e che ha pensato bene di tuffarsi nel funeral doom, dopo aver esplorato il black con i Comando Praetorio. E cosi, affondando le radici negli abissi di band quali Thergothon e Skepticism, il buon Damien si è lanciato con questo monolite sonoro in una scena doom sempre più affollata di epigoni, cercando di distinguersi dalla massa, nel trasformare la lentezza in un'arma affilata, un suono che non aggredisce ma erode. Forte di una produzione curata e incisiva, il lavoro si conferma come un'opera di oppressione sonora capace di sfoggiare un suono plumbeo, denso come fango che inghiotte ogni passo, dove il basso rimbomba come un tuono sotterraneo e le chitarre si trascinano in riff corrosivi che sembrano scolpiti nella roccia erosa dal tempo. Non c'è spazio per troppi fronzoli qui, gli arrangiamenti privilegiano una stratificazione essenziale, con il drumming che procede a ritmi funerei e accelerazioni sporadiche che evocano un cuore in affanno, e il basso che funge da spina dorsale, ancorando il tutto in un abisso di gravità. Quattro pezzi per quasi 40 minuti di musica in cui le chitarre, avvolte in un pesante velo di distorsione, si muovono in territori death, mentre sporadici inserti di tastiere aggiungono un velo di nebbia eterea, senza mai alleggerire il fardello che questo disco si porta. Nell'apertura affidata a "Forsaken Light", emerge subito un senso di abbandono, con immagini di discesa verso l'oblio che riecheggiano le angosce esistenziali di un mondo che sta per cadere a pezzi, e in cui Damien infonde il proprio tocco personale, nel proporre un death doom intriso di una malinconia goticheggiante, alternando peraltro growling vocals a un pulito intonato e spettrale. "Night Chants" sembra rallentare ulteriormente, sebbene non manchi una sfuriata death dopo un paio di giri d'orologio, ma è da qui che si aprono passaggi più crepuscolari, quasi esoterici e decisamente più originali per l'economia dell'album. "Spirit of Gravity" mostra il suo cuore oscuro, chiamando in causa, nelle sue linee di chitarra, un che dei primi Paradise Lost, in un pezzo che si palesa con un pesante rifferama doom e un'alternanza vocale ipnotica e sinistra. Infine, la title track chiude il cerchio con una violenta discesa negli abissi, dove i growl si dissolvono in clean malinconici, accompagnati da timide tastiere che evocano un tramonto eterno – un finale che incarna la dissoluzione, rendendolo il culmine significativo di un album che non concede redenzione. (Francesco Scarci)

Novarupta - Astral Sands

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock
I Novarupta sono una one-man band svedese, capitanata dal poliedrico Alex Stjernfeldt, ex membro dei The Moth Gatherer. Nel 2025 il factotum scandinavo ha fatto uscire il quarto lavoro, 'Astral Sands', che va a chiudere un ciclo ambizioso di quattro album, che era nato nel 2019 come una sorta di supergruppo underground. In questi sei anni, la band ha scavato un solco profondo nella scena post-metal e sludge, distinguendosi per un approccio collaborativo che vede ogni album della loro tetralogia elementale, ospitare una parata di cantanti ospiti dal mondo metal estremo. Questo quarto capitolo, dedicato alla terra, conferma la band come una forza creativa nell'ambito post-metal, dove lo sludge si fonde con echi shoegaze e post-rock, bilanciando egregiamente introspezione e intensità, senza per forza cadere nel cliché. Il suono di questo nuovo disco non si discosta poi molto dai precedenti, offrendo un approccio mid-tempo contemplativo e atmosferico, privilegiando una tiepida stratificazione sonora piuttosto che l’assalto frontale. Le chitarre, centrali negli arrangiamenti, alternano riff corrosivi e grooveggianti a linee melodiche eteree, supportate da un basso solido e una batteria che varia tra groove cadenzati e fill dinamici. Parlavamo di ospiti e non potevano mancare nemmeno qui con una serie di collaborazioni vocali che rappresentano il vero asso della manica della band: si va infatti da Jonas Mattson (Deathquintet) nella splendida "Seven Collides" a Martin Wegeland (dei Domkraft) nella conclusiva "Now We Are Here (At the Inevitable End)", passando attraverso la poetica di "The Bullet Shines Before Impact", in compagnia di Kristofer Åström (Fireside) e scavando nell'anima attraverso le malinconiche melodie di "Endless Joy", dove a dividersi la scena, troviamo Per Stålberg (Divison of Laura Lee) e il musicista dronico Johannes Björk. Il disco è delicato, emozionale, maestoso, vario e non solo per l'alternanza vocale dietro al microfono. È un lavoro che tocca le corde dell'anima in ogni suo frammento, e per questo l'ho amato sin dal primo ascolto. Vi basti ascoltare un pezzo come "Terraforming Celestial Bodies", dove alla voce troviamo Arvid Hällagård (Greenleaf) e ve ne innamorerete immediatamente. Per non parlare poi della successiva "Breathe Breathe" con un ottimo Patrik Wiren (Misery Loves Co) a regalare una performance ineccepibile per un disco davvero avvincente, che mi sento di consigliare a 360°. (Francesco Scarci)

