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sabato 28 luglio 2018

Organ - Eterno

#PER CHI AMA: Doom strumentale
In attesa di ricevere buone nuove dagli Amia Venera Landscape, andiamo a gustarci uno dei side project della band veneta: gli Organ. Formatisi nel 2014 per mano appunto di membri degli AVL, dei Discomfort e degli Hobos, gli Organ propongono, in questo lungo 3-track (della durata di quasi 28 minuti) intitolato 'Eterno', un concentrato orrorifico di doom strumentale. La band attacca con i dieci minuti e passa di "Aidel", song dall'intro dronico che pian piano evolve in una lenta e strisciante cavalcata doom, tra suoni potenti e rallentamenti da brivido, che risentono evidentemente del retaggio delle rispettive band madri, il che si traduce in lugubri riffoni dal chiaro sapore hardcore. Questa caratteristica dà quel pizzico di peculiarità alla band originaria di Venezia/Belluno. Sarebbe infatti troppo semplice saccheggiare la storia del doom mondiale e proporla in forma strumentale, i nostri invece ci mettono un po' della loro personalità, proponendo una visione alquanto melmosa del loro sound. Per forza di cose, la proposta degli Organ tende a sconfinare un po' qui e un po' là, in territori post metal e sludge, mantenendosi comunque focalizzata all'interno di binari doom dai forti tratti psichedelici, come testimoniato dalla seconda parte della opening track. Un bel riffone schiacciasassi fa il suo esordio in "Faithless" e qui il quartetto veneto ricorda che, oltre ai maestri Black Sabbath, anche i primissimi Cathedral si sono dati da fare egregiamente nel mondo doom. L'ossessività del riffing, unito a degli arrangiamenti deflagranti e ad una fortissima ripetititità di fondo, costituiscono l'ossatura portante del pachidermico trip al quale dovremo sottostare anche in questi asfissianti otto minuti della seconda traccia. Non bastano quelle tastiere in sottofondo a smorzare i toni mortiferi della song, così cupa e lenta nel suo incedere ipnotico. E non aspettatevi nulla di buono neppure da "Decadence", il terzo atto di questo EP, che prosegue nel suo malsano avanzare a rallentatore. Ecco, francamente, una cosi monolitica proposta senza un briciolo di growl, risulta parecchio difficile da digerire, soprattutto perchè il suono dei nostri non è particolarmente dinamico, fatto salvo un giro di chitarra riverberata in quest'ultima traccia, che ha nuovamente un pericoloso effetto disturbante per il cervello. Comunque, il terzo brano appare il più sperimentale dei tre, soprattutto per un altro bel cambio di tempo a metà pezzo e altre piccole diavolerie ricercate dall'ensemble italico. 'Eterno' alla fine è un lavoro che mi sento di consigliare a pochi eletti, o a chi è veramente preparato psicologicamente a scalare una cosi insormontabile montagna. (Francesco Scarci)

Cheap Trick - We're All Alright!

#PER CHI AMA: Hard Rock
Se il riffone dell'introduttiva "You Got It Going On" vi susciterà l'inestimabile sensazione tipo come di scendere dalla moto e assistere a una gara di schiaffoni tra godsofmetallari e pausiniani all'autogrill di Somaglia, ecco, di sicuro vi sbagliate se solo pensate che il diciottesimo album dei piucchesenescenti Trucchetti Da Quattro Soldi vi lascerà lì così, a guardarvi i Dr. Maertens. Nel prosieguo, né il punkabilly "Radio Lover", né la stooges-punkeggiante "Nowhere", tantomeno la sleaze-like "Brand New Name On an Old Tatoo" si permetteranno di allentare la catena di trasmissione delle vostre rissose emozioni. E non saranno i mid-tempo astutamente escogitati qua e là e neppure le tentazioni folk-autoriali collocate nella seconda parte dell'album (pensate alla tom-spettynata "She's Alright" dondolante su accordi squisitamente southern, oppure ai beatles/ismi collocati nel finale di "The Rest of My Life" o nell'intera, conclusiva, "If You Still Want My Love" o ancora nella beatlesianissima "Blackberry Way", cover dell'unico hit degno di queste tre lettere dei già-beatlesianissimi-per-i-cazzi-loro "Move" nell'anno del signore millenovecento68) a farvi sfilare i tirapugni. Ascoltate questo album sorprendentemente ben scritto esclusivamente attraverso diffusori di bassa qualità, tipo quel maledetto walkman taroccato che pagaste comunque un patrimonio e che consumava due pile grosse come polpacci di cicciobello per un solo ascolto della vostra cassetta da novanta preferita, che aveva su ovviamente 'Heaven Tonight' e 'Dream Police'. Il problema, lo so, è infilare la cuffia sotto il casco. (Alberto Calorosi)

(Big Machine Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/cheaptrick

venerdì 27 luglio 2018

Majesty of Silence - Zu Dunkel Für Das Licht

#FOR FANS OF: Black/Gothic
Majesty of Silence is back with a brand new album entitled 'Zu Dunkel Für Das Licht'. The band is by no means a rookie as it was founded 22 years ago in Aarau, Switzerland. During the early years, they released three albums at a reasonable rate, but afterwards the band remained inactive during a long time. And, when many years pass, it is taken for granted that there won´t be any comeback, fortunately it wasn´t the case and Majesty of Silence was re-activated in 2016. It seems that the band was reinvigorated because it hasn´t taken too much time for the current two members to release a new album. It has to be mentioned that the band´s first line-up consisted of three members. Around 2005, an additional member joined the band, but nowadays Majesty of Silence continues as a duo with two of the founders, Peter Mahler and Christian Geissmann. 
 
Musically speaking, Majesty of Silence plays an interesting blend of black metal and gothic metal where the classic raspy vocals are dominant and the tempo is clearly faster and much more aggressive than we usually see with classic gothic metal bands. As it can be expected, the band adds some interesting keys which also have a mixed influence, at times they sound more black metal-esque and in other cases, they have a pure gothic metal touch. From time to time some female vocals appear, and they are a good contrast to the heavier and darker side of this band. During the first years the band used to sing in English but it was a matter of time that the band introduced the German language in their lyrics, which, in my opinion, makes the band sound even darker. German is indeed a powerful language and it sounds great when an extreme band uses it. 
 
'Zu Dunkel Für Das Licht' is, like its predecessors, a quite long album, as it has 14 songs and it lasts more than 70 minutes. Personally, I don´t like such long albums because they can become quite boring. Moreover, it is indeed difficult to keep a great quality when the release is so long. Fortunately, it seems that these guys have worked hard on this album and it’s clear that the band has tried to compose a varied yet powerful album. The balance between the black metal and gothic influences is a trademark characteristic of the new album. As for the production, the album has a powerful sound and both guitars and drums sound strong and convincing. Songs like the album opener “Der Untergang” or “Endstille” have very fast sections, tough like it happens with the rest of the album the pace is quite varied. Other tracks like “Dem Engel Noch Zuhören” have a greater gothic touch with very nice keys, which are simple but catchy and give a great atmospheric touch to this and other similar songs. I personally love how this track ends with that hypnotic key and a beautiful female voice in the background. The atmospheric intros are another winning formula used in several songs, those dark and calm intros are suddendly broken by the guitars and drums which enter furiously, Majesty of Silence surely knows how to make great debut for the songs, and “Zweiundzwanzig” is a good example of this use and one of the heaviest songs of the album. The female vocals are another satisfying addition that transpires in several tracks like the aforementioned one and “Sonne”, for example. 
 
