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domenica 2 gennaio 2022

Prehistoric Pigs - The Fourth Moon

#PER CHI AMA: Stoner Rock Strumentale
Go Down Records sempre attivissima, quest'oggi con i friulani Prehistoric Pigs e il loro concentrato di psych stoner doom. Di fronte a queste premesse, di certo non mi sarei aspettato una proposta interamente strumentale, insomma il pericolo di annoiarsi potrebbe celarsi dietro l'angolo, ma il trio deve aver evidentemente ponderato il rischio. Purtroppo per loro non avevano valutato il fatto che 'The Fourth Moon', quarta uscita per la band, cadesse tra le grinfie del recensore sbagliato, quello che non ama particolarmente i dischi senza una voce a guidarne l'ascolto. E allora vediamo se i nostri sapranno soppiantare questa carenza con altre armi efficaci. Che dire, il disco si apre con il roboante rifferama di "C35", puro stoner distorto quanto basta, che ad un certo punto cederà il passo ad atmosfere doomish su cui vanno ad incastonarsi schegge impazzite di chitarra, utilissime quanto l'ossigeno per un individuo la cui ipossiemia inizia a farsi sentire. L'heavy stoner del terzetto prosegue con il suo classico canovaccio nella successiva "Old Rats", e la mancanza di una voce in grado di modificare la monoliticità del suono diviene più evidente. Fortunatamente, i tre musicisti ci piazzano un orrorifico break atmosferico in cui, accanto a chitarre dal sapore noise, in sottofondo si percepisce anche un ipnotico giro di basso, prima di una sporca ridondanza ritmica che chiude il brano. Gradirei un urlaccio, devo ammetterlo, messo qua e là, giusto per farmi sentire un pizzico di umanità in più nel susseguirsi delle tracce. E invece la traccia si chiude con un poderoso riffing e si riapre con una porzione ritmica che sembrerebbe la medesima della precedente, proprio perchè manca un vocalist a fornire una differenziazione musicale con la sua timbrica vocale. E cosi sono alla terza "Crototon", ma potrei benissimo essere già alla conclusiva (decisamente più esplosiva) "Meteor 700", che manco me ne sono accorto. Mi spiace, perchè i nostri non sono degli sprovveduti a livello strumentale anzi, i deliziosi giochetti di chitarra a servizio della gagliarda ritmica, dimostrano una certa perizia tecnica eppure, arrivato alla title track decido di prendermi una pausa, un po' tediato dalla fin troppo lineare proposta musicale dei Prehistoric Pigs. Come mi aspettavo, i nostri non sono riusciti a toccarmi l'anima, nonostante i continui tentativi di cambi di tempo, la veemente proposta musicale, che non trovo tuttavia adeguatamente supportata a 360°. Per chi ama lo stoner strumentale, qui troverà pane per i suoi denti, per gli altri, non mi sento in tutta onestà di suggerire un album forse troppo settoriale. (Francesco Scarci)