martedì 26 agosto 2025

Akhenaten - Gods Of Nibbirus Vol.2

#PER CHI AMA: Instrumental Cinematic Eastern Metal
'Gods Of Nibbirus Vol.2' è una nuova compilation interamente strumentale, la seconda dopo quella del 2019, firmata Akhenaten, stravagante progetto di metal dalle fortissime influenze mediorientali, originario di Manitou Springs (Colorado). Il sound della band dovrebbe avere una base black/death, arricchita da influenze folk mediorientali, ma qui sono quest'ultime coadiuvate da suggestioni cinematiche a prendersi la scena. Eppure, i nostri si sono costruiti una solida reputazione nella scena con tre dischi estremi, cantati e ben suonati. Ma torniamo al presente: forti di una produzione nitida e teatrale, dotata peraltro di atmosfere epiche e magniloquenti, il duo statunitense si diletta a proporci egregie orchestrazioni che assumono i connotati di colonna sonora da film colossal. Chiaro, io personalmente, li preferisco quando c'è un bello screaming a narrare di occultismo, teorie cospirative o mitologia egizia, ma è innegabile come il tono solenne dell'opener "Anunnaki Requiem" sia colmo di una certa tensione mitologica, impostando un tono epico e misterioso sin dall'inizio. O ancora, come la seconda "Echos of the Celestial Architects" mostri un'atmosfera sospesa, grazie a una costruzione lenta, ma evocativa, che lascerà un forte senso di maestosità. I pezzi si susseguono con questo piglio visionario, cinematografico, potente e soprattutto immersivo, che ci proietterà per oltre 60 minuti, in altri mondi e tempi dell'universo. (Francesco Scarci)

sabato 16 agosto 2025

Below the Sun - Immanence

#PER CHI AMA: Post Metal
Che fastidio che il nuovo album dei Below the Sun, sia rimasto in forma digitale. Sebbene discogs riveli che esista una release fisica, io di tracce nel web di quel formato, non ne ho trovate. 'Immanence' comunque è il nuovo viaggio musicale profondo e introspettivo del duo di Krasnoyarsk, che esplora tematiche esistenziali attraverso sonorità avvolgenti e atmosferiche. Con questo nuovo lavoro, la band prosegue nel costruire il proprio sound distintivo, mescolando elementi di post-metal, doom e ambient, sfoggiando sei nuovi pezzi che prendono alla gola sin dalle note iniziali dell'intimistica "Instinct", che si muove all'altezza di un bivio tra sonorità sludge e post metal. Quest'ultime che si prendono la scena nella successiva "Restraint", un brano in bilico tra pesantezza e melodia, un equilibrio sofferto tra il post rock iniziale e l'asfissiante doom che si palesa a metà brano, con le vocals che da growl passano a un pulito emozionante in un crescendo emotivo (e musicale), che lascia quasi senza parole. Un clamoroso passo in avanti rispetto al vecchio disco 'Alien World', ormai datato 2017, una maturità acquisita che potrebbe rendere i Below the Sun significativi almeno quanto i Rosetta, per non dire anche qualcosa di più. Il che si conferma anche nella cerebrale e distorsiva potenza di "Being" o nell'essenziale musicalità di "Beholder", un pezzo più sperimentale ed etereo che avvicina i nostri a una band come gli Explosions in the Sky, in un'architettura sonora ben più morbida rispetto agli altri brani (fatto salvo per la strumentale "Illumination"), ma dotata comunque di una raffinatezza e un approccio onirico di un certo livello. "Revelation" è la traccia di chiusura, una specie di epopea progressive shoegaze che combina riff lenti, clean vocals e orpelli vari che avvicinano i Below the Sun a territori probabilmente mai esplorati. Il brano inizia in modo soft, con vocalizzi appunto shoegaze e un crescendo che culmina in un finale maestoso, a sancire quanto realmente sia interessante questo disco e quanto mi continuino a girare le scatole per non averlo ancora trovato in un formato fisico. (Francesco Scarci)