In conclusion, Majesty of Silence has made a great comeback with an undoubtedly powerful and dynamic album. 'Zu Dunkel Für Das Licht' is a long work that brings us all the ingredients you can expect from a black-gothic metal band. Furious vocals occasionally accompanied by female vocals, powerful and dynamic guitars, catchy and enthralling keys and powerful drums. This album may be too dark for the light but not for our ears. Come to the Swiss darkness and enjoy! (Alain González Artola)

(Rockshots Records - 2018)
Score: 85

https://www.facebook.com/Mosmetalband/

Immelmann - The Turn

#PER CHI AMA: Alternative/Post Metal, Isolation Process
Quando le scorribande notturne mi portano ad ascoltare band che non conosco a discapito di concerti che sicuramente mi piacerebbero, spero sempre di non dover pentirmene e affogare quindi il dispiacere al bancone del bar. Con gli Immelmann la serata è andata alla grande, sono bastate poche note per capire subito che davanti avevo una band cazzuta nonostante la situazione intima e minimalista. Il giovane quintetto è di Vicenza e debutta con 'The Turn', album che racchiude sei brani confezionati a regola d'arte, un perfetto mix di alternative e post metal che richiama alla mente sonorità nord europee. La band prende probabilmente il proprio nome dalla virata di Immelmann, una manovra acrobatica (turn appunto) inventata dall'omonimo aviatore tedesco. "Dive" apre in maniera lieve con un loop di drum machine e arpeggi di chitarra, il sottofondo perfetto per il tragitto che ci accompagnerà alla rampa di lancio del vostro quadrimotore diretto nello spazio profondo. Suoni moderni, volutamenti freddi ed evocativi grazie al sapiente uso di effetti, una profondità di campo che le vostre orecchie apprezzeranno quanto il vostro cervello. Nel frattempo il pezzo cresce con l'entrata della sezione ritmica e spicca il volo con l'accensione delle distorsioni che fanno da kick down, schiacciandoci sul sedile di guida. Il pezzo scorre molto bene fino alla chiusura, dove la band lascia fluire la propria energia prorompente per un finale che ci lascia senza fiato. "Greedia" parte con più slancio e ricorda i Katatonia di 'The Great Cold Distance', la sezione ritmica coinvolge con la sua asimmetria, mentre lunghe note di chitarra accorciano progressivamente le distanze per arrivare al crescendo e all'inevitabile deflagrazione. Qui la complessità aumenta e ci incatena in un turbine ad alta tensione grazie anche ai pattern di batteria e al cantato che si fa più profondo e torbido, poi l'entrata delle distorsioni rilassa i nostri nervi per un attimo, ma non c'è tregua con il brano a svincolarsi in altre direzioni melodiche e le ritmiche proiettate verso un'appagante conclusione. Il viaggio si fa sempre più interessante e si arriva ad "A Song of Misery", che si fa apprezzare per la complessa musicalità che forgia un brano oscuro e potente, caratteristiche che gli Immelmann sanno sfruttare al meglio, comunicando le emozioni in maniera profonda e mai banale. Si chiude con "Be" che pur essendo l'ultima traccia, non ha nulla da invidiare alle altre canzoni anzi, grazie all'ottimo lavoro di registrazione/mix/mastering che ricorda band quali Isolation Process e Boil, ci avvolge come una nebulosa di pura energia e ci conduce al di là del tempo e dello spazio per un viaggio epico intergalattico. Semplicemente la colonna sonora perfetta per un capolavoro del cinema come 'Interstellar'. Lavori come 'The Turn' sono estasianti, confermano che la scena musicale italica è ricca di talento e musicisti che sanno dare il meglio nonostante non possano essere (ancora) dei professionisti. Se nel prossimo lavoro gli Immelmann metteranno un po' più grinta e un tocco di rabbia, ci troveremo davanti ad una delle band più promettenti della scena underground nazionale. Nel frattempo 'The Turn' è già uno dei miei dieci dischi preferiti di questo 2018. (Michele Montanari)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Sorrow Plagues / De La Nostalgie / Elderwind / Dreams of Nature - Mater Natura Excelsa
Maladie - Symptoms
Marunata / Deramshift / A Light in the Dark / Ghâsh - Colours Of The Mind

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Alain González Artola

Atrocity - Okkult II
Foothill Roots - Nature Resonates
Vermilia - Kätkyt

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Matteo Baldi

YOB - Our Raw Heart
Steven Wilson - Hand Cannot Erase
O - Pietra

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Five_Nails

A Perfect Circle - Eat the Elephant
Overkill - The Grinding Wheel
Construct of Lethe - Exiler

giovedì 26 luglio 2018

Funerary Torch - S/t

#PER CHI AMA: Black/Doom, Disembowelment
Progetto australo (IV dei Ill Omen)/cileno (Daniel Desecrator dei Slaughtbbath) quello dei Funerary Torch che approdano alla Iron Bonehead Productions con questa demotape di due pezzi votati ad un mortifero black death. "Into Fathomless Oblivion" è il biglietto da visita per questo duo internazionale: un sound claustrofobico che prende la vena più plumbea e orrorifica degli Ill Omen e la combina con il black più intransigente degli Slaughtbbath. Il risultato è dato da poco più di 10 minuti di suoni e atmosfere spettrali, in cui le terrificanti vocals del frontman rimbombano come quelle di un fantasma in un castello infestato e le chitarre regalano raggelanti ritmiche da incubo, emulando le precedenti gesta di una band quale i Disembowelment. Il tutto si evince ancor di più ascoltando la seconda "Epiphanies From Misanthropic Slumber" e le sue ambientazioni da brivido, corredate da un riffing corposo e profondo. Peccato solo per una registrazione alquanto casalinga, che sembra essere ormai un marchio di fabbrica per l'etichetta tedesca. Nonostante tutto, intriganti. (Francesco Scarci)

Gates of Doom - Forvm IVLII

#PER CHI AMA: Melo Death, Norther, Omnium Gatherum
Dal Friuli Venezia Giulia ecco arrivare i Gates of Doom, fautori di quello che essi stessi amano definire come "furlan epic death metal". Detto che tale definizione mi fa alquanto sorridere, posso affermare semplicemente che il quartetto italico, con questo loro secondo EP intitolato 'Forvm IVLII', è fautore di un melo death di deriva finlandese. Tre i pezzi a disposizione della compagine di Udine, due dei quali peraltro già presenti nel vecchio EP omonimo, ma qui riarrangiati. Le danze vengono aperte dalla title track, epica nel suo breve epilogo che lascerà da li a poco il posto al sound heavy melodico dell'act friulano. La traccia scivola via piacevolmente tra riff classici e vocals rabbiose che evocano a random, un che dei Norther, degli Omnium Gatherum, o ancora dei Kalmah o dei Children of Bodom. L'EP è un concept basato sulla fondazione della loro regione, il Friuli appunto, e le loro origini legate alle popolazioni celtiche che abitavano questi luoghi (immagino si riferiscano ai Carni) e la successiva conquista romana. La song è comunque interessante, tra fughe melodiche, arrangiamenti dotate di una leggera vena orchestrale, qualche stop'n go, il tutto pervaso poi da un leggero senso folklorico. Più tradizionale e diretta invece, la seconda "Vnder the Grey Movntains", una traccia di death metal melodico di oltre otto minuti, in cui si contrappongo le due componenti vocali di Stefano Declich, una growl e l'altra scream, e che mette in mostra le qualità della band sia nelle parti più lente e atmosferiche, che in quelle più tecniche soprattutto quando il lead guitar mette a segno un bell'assolo a metà pezzo o quando gli axemen si lanciano in scorribande ritmiche al limite del post black nel finale. La pecca maggiore è a mio avviso di proporre una song cosi lunga in un ambito dove si dovrebbe privilegiare un più immediato impatto musicale. A parte questo cavillo, la band si fa apprezzare anche nell'ultima arrembante "Limes", gli ultimi quattro minuti di veemenza sparati in faccia dai Gates of Doom, che trovano modo di offrire anche un coro dal vago richiamo viking. Nota conclusiva per il suggestivo artwork a cura del pittore e mosaicista Giullio Candussio. La strada è quella giusta, sarebbe ottimale riuscire ad essere un po' più personali e originali. (Francesco Scarci)

