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mercoledì 31 agosto 2016

Spectral Mortuary - From Hate Incarnated

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse, Morbid Angel
Continua la riscoperta di vecchi album da parte del Pozzo dei Dannati che quest'oggi ci porta in Danimarca e all'anno 2007, quando esordì un nuovo combo atto a devastare il mondo: costituito da membri dei grinders Exmortem e da altri musicisti della scena estrema scandinava, gli Spectral Mortuary rilasciano il loro debut album, 'From Hate Incarnated'. Il lavoro si presenta come il classico disco death metal che tanto andava in voga a metà anni ’90, senza nulla aggiungere e nulla togliere a questo genere. Un onesto platter di musica incendiaria, caratterizzata da ritmiche possenti e una batteria precisa e veloce. Demoniache growling vocals e qualche buon assolo (registrato, ahimè ad un volume più basso), completano il quadro di questa brutal death old-school band danese. Che altro dire a riguardo di un album, che ha il solo pregio di far male e non regalare nulla di nuovo, ad una scena che più volte ho sottolineato puzzare di stantio? Di sicuro non troverete un attimo di tregua dall’inizio alla fine dell’album, non un respiro concesso, perché l’intensa furia distruttiva del quintetto scandinavo, sovrasta tutto ciò incontri sulla sua strada. L'ispirazione? Ovviamente quella trainante dei mostri sacri americani, Morbid Angel e Cannibal Corpse in primis, che sfocia di sovente in sfuriate grind, per poi rientrare in binari più canonici. Decisamente un disco indicato solo per gli amanti del death metal nato al sole della Florida. (Francesco Scarci)

(Mighty Music - 2007)
Voto: 60

https://www.facebook.com/spectralmortuary

Bone Man – Shapeshifter

#PER CHI AMA: Psych Stoner/Grunge
Album uscito ormai quasi da un anno, questo dei Bone Man, trio basato a Kiel nel nord della Germania, ma di cui sarebbe davvero un peccato non parlare. Si tratta infatti di un lavoro oltremodo affascinante, che prende le mosse da un hard-psych influenzato tanto dallo stoner dei Kyuss quanto dal grunge di Seattle, nel quale si respira un ché di viscerale, una rabbia ancestrale che sembra affondare le proprie radici in oscuri culti nordici e che riesce a conferire al disco una magia tutta particolare. È una musica tutto sommato semplice, quella dei Bone Man, in cui gli ingredienti sono pochi, ben riconoscibili ma dosati sapientemente. Le chitarre macinano riff oscuri e si lasciano trasportare spesso da impeti psichedelici che rimandano sovente agli Screaming Trees, la ritmica è tonante e precisa e la voce davvero bella e affascinante, dotata di una pasta grumosa, un timbro cavernoso e potente che ricorda in qualche modo Glenn Danzig. Quello che fa la differenza, come sempre succede, sono le canzoni. E qui ce ne sono di davvero belle e memorabili. La tripletta iniziale, per esempio, è fenomenale: la title track e "Bad Fashion" sono ottimi esempi di quell’effetto selvaggio e soprannaturale che i tre riescono a conferire ad un genere che non avrebbe più niente di nuovo da dire. Allo stesso modo "The Wicker Man" è un trascinante capolavoro che riesce a porsi al di fuori dal tempo e ricorda in qualche modo i canti dei pirati del settecento. Il resto del programma non delude e riesce a mantenersi su livelli di eccellenza pressoché costanti fino alla fine. Una splendida sorpresa, un disco dalla bellezza solenne e selvaggia da ascoltare a ripetizione e custodire gelosamente, in attesa di un seguito che, stando ai rumors, non dovrebbe farsi attendere molto a lungo. (Mauro Catena)

(Pink Tank Records - 2015)
Voto: 75

https://bonemankiel.bandcamp.com/album/shapeshifter

Faun - Totem

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Neofolk, Medieval, Orplid
A distanza di un paio d’anni dal precedente lavoro, 'Renaissance' (datato 2005), tornò in pista il quintetto teutonico dei Faun, con un nuovo affascinante album. Dopo una lunga intro di quasi quattro minuti, inizia un viaggio nel loro mondo ancestrale. 'Totem' è suddiviso virtualmente in tre capitoli: la prima parte viaggia su binari dark gothic, con le voci di Lisa e Fiona sempre in risalto e l’intrigante uso di strumenti folkloristici, come il bouzouki irlandese, l’arpa celtica, il didgeridoo e l’hurdy-gurdy, che conferiscono al sound dei nostri, le emozioni tipiche della musica classica, per la sua capacità di essere senza tempo. Si tratta di composizioni vellutate, estremamente rilassanti, che ci riportano con la mente a paesaggi incantati, con quell’uso delle chitarre acustiche che tracciano dolci linee melodiche e angeliche vocals femminile che declamano splendide poesie. Ciò che mi fa storcere il naso è come sempre il cantato maschile di Oliver Sa Tyr in lingua tedesca, e quella sua incapacità di fondo di risultare melodica. La parte centrale del disco è invece orientata a sonorità medievali: sembra di essere scaraventati indietro nel tempo di quasi mille anni nella lande scozzesi che hanno ospitato il film 'Braveheart', grazie all’utilizzo di strumenti “vetusti” quali mandolino, flauti, percussioni e cornamusa. La terza parte del cd infine, torna a ricalcare il sound posto in apertura di questo lavoro, con ambientazioni più oscure e ipnotiche, fatte di atmosfere evocanti antichi riti pagani ed una certa spiritualità che mostra la connessione dei nostri con la natura. 'Totem' non è certo un disco di facile approccio, ma se siete alla ricerca di musica di sicuro non banale, la proposta dei Faun, potrebbe sicuramente fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Curzweyhl/Rough Trade - 2007)
Voto: 70