martedì 14 dicembre 2021

Malota - The Uninvited Guest

#PER CHI AMA: Punk/Hard Rock
Dici Go Down Records, dici hard rock. Ormai il nome della label romagnola è diventata sinonimo di uscite in territori garage/desert/punk rock. E cosi non sono da meno questi veneziani Malota, che i più attenti ricorderanno per il loro EP omonimo uscito nel 2015, all'insegna dello stoner e il successivo 'Космонавт', più votato a sonorità doom/space rock, di cui francamente non ricordo dato che inizio a perdere neuroni a grappoli. Decido quindi di avvicinarmi ai nostri con tutta l'apertura mentale di cui dispongo. E cosi fra le mani mi ritrovo questo 'The Uninvited Guest' che ci prende a sportellate con il suo selvaggio e sfrenato mix tra hard rock, punk e noise, come suggerito peraltro dal flyer informativo dell'etichetta. E il punk in effetti lo ritroviamo già nei primi secondi dell'opener "Lampedusa", quasi una sorta di tributo ai Sex Pistols, prima di virare verso sonorità ben più robuste. Ma sarà in realtà un'alternanza tra i due generi che si esplica attraverso svariati cambi vocali in concomitanza del genere proposto, che troverà un terzo e più ipnotico cambio sul finire del brano. Più ritmata "Anti-social" con il suo mood di motorhediana memoria, che a me non fa proprio scapicollare, ma che per una serata di pogo sotto il palco potrebbe anche essere efficace, giusto per scaricare un bel po' di adrenalina accumulata in questi mesi. Molto interessante "Ministers of Fear", con quella sua apertura un po' più sperimentale, quasi di scuola System of a Down, che s'intervalla con sgroppate più feroci ma sempre molto orecchiabili, decisamente il mio pezzo preferito di 'The Uninvited Guest', quello più originale di sicuro. Si, perchè con la successiva "The Queen, the Lady" si torna a respirare quel mix musicale, ormai marchio di fabbrica dei nostri, fatto di punk e hard rock. La chiusura del dischetto è affidata alla title track, una song che mostra invece un lato più post grunge dei Malota (chissà perchè mi sono venuti in mente gli Stone Temple Pilots ascoltandola) tenuto sin qui in soffitta, rivelandosi qui dritti, un po' acidi, ammiccanti ma sempre assai graffianti, anche laddove forse la band finisce per incartarsi a livello ritmico. Alla fine 'The Uninvited Guest' non è affatto male, certo non un disco da grammy ma un lavoro che si lascia comunque piacevolmente ascoltare. (Francesco Scarci)

lunedì 26 luglio 2021

Not Movin LTD - Live in the Eighties

#PER CHI AMA: Garage Rock
Premessa all'ascolto di questo 'Live in the Eighties': se siete alla ricerca di suoni puliti e cristallini, questo non è il disco adatto a voi. Quello dei Not Moving, band garage rock piacentina in giro negli anni '80, tra le cui fila vi era quel 'Dome La Muerte', che abbiamo recensito qualche mese fa su queste stesse pagine, è un lavoro che comprende una serie di brani live risalenti al periodo 1985-88, e pubblicati nel 2005 dalla Go Down Records (il lavoro all'epoca includeva peraltro un dvd, oggi scaricabile dal sito della label stessa). Oggi, l'etichetta italica ristampa quel lavoro di una band riformatasi un paio d'anni fa con un moniker leggermente modificato in Not Movin LTD. Cosi, per rendere tributo alla band, ecco fare un tuffo nel passato per assaporare quei 13 brani che vedevano peraltro i nostri proporre anche "Break on Through" dei The Doors, l'inedita "Kissin Cousins" di Elvis Presley, "I Just Wanna Make Love to You" di Willie Dixon e "Cocksucker Blues" dei The Rolling Stones, giusto per inquadrare una proposta musicale che ora sarà molto molto più chiara. Ho parlato di garage rock all'inizio ma quanto contenuto qui è solo terremotante puro rock'n roll, registrazione pessima inclusa e stacchi tra un pezzo e l'altro che evidenziano come i brani siano stati estrapolati da più concerti, un peccato veniale quest'ultimo. Per il resto lasciarsi investire dal vibrante punk rock dei Not Movin LTD è l'unica raccomandazione che mi sento di darvi oggi, cosi come farsi ammaliare dalle voci di Rita 'Lilith' Oberti, una che potrebbe aver influenzato l’ugula istrionica di Pina Kollars dei Thee Maldoror Kollective di 'Knownothingism'. I brani sono tutti carichi di adrenalina, ma se dovessi scegliere i miei preferiti, direi la psichedelica "Sweet Beat Angel" e l'altra inedita "No Friend of Mine", un pezzo che potrebbe evocare un che dei Metallica del periodo 'Black Album' (un similare approccio è udibile anche nei primi secondi di "Catman"). Echi doorsiani emergono nella psicotica "I Stopped Yawning", mentre "Goin' Down" sembra essere un inno al punk. Insomma, una bella carrellata di pezzi che ci mostrano un pezzo di storia che per la maggior parte di noi è verosimilmente rimasta oscura. (Francesco Scarci)