giovedì 14 agosto 2025

Ereb Altor - Hälsingemörker

#PER CHI AMA: Viking/Epic
'Hälsingemörker', l'ultima epica creazione degli Ereb Altor, trascina l'ascoltatore in un viaggio attraverso paesaggi sonori maestosi, dove regnano atmosfere cupe e ancestrali echi della mitologia nordica. La leggendaria band svedese, maestra nell'arte di fondere viking metal e doom in un'unica, possente visione, forgia ancora una volta un universo musicale di rara potenza e complessità. Fin dalle prime, folgoranti note di "Valkyrian Fate", si percepisce l'intensità titanica con cui il gruppo scandaglia i misteri più profondi della natura e delle saghe norrene. Gli intrecci di melodie epiche e riff devastanti creano una cattedrale sonora monumentale, sublimata dalla voce cristallina e potente di Mats, sostenuta da cori che evocano gli spiriti degli antichi guerrieri. La sua performance vocale è un'autentica epifania: attraversa l'intero spettro emotivo umano, regalando momenti di connessione mistica che toccano l'anima. La produzione raggiunge vette di eccellenza assoluta, scolpendo ogni singolo strumento con precisione chirurgica, senza mai sacrificare quell'aura greve e atmosferica che avvolge l'intero capolavoro come una nebbia ancestrale. I brani si dispiegano in un equilibrio perfetto tra passaggi melodici di struggente bellezza e sequenze frenetiche che scatenano tempeste sonore, mantenendo l'ascoltatore in uno stato di costante, elettrizzante tensione. Tra le gemme di questo tesoro musicale, brillano la già citata, gloriosa opener, la misteriosa "Vi är Mörkret" e la travolgente "Träldom": tutte forgiate con ritmiche possenti avvolte da un misticismo epico che fa tremare le fondamenta di Midgard. "Ättestupan" introduce invece una tonalità più malinconica e solenne, offrendo un momento di pausa riflessiva dove l'anima può contemplare l'infinito, mentre "The Waves, the Sky and the Pyre" sembra addirittura pervasa da un'aura di sacralità primordiale. 'Hälsingemörker' si erge come monumento definitivo al talento sovrumano degli Ereb Altor: un'opera che conquisterà non solo i devoti seguaci della band e i cultori del genere, ma anche nuovi esploratori in cerca di sonorità epiche capaci di trasportare l'anima in regni inesplorati. La loro capacità di incarnare e far rivivere l'essenza più pura della cultura viking metal rimane leggendaria e ineguagliabile, consacrandoli definitivamente come i supremi maestri di questo stile immortale. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Records - 2025)
Voto: 80