http://www.faune.de/faun/pages/start_en.html

martedì 30 agosto 2016

The Last Days of Jesus - Dead Machines’ Revolution

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Punk/Dark/Rock, Misfits, Devo
E questi da dove diavolo sbucano fuori? Partendo da un monicker non certo esaltante, questi The Last Days of Jesus mostrano cattivo gusto anche per ciò che riguarda la cover del cd, quanto mai orribile. E la musica? Beh, ho dovuto ascoltare e riascoltare un sacco di volte questo disco (addirittura il quinto e per fortuna l'ultimo della loro discografia, ma uno nuovo è in lavorazione), per capire se potevo salvare qualcosa e per comprendere anche in quale filone inserire questi pazzi slovacchi. Dopo svariati ascolti, faccio ancora fatica ad intendere e digerire il sound di questo quartetto, che dice di suonare un deathrock, ma di death e rock qui ce n’è gran poco. Mi sembra, più che altro, che ci sia una forte componente elettro-gothic di stampo teutonico, sulla quale i quattro psicopatici, inseriscono diversi elementi presi dal punk (Misfits), dalla musica dark (primi The Cure) e gotica, arrivando a creare un qualcosa da loro definito come neo-batcave-postpunk-goth-agrhlszjf (e non mi chiedete cosa vuol dire quest’ultima definizione). A me sinceramente pare che la release della band di Bratislava sia una presa per il culo per gli ascoltatori pertanto non mi sento assolutamente di consigliare questo bizzarro lavoro, che ha il solo pregio di essere altamente ironico e di saper creare delle atmosfere dannatamente noir. La band probabilmente da cui traggono ispirazione è quella degli americani Devo, che negli anni ’80 univano il punk rock al synth-pop: qui troviamo infatti strane sperimentazioni che disorientano non poco, ma dire che la musica di 'Dead Machines’ Revolution' sia piacevole, mi sembra pura follia. Se pensate che la vostra mente sia abbastanza aperta, potreste fare un tentativo e dargli un ascolto, verrete catapultati in una granguignolesca dimensione parallela. (Francesco Scarci)

(Strobelight Records - 2007)
Voto: 55

http://www.thelastdaysofjesus.sk/

Vert - Accepting Denial

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Lost Prophets, Incubus
Dall’area di Wolverhampton (UK), nel 2007 saltò fuori quella che sembrava la new sensation del momento, i Vert. Francamente mi trovo di fronte ad una delle tante band che popolavano il mercato discografico in quel periodo, con il conseguente rischio di saturarlo, a causa della loro proposta musicale non del tutto originale. Il quartetto inglese, accostato più volte dai magazine ad Incubus e Lost Prophets, propina un sound energico e robusto fatto di chitarre non troppo pesanti, ma abbastanza veloci, cariche di una certa attitudine punk, che fanno il bello e il cattivo tempo, lungo le 10 tracce di questo 'Accepting Denial', primo e unico full length per la band britannica (nel 2009 lo scioglimento inevitabile). La voce di Steve Braund oscilla tra momenti malinconici ad urla cariche di rabbia. La musica dei nostri, mai troppo cattiva, anzi piuttosto ruffiana, paga dazio, in diversi pezzi, alle band succitate, come pure in alcuni frangenti sono udibili reminiscenze metalcore. Qui trovate dell’easy music che avrà fatto sicuramente la gioia degli amanti di sonorità nu metal/rock. Egregiamente prodotti ai MCC Studios da Andy Giblin (Slipknot, I-Def-I, Kill 2 This), i Vert non fanno altro che svolgere il loro compitino raggiungendo una stringatissima sufficienza, mixando sonorità catchy a vocals da MTV. Il disco non mi ha mai convinto appieno, però non è neppure da stroncare; mi è rimasta solo la curiosità di sapere dove i nostri potevano andare a parare in una successiva produzione. (Francesco Scarci)