La Go Down Records ristampa una gemma fonografica che aveva già pubblicato nel 2005, ovvero questo splendido 'Live in the Eighties' dei Not Moving, band che infiammò tra il 1981 e il 1988 i palcoscenici italiani e non solo con delle esibizioni dal vivo a dir poco devastanti. Il disco è la conferma della loro forza scenica che si esprimeva tra garage rock, post punk, punk, psychobilly e psichedelia ottimamente miscelati tra loro. Una band apprezzata anche da personaggi internazionali del calibro di Jello Biafra e John Peel, capitanata fin dagli esordi dalla splendida figura e voce di Lilith (Rita Oberti) e a ruota dalla chitarra di Dome la Muerte (Domenico Petrosino), un progetto che sfociò in una serie di concerti come spalla di veri autentici miti come Johnny Thunders o Joe Strummer e che diede vita ad una serie di album tra full length ed EP che sono divenuti leggendari nel cicuito underground. Il disco in questione nel formato del 2005 era accompagnato da un DVD ma nella ristampa odierna è solo cd e versione digitale (ma comunque si può visionare e scaricare tramite il sito dell'etichetta), ed è un peccato non poter riappropriarsi visivamente di  quelle performance diaboliche, riascoltare le cover riadattate di "Break On Through" dei The Doors o "Cocksucker Blues" dei Rolling Stones, assieme alle altre di Willie Dixon ed Elvis Presley, con il selvaggio rintocco delle note suonate come solo i Not Moving sapevano fare in quel periodo nel bel paese. Quest'album non rende giustizia al suono della band come qualità sonora, anche se l'audio è più che onorevole, ma la innalza a repertorio cultural-musicale che ha fatto storia, il fissare un momento nel tempo che oggi più che mai ha la funzione di portare in alto una band che nel panorama underground italiano, a cavallo degli anni '80, fece scuola e deve essere ricordata e riscoperta da tutti gli appassionati di musica alternativa del bel paese. La band portava il nome di un brano dei DNA di Arto Lindsay, rincorreva le forme artistiche di The Cramps e l'avanguardia di Lydia Lunch, una meteora sonora nata dal nulla nella sconosciuta provincia piacentina che scrisse delle pagine di rock sotterraneo a dir poco esaltanti. (Bob Stoner)