martedì 24 luglio 2018

Progenie Terrestre Pura - StarCross

#PER CHI AMA: Extreme Avantgarde
Il nuovo EP dei Progenie Terrestre Pura (PTP) è un concept album che esce dalla mente di Davide Colladon, mastermind del progetto PTP fin dalla sua nascita e che in questo nuovo 'StarCross' vede il sound della band prendere una piega evoluta in un senso molto cinematografico. Non che questa propensione mancasse nella band fin dalle prime release, ma qui emerge proprio il tratto e la volontà di ragionare in stile propriamente da soundtrack. Sviluppato come in una saga spaziale, qui il protagonista sfida l'infinito all'inseguimento di un segnale sconosciuto, vagando nello spazio alla ricerca di questo contatto, e la sua colonna sonora non poteva che essere buia, sconsolata e cosparsa di momenti terribili e pieni di insidie. Con l'uso sapiente del black metal, l'industrial e alcune soluzioni thrash metal, qui ci si avvicina alla concezione di un metal intergalattico a cui sta stretta la gabbia di metal stesso e che aspira a divenire opera musicale vera e propria. La senzazione di intraprendere un viaggio verso l'ignoto è palpabile e reale, con trame space/horror importanti e l'introduzione di un ambient cupo e dilatato, su tappeti ritmici sintetici cari al settore harsh/EBM, con voci etno/ancestrali in sottofondo ed un cavernoso cantato violento che funge da nero Cicerone che rincara la drammaticità e la sensazione di incapacità verso la giusta scelta da fare da parte del protagonista di quest'avventura. Il disco si ascolta con sommo piacere scorrendo veloce nei suoi lunghi cinque brani (per circa una trentina di minuti) e, a dispetto dei suoi predecessori, porta una vena sci-fi più accentuata, del resto dicevo, è da vedere come vera e propria colonna sonora di un film di fantascienza, anche se l'impronta sonora rimane legata alla logica creativa di Colladon. Altra novità è poi l'abbandono della lingua madre nel cantato, a favore dell'inglese, con l'intento verosimile di raggiungere una platea più vasta, cosa che non stona affatto e rende giustamente più internazionale la proposta dei nostri a livello artistico (anche se li avevo ammirati particolarmente per il coraggio di usare l'italiano nei precedenti lavori). Immancabile la linea di paragone verso progetti sofisticati come Ulver o Solefald e l'insano esistere dei Borgne, ma la musica dei PTP si dimostra più fantascientifica ed il contatto con l'avanguardia è reale e il suono cosmico ben ricercato. Il passaggio tra l'elettro ambient di "Chant of Rosha" e "Toward a Distant Moon" mostra subito la vera identità del disco e l'accuratezza dei particolari, buona la produzione, la capacità compositiva di rendere una musica complessa ascoltabile è poi un segno distintivo nei PTP, una qualità che spinge l'ascoltatore alla voglia costante di sentire e scoprire cosa succederà brano dopo brano, proprio come in un inquietante film ben fatto o in un buon libro che rapisce e fa correre la fantasia. "The Greatest Loss" è la mia song preferita, in odor di Blut Aus Nord che si avvia al termine con la minimale, sospesa e conclusiva "Invocat", che lascia un filo sospeso tirato da un canto gregoriano che assume un'identità sinistra ed oscura. 'StarCross' è un album difficile da assimilare per la massa, ma geniale nel suo complesso, l'ennesimo salto di qualità per la band veneta, un progetto sonoro che si è ormai dimostrato nel tempo essere una garanzia. Da ascoltare indisturbati. (Bob Stoner)

Throne - Consecrates

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, primi Cathedral
Con incolpevole ritardo, ci arriva sulla scrivania l'ultimo album degli emiliani Throne, ormai datato dicembre 2017 ed uscito per la Black Bow Records. L'etichetta britannica ci ha visto sicuramente bene, mettendo sotto contratto una band di un certo spessore che si traduce nelle note di questo melmoso 'Consecrates'. Dico melmoso perchè l'act parmigiano, ha modo di condensare nelle note di questo loro secondo lavoro, sludge e doom, prodigandosi in uno spesso lavoro di chitarre, che chiamano in causa i primi Cathedral. Notevole a tal proposito l'opener “Sister Abigail” e i suoi super chitarroni che, pur non sfondando completamente nello stoner, evocano un che degli Electric Wizard e dei giri di chitarra più blues oriented che ammiccano ad una versione decisamente più sedata dei Pantera, originale non trovate? Non aspettatevi però le stesse voci della band inglese, qui il frontman sfodera quel suo bel vocione da toro imbufalito in un pezzo che trova comunque conferme nelle successive song. Sicuramente degna di nota è “Lethal Dose”, non fosse altro per quel riffone ipnotico a inizio brano e quei cori puliti che si affiancano al growling possente del bravissimo Samu. La song vede peraltro la partecipazione di Dorian Bones, voce dei Caronte e dei Whiskey Ritual. Lo confermo comunque, i ragazzi ci sanno fare. Non so se sia l'aria di Parma e le prelibatezze che quella terra ha da offrire, ma i Throne si rivelano convincenti e speriamo anche vincenti nella loro proposta, in un ambito dove ormai la competizione sembra essere ai massimi livelli e solo i migliori ce la fanno a sopravvivere. Detto che auspico che i Throne siano tra questi, mi accingo ad ascoltare "Codex Gigas" e il suo liquido flusso sonico che lisergico quanto basta, mi investe con il suo pachidermico incedere. E se parliamo di pachidermia, come non citare la granitica e oscura "There's No Murder in Paradise", song sparata a rallentatore ma che conserva nelle sue linee di chitarra, un'interessante vena blues rock. Questa comunque la ricetta vincente per i nostri, che nelle loro tracce sono abili a intrecciare e miscelare ad arte il groove dello stoner e chitarre più seventies, pur mantenendo la profondità e la potenza del death doom come accade proprio nella quarta traccia che evoca nuovamente i sortilegi dei Cathedral di 'The Ethereal Mirror'. L'essenza doomish della band viene confermata anche in "Baba-Jaga", sebbene suoni ben più canonica rispetto alle precedenti, però l'assolo finale non è affatto male. Anche la più catacombale "V.I.R." ha il suo perchè, anche se alla lunga rischia un po' di perdersi per strada nel suo lento e ossessivo comparto ritmico che ammicca a più riprese allo stoner. A chiudere 'Consecrates', ecco arrivare la riverberatissima "Lazarus Taxon" e il suo classico rifferama stoner a sancire l'amore della band ancora per vecchi classici blues rock. 'Consecrates' alla fine è un buon lavoro che dimostra le grandi doti della band emiliana (seppur alquanto derivative) e prospetta un futuro sempre più positivo per la scena di casa nostra. (Francesco Scarci)