lunedì 29 agosto 2016

Jet Banana - Master is the Enemy

#PER CHI AMA: Power Rock, Stones
Un rapporto piuttosto conflittuale, quello che mi ha visto alle prese con quest’album di debutto dei francesi Jet Banana. Conflitto cominciato dalle scelte grafiche del font e dell’artwork che sono quanto di più vicino possa esserci ad un pugno in un occhio, e continuato poi con le roboanti dichiarazioni della cartella stampa, secondo cui il suono del giovane quartetto sarebbe il risultato di un matrimonio tra il power pop, Stones, Dandy Wharlos, Eagles of Death Metal e AC/DC, da loro ribattezzato in modo alquanto pretenzioso “power rock”. Va dato atto ai Jet Banana di aver fatto le cose per bene, con tanta passione ed evidente spiegamento di forze (sempre più difficile, oggi, trovare un cd che contenga un libretto ciccione con testi e fotografie), per confezionare un lavoro di buon livello. Musicalmente siamo dalle parti di un FM rock molto facile e orecchiabile, discretamente fresco e coinvolgente, che guarda in modo abbastanza fedele ai modelli di riferimento dichiarati, a volte con un approccio un po’ scolastico, altre invece mostrando anche qualche buono spunto. Il problema, quando parliamo di questa musica, è che se non si hanno delle buone canzoni difficilmente ci si potrà far ricordare più di qualche minuto. Ed è qui che devono ancora lavorare sodo, i Jet Banana, sulla profondità e la solidità del loro songwriting, perché è grazie alle belle canzoni che siamo disposti a passare sopra ai riff troppo simili ad altri già sentiti mille volte o a suoni e arrangiamenti un po’ stantii, come delle vecchie giacche dimenticate troppo a lungo nell’armadio, che una volta indossate non sono ancora vintage, ma semplicemente fuori moda. Per ora, quindi, resta un disco sincero e divertente, suonato bene e con una bella energia, ma per lasciare un segno serve qualcosa di più. (Mauro Catena)

domenica 28 agosto 2016

Paramnesia - Ce Que Dit La Bouche D'Ombre

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Addaura, Skagos
Non è il nuovo EP dei francesi Paramnesia questo 'Ce Que Dit La Bouche D'Ombre', bensì il vecchio lavoro uscito nel 2013 in CD-r, rimasterizzato e riproposto dalla label cinese Pest Productions. Due pezzi per un totale di 23 minuti che ci fanno conoscere le radici del male da cui trae linfa vitale il quartetto di Strasburgo. "I" segna inequivocabilmente il passo di un rozzo black cascadiano che si rifà, come influenza principale, agli statunitensi Addaura, grazie a ritmiche tiratissime e roboanti, vocals malvagie e qualche accenno di melodia (e malinconia) nei momenti più mid-tempo. Non mancano neppure frangenti più atmosferici anche se qui si rivelano merce assai rara, cosi come pure sorprende il finale parlato della prima traccia che introduce a "II", altri 11 minuti di suoni black primordiali che lasciano solamente trasparire le potenzialità dell'ensemble transalpino, con sprazzi di catartico post rock, che con qualche difficoltà erano emerse anche nel lacerante album omonimo, dove comparivano le tracce "III" e "IV". Per lo meno ora abbiamo capito il perché della progressione nei titoli di quelle due song. Speriamo solo che ora i Paramnesia si mettano alla ricerca di una propria meglio definita identità, per ergersi dalla sempre più affollata scena post black. (Francesco Scarci)

Third Island - Dusk

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal/Shoegaze
A volte è un semplice artwork a conquistare i sensi ancor prima della musica. Cosi è stato per me con i Third Island, un amore a prima vista, che con quella loro copertina cosi essenziale ma anche cosi affascinante, hanno subito catturato la mia attenzione. Poi, avuto il digipack in mano, messo il disco argentato nel player e fatto partire il primo brano dei tre, rilassandomi di fronte alle atmosfere sommessamente post rock della opener, "Thawed My Skin". Undici minuti in cui il trio irlandese palesa la propria passione per sonorità darkeggianti, che combinano inequivocabilmente il post-rock con lo shoegaze in un incedere marziale, ripetitivo, oserei definirlo ipnotico, complici anche le tematiche che trattano i nostri, ossia disturbi del sonno e incubi annessi. Incubi che si materializzano nel corso della song con l'ingrossarsi delle chitarre che vanno quasi a sfiorare il post metal, ma anche nell'incupirsi di quella voce inizialmente cosi morbida e sognante. La band di Limerick prosegue con i nove minuti di "Come Now" e quelle pesanti gocce di pioggia che si odono nella parte introduttiva della song lasciano presto il posto alla litanica (ma anche malinconica) voce del frontman e una musica che via via sembra cadere in balia di un doom intinto in lisergiche pozioni magiche, in un sound che ha modo di evocare i Godflesh, ma anche Kowloon Walled City e una versione molto più soft di Neurosis e Isis. Ci dirigiamo inebriati verso la fine dell'EP con la terza e conclusiva "It's Moving", ulteriori undici minuti di sonorità post, vocals stralunate, atmosfere morbose e un lungo e asfissiante finale interamente strumentale. 'Dusk' alla fine è quello che si dice un buon biglietto da visita per una band agli esordi, che si è formata soltanto lo scorso anno. Insomma un altro ensemble dell'underground da appuntarsi nel proprio libricino degli appunti per futura memoria. (Francesco Scarci)