martedì 20 luglio 2021

Hellamor / Red Stone Chapel - Major League Heavy-Rock

#PER CHI AMA: Stoner/Southern Rock
Si dice che l'unione fa la forza. Il fatto che le due band teutoniche, Hellamor e Red Stone Chapel, oltre a condividere più volte il palco, abbiano deciso di far uscire uno split album insieme, potrebbe fare al caso nostro per testimoniare quel detto iniziale, vedremo. Quattro pezzi per entrambe le band per dimostrare di che pasta sono fatte queste due realtà che francamente non conoscevo prima di oggi. Si parte dagli Hellamor, band originaria di Heidelberg, con all'attivo un full length, tre EP e ora anche questo split. La proposta dei nostri è un stoner sludge, come certificato dall'opener "Fallen Saint", un pezzo che evidenzia i pochi punti di forza nei nostri in un riffing compatto (sostenuto dalla voce piattina di Ralf) ma troppo ridondante nei suoi giri di chitarra che dopo tre minuti avrebbe potuto anche terminare li e invece prosegue per successivi tre min e 40. I richiami a Cathedral, Black Label Society ma pure ad altri alfieri della scuola heavy thrash (forse i Pantera?), sono più che evidenti soprattutto nella seconda e più psichedelica "Hourglass", ma non parliamo di certo di miracolo musicale. "I Can Hear It" infatti non fa che confermare l'attitudine rock'n roll dei nostri, che palesemente non s'inventano nulla di nuovo, ma anzi sembrano chiamare in causa a livello ritmico, i Metallica di 'Load', in una sorta di proposta garage rock da sbadigli. Ci riprovano con la più ritmata "Never Taught Me", un pezzo più sporco e forse per questo più vero. Andiamo avanti per capire se i Red Stone Chapel possono essere in grado di rovesciare l'esito di questo claudicante 'Major League Heavy-Rock'. A differenza dei primi, la band di Marburg sembra ammiccare in "The Paper King, ad un sound più southern rock, parecchio esaltante quando il sestetto decide di pestare sull'acceleratore. Qui i nostri diventano ben più convincenti dei loro compagni di avventura, sfoderando una voce rabbiosa dotata di maggiore carisma rispetto a quella di Ralf degli Hellamor e anche il sound si fa più ruvido e cattivo (vuoi forse per la presenza di ben tre chitarristi). La prova è sin da subito decisamente più convincente anche alla luce di un cambio nei tempi, stile ed atmosfera. E la cosa viene confermata fortunatamente anche dalla stravagante blues rock song intitolata "Progress in Work", che palesa per lo meno quanto sia grossa la personalità di questi tizi e quanto siano altrettanto grosse le palle di questi omoni nel mettere in musica la loro proposta spaghetti western tra vocalizzi psicotici, riff pesanti e begli assoli. La band non si ferma qui, visto che in "Genius Junction", registrata live al Subkultur di Hannover, ci spara in faccia un hard rock bello robusto che ha comunque il pregio di delineare la potenza espressa dal vivo dai nostri. Anche la conclusiva "Thieves in the Attic" è stata registrata nella medesima sede e ci mostra, sebbene tutti i limiti del caso legati ad una registrazione che forse non rende giustizia, una band comunque interessante sotto molteplici aspetti, trasudante groove dai ogni poro, grazie ad un sound cosi coinvolgente da scomodarmi per intensità un paragone con "She Sells Sanctuary" dei The Cult. Alla fine della fiera, avevo ragione, l'unione fa la forza visto che gli Hellamor li avrei schiantati al suolo se non ci fossero stati i Red Stone Chapel a salvare le loro pelli o palle che siano. Uno split che rende giustizia al nome dei Red Stone Chapel, la vera scoperta di quest'oggi. (Francesco Scarci)

sabato 8 maggio 2021

Yawning Man – Live At Maximum Festival (reissue)

#PER CHI AMA: Psych Rock
«Gli Yawning Man erano la desert band più assurda di tutti i tempi. Ti bastava essere lassù, nel deserto, con tutti gli altri a divertirti. Ed apparivano loro, sul loro furgone, tiravano fuori la loro roba e la montavano proprio nell'ora in cui il sole calava, attivavano i generatori [...] Era tutto molto alterato, confuso, era tutto molto mistico. La gente stava lì a sballarsi, e loro continuavano a suonare per ore. Oh, sono la più grande band che abbia mai visto» Firmato Brant Bjork (2002). Mario Lalli è uno di quei musicisti la cui influenza sulla scena che ha contribuito a creare, è di gran lunga più grande del successo o della riconoscibilità della sua figura verso il grande pubblico. E se oggi più o meno tutti sanno chi sia Josh Homme, e molti altri conoscono John Garcia, Brant Bjork e Nick Olivieri, quello di Mario Lalli è rimasto un nome di culto. Un culto fedele e devoto, certo, ma che mai ha nemmeno sfiorato la popolarità degli altri alfieri del cosiddetto “Desert rock”. E se la sua creatura degli anni '90, i Fatso Jetson, ha raccolto consensi sfruttando l’onda lunga del successo di Kyuss e QOTSA, la storia degli Yawning Man rimane ancora parzialmente non scritta, complice il fatto che, pur avendo praticamente inventato il genere negli anni '80, la loro prima registrazione ufficiale è datata 2005. E ora la Go Down Records ci offre questa reissue di una loro esibizione live in Italia del 2013, che ben fotografa il loro rock, rigorosamente strumentale, tonante ed ipnotico, caratterizzato da lunghe cavalcate desert-psych in cui il basso di Lalli la fa da padrone, magnificamente supportato dal potente drumming di Alfredo Hernandez e dalla chitarra di Gary Arce. Il suono del trio si caratterizza per un bilanciamento quasi paritetico dei ruoli, senza che nessuno alla fine risulti preponderante, e risulta evidente come una proposta del genere, che oggi non stupisce più di tanto, possa aver smosso (ed espanso) le coscienze di chiunque abbia assistito ad un loro show nel deserto negli anni '80. La dimensione live è sicuramente quella ideale per apprezzare gli Yawning Man in tutto il loro spessore, e in questo il disco centra sicuramente l’obiettivo. Rimane il fatto che un concerto del genere, spogliato della sua dimensione esperienziale, risulta inevitabilmente monco, ma questa è un’altra storia. (Mauro Catena)