(Endless Winter Label/Black Bow Records - 2017)
Voto: 75

https://thronetheband.bandcamp.com/album/consecrates

sabato 21 luglio 2018

La Scatola Nera - Istantanea Estesa

#PER CHI AMA: Garage/Alternative/Punk Rock
La giovane Brigante Records & Productions continua il suo percorso di crescita nell'ambito delle etichette italiane e oggi propone un'altra band molto interessante, La Scatola Nera e il loro nuovo album 'Istantanea Estesa'. Dopo aver recensito gli ottimi "briganti" Omza, Macabra Moka e Cruel Experience, non nascondo che ero curioso di ascoltare anche questo quartetto brianzolo attivo da quasi dieci anni e devoto ad un garage/alternative/punk rock. Andando a ritroso e ascoltando qualche vecchio pezzo della band (nella loro discografia compaiono anche un album ed un EP), salta subito all'orecchio un sound vicino al Teatro degli Orrori, passando per i Ministri contaminati dai vecchi QOTSA. 'Istantanea Estesa' alza il tiro, cerca meno pacche sulle spalle e sorrisoni dagli amici, mettendoci più introspezione, evolvendo in uno stile proprio e maturo. "Moby" è un'entrée che suona leggera ed eterea, grazie al cantato (in italiano) carico di riverbero, come le chitarre che si sporcano leggermente per dare maggiore enfasi, mentre la sezione ritmica ci mette il giusto groove per avere un brano da ballare in modo lascivo sotto una luna rossa. Dopo essere stati cullati amabilmente, si passa a "Cocktail", che ci agguanta subito grazie alla linea di basso profonda e ininterrotta. In progressione, si arriva al ritornello con chitarre più energiche, ma sempre con quel pathos sospeso tra pop teso e rock rilassato, sensazione che comincia a svanire in "Roche", dove il quartetto comincia a picchiare con più vigore e convinzione. I break e gli arrangiamenti di chitarra convincono e ci regalano il brano più riuscito di 'Istantanea Estesa'. Anche il cantante si sente più a proprio agio ed esprime al meglio la sua rabbia mista a frustrazione. Ci sta pure un bell'assolo finale che non fa altro che confermare il pregio di questa traccia. "51 Pollici" è una bel ceffone in faccia da meno di due minuti di durata che gira all'impazzata con un discreto carico di groove. Una vera e propria sveltina ma fatta con stile e quindi con tanta soddisfazione. In "Scogliera" e "Tringhe", la band si concentra su sonorità soft da dopo sbronza con degli interessanti giochi di voce e strumenti, entrambe delle ballate che potete ascoltare quando il cerchio alla testa non vi concede tregua. La Scatola Nera si è sicuramente evoluta con questo nuovo album, l'impatto sonoro è meno vigoroso a beneficio di atmosfere a momenti rilassate e subito dopo impazzite, con un filo conduttore basato su suoni, riff e cantato. Se prima li si ascoltava con una birra da supermercato in mano, adesso preparatevi un gin tonic di qualità oppure un vino rosso corposo e piacevole. (Michele Montanari)

(Brigante Records - 2018)
Voto: 70

Love Machine - Times to Come

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock 
Entrare nel mondo dei Love Machine è come fare un passo indietro di quasi mezzo secolo, guardare il loro look e la cover di copertina del nuovo album è tornare al tempo del "flower power", della "summer of love", della folk psichedelia acustica e di tutti quei colori fluorescenti che hanno fatto grande un'epoca musicale divenuta culto tra i '60 e i '70. Diciamo subito che la band di Düsseldorf è irresistibile, terribilmente perfetta, tremendamente a stelle e strisce, esagerata nel ricreare quelle atmosfere vintage, luminosa e abbagliante ma al contempo introversa e cupa, esattamente come un brano dei The Doors, dove rabbia, voglia di cambiamento e ribellione, uscivano da ogni nota in forma lisergica e allucinata. Capitanati da un vocalist spettacolare (Marcel Rösche) e da un sound spiazzante per il suo non essere contemporaneo, la compagine teutonica riesce a sembrare veramente una band di quell'epoca. Senza emulare o copiare i loro maestri, i Love Machine si ritagliano, in un settore quello del vintage rock, uno splendido spazio di originalità da far impallidire band come gli ottimi Church of the Cosmic Skull, con composizioni assolutamente inaspettate, mescolando rock, psichedelia, folk pastorale e il country di sopravvivenza alla Johnny Cash, unendo storie da crooner solitario alla Leonard Cohen, con un velato gusto musicale latino ed il magico spirito acido dei Jefferson Airplane, l'immancabile krautrock, un tocco hawaiano alla Elvis, quello più sperimentale, senza mai dimenticare il salmodiare del re lucertola che rende più sofisticato ed attraente l'intero 'Times to Come'. Alla loro terza prova discografica, i nostri risultano una band stratosferica, al di sopra della media, con una fantasia retrò davvero invidiabile per coerenza, stile ed un fascino incredibile nel sound e nella composizione, musica liquefatta altamente allucinogena. Un'erudizione sul genere pazzesca, un'indole oscura su note abbaglianti e luminose, aprire la mente pensando, musica stellare senza tempo, i Love Machine meritano veramente un altare a due passi dall'olimpo musicale, grazie ad un album formato da brani che sono gemme assolutamente luminose! Due i brani top, "Blue Eyes" e la velvettiana "Times to Come". Nostalgici ma geniali. (Bob Stoner)

(Unique Records - 2018)
Voto: 80

giovedì 19 luglio 2018

Hertz Kankarok - Make Madder Music

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental/Prog, Tiamat, Riverside, Meshuggah
Non so assolutamente nulla di questo progetto solista a nome Hertz Kankarok, se non che la band arriva da Acireale e questo 'Make Madder Music' rappresenta il secondo EP per l'artista siciliano (qui coadiuvato da Andrea Cavallaro alle chitarre, al basso e ai synth, e dal fido Dario Laletta). La proposta dei nostri conferma quanto di davvero buono è stato fatto nel precedente 'Livores' e ancora mi domando per quale assurdo motivo non esista una release fisica di questo e del precedente lavoro (li vorrei quanto prima, in quanto delittuoso). Questo perchè la musica di Hertz Kankarok è davvero intrigante, in quanto collettrice di molteplici umori, sapori e profumi provenienti dalla cultura sicula che si vanno a incontrare con una tradizione metallica di più ampio respiro. L'opener "Deceive Yourself!" miscela infatti sonorità derivanti dal djent, con il prog e la musica etnica mediterranea per un risultato straordinariamente notevole. La seconda "Cargo Cult" ha una ritmica più devota ai dettami di Meshuggah ma ovviamente, quando subentra una certa tribalità/ritualità soffusa, non posso che rimanere del tutto spiazzato, prima di essere ributtato nella centrifuga avvolgente di un suono le cui trame risuonano apparentemente estreme. Il gioco si ripeterà per oltre otto minuti fatti di stop'n go, rilassamenti, melodie accattivanti, fughe lisergiche e quant'altro. Spettacolare. "Who is Next" sancisce la genialità di un artista che ha ancora modo di passare attraverso influenze che chiamano in causa i Tiamat di 'A Deeper Kind of Slumber', in una song dal piglio cinematografico, in cui mi sembra avvisare in sottofondo, anche l'eterea voce di una gentil donzella. Con "The Great Whirlpool" si torna solo inizialmente al ritmo graffiante di scuola Meshuggah/Gojira, con la voce del mastermind catanese a muoversi tra uno stile urlato, voci cibernetiche e altre  delicate e più pulite, che ben si adatterebbero ad un disco dei Porcupine Tree o dei Riverside. La sfuriata black a metà brano e un finale strettamente progressive chiudono quest'incredibile, in quanto inatteso, 'Make Madder Music'. Maestosi, geniali, sognanti, semplicemente italiani. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 luglio 2018

Finis - Visions of Doom

#PER CHI AMA: Black/Death, Celtic Frost
'Visions of Doom' è l'EP d'esordio dei teutonici Finis, che arrivano a questo traguardo dopo aver rilasciato un demotape nel 2016, intitolato 'At One with Nothing'. La band tedesca, di cui poco si sa a livello di line-up e città di origine, si affida a tre pezzi per provare a conquistare l'audience. Il genere è un seminale black death che partendo dagli albori dei Celtic Frost sembra poi abbracciare la produzione degli anni '90. Niente di nuovo quindi sotto il sole in questi tre pezzi, tuttavia l'opener, "11 Temple Stones", offre un sound atmosferico all'insegna della cinematografia horror. Splendido infatti il lungo break centrale in cui su una ritmica lisergica, s'instaurano vocals demoniache e delle chitarre dal forte sapore esoterico. Convincenti, davvero. Altrettanto non si può dire della title track, selvaggia e priva di personalità, potrebbe essere infatti un brano di una qualunque band uscita a cavallo tra gli anni '80 e '90, sebbene la band provi a metà brano a sparigliare le carte, aumentando il senso di disagio e di maligno che si percepisce nell'aria, affidando al basso la guida negli oscuri meandri ritualistici della band, raddoppiato poi da delle chitarre tremolanti. Questo è il reale punto di forza per la band, che in "Fosforos" sembra trovare la propria consacrazione attraverso un pezzo strumentale e le sue ipnotiche melodie. Mezzo punto in meno per la sporcizia di suoni che avrebbero reso molto ma molto di più se maggiormente curati. (Francesco Scarci)