sabato 27 agosto 2016

The Walk – Wrong Enemy

#PER CHI AMA: Alternative Rock
I The Walk sono un quartetto di Strasburgo, capitanato dal cantante e chitarrista, nonché autore di tutti i testi, Hervé Andrione, giunto oggi al debutto sulla lunga distanza dopo un paio di interessanti EP che già mettevano in evidenza uno stile piuttosto peculiare e personale, seppur non originalissimo. La musica della band si basa sulla chitarra bluesy (per lo più acustica, a volte slide, spesso distorta) e la voce di Andrione, il cui timbro ricorda a volte quello di Bertrand Cantat dei Noir Desir, cui fa da contraltare Nicolas Beck con il suo tarhu, uno strumento piuttosto raro, una sorta di violoncello inventato dal liutaio australiano Peter Biffin negli anni '80, ispirato dalla tradizione mediorientale ed in particolare al tanbur turco. Il suono dei The Walk si nutre di questo contrasto apparente, esacerbato da una sezione ritmica potente, precisa e di stampo decisamente rock. Quello che ne esce è una musica che trova forti riferimenti in quello che negli anni '90 si sarebbe definito come “alternative”, muovendosi in un ambito che spazia dai già citati Noir Desir (anche se qui si utilizza esclusivamente la lingua inglese) ai Deus, fino a Jeff Buckley, il Ben Harper più roccheggiante e più di una suggestione grunge. Se è vero che i brani più propriamente rock sono piacevolmente grintosi ma difettano forse di un po’ di impatto e personalità, i pezzi più riusciti sono, a mio avviso, quelli in cui si toglie un po’ il piede dal pedale dell’acceleratore e dove viene dato maggior spazio al dialogo tra chitarra e il tarhu, quindi piacciono “Stand the Truth”, con un accordion suggestivo, o la drammatica epicità buckleyana di "Words of Wisdom", o ancora le delicate “Until” e “Expanding Universe”, mentre la vetta viene toccata da “A Price to Pay” col suo arrangiamento d’archi e il poderoso crescendo finale. Altrove invece, le idee ci sono e sono buone ma è come se non siano state sviluppate a dovere: “Far From my Dreams” parte bene con le sue atmosfere avvolgenti che ricordano “Release” dei Pearl Jam ma poi si prolunga per 8 minuti, sembrando ripiegarsi su stessa senza davvero mai prendere il volo. L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un prodotto realizzato con grande cura del dettaglio, a partire dallo splendido artwork che ritrae i musicisti come stregoni africani, fino ad un suono curato e scintillante. Forse troppo, a dire la verità, nel senso che forse, sull’altare della pulizia sonora è stato sacrificato un po’ di quel sacro fuoco che sono sicuro animi le loro esibizioni live, ma si tratta comunque di dettagli in un lavoro che risulta già maturo e riesce a valorizzare le idee quanto la tecnica dei musicisti. Disco molto interessante e band da seguire con attenzione. (Mauro Catena)

Blerthrung - Blindvei

#PER CHI AMA: Raw Black Metal
Blerthrung è un duo black metal proveniente dalla ridente e solare Melbourne. Da diverso tempo non mi arrivava una elegante busta in plastica con un CD-R e un foglio di carta stampato in bianco e nero. Questo genere di cose solitamente viene visto come una scortesia ma in alcuni casi, come quello della musica che non ha interesse né verso il mezzo né verso gli altri, è benevolmente accettato (tra l'altro, visitando la loro pagina di facebook è annunciata la stampa di musicasette a cura della etichetta francese Wulfrune Worxxx). L'ascolto di questo debutto lascia un attimo disorientati al primo impatto, non riuscendo a capire la strada che voglia percorrere il gruppo a causa di troppi stili e direzioni diverse intraprese. "The Ground" ci accoglie con un accettabile, mesto e basilare depressive black, "The Black Plague" e "Their Virus" non sono classicamente veloci, e men che meno oscure e malefiche, anche se cercano di strizzare l'occhio al lo-fi scandinavo ricordandomi i primi demo degli Abruptum. Gli intermezzi e "Cracks In The Stone" approcciano arie melodiche e gothiche, con un cambio di sonorità poco piacevole. Le uniche tracce che mi ricordano piacevolmente, dal punto di vista concettuale, il black metal vecchia scuola sono le ultime "What We Have Grown" e "Ancient Wisdom", in cui finalmente si sente velocità, tiro e un po' di tenebra australe. La volutamente scarsa qualità sonora, l'estetica disperata, naturalistica e oscura non bastano a giustificare il genere e la sua esecuzione. A mio parere il gruppo australiano non ha sbagliato qualcosa nel ricettario del "voler essere black metal", ha semplicemente composto musica ancora acerba e senz'alcun impatto. (Kent)