lunedì 15 marzo 2021

OJM - Live at Rocket Club

#PER CHI AMA: Stoner/Garage Rock
Gli OJM non hanno bisogno di presentazioni, essendo una delle band di culto negli ambienti stoner rock e nella psichedelia, e avendo una carriera alle spalle notevole con svariate release e performance che li hanno resi popolari in tutta Europa ed anche oltreoceano. La band vanta tour e collaborazioni importanti con artisti del calibro di Brant Bjork o Paul Chain e numerosi concerti assieme a band di fama internazionale. La compagine trevigiana è entrata di diritto nell'olimpo dello stoner rock del vecchio continente partendo dalla gavetta e sudando note da tutti i pori, mangiando pane e distorsioni fuzz per tanto tempo, coltivando il rito dell'esibizione live, credendo in essa come nella massima espressione del rock'n'roll, che doveva essere esplosiva, trascinante, acida, proprio come nella loro formula musicale. Quindi la Go Down Records, in collaborazione con la Vincebus Eruptum, decidono in questo 2021, a 10 anni di distanza da quell'evento, di dare alle stampe, in edizione limitata in vinile di sole 300 copie, l'intero live degli OJM al Rocket Club di Landshut, in Germania, donando ai fans della band un'occasione in più per riassaporare la grande energia, sprigionata sul palco e catturata da Martin Pollner nel lontano 2011, nel tour dell'ultimo studio album intitolato, 'Volcano'. L'act italico non si è mai sciolto, si è semplicemente preso una lunga pausa e questo disco ci delizia e accompagna, dopo tanto tempo di latitanza, nella riscoperta di un combo compatto, lisergico e allucinato, che traeva spunto dal garage dei The Fleshstones, quanto al mito degli Mc5, che osavano rivendicare una vena altamente psichedelica, riproponendo "Hush" dei primi Deep Purple, suonando ruvido e sporco come i primi Mudhoney. L'album si fregia della presenza di piano bass e organo elettrico, suonati da Stefano Paski, che risaltano il ricercato suono vintage, mentre il resto degli strumenti sputano fuoco e fiamme per una prestazione assai calda e sanguigna. Il solo difetto di questo disco, a mio parere, sta nella qualità che si avvicina più ad un buon bootleg live vecchio stile ponendosi pertanto inferiore alla qualità del precedente 'Live in France' del 2008 (prodotto da Michael Davis – Mc5), pur risultando essere un'ottima fotografia dell'ultimo periodo del gruppo, con molti brani estratti da 'Volcano' e, oltre alla già citata cover dei Deep Purple, con brani tratti dal precedente album in studio, 'Under the Thunder'. Un disco che farà la felicità dei fans degli OJM e del loro sound, averlo sarà un buon pretesto per completare la loro discografia oppure, per chi se li fosse persi fino ad ora, un ottimo motivo per scoprirli in tutta la loro irruente energia live. Un nuovo disco dal vivo che ci porta alla riscoperta di una grande band, stimata da molti musicisti di livello internazionale. (Bob Stoner)