martedì 17 luglio 2018

Pa Vesh En - A Ghost

#PER CHI AMA: Raw Black
Della serie one-man-band crescono, ecco arrivare dalla Biellorussia il nuovo EP del misterioso Pa Vesh En: due tracce per una quindicina di minuti scarsi dediti ad un black ambient minimalista. Si parte con la spettrale e rumoristica "Haunting and Mourning" per arrivare alla più doomish "Gruesome Exhumation". I suoni dell'opener sono impastati e di pessima qualità con la proposta del musicista biellorusso che si alterna tra il raw black, un suicidal black mid-tempo (grazie anche a delle scream vocals disperate) e rari intermezzi ambient. Il problema sta tuttavia nell'ascoltare una simile accozzaglia di suoni che probabilmente, se registrati come dio comanda, avrebbero potuto suscitare un minimo interesse. Qui invece è tutto caotico, nemmeno fosse il più scarso dei demotape. La storia si conferma anche con la seconda traccia, più orientata ad un sound abissale anche se qui non mancano delle velenose scorribande black. Capisco l'underground, non comprendo invece l'Iron Bonehead Productions che rilascia una simile release. Mah, scelta quanto meno discutibile. (Francesco Scarci)

lunedì 16 luglio 2018

Ruxt - Behind the Masquerade

#PER CHI AMA: Hard Rock, Whitesnakes
Fin dalle prime minacciosissime note di chitarra di "Scare my Demons", il singolo al cui confronto ascoltare 'Holy Diver' sembrerà di sentire "Another Day in Paradise" di Phil Collins, l'album d'esordio dei RuGGGine (nel GGG si leggano quelle G dure che generalmente fuoriescono, per esempio, dalla chitarra di uno come Eddie Van Halen) naviga navigato tra consolidati melodic-flutti Frontiers-like più (la svolazzante "Where Eagles Fly") o meno (la roboante "Between the Lies") epicheggianti, molto ("Spirit Road") o moltissimo ("Soul Keeper") coverdaleggianti (anche, anzi, soprattutto il ballatonzo strappareggiseni "Forever Be") librandosi alto, fuggitivo e rocchenroll ("Soul Keeper") nella luminescente e boccolosa galassia-Coverdale, soltanto accidentalmente sfiorando i Rainbow di Biondino Bonnet ("Daisy"), fino a raggiungere in chiusura quella svettante, quintessenziale spremuta di Coverdale che è "Soldier of Fortune", qui in una versione più agiografica che soltanto devota. (Alberto Calorosi)

Ulver - The Assassination of Julius Caesar

#PER CHI AMA: Electro/Experimental
Il concept prende lentamente la forma di un inno alla decadenza ("Southern Gothic", "So Falls the World"): una generica riflessione sulla necessità umana di superominismo ("Rolling Stone") e trascendenza ("1969"). Vivere immersi in una storia circolare, acronica e spietata: un universo dove la morte di Lady Diana e il rogo di Roma ad opera di Nerone ("Nemoralia") confluiscono in un'unica locuzione temporale, il 18 di luglio, o giù di lì. Dove l'attentato a Giovanni Paolo II non è altro che una transverberazione perpetrata dall'onnipotente medesimo ("Transverberation", appunto). L'ultimo, colloidale album degli Alphaville di Oslo suggerisce tinteggi episodicamente iconoclastici rispetto alla fluortodossia synthpop dei bei tempi. Per esempio nelle declinazioni slow-dance-fico-funk di "Rolling Stone", collocabile tra i Daft Punk che ritirano il Grammy e i Depeche Mode inizio-millennio-III che mangiano la pastasciutta, con una progressione finale che potrebbe riportarvi alla mente "On the Run", sì, quella dei Pink Floyd. O nell'oscurità renderizzata della conclusiva "Coming Home", una specie di "Pimpf" eseguita dai Nine Inch Nails nella formazione di "Downward Spiral". O infine nelle tinte atmos/kraut di "So Falls the World", o magari nel Belouis Some ginecomastico di "Transverberation". Una ricontestualzizazione del suono, pensateci, quasi dadaista, tipo fontana di Duchamp. Un dadismo rivolto al passato. Un dadaismo vintage. Uh, niente a che vedere con Duchamp, quindi. (Alberto Calorosi)

venerdì 13 luglio 2018

Closet Disco Queen - Sexy Audio Deviance For Punk Bums

 #PER CHI AMA: Noise/Stoner
Un'introduzione intuitivamente sospesa tra il post-rock flirtante con certi rigori math e i King Crimson più aleatoriamente psych, dopodiché il suono erompe fluido eppur magmatico in un modo che ricorda gli Stone Roses fluviali di "Breaking Into Heaven", poi il suono diventa più etereo e al contempo più materico in un modo che potrebbe ricordare certe cose del terzo album dei Landskapp (nell'opener "Ninjaune"). Le tentazioni stoner/metal diventano crescentemente irresistibili e rendono il chitarrismo epiteliale e poi esofitico nella successiva "El Moustachito". Difficile infine non individuare una devozione nervosamente zeppeliniana nella conclusiva "Délicieux". Nonostante la (straordinaria ma) fuorviante copertina, in queste (sole) tre sensuali audio-perversioni per chiappe punkettare, il duo svizzero chitarra/batteria composto da due ex spaccametalloni, individua una traiettoria visibile a occhio nudo eppure vividamente conturbante. Vedremo. (Alberto Calorosi)

Unreqvited - Stars Wept to the Sea

#FOR FANS OF: Atmospheric Black Metal
Unreqvited is a Canadian solo project formed back in 2016. The debut album entitled 'Disquiet' gained some recognition among the blackgaze, post rock and atmospheric black metal fans. It was indeed a quite interesting debut, which mixed those styles, always putting a great effort on creating an intense atmosphere with undoubtedly beautiful melodies. That album had quite long instrumental sections and extensive ambient and quiet parts that, though being nice, had a negative effect after some listens. The album sounded at times a little bit unfocused. In my opinion, the debut lacked more metal infused sections which could have helped to achieve a stronger final result.

Now, only two years after their debut, Unreqvited makes a comeback with a sophomore album entitled 'Stars Wept to the Sea'. The question for me was, will the new album have exactly the same sound, including the strengths and weaknesses? Well, after some listens, the answer could be yes. The overall sound and style remains the same. Unreqvited plays a blend of atmospheric post-rock/metal with a strong blackgaze and ambient influence. It’s pretty clear that Unreqvited has a masterful talent to create delicate and beautiful melodies with a hypnotic atmosphere, as it is clearly the heart in the long opening track “Sora”. But the band sounds even better when it mixes its softer side and beauty with some black metal, like it happens with the second song, “Anhedonia”. When both worlds are fused, the band achieves its greatest level, and the music itself becomes more interesting. The problem, at least for me, is that the rest of the album has a little portion of metal and very few vocals; I personally miss his shrieks which give a special and intense boost to the album. Songs like “Kurai”, “Empirean” or “White Lotus”, have little or no metal and an almost inexistent intensity. Yes, they contain some beautiful melodies, but the album can be considered neither a metal album nor an ambient work which, in this case, can be confusing. I personally love both styles and prior to this album, I have enjoyed albums which combine both worlds. But with Unreqvited, I have the feeling that I am missing something, the quality and beauty are there, but I honestly think that it should have contained more tracks like the aforementioned “Anhedonia” or the excellent closer, “Soulscape”. This is probably the best track of 'Stars Wept to the Sea', not only because it has some metal or at least a blackgaze touch, but because it has some tweaks and variety, which make the already mentioned excellent taste for the melodies bright more than ever.