giovedì 25 agosto 2016

Magnitudo – Si Vis Pacem

#PER CHI AMA: Sludge/Psych/Post Metal
Un nome pesante per una musica ad alto peso specifico. I Magnitudo, direttamente da Bergamo, già dal primo EP riescono ad attirare l’attenzione su di sé tanto che la Sepulchral Silence, label britannica si è subito premurata di aggiungere questi ragazzi nel proprio roster. L’EP è stato registrato egregiamente dall’ottimo Danilo Battocchio, membro dei post-metallers torinesi Last Minute To Jaffna. Non solo il sound risulta potente ma anche il nome della band suggerisce forza, intensità e un buon grado di pericolosità perfettamente calzante con l’essenza della band. I Magnitudo si sono spinti fino a imprimere su disco la violenza e la portata distruttiva di un attacco all’umanità da parte di forze immemori e ancestrali che hanno come fine solamente la devastazione totale. Uno scenario che non in molti riuscirebbero a sostenere, è come guardare da una finestra a vetri la propria città che viene inghiottita da un gigantesco terremoto (mai immagine fu cosi attuale - RIP/ndr): voragini che si aprono ovunque, edifici che crollano, urla che echeggiano alte e disperate ed il sole offuscato per la troppa polvere sospesa nell’aria. 'Si Vis Pacem' la prima parte di un famoso detto latino: se vuoi la pace prepara la guerra. Difendere la propria posizione, fortemente ancorati alle proprie idee, pronti a combattere, uccidere e morire per esse. Le premesse ci sono tutte, anche l’ansia nel vedere le figure incravattate con la maschera a gas in copertina. Milioni di burattini identici che non sanno nemmeno più respirare, mossi dalla stessa brama di potere e che brilla rossa nei loro occhi. Ma ora basta fantasia, è giunta l’ora di far vibrare i timpani. Si parte senza foga ma con grazia: il primo pezzo, "Marjane", è una song orientaleggiante venata di rabbia che si trasforma in un ambiente ostile, senza ossigeno e senza via d'uscita. Un incipit ansioso e malvagio che ci traghetta alla seconda traccia in cui per la prima volta appare la voce distorta di Dario, e il cui suono ricorda quello di un titano sceso sulla Terra con intenzioni non propriamente di fratellanza. La musica si articola in bordate di accordi dissonanti, mitragliate di batteria e cambi di metrica accanto a molti spazi sonici nelle parti ritmicamente distese tipicamente doom sostenute da un rugginoso ribollire di valvole. La terza traccia "χορού Λάρισας" introduce la voce pulita, una scelta coraggiosa ma anche ben riuscita nel suo minimalismo, sembra quasi un lamento ma potrebbe anche essere un’invocazione ancestrale sacra, e questo probabilmente non lo sapremo mai. La canzone continua come un fiume in piena tra granitici riff e terremoti che flagellano un paesaggio ormai privato di ogni forma di civiltà umana. Con "T", brano di chiusura, torniamo alle sonorità dell’inizio ma con un’attitudine diversa, più disillusa e determinata. E ancora la voce di Dario ci guida sul sentiero della battaglia e ci esorta una volta di più a puntare i piedi e guardare la distruzione che ci si staglia davanti con lucida coscienza e una buona dose di cinismo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2016)
Voto: 80

mercoledì 24 agosto 2016

Hoaxbane - Messengers of Change

#FOR FANS OF: Black Metal, Dark Funeral, Satyricon
Going straight into the fray, German two-man black metal sect Hoaxbane take a socially critical position, hostile towards all manipulative ideologies which seek to achieve a superficial, conformist, consumer society. That means employing a charging, explosive traditional black metal approach to their music, with explosive tremolo-picked rhythms and a generally up-tempo attitude that offers plenty of furious, deep riffing with some nice melodic accents along the way with plenty of nice drum-blasts and the nice bit of varied dynamics to make for a wholly appealing time here. A few of the tracks aren’t that impressive and there’s plenty of repetitious rhythms running rampant here as it tends to reuse itself quite often to sell the same general paces and tempos but overall there’s more to like here against the flaws. The opening title track immediately blasts through explosive drumming and up-tempo swirling tremolo-picked patterns that settle on a sprawling series of galloping rhythms around into a frenzied series of rhythms in the final half for a fantastic opening effort. ‘Bloodshed’ features a slow-building intro into a series of extravagant swirling tremolo patterns that continue on throughout the up-tempo paces with striking drum-patterns blasting along with the fiery riffing carrying along the finale for a fun, explosive highlight. ‘Diagnose Wahnsinn’ opens with blasting drumming and tight swirling tremolo rhythms along into a tight gallop with more massive sprawling rhythms held throughout the sprawling, majestic patterns flowing throughout the final half for a decent enough effort. ‘Element of Truth’ offers a melodic series of swirling tremolo riffing and plenty of plodding drumming that works through a fine melodic series of rhythms with the sprawling patterns holding this one along into the up-tempo blasting in the finale for another decent effort. ‘Erotic Aphyxiation’ uses tight blasting and swirling mid-tempo riff-work with furious patterns charging along throughout the tight, charging paces with plenty of deep swirling arrangements alongside the pounding drumming that carries into the final half for another standout highlight. ‘Asylum of Faith’ utilizes blistering double-bass blasting and a steady, mid-tempo rhythm charging along with the tight drum-work holding this one through the full-on, frantic riff-work moving through the militaristic patterns in the tight pace into the finale for a great highlight. ‘Welcoming Pain’ moves past the spoken-word intro to a light, sprawling plodding-style tempo with light melodic riffing weaving around the light rhythms with the occasional burst into frenzied patterns and tight blasting that moves in spurts through the final half for a solid if still weakest track here. ‘Secrets of My Cravings’ uses tight, explosive tremolo pattern riff-work and frantic blasting that holds the pacing along the relentless full-throttle tempos as the furious riffing and charging drum-blasts relentless move through the agonized, sprawling finale that’s utterly devastating at first before a weak ending. Lastly, album-closer ‘Versager der Evolution’ takes explosive, furious drumming and sprawling tremolo patterns into the stylish series of frantic galloping tempos that feature swirling melodic patterns and blasting drumming along into the final half for an enjoyable lasting impression. Again, only a few minor areas hold this one back. (Don Anelli)