venerdì 26 febbraio 2021

Shame on Youth! - Human Obsolescence

#PER CHI AMA: Punk/Garage Rock
Spaccano di brutto questi Shame On Youth!, quartetto originario di Bolzano che mette il punto esclamativo non solo alla fine del proprio monicker ma anche della propria performance sonora. 'Human Obsolesence' è il loro debut a cinque anni dalla loro fondazione, un disco che miscela alla grande punk hardcore con il garage rock, il tutto certificato già dall'opener "Got No Choice" che irrompe in tutta la sua frenesia punk rock senza rinunciare a bordate stoner e che prosegue anche nelle ritmiche fortificate della successiva "The Show Must Go Wrong". Contraddistinta da una bella carica di groove nei suoi giri fuzzati di chitarra e nelle elucubrazioni del basso, si presenta anche con quei chorus che invitano a lanciarsi in un pogo infernale. Le due asce non si sono certo dimenticati di come si facciano gli assoli, brevi, efficaci nel loro stamparsi nel cervello e dal classico taglio heavy rock. "Seed" ha un intro poco rassicurante, per poi lanciarsi in una cavalcata tesa ed incazzata che invoglia solo un headbanging frenetico, di quelli che ti aggiustano la cervicale, a meno che non ve la rompiate prima durante una danza ipercinetica. Ma la traccia rallenta pure, s'incunea in versanti dark, per poi ripartire di slancio ancor più rabbiosa negli ultimi 45 secondi dove i nostri vi faranno vedere i sorci verdi. E si prosegue sulla falsariga anche nella successiva "Mr. Crasher", più lineare e meno convincente a mio avviso, quasi che l'effetto sorpresa si sia esaurito con la precedente 'Seed'. E allora avanti con più curiosità per ascoltare "A Bunch of Crap (I Don't Care About)" e sperare di essersi sbagliati. Nel suo chorus iniziale mi ricorda un coretto di un vecchio disco dei Rostok Vampires, poi la canzone ha un piglio più old style che sembra depotenziare quella verve micidiale dei primi pezzi. Il basso velenoso di Matteo Cova apre "Uniform", un pezzo quasi hardcore, dotato di una pesantissima linea di chitarra che unita a quel cantato rabbioso opera di tre ugole, la rendono forse il brano più efferato del platter. "Fluke of Faith" è un breve inno al punk, cosi come "Premium 9,99", punk rock'n roll sufficiente per farci fare gli ultimi salti prima della conclusione affidata a "Demons are Right". La song, all'insegna di un ruvido garage rock, ci regala gli ultimi imprevedibili giri di orologio di 'Human Obsolesence', un buon biglietto da visita dei nostri italici portatori di vergogna. (Francesco Scarci)

martedì 3 novembre 2020

Jahbulong - Eclectic Poison Tones

#PER CHI AMA: Doom/Stoner
Per le mani oggi abbiamo un altro proiettile in canna per la GoDown Records, che questa volta tira fuori dal cilindro un promettente gruppo al suo battesimo nelle acque del fiume Stoner. Stiamo parlando dei Jahbulong, che si presentano sulle scene con questo primo full-length, in uscita proprio in questi giorni, mentre sto scrivendo. Dopo qualche pubblicazione negli anni precedenti, un primo EP d’esordio e uno split condiviso con i concittadini Mongoose, la band veronese pubblica il singolo anticipatore "Under the Influence of the Fool" e, a rimorchio, 'Eclectic Poison Tones'. Si compone di soli quattro brani, lunghi e catatonici. Eterni sospiri che accentuano il tetro lamento proveniente da una quinta dimensione, quella del fuzz. "Under the Influence" è un’apertura in stile pienamente “Electric Funeral”, che ci spara in orbita con le sue distorsioni sabbathiane, in continuo crescendo fino all’esplosione finale. Da qui le note fluiscono lente nella successiva "The Tower of the Broken Bones": i tempi si dilatano enormemente già dai primi riff di questa “doom-ballad”, che può fregiarsi anche di numerosi rimandi seattliani nella sua inesorabile progressione verso l’abisso. L’oscura "The Eclipse of the Empress" invece, si avviluppa senza via di fuga attorno ad un lisergico tema che si trascina per tutti i suoi nove minuti, fra assoli psichedelici e distanti riverberi. La conclusione la porta "The Eremite Tired Out (Sweed Dreams)", l’ultima suite, quella dalla durata maggiore, la più allucinata. Dal funereo doom più distorto la spirale si apre su vibrazioni acide, scandite da interminabili pause e silenzi. Il sound minimale della formazione scaligera senza dubbio porta con sé il filone acid-psych anni '70, oltre a vari spunti dal grunge '90s, fino alle distorsioni doom più pesanti. L’impronta del binomio Sabbath – Electric Wizard resta comunque la più evidente sulle tenebrose e disorientanti sfumature di questo disco, attraverso cui il power-trio traspone con decisione la sua idea di musica. (Emanuele ‘Norum’ Marchesoni)