In conclusion, with this sophomore album, Unreqvited follows the same path of the debut, repeating the good and bad aspects of that work. I personally think that this band could be greater if the tracks would include much more black metal, and obviously more vocals. Merging both worlds with a more balanced mix, could make the band´s music more focused. This also would help to create more enriching compositions with more tweaks and surprises. (Alain González Artola)

giovedì 12 luglio 2018

Engulf - Gold and Rust

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Suffocation
La Everlasting Spew Records torna con un nuovo EP della one-man-band americana degli Engulf. Hal Microutsicos, il polistrumentista che si cela dietro a tale moniker, rilascia 'Gold and Rust', secondo lavoro per la band del New Jersey, offrendo altri 11 minuti abbondanti di suoni schizoidi che hanno in Gorguts e Morbid Angel, i principali punti di riferimento del mastermind statunitense. Tre pezzi che si aprono con la frastagliatissima e dinamitarda "Maul", il cui attacco frontale richiama inequivocabilmente gli "Angeli Morbosi" (e anche i Suffocation), ma che per un'andatura un po' obliqua e dissonante, scomoda qualche paragone con la techno band canadese. Il risultato è una song dai ritmi serratissimi che accende la miccia nel generare una forte ansia interiore durante il suo ascolto. La veemenza del musicista americano (rafforzata da un growling cavernoso) prosegue anche nei tre minuti di "Misshapen Abomination", in cui il riffing subisce rallentamenti vertiginosi, prima di ripartire più incazzato che mai. Siamo già al terzo brano, e l'urticante "Sovereign to the Seven Underworlds" ha l'ingrato compito di chiudere un cd che vuole essere l'antipasto (il secondo a dire il vero) per un album di durata più appetitosa. In attesa del full length, lasciatevi investire dalla brutalità degli Engulf, capaci di portarvi sull'orlo del dirupo e spingervi con delicatezza verso il vuoto. (Francesco Scarci)

(Everlasting Spew Records - 2018)
Voto: 65

https://everlastingspewrecords.bandcamp.com/album/gold-and-rust

Hyrgal - Serpentine

#PER CHI AMA: Post Black, Gorgoroth, Windir
Ci hanno impiegato ben dieci anni gli Hyrgal a partorire il loro debut album. Formatisi nel 2007 per mano dell'ex Svart Crown, Clement Flandrois, il terzetto originario della Provenza arriva solo nel 2017 all'agognatissimo esordio sulla lunga distanza con questo 'Serpentine' (nel 2008 era infatti uscito uno split con i Kairn). Dapprima autoprodotti, poi supportati efficacemente dalla Les Acteurs de l'Ombre Productions, da sempre in prima linea per dare man forte alle band del proprio paese. La proposta del trio transalpino è suggestiva sin dai primi suoni di "I - L'Appel", un'intro bucolica affidata ad un trio d'archi che introduce a " II - Mouroir", dove un'epica chitarra di scuola Windir, guida una ritmica cascadiana in un incedere tanto coinvolgente quanto crescente in intensità ed emotività, almeno fino ad uno stop ambientale che a due terzi di brano, ne interrompe bruscamente le intemperanze ritmiche. A questo punto è solo quiete, di colui che si gode un magnifico panorama nel silenzio assoluto. Una brezza gli accarezza il viso prima di essere colpito da una tempesta di suoni da brividi, in un finale che sembra però improvvisamente troncato. "III - Till" è il terzo passaggio del cd, un'arrembante traccia post black, in cui la vetriolica voce del frontman, viene contrastata da un black mid-tempo che diventerà fluida melodia nella seconda metà del brano. Più brutale, almeno in apertura, "IV - Représailles", è un saliscendi emozionale enfatizzato dal tremolo picking della chitarra, da una voce qui decisamente più intellegibile e da un chorus quanto mai epico, che rendono la traccia un succoso concentrato di violenza e occulta devozione all'oscurità. Straordinaria song, anche se il meglio probabilmente deve ancora venire. Mancano infatti ancora a rapporto "V - Aux Diktats de l'Instinct", ove un'altra svalangata di riff taglienti ma melodici (i Gorgoroth hanno fatto scuola) ci investe con tutta la loro veemenza, e la conclusiva "VII - Etrusca Disciplina", anticipata da un breve interludio sciamanico. L'ultima traccia, che affronta il tema dell'arte divinatoria degli etruschi, suggella con la sua mistura di post metal, doom e post black, la prestazione davvero notevole di questi Hyrgal. Il dado è ormai tratto, mi aspetto solo che ora non dovremo aspettare altri dieci anni per sentir una nuova perla targata Hyrgal. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2018)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/serpentine

martedì 10 luglio 2018

Hallig - A Distant Reflection of the Void

#PER CHI AMA: Epic Black
Dal bacino della Ruhr, ecco tornare sulle scene gli Hallig, dopo un'attesa durata ben sei anni dal precedente debut album '13 Keys to Lunacy'. In mezzo, solo un promo cd nel 2016, con due pezzi ("To Walk with Giants" e la debordante "Im Aufwärtsfall") peraltro inclusi in questo nuovo 'A Distant Reflection of the Void'. La proposta del sestetto teutonico è avvincente sin dall'opener "A Dawn beneath Titanium Clouds", grazie ad un black metal epico e moderno che affascina per una componente vocale abile a districarsi tra un acido screaming e un più suggestivo cantato pulito, mentre le ritmiche convulse imperversano serrate. C'è anche modo di godere di suoni più compassati nel corso dell'ascolto, con la sei corde che accenna addirittura ad un assolo verso metà brano, mentre la traccia continua poi a muoversi su svariati cambi di tempo, che avvicinano la proposta degli Hallig al black progressive degli Enslaved. "Neues Land" conferma la proposta dei ragazzi teutonici con oltre quattro minuti di sonorità estreme, pur mantenendo una forte linea melodica. Le atmosfere sono gelide, lo si evince con "Trümmer" ed un comparto chitarristico che chiama in causa lo Swedish black degli Unanimated; interessante qui l'utilizzo del basso in sottofondo a guidare la ritmica devastante del combo germanico. Con "Straight to the Ninth" la durata dei brani si fa più importante, andando qui a sfiorare i dieci minuti, fatti di suoni atmosferici (una tempesta sorretta da una chitarra in tremolo picking aprono infatti il pezzo), ritmiche mid-tempo, growling, screaming e cleaning ad intrecciarsi tutti su scorribande musicali che sembrano arrivare direttamente dalla musica classica. Una sensazione che viene piacevolmente confermata anche dalla furia sonora di "To Walk with Giants". Un intermezzo acustico assai melodico, "Into Infinity" e arriviamo al trittico di song finali che, dalla coinvolgente "From Ashes All Blooms" giunge, passando dalla nervosa "The Starless Dark", alla conclusiva title track che per dieci minuti ha modo di riempire le nostre orecchie con l'ottimo black metal di una band che merita tutta l'attenzione dei fan. Se ben supportati infatti, gli Hallig avranno modo di ergersi a portabandiera di un filone black tutto da esplorare. (Francesco Scarci)

lunedì 9 luglio 2018

Thørn - S/t

#PER CHI AMA: Crust Black, The Secret
If I Die Today, Calvario, La Fin e Lamantide hanno pensato bene di unire le proprie forze in un nuovo progetto black crust, i Thørn, da non confondere con gli omonimi colleghi norvegesi che peraltro avevano anche una "s" come ultima lettera del loro moniker. Fatta questa dovuta precisazione, lanciamoci all'ascolto dell'EP omonimo della band milanese, che consta di cinque brevi tracce per un'apnea sonora che dura circa 13 minuti. Un'intro rumoristica/parlata apre la tape che esploderà da li a poco nella morsa black punk hardcore di "Your God is Dead": poco più di tre minuti di sonorità nere come la pece, in cui la forte vena punk emerge grossomodo a metà brano con una ritmica cadenzata che si miscela con le acide vocals di A. Mossudu. "Nahua" parte più lentamente, quasi immobilizzata da delle sabbie mobili invisibili che, dopo 50 secondi, trovano modo di scrollarsi di dosso quel mood sludge e lanciarsi verso una nuova cavalcata punk che non disdegna vaghe reminiscenze grind, le stesse che riassaporeremo nei 40 secondi della tempesta sonica di "Sun Will Never Rise". Un bel thrashcore com'era tempo che non ne sentivo, s'impossessa della scena nel pezzo più lungo del lavoro, i quasi quattro minuti di "Burn the Throne", l'ultima annichilente tappa di questo EP di debutto a firma Thørn, mi raccomando, non quelli norvegesi, ma l'ennesima ottima band proveniente dal nostro tanto bistrattato paese. (Francesco Scarci)