(Mighty Music - 2015)
Score: 85

Khaldera - Alteration

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Russian Circle
La Czar of Crickets prosegue nella sua opera di sondaggio di band provenienti dal territorio svizzero e quest'opera, che va avanti ormai da un paio di lustri, sta mostrando i suoi frutti, ossia un brulicare importante di realtà underground rosso crociate davvero interessanti. E 'Alteration' rappresenta il secondo EP di una di questi gruppi, i Khaldera, un trio strumentale che ha da offrire tre brani votati a un post metal ragionato che poggia le proprie fondamenta su un materasso di suoni vellutati ("Impending Tempest") ma anche in grado di mostrare un certo coraggio nel cambiar marcia e irrobustirsi in una song più grossa qual è "Inevitability of Transition". Come al solito, la mancanza di una voce si fa sentire malamente per il sottoscritto, che vive questa situazione come una zoppia impossibile da correggere, anche se ensemble quali Russian Circle o Pelican, hanno fatto della loro esclusiva strumentalità il punto di forza. Pertanto fatevi sotto, non siate timidi, lasciatevi investire dal crepuscolare sound di questo terzetto elvetico che nella conclusiva "Afterglow" avrà modo anche di sciorinare riverberi post rock in una quanto mai inattesa tribalità a livello di percussioni, per un brano al limite dell'ambient. Diciotto minuti forse sono un po' pochi per giudicare un lavoro cosi eterogeneo e di per sé complicato qual è 'Alteration', però la curiosità per un futuro full length si fa largo assai più forte. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets - 2016)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Khaldera/

martedì 23 agosto 2016

Drought - Rudra Bhakti

#PER CHI AMA: Black Esoterico, Deathspell Omega
L'Avantgarde Music non sbaglia un colpo: da quando ha rinnovato il proprio roster con realtà del sottobosco internazionale, ha infilato una serie di release davvero eccellenti. Non ultimi questi Drought, la cui origine risiede probabilmente nel nostro paese, che se ne escono con questo ritualistico EP di debutto intitolato 'Rudra Bhakti'. Inequivocabilmente, già dal titolo i richiami alla religione induista sono palesi, in quanto Rudra rappresenta proprio una delle divinità più antiche della civiltà vedica, simbolo di ferocia e distruzione, elementi che si traducono poi nella ferale proposta di questi misteriosi musicisti. E l'ingresso nel misticismo dei Drought si compie già attraverso la opening track, un lungo pezzo ambient che prelude alla efferatezza dissipata invece nella seconda "Fire Breathing (Urdva Kundali Arise)", in cui i nostri brandiscono le armi, le innalzano al cielo e attaccano con una rabbia inaudita attraverso una forma estrema di black metal caustico che chiama in causa in primis i Deathspell Omega, e si articola attraverso ritmiche contorte e assassine, killer vocals, in quello che loro stessi definiscono black tantrico. La truculenza dei nostri prosegue nelle serratissime ritmiche di "Reveal the Unlight (Sudden Awareness)" fino a giungere alla lunga e conclusiva "Collapse of Maya (Transfiguration of the Warrior)", che parte piano ma divampa ben presto alla velocità di un incendio che inghiottisce la boscaglia. Spaventosi, a tratti anche ieratici, soprattutto in quelle parti più d'atmosfera e glacialità che minano le fondamenta della spiritualità umana. Aberranti. (Francesco Scarci)

Devon - S/t EP

#PER CHI AMA: Post Rock, Alternative, Red Sparrowes, Deftones
Gli svizzeri Devon si affacciano al mercato attraverso l'instancabile Cold Smoke Records e durante il 2015 rilasciano questo EP dall'omonimo titolo, composto da quattro brani influenzati da post rock, postcore e alternative rock. Il risultato è un suono frastagliato e muscoloso che non affonda sulle usuali dinamiche del post rock ma ne usa solo le atmosfere più rarefatte e intense per incrociarle con quel tipo di attitudine sonora alla Deftones degli ultimi lavori. Il brano d'apertura, dal titolo "Tulsa", con il suo incedere ipnotico e maestoso, mostra subito l'attitudine modernista della band alpina, scodellando una carrellata di riff acidi e psichedelici senza traccianti vintage o stoner, dalla spinta poderosa che ammicca anche al nu metal e a certe sonorità colte volte ai Kinski o agli Arbouretum. "Krash" apre ad una breve traccia dal sapore quasi post grunge, dove compare anche la voce, prima narrante e vissuta, poi sofferente, e sfocia successivamente in un finale carico di rabbia postcore, che unito al modo particolare e potente della band di intendere il post rock, permette al quintetto svizzero di avvicinarsi di molto al concetto sonoro dei conterranei Ogmasun. Sicuramente il tono drammatico, rude e potente in stile Isis/Neurosis del cantato, dona parecchio spessore alla musica della band elvetica, cosa che rende ancora più appetibili i movimenti in chiaroscuro delle composizioni, che nei brani "Ij" e "Tattoo" assumono connotati ben definiti grazie anche a delle chitarre più velatamente romantiche, soniche, sferraglianti e ricche di pathos che aprono ad un finale esplosivo, degno di band prodigiose quali Defeater, Cheatahs e gli immortali Jesu. L'organico sonoro di questo disco non è facile da catalogare, meno potenti dei Neurosis ma sicuramente più dinamici dei languidi e formidabili Mogwai, i Devon sanno anche proporre un hardcore alternativo come quello dei francesi Sofy Major, immaginandoli calati in una cover dei Red Sparrowes, tutto questo in sole quattro tracce ben suonate e di buona qualità. Aspettandoli al traguardo dell'album completo per avere ulteriori conferme su di una band molto preparata e tutta da seguire, gustatevi intanto questi quattro pezzi. (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 70