(GoDown Records - 2020)
Voto: 78

https://www.facebook.com/JAHBULONG/

giovedì 22 ottobre 2020

Mad Dogs - We Are Ready To Testify

#PER CHI AMA: Hard Rock
Non è facile evitare di cadere in certi pregiudizi o clichè da trito e ri-trito, se nell’Anno Domini 2020 ci troviamo per le mani un disco hard rock. Ma bisogna pur ammettere che si avverte, eccome, quando le corde sono fatte vibrare con il cuore e con passione. O quando a prevalere über-alles è la trascinante carica di certe schitarrate, che ti obbligano a scuotere la testa, senza un preciso motivo. Lo fai e basta. Questa nuova uscita per la Go Down Records, nonché terzo album in studio per i Mad Dogs, racchiude appieno il rock’n’roll sanguigno e genuino della band, senza mezze misure. Di derivazione spiccatamente seventies, ma con un’energia affilata e straripante. L’opener del disco, “Leave Your Mark On What You Do”, si presenta già con un richiamo Zeppeliniano negli stacchi di batteria iniziali. Semplice riscaldamento muscolare prima delle folli cavalcate che ci attendono, scandite da una raffica di groove: reminiscenze australiane in questa direzione, ma senza scomodare Bon Scott e compagni una volta tanto. Citiamo piuttosto le influenze dei Radio Birdman per affinità (con i cui componenti tra l’altro, i Mad Dogs hanno condiviso il palco). Siamo a bordo ormai, su questa locomotiva che corre all’impazzata: i rockers marchigiani non cedono di un beat e si prosegue a tutta birra. Le sei corde sono letteralmente “on fire” e senza tregua danno vita a riff diretti e travolgenti ed assoli irrefrenabili. Bad Religion e MC5, saltellando freneticamente tra garage rock e street punk, poi una rapida apparizione delle tastiere nella title-track, ma sempre e comunque guidati dallo stesso filo conduttore, unico vero e proprio credo: il Rock. Anticipato dall’uscita di tre singoli ("Not Waiting", "Hard Fight" e "Postcard From Nowhere"), 'We Are Ready To Testify' è la consacrazione del rock’n’roll secondo la visione della band italica e allo stesso tempo ne incarna appieno il messaggio. Si respira a pieni polmoni la devozione che i nostri hanno da sempre dedicato alla loro vera fede. E non si può che apprezzare la semplice caparbietà con cui scelgono di imboccare questa strada: testa bassa, pochi giri di parole e qui si suona sul serio. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(GoDown Records - 2020)
Voto: 78