https://erebaltorhhr.bandcamp.com/album/h-lsingem-rker

venerdì 8 agosto 2025

Umbersound - If the Flies Could Sing

#PER CHI AMA: Doom Sperimentale
Mentre calabroni e vespe infestano il mio balcone, l'album 'If the Flies Could Sing' degli americani Umbersound, sposta la mia attenzione su quello che potrebbe essere il canto delle mosche, non solo il loro fastidioso ronzio. E cosi, quasi per sbaglio, mi ritrovo a recensire un lavoro che si spinge nei paraggi del doom metal, con il classico rifferama lento e compassato. Quello della one-man-band di Staten Island è il secondo album, che sembra voler rappresentare la versione più morbida dell'altra band di Joe D'Angelo (il factotum dietro agli Umbersound), i Grey Skies Fallen. Abbandonate le growling vocals (almeno nei primi due pezzi), e un sound più pesante, il mastermind statunitense si protrae in una rilettura più evocativa e decadente del doom. Lo si evince dall'opener "Wolves At The Door", diventa ancor più evidente nella successiva title track, dove le atmosfere si fanno più cupe e opprimenti, ma l'effetto è sicuramente accogliente, offrendo un'esperienza quasi totalizzante per chi ascolta. Chiaro, non è quella che definirei una passeggiata affrontare questo genere di sonorità, ma chi ama suoni di scuola Candlemass, ma con una maggior propensione alla sperimentazione e alla teatralità (ascoltatevi l'ipnotica "Atmos Ritual" che abbina entrambe queste caratteristiche), potrebbe apprezzare enormemente la proposta. Man mano che i minuti passano, l'album diventa più ostico da digerire, pur mantenendo intatti i suoi capisaldi legati a riff lenti e pesanti, tipici del doom tradizionale. Se "Spines On The Shore" potrebbe suonare come una versione doom dei Nevermore, complice un cantato che evoca il buon Warrel Dane (R.I.P.), vi sottolineerei l'emozionalità in grado di emanare "Deaths Old Sweet Song", un pezzo davvero affascinante, tra doom e un mood quasi western. E l'abbinata sperimentalismi vari e doom sorretto da vocalizzi da orco cattivo, proseguono anche in "The Sound Of Umber", prima dei due pezzi strumentali che chiudono con una inaspettata timidezza, il disco. Un lavoro originale e conturbante questo delle mosche che cantano, che necessita tuttavia ancora qualche lavoro di cesellatura (ad esempio l'aggiustamento della voce growl) per suonare vincente su tutti i fronti. (Francesco Scarci)

domenica 3 agosto 2025

Rivers of Nihil - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Techno Death
È interessante appurare come i Rivers of Nihil stiano facendo progressi a vista d'occhio, album dopo album. E cosi, questo nuovo lavoro omonimo, che rappresenta il quinto in studio per la band americana, segna un bel passo in avanti rispetto al precedente 'The Work', che era uscito nel 2021 e aveva diviso non poco la critica. Il quartetto di Reading, Pennsylvania, prosegue anche qui quel percorso iniziato ai tempi di 'Where Owls Know My Name', ossia coniugare un progressive techno death con derive jazz ed elettroniche, per cercare di recuperare la strada perduta nei confronti dei Kardashev, che pur essendosi formati tre anni dopo rispetto ai nostri, sembrano essersi consacrati più velocemente, grazie alla performance del loro cantante. Comunque, a parte questi convenevoli, devo ammettere che questo nuovo disco è parecchio impressionante nelle sue parti più sperimentali (e mi riferisco all'opening track "The Sub-Orbital Blues") o laddove i nostri passano dalla brutalità del loro techno death primordiale con tanto di growling vocals, a manifestazioni canore pulite di chiara estrazione Kardashev, che rimangono a mio avviso, il vero punto di riferimento per la band di oggi. Per questo, pur non rinunciando a una bella dose di violenza, i Rivers of Nihil amano ammorbidire le loro tracce con un'altrettanta dose di melodia: fantastica, e la mia preferita, "Despair Church", in cui compare anche il sax di Patrick Corona dei Cyborg Octopus e il violoncello di Grant McFarland dei Galactic Emprire. E poi c'è "Water & Time", lo ammetto, potrebbe sembrare un po' costruita a tavolino per piacere, ma in tutta onestà me ne sono innamorato. Tra vocals pulite, fughe jazzistiche di sassofono, inserti growl e linee di chitarra semplicemente favolose, è difficile non lasciarsi trascinare. Il disco in questo modo si fa apprezzare enormemente anche se non manca qualche sbavatura di cui avrei fatto volentieri a meno, come la debordante "Evidence", che sembra richiamare, nelle parti eccessivamente selvagge, gli esordi un po' troppo chiassosi della band, per quanto la produzione cristallina esalti comunque l'intensità sonora data da un egregio lavoro al basso, da sempre precise linee di chitarra e qui, da ben cinque backing vocalist. Forse però è troppa carne al fuoco, soprattutto in un brano che finisce con un fade-out davvero troppo brusco. Tante belle idee, ma non ancora perfettamente calibrate, serve l'ultimo step. Ultima chicca: la traccia che dà il titolo al disco e che lo chiude, con Stephan Lopez dei Cavum al banjo (già sentito nella terza traccia "Criminals"). Un tocco che suggella un album importante, maturo, coinvolgente. A volte forse un po' sopra le righe, ma che può davvero rappresentare un nuovo punto di partenza per i Rivers of Nihil. E farà sicuramente la gioia di tutti quelli che amano le sonorità alla Kardashev e Gojira.. (Francesco Scarci)

venerdì 1 agosto 2025

Clouds - Desprins

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Per chi ancora non lo sapesse, i Clouds intitolano tutti i loro full-length con una parola che inizia con la lettera D e che ha un significato di distacco o partenza. Ecco a voi quindi il sesto capitolo della band rumena, capitanata da Daniel Neagoe, e intitolato 'Desprins', un'opera che continua a inserirsi in quel contesto funeral doom, con elementi atmosferici ma soprattutto emotivi, per un viaggio diretto nel profondo della nostra anima. E 'Desprins' non tradirà certo i fan della band, proponendo sin dall'iniziale "Disguise", quei ritmi lenti e pesanti, coadiuvati da cavernose voci growl che evocano un senso di disperazione e introspezione, e da una malinconica melodia di fondo affidata al flauto di Andrei Oltean. Potrei anche chiuderla qui, dal momento che non ci sono sostanziali novità rispetto ai vecchi album, che il sottoscritto peraltro colleziona gelosamente in formato vinile. E infatti, man mano che ci si spinge avanti nell'ascolto, non possiamo che trovare tutte quelle peculiarità che Daniel e soci, ci confezionano ormai da oltre un decennio. Preparatevi pertanto a un death doom in cui trovare un'alternanza tra ritmiche robuste e melodie più tenui ("Life Becomes Lifeless"), altri più atmosferici con un Daniel in formato vocale sia growl che pulito e più decadente ("Chain Me", "The Fall of Hearts" e "Will it Never End"). A parte questo, grossi stravolgimenti nello stile della band non sono contemplati. Se siete fan dei Clouds pertanto  andate pure sul sicuro; se siete invece nuovi, inizierei l'esplorazione della band dai lavori più datati, 'Doliu' e 'Departe', giusto per fare due nomi. Ah, vedete, altri titoli con la lettera D. Deprimenti. (Francesco Scarci)

lunedì 28 luglio 2025

Harvst - Mahlstrom

#PER CHI AMA: Melo Black
Bella sorpresa questo 'Mahlstrom', secondo atto dei tedeschi Harvst, terzetto originario di Francoforte che nasce verosimilmente come side project di un membro dei Frostreich e uno degli Schǝin. Il genere proposto s'inserisce nel filone del black atmosferico dalle tinte melodiche. Andiamo allora a dare un ascolto alle sette tracce ivi incluse, giusto per capire di che stiamo parlando. Si parte da "Mahlstrom Teil I - Der Aufschrei des Vergangenen" e da una traccia che si fa notare immediatamente per le sue linee melodiche, le accelerazioni in territori post-black, con le liriche, stando a Metal Archives, che affrontano tematiche esistenziali. L'onda d'urto che ci investe in alcune scorribande è bella potente ma le melodie, per certi versi affini a quelle degli Agrypnie, rendono il tutto decisamente più accessibile, pur rimanendo in ambito estremo. "Laubwacht" spinge altrettanto forte ma qui lo screaming di Dornh si alterna a vocals più sussurrate ed evocative, ma il risultato finale non cambia, con il sound che si fa più oscuro nella seconda metà del brano. "Was Die Erde Nimmt" si muove sempre su melodici giri di acuminate chitarre, e le voci, spesso relegate in secondo piano, contribuiscono a dar maggior spazio all'aspetto prettamente musicale. C'è spazio per un break strumentale che fa da preludio a un buon assolo, peccato si perda in una sezione ritmica forse troppo caotica, ma il brano comunque merita, soprattutto anche per l'alternanza vocale che rende il tutto molto più dinamico. "Wahnmal" parte più soffusa, ma è la classica quiete prima della tempesta visto che esploderà a breve con una ritmica dinamitarda, mantenendosi più o meno similare fino a un finale in fade-out. Sulla falsariga anche "Treibholz", e forse qui si vedono le prime debolezze di un disco che sembra soffrire di una certa ridondanza ritmica, portando le canzoni alla fine ad assomigliarsi un po' tutte. Ma le qualità per far bene ci sono sicuramente tutte, basta tirare fuori un pizzico di personalità in più, come quella che sembra emergere nella lunga "Mahlstrom II – Der Abschied des Dechiffrierten". Una maggior varietà nei suoni e nei cambi di tempo, darebbe sicuramente maggior lustro a questa band, che innegabilmente, sembra avere del grande potenziale. Staremo a sentire futuri sviluppi con grande curiosità. (Francesco Scarci)

(Onism Productions - 2025)
Voto: 70

https://harvst.bandcamp.com/album/mahlstrom

mercoledì 23 luglio 2025

Concrete Age - Awaken the Gods

#PER CHI AMA: Death/Folk
'Awaken the Gods', pubblicato a maggio di quest'anno, celebra il traguardo del decimo album in studio dei Concrete Age, formazione russa che si è affermata come pilastro dell'ethnic metal grazie al suo stile unico che mescola death, thrash e influenze folk provenienti da tradizioni orientali e slave. Attivi dal 2010, il quintetto ora di stanza a Londra, ha conquistato la scena underground con lavori acclamati come "Bardo Thodol" nel 2020 e "Motherland" nel 2022, rinforzando la loro reputazione per l'uso di strumenti etnici e racconti mitologici intrecciati con sonorità estreme. Con il nuovo album, la band continua a superare i limiti del genere, proponendo un'opera ambiziosa che combina potenza sonora e una profonda esplorazione culturale, consolidandosi come una delle realtà più innovative nell'ethnic metal contemporaneo. La produzione raggiunge livelli straordinari, garantendo un sound ricco e ben bilanciato. Gli strumenti etnici come balaban, duduk e kamancheh si amalgamano perfettamente con pesanti riff di death e thrash metal, arricchiti da melodie orientali sin dall'iniziale "Prey for Me". Questo brano evoca atmosfere esotiche ed è impreziosito dalla performance carismatica del frontman, la cui voce spazia tra toni epici quasi narrativi e sfumature più aggressive. Tale versatilità amplifica l'impatto emotivo dell'album, creando un legame potente tra passato ancestrale e presente musicale. Tra i brani che spiccano, "Forbidden Ministry" si distingue per il suo riff thrash metal accompagnato da una ritmica incalzante, capace di evocare vibrazioni che ricordano un immaginario incontro tra Nevermore e Orphaned Land. La title track, invece, si fa notare per la sua riuscitissima fusione di elementi etnici e metal, culminando in un ritornello estremamente coinvolgente. È il fulcro narrativo del progetto, un tributo alla forza primordiale che prepara il terreno alle ritmiche frenetiche di "Cursed Reincarnation", memorabile soprattutto nella seconda parte con un'energia quasi tribale. La strumentale "Mid-East Boogie" è un autentico vortice di energia. Il groove dei riff s'intreccia prepotentemente con scale medio-orientali, mentre il balaban e la kamancheh aggiungono un'atmosfera distintiva. I ritmi rapidi e le percussioni tribali donano, inoltre, un tocco sorprendentemente danzereccio. Non meno impressionante è il resto del disco con "Warrior’s Anthem", che si conferma ricco di assoli spettacolari e intriso di quell'inconfondibile mood folklorico che attraversa tutto l'album. In chiusura, le cover di "Boro Boro" di Arash e "Şımarık" di Tarkan, aggiungono ulteriore profondità all'esplorazione della tradizione musicale orientale, identificando 'Awaken the Gods' come un album che riesce a emozionare, far ballare e trasportare l'ascoltatore in un mondo fatto di energia e sogno. (Francesco Scarci)