https://soundcloud.com/cold-smoke-records

Vow of Thorns - Farewell To The Sun

#PER CHI AMA: Black Doom Atmosferico, Agalloch
Amanti degli ahimè defunti Agalloch fatevi sotto: i canadesi Vow of Thorns seguono infatti palesemente i dettami della ben più famosa band dell'Oregon, con quello che è il loro album di debutto sulla lunga distanza, 'Farewell To The Sun'. Sebbene l'inizio quasi rockeggiante di "Meeting on the Astral Plane" possa ingannare, quando l'arcigna voce del frontman si accomoda dietro il microfono, ecco aleggiare lo spettro di John Haughm e soci. Tuttavia, il sound dei quattro dell'Ontario si muove su binari ritmici più che altro orientati all'heavy metal, con sprazzi di cupa malinconia relegati a momenti atmosferici o deliziosi e dilatati arpeggi acustici, confezionati con gran gusto. E la lunga opening track ci regala infatti lunghe fughe strumentali che inevitabilmente scomodano facili paragoni con 'The Mantle' dei già citati Agalloch (per la cronaca missaggio e mastering sono fatalità a cura dell'ex Agalloch Jason Walton). La band mi convince appieno, pur risultando evidentemente derivativa nei confronti dei gods della costa pacifica. "Great Abomination" è un pezzo che evoca il black metal dei Melechesh, anche se nella sua parte centrale ci colloca sull'orlo del dirupo con un vertiginoso break che puzza di post-metal. “Farewell To The Sun Part I” è un breve pezzo strumentale che introduce alle successive due sue parti, in cui è ancor più forte l'influenza degli Agalloch, grazie ad un sound che a livello di chitarre, non fa altro che dipingere ossessivi stati di desolazione, vero marchio di fabbrica dei pionieri di questo genere, con un utilizzo ridondante, quasi ipnotico, di loop chitarristici di matrice post rock, a cui fanno seguito da contraltare, pericolose scorribande in territori post black. Ecco emergere lungo il copioso minutaggio dell'album, il costante alternarsi delle varie sfumature del post, con rock, metal e black a rincorrersi in un riffing contorto e severo, su cui si stagliano i taglienti vocalizzi del cantante. Una spruzzata di funeral doom, ed eccovi servita anche la terza parte della title track, prima dell'abbandono conclusivo alle lunghe, soffuse e sofferte melodie della finale "Doomed Woods", oltre dodici minuti di epiche vibrazioni, suggestivi paesaggi e deprimenti emozioni, che suggellano, con un certo successo, la proposta del quartetto dei Vow of Thorns. I più accreditati eredi degli Agalloch? La storia avrà modo di dircelo... (Francesco Scarci)

(Foresta Dweller Inc. - 2016)
Voto: 75

https://vowofthorns.bandcamp.com/

lunedì 22 agosto 2016

Moke's - S/t EP

#PER CHI AMA: Alternative/Garage Rock, Wolfmother, The Bellrays
La band parigina si presenta con un primo, vero e proprio EP, pieno di speranze e potenzialità per il futuro. Dopo un demo del 2013, i Moke's si sono immersi nelle registrazioni di un omonimo album per cercare di captare e fermare le vibrazioni acide emanate dalle loro esibizioni live, colte dal vivo nel precedente album del 2014, 'Live in Phalsbourg'. Questa operazione riesce solo in parte, perché i Moke's fanno riferimento a quel tipo di gruppi la cui dinamica rock, sanguigna e primordiale, è difficile da racchiudere in un album, cosa che fu impossibile per gli MC5 al tempo e che tutt'ora riesce difficile per qualsiasi ensemble che abbia caratteristiche simili. Diciamo subito che i Moke's, capitanati dalla deliziosa voce di Agnès, sono bravi e suonano con passione una forma di vintage rock rimodernato con i sentori dell'alternative e dell'acid rock di matrice '70s. La sola cosa che poco convince di questo disco indipendente, è la forzata declinazione stoner usata per il mixaggio e la registrazione dei brani, tralasciando poi tutta la potenzialità commerciale e garage di cui è dotata la band, girando sempre intorno al sound di realtà grandiose come The Bellrays o Gorilla (quelli belli e sconosciuti di 'Maximum Riff Mania') e se vogliamo parlare anche di psichedelia, dovremmo guardare il versante europeo dello stoner nelle vesti dei mai dimenticati On Trial (vedi il brano "Swamp" con tutta la sua verve psichedelica), che di certo non rientrano negli standard del genere suonato oggi, oppure, citando il rock, ci spostiamo verso i mitici Thee Hypnotics per arrivare ai Wolfmother (ascoltate "Don't" per farvi un'idea). Relegarli a ruolo di semplice stoner rock band è riduttivo, con una vocalist di questo calibro, piena di glam e aggressività, con una chitarra che risale le scale del vintage garage rock con una naturalezza incredibile, riff allettanti e intriganti, una sezione ritmica che pulsa come se venisse direttamente dalla fine degli anni settanta, ed un groove sempre carico di una gradita orecchiabilità, di chiara e ovvia derivazione che non risulta mai banale o lasciata al caso, sarebbe delittuoso. Per questo mi spingo a dire che i Moke's dovrebbero osare di più focalizzando il loro sound verso derive di matrice rock che da un lato sprigionino la loro formula garage/'70s mentre dall'altro, aiutino il quartetto a liberarsi dal sound imprigionante, fuori luogo e schematizzante dello stoner rock. Con la spinta heavy rubata alle Crucified Barbara e alle Girlschool, l'attitudine vocale tra Janis Joplin, Linda Perry e le stupende The Runaways, i Moke's, blues/rockers acidi per vocazione, hanno tutte le carte in regola per maturare, trovare una strada sonora che li renda del tutto unici, per regalarci un nuovo mito rock da venerare. Cinque brani, ventidue minuti dinamici, energici e fantasiosi, da inserire in quell'universo che fa capo alla corrente sempre più emergente del vintage rock. Da tener d'occhio! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