(Indelirium Records - 2018)
Voto: 70

https://thorncrust.bandcamp.com/releases

Coexistence - Contact with the Entity

#PER CHI AMA: Techno Death, Death, Cynic, Obscura
In periodo di Palio di Siena, ecco arrivare proprio dal famoso capoluogo toscano i Coexistence, un quartetto di musicisti che conta tra le proprie fila tra gli altri, membri di Coram Lethe e Vexovoid. Quest'EP di debutto, intitolato 'Contact with the Entity' è una gran bella sorpresa per tutti gli amanti di sonorità estreme influenzate da una forta vena tecno-progressiva. Lo dimostra la splendida apertura di "Origin" e dei suo giochi di chitarra che si sprigionano nei primi due minuti e mezzo di un brano che evolverà successivamente in un sound corrosivo ma atmosferico quanto basta per scomodare non proprio facili paragoni con 'Individual Thought Patterns' dei Death, soprattutto per ciò che concerne la serrata sezione ritmica (col fretless basso in testa ad emulare le gesta del bravo Steve di Giorgio). Il quadro musicale dei nostri si completa poi con un growling che richiama lo stridore vocale di Chuck Schuldiner, mentre le chitarre s'intrecciano come spade brandite in cielo. Nonostante le molte affinità musicali con la band dell'indimenticato Chuck, non voglio affibbiare l'appellativo di band clone ai bravi Coexistence: in "Ultimatum" ad esempio, le atmosfere si fanno più cupe, con le bordate ipnotiche di basso (assoluto protagonista del disco) e batteria che provano a contrapporsi ai brevi fraseggi di chitarra creati dal duo di asce formato da Mirko Battaglia Pitinello e Leonardo Bellavista, che con i loro chiaroscuri ritmici, chiamano in causa un altro masterpiece, 'Focus' dei Cynic. È fuor di dubbio che per proporre simili sonorità, la band debba vantare poi un'indiscutibile preparazione tecnica e questo lo si percepisce lungo tutti e 23 i minuti di questo EP. La terza traccia è un intermezzo di carattere sci-fi, che prepara all'ascolto della conclusiva "Contact with the Entity II", una song ultra tecnica che vede nuovamente le pulsioni al basso di Christian Luconi dettar legge e duettare con il drumming (talvolta troppo triggerato) di Alessandro Formichi. Verso metà brano poi, irrompe uno splendido assolo (il primo di due in questo pezzone) che per un minuto infiamma gli animi dei pochi rimasti ancora scettici di fronte all'ascolto di un simile lavoro che probabilmente risuona ancora un po' troppo derivativo ma che francamente mostra una marcia in più per tutti gli amanti di tali sonorità techno death. Speriamo a questo punto che 'Contact with the Entity' sia solo un gustoso antipasto a quanto i nostri possano riservare in futuro. Io un po' di acquolina in bocca ce l'avrei già... (Francesco Scarci)

(Earthquake Terror Noise Records - 2018)
Voto: 75

https://coexistence.bandcamp.com/album/contact-with-the-entity

venerdì 6 luglio 2018

Moonreich - Fugue

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Tornano gli amici francesi della Les Acteurs de L’Ombre Productions con il comeback discografico di una delle band più interessanti della scena black transalpina. Sto parlando degli efferati Moonreich che arrivano al traguardo del quarto album con questo notevole album intitolato 'Fugue'. Il disco, rilasciato in uno splendido digipack, mostra una certa cura nei dettagli anche a livello sonoro, con una produzione cristallina da far impallidire le migliori uscite mainstream. Bombastici fino al midollo, i quattro malvagi individui, in apertura con "Fugue Pt.I - Every Time She Passes Away", si lanciano in un'autentica cavalcata black, in linea con le precedenti apparizioni della band, qui forti però di un nuovo brillante vocalist, e con una linea melodica più marcata ed atmosferica che esalta notevolmente l'esito finale. Non ero un grande fan della band prima ma credo che dopo l'ascolto dell'opener dovrò ricredermi non poco, soprattutto per la dinamicità, i cambi di tempo, i suoni, e ribadisco, una matrice melodica che talvolta sembra sfociare in un rock carico di groove. Non me ne voglia nessuno, sembrerò blasfemo, ma l'efferatezza dell'act parigino sembra (e sottolineo questo sembra) aver lasciato il posto ad un sound più accessibile anche per chi non mastica suoni estremi all'ennesima potenza. "Fugue, Pt. 2: Every Time the Earth Slips Away" ha un'apertura decisamente compassata prima di spostare il proprio focus verso un suono irrequieto, funambolico, avvincente, disturbato, angosciante, al punto tale da farmi sobbalzare dalla sedia. Signori, l'evoluzione fatta dai Moonreich rispetto al precedente 'Pillars Of Detestè', la trovo davvero notevole, a tratti destabilizzante. Migliorato di gran lunga il songwriting e l'approccio sonoro, qui più votato alla ricerca di una componente atmosferica, spezzata comunque da sferzanti, quanto mai malvagie rasoiate ritmiche (spaventosi i blast beat qui contenuti). Troviamo poi una forte componente malinconica, complici le immancabili chitarre in tremolo picking. Chi già mostra le prime convulsioni rispetto a questa apparente attenuazione della feralità del quartetto francese, dorma pure sonni tranquilli, visto che con "With Open Throat for Way Too Long" si torna a ritmi infuocati, inframmezzati da qualche più raro e bieco rallentamento. Poi è solo la furia indemoniata dei quattro cavalieri dell'apocalisse a governare, in compagnia delle taglienti chitarre del duo formato da Weddir e Sinaï e dallo splendido screaming del frontman. L'inizio di “Heart Symbolism”è rockeggiante, piacevole, ma è sola pura apparenza perchè da li a pochi secondi, la song esploderà in una tempesta degna dei migliori Impaled Nazarene, visto un piglio punk black da paura. La potenza continua a scorrere incessante anche in "Rarefaction", un pezzo dal break centrale inquietante quanto assai discordante. È però con “Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore” che la band tocca vette mai raggiunte prima d'ora: si tratta di un pezzo infatti che mescola con grande classe, black, avantgarde, thrash e suggestive divagazioni progressive. A chiudere, ecco gli oltre dieci minuti di “The Things Behind the Moon”, in cui la band spariglia ancora le carte in tavola con una traccia inizialmente pacata, ma provvista di una potenza di fuoco inaudita, talora schizofrenica e incontrollata, all'insegna di una ricerca tecnica che mi ha evocato gli Ephel Duath più ispirati, riletti però in chiave black. Non mancano tuttavia anche in questa song i soliti obliqui rallentamenti, le progressive e pericolose accelerazioni, nonchè una invidiabile preparazione tecnica ed una imprevedibilità di fondo che vede già 'Fugue', in cima alle mie preferenze black di questo 2018, in attesa ovviamente del nuovo album degli Anaal Nathrakh. Intanto i miei complimenti! (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2018)
Voto: 85