https://www.facebook.com/maddogsrnr/

lunedì 21 settembre 2020

Bleeding Eyes - Golgotha

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
La trasformazione dei Bleeding Eyes è ormai completa e ci mostra una band in una splendida forma decadente e buia, dal forte sapore poetico e dal suono asfissiante, concentrata in territori funerei tra sludge e doom metal. La loro nuova opera, 'Golgotha', è marcata da un'importante presenza vocale che caratterizza oggi più che mai il risultato sonoro, non solo per la capacità canora, che rincorre gli stilemi del genere, ma per le sue proprietà espressive che, con lunghissimi testi apocalittici cantati in italiano, superano ogni aspettativa artistica, proiettando l'esperta band di Montebelluna in una dimensione propria assai originale. Dimensione che in "1418", un bel pezzo sulfureo e potente cantato in inglese (lingua prevalentemente usata per i primi quattro album), rischia di sfigurare di fronte alla magniloquenza mostrata negli altri brani cantati in italiano. Il salmodiare del canto, unito alla ricerca nera delle melodie, che si muovono tra chiaroscuri potenti ed infernali, inoltrano l'ascoltatore in un pozzo senza fine, diabolico ed infinito. Sono pochi gli album cantati in lingua italica che si lasciano apprezzare come questo nuovo full length del combo veneto, intitolato a fondata ragione, 'Golgotha'. Dicevamo che la metamorfosi è ora completa ed il fatto che per la prima volta nella discografia dei Bleeding Eyes, i brani in lingua madre siano in numero maggiore rispetto a quelli in inglese, è un segnale di forte emancipazione. I suoni sono sporchi, macabri e sinistri, non vi è luce nemmeno nell'arpeggio apripista del singolo "Confesso", che non lascia speranze tra le parole di un disco che trasuda macabro esistenzialismo da tutti i pori, per una traccia killer di oltre otto minuti. Traccia che parla del rapporto uomo e ira divina, dolore, morte e mancata redenzione. Le atmosfere lugubri ricordano il side project di Lee Dorian, Teeth of Lions Rule the Divine, per la loro ruvidezza e sofferta esternazione, il contraltare sludge alla decadenza black metal dei Forgotten Tomb, una sorta di Massimo Volume in salsa hardcore stile RFT, rinchiusi tra inquietanti e mastodontici riff diabolici, dove il diavolo s'impadronisce del linguaggio messianico per predicare una visione di morte imminente. La band trevigiana sfodera un album al fulmicotone con i controfiocchi, visionario, violento e abrasivo quanto basta, in tutta la sua durata. Brano dopo brano, il veleno si mostra in tutta la sua forza, con stile e sapienza, una svolta che eleva il quintetto italico ad un piano dimensionale superiore e si fa amare sempre più, nota dopo nota, per quel cantato in lingua originale ed il potere evocativo ed angosciante dei testi. In questo lavoro licenziato dalla GoDown Records, la poesia dell'apocalisse incontra la musica del destino, in un calderone di devastante cupa emotività. Un piccolo gioiello di poesia doom dalle immense potenzialità. Musica tesa, esistenziale, depressiva, dai toni biblici e catastrofici, un mix originale per un disco che solleva la sorte della scena sotterranea, estrema nazionale. (Bob Stoner)

sabato 27 giugno 2020

Mother Island - Motel Rooms

#PER CHI AMA: Indie/Surf Rock
Uscito esclusivamente in vinile, "Motel Rooms" è il terzo album dei vicentini Mother Island, entità al sottoscritto completamente sconosciuta, complice un genere che non bazzico poi cosi di frequente. Stiamo parlando di un psych rock sensuale e dalle tinte western, che ha saputo conquistare anche la mia anima estrema. Mi sono messo comodo, rilassato, fatto partire il disco senza essere troppo prevenuto nei suoi suoni e via "Till The Morning Comes", con la voce femminile della frontwoman Anita Formilan a farmi da guida, le calde melodie avvolgenti e quelle atmosfere psichedeliche che ci riportano a fumosi party in terra statunitense di fine anni '60. Queste le immagini che mi sovvengono ascoltando l'apertura di questo lavoro dai suoni sicuramente vintage (la cui definizione stilistica orbita in realtà dalle parti del jangle pop), ma comunque traslati in un contesto attuale più ricercato e dal risultato sicuramente piacevole. Più movimentata la seconda "Eyes Of Shadow", che mantiene intatto quello spirito surf rock "made in USA", già ampiamente apprezzato nell'opening track che di sicuro mai mi farebbe collocare le origini di questa band nelle lande venete. Detto questo, proseguo nel mio ascolto del disco, facendomi sedurre dalle melodie di "And We’re Shining", cosi come dalla vena prettamente seventies di "Summer Glow", un brano un po' più deboluccio rispetto ai precenti episodi dell'album. "We All Seem To Fall To Pieces Alone" è una ballad country parecchio malinconica che mi ha evocato nell'utilizzo dei fiati, certe cose sperimentali degli *