https://mokes.bandcamp.com/

Sedulus - The Sleepers Awaken

#PER CHI AMA: Psych Stoner, Baroness, Isis
Pochi colori in copertina per i Sedulus, act britannico in attività dal 2005. Sembra un tramonto visto dall’orlo di un asteroide in orbita nello spazio aperto. Non a caso 'The Sleepers Awaken' ci arriva attraverso l'etichetta When Planets Collide, fucina di rabbia sperimentale planetaria. La band è talentuosa e con le idee chiare, il suono ricorda Tool, Russian Circles e Baroness, la cosa che forse ancora manca è la coesione artistica che a volte non permette ai brani di esprimere a pieno le proprie potenzialità. Vale la pena iniziare subito a sentire il disco che apre con “Sycamore” potentissimo brano in pieno stile sludge. Dal primo pezzo già si evince la propensione della band alla complessità compositiva dei brani, all’aggressività e alla psichedelia. La cavalcata prosegue con “Machinations”, che presenta un tappeto di chitarre rugginose che rispondono ad una linea di voce a metà tra ISIS e Melvins. Le strutture dei pezzi non sono mai semplicistiche, si passa infatti da parti ritmicamente serrate ad aperture decisamente più blande, impreziosite da arpeggi riverberati e profondi tonfi di basso. La composizione come detto è audace tanto che a volte le song sembrano andare fuori dal tracciato, minando la comprensione del pezzo. L’attenzione rimane comunque alta, sempre ridestata da cambi di dinamica e da una buona spettacolarità tecnica dei musicisti. Altro aspetto che salta all’orecchio sono i suoni ed il metodo di registrazione, per cui sembra in qualche modo tutto un po’ lontano. Certo, l’impressione di essere su un satellite che orbita intorno alla Terra è riuscita, ma forse all’opera avrebbe giovato più definizione e presenza del suono che tuttavia rimane decisamente di qualità. Approdiamo alla terza traccia che porta un nome stranamente italiano “Nomadi del Mare”: si tratta di un viaggio strumentale su un veliero fantasma nella Via Lattea assolutamente da sentire. La traccia successiva chiude la prima parte del disco, e si chiama “Things We Lost in the Fire” e trasporta l’immaginazione per mezzo di voci e chitarre effettate che fluttuano a mezz’aria. La parte più riuscita del brano è la strofa: presente, decisa e brillantemente arrangiata. Anche il break dipinge scenari apocalittici sormontati da una linea melodica vocale in pieno stile Aaron Turner. Pecca del brano è il ritornello: da un punto di vista melodico forse non proprio azzeccato, sembra che non sia esattamente l’evoluzione naturale della strofa. Ma anche con questo difetto “Things We Lost in the Fire” rimane uno dei miei pezzi preferiti. Si passa alla seconda parte ora, aperta da una traccia ostinata e orientaleggiante. Sembra di vivere una sessione di meditazione ma non nella quiete di un parco o di un tempio, ma esattamente in mezzo al caos insensato e chiassoso di una metropoli. Ad ogni modo si tratta solo di una breve pausa, “Colonise” infatti non lascia scampo. Potenti riff sludge e una voce aggressiva e perentoria esortano a non lasciarsi abbattere e avere la forza di reagire sempre, “We Must Stay Strong” si grida nel brano. Anche qui si ha la percezione lontana che alcune parti non seguano il giusto susseguirsi delle cose, tuttavia il brano risulta piacevole e trasmette una notevole quantità di energia. Eccoci alla epica “Foxhole”: si inizia con una bassa intensità, la musica evolve tra voci pulite e frequenti pause sceniche davvero assai riuscite, sia nella scelta delle note che delle dinamiche. Il pezzo poi esplode in tutta la sua potenza in tre episodi trainati da una voce sporca e mono-nota e da un profondo e denso fango, che alla fine la elegge come il pezzo più interessante dell’opera. L’ultimo passaggio strumentale “Redshift” è forse il più riuscito: frequenze basse, percussioni ancestrali che vanno a formare un ambiente sonico e spaziale ma allo stesso tribale e terreno. La chiusura “Heat Death”ci dà il giusto commiato riassumendo in sé tutte le migliori qualità dei Sedulus. Dopo un intro supersonico dove chitarre e basso si intrecciano rivelando una grande emotività, atterriamo successivamente su di un suolo ostile di un pianeta privo di ossigeno e poi di nuovo si riparte a fluttuare nel vuoto verso il prossimo pianeta sconosciuto. 'The Sleepers Awaken' è un disco ruvido e intenso che lascia intravedere talento e inventiva e crea inoltre alte aspettative per la prossima opera dei quattro britannici. (Matteo Baldi)

(When Planets Collide - 2016)
Voto: 70

https://sedulus.bandcamp.com/