https://moonreich.bandcamp.com/album/fugue

giovedì 5 luglio 2018

Dark Fortress - Séance

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black, Satyricon, Mayhem
Quando ascoltai la prima volta questo disco pensai fosse la nuova band di Attila Csihar? Mi sorse questo dubbio perchè il vocalist della band tedesca, assoldata dalla Century Media, aveva la voce che somigliava a quella del frontman dei Mayhem. E mentre fino al precedente lavoro, proprio a questi ultimi si avvicinava il sound del combo tedesco, con 'Séance' la band teutonica propone un black di difficile catalogazione: dieci lunghe songs che viaggiano su mid-tempo, atmosferiche, dalle tinte malinconico-depressive a tratti, graffianti e gelide come il black old school in altri momenti. Le tastiere sono abili nel creare un’aura oscura attorno a tutto l’album; violini sinistri dominano la scena in “While They Sleep”, mentre le chitarre e la voce di Azathoth contribuiscono a donare desolanti e tenebrose ambientazioni che rendono 'Séance' un lavoro molto interessante pur essendo questo disco del 2006. Il gruppo tedesco fu abile nel coniugare alcuni elementi sinfonici dei primi Dimmu Borgir, con altri presi in prestito dai più recenti Mayhem e Satyricon: il risultato che ne viene fuori è un sound pesante e decisamente cupo. Interessanti sono gli interludi acustici che servono a spezzare le sfuriate black, così come inaspettati sono alcuni ottimi assoli che completano le songs. Bellissima “Shardfigures”, nona traccia dalle fosche tinte invernali, con quel suo riff di chitarra che richiama i primi lavori di Burzum ed uno spettacolare assolo di chitarra acustica, da pelle d’oca, davvero il miglior episodio dell’intero album. Anche a distanza di oltre 10 anni, 'Séance' non si rivela come un album di facile presa, ma ripetuti ascolti vi permetteranno di apprezzare al meglio questo lavoro. Spalanchiamo le porte al gelo dell’Oscura Fortezza. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2006)
Voto: 75

https://www.facebook.com/officialdarkfortress

7marzo - Vorrei Rinascere in un Lama

#PER CHI AMA: Pop Punk Rock
Soft-punkettismo ballonzolante terzomillennario, gradevolmente contaminato con un opportuno dosaggio ska ("Vorrei Rinascere in un Lama"), calypso ("Ridi Quanto Vuoi"), picchioduro (il riffone Nirvan-ico da cui scaturisce "Eva Correva"), ipodermicamente tre-allegramente-pazzerello-morto nelle linee vocali (dappertutto, a partire dalla title track) e nelle tematiche (cfr. il post-giovanilismo retrospettivo di "Ciao"), con sentori negramaramente nazional-pop ("L'Immagine del Cambiamento", cosi diabolicamente orecchiabile). Un approccio spericolatamente cantautoriale alle liriche, anche se di primo acchito apprezzerete i momenti più liricamente acuminati: forse derivativo l'interludio di "Michele" (da confrontare col monologo conclusivo di "Cara ti Amo", Elio e le Storie Tese), senz'altro condivisibile la tesi soggiacente a "Grandissimi Film Americani ("La scienziata si innamora dei nemici / e quello nero muore"), semplicemente ineffabile il singolo "Dai Passa Questo Pezzo". Ascoltate questo disco al posto di radio Deejay. (Alberto Calorosi)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.7marzo.com/

Apathy Noir - Black Soil

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive Doom, Opeth, primi Katatonia
Da Norrköping, ecco arrivare un duo la cui formazione risale addirittura al 2003. Trattasi degli Apathy Noir, conosciuti fino al 2016 semplicemente come Apathy, ma che poi a causa delle consuete rogne legali, ha dovuto modificare il proprio nome. E sotto questo nuovo moniker, ecco arrivare 'Black Soil', un disco che oltre avermi intrigato inizialmente per una cover album decisamente minimalista, ha poi saputo lentamente conquistarmi con un sound decisamente malinconico, ideale per questa stagione invece all'insegna di sole e mare. Ecco perchè "The Glass Delusion" potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un autunno uggioso e drammatico, che si snoda attraverso un pezzo di oltre sei minuti dediti ad un black/death doom decadente, quasi disperato, perfettamente in linea con le liriche dei due musicisti scandinavi. Ottime le melodie, cosi tremendamente nostalgiche che in alcuni frangenti mi hanno rievocato i primi Katatonia. La seconda "Samsara" è un po' più folk oriented (un'occhiolino agli Amorphis i nostri lo strizzano), con le vocals che si dimenano tra un gracchiante growl (a mio avviso un qualcosa da rivedere) e una linea vocale pulita, più piacevole che si palesa nei momenti più compassati, mentre la chitarra è abile nel districarsi tra trame death doom progressive influenzate da October Tide e dai primi Opeth, e altre più votate al black svedese in stile Dissection. Il risultato alla fine è davvero buono. La title track conferma un sound che nuovamente prende come fonte di ispirazione i Katatonia dei primi due lavori (ma anche i primi Rapture e gli Swallow the Sun), arricchendo poi la propria proposta con azzeccati arrangiamenti inglobati in sempre più cupe e funeree atmosfere che hanno il pregio di sfruttare diversi cambi di tempo. "The Void Which Binds" propone una lunga introduzione che ci conduce ad un cantato pulito e a delle melodie nostalgiche, per virare successivamente ad harsh vocals e ad una ritmica più feroce che comunque vive di chiaroscuri, intermezzi acustici e ripartenze votate ad un oscuro death progressive. Il disco come spesso capita con questo genere, non è proprio di facile assimilazione. In "Bloodsong" mi vengono in mente Daylight Dies e Opeth come impianto ritmico, con la song che si muove tra luci ma soprattutto ombre e non intendo momenti negativi, bensì faccio riferimento ad un suono che si fa via via più lento ed tetro che nel finale ha modo di regalare anche un intenso assolo. Ultima menzione dell'album per la conclusiva "Time and Tide", aggressiva quanto basta per spezzare quell'aura angosciante che si era instaurata con la precedente "Towers of Silence". Bordate ritmiche, frangenti acustici e growling vocals completano quest'ultima traccia che evoca a più riprese il periodo più brillante degli Opeth (per il sottoscritto quello di mezzo) chiudendo in bellezza la quarta fatica dei due polistrumentisti svedesi. Che altro dire, se non ben fatto! (Francesco Scarci)

mercoledì 4 luglio 2018

Palmer Generator - Natura

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock Strumentale
È già da un po' di tempo che vado affermando che la scena italica brulica nel sottobosco di band assai interessanti. Quest'oggi mi soffermerò sulla terza release firmata Palmer Generator, power trio a conduzione famigliare (trattasi infatti di padre, suo fratello e suo figlio) proveniente da Jesi che mi ha ammaliato non poco con quelle sue melodie ipnotiche, suadenti e talvolta esotiche, questo almeno nell'opening track. Quattro i movimenti inclusi in 'Natura' per 38 minuti di musica che riescono a combinare un psych rock di natura strumentale, liquido e dilatato che ci prende per mano e con i suoi suoni ridondanti, quasi dronici, ci trascina in un vortice sonico da cui sarà difficile uscirne integri mentalmente. Penso agli oltre 12 minuti della lisergica opener "Natura 1", una song che scombussola l'animo per la sua cupezza ma anche per quel suo loop che rischia di condurre alla follia, in un vuoto spinto che introduce ai suoni siderali di "Natura 2". Il sound di questo brano poteva tranquillamente fare da colonna sonora a film come 'Gravity' o 'Interstellar', grazie ad un suono guidato dall'assenza di gravità che ci accompagnerà nel nostro viaggio verso galassie lontane attraverso cunicoli spazio-temporali, quei cosiddetti wormhole che a fine brano accelereranno i C, ossia la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica. Pur essendo un album di grande fascino, 'Natura' non si presenta come un disco di facile assimilazione. Lo testimonia il terzo passaggio, "Natura 3" che ci proietta nuovamente nel vuoto cosmico a interagire con creature extraterrestri (in questo caso i suoni propagati sembrano quelli del film 'Contact') laddove la temperatura si avvicina allo 0 assoluto, ma che verso metà brano, vedono i nostri provare ad invertire rotta e non certo per l'effetto di una fionda gravitazionale, semplicemente perchè i tre musicisti hanno finalmente deciso di accendere i motori roboanti della loro astronave nel tentativo di far ritorno verso la Terra ("Natura 4"). Tutto si rivelerà ahimé vano. La song è l'ultima deriva post rock ambientale che ci condurrà con i suoi rumori e sensazioni inevitabilmente fino ai confini dell'Universo. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco Records - 2018)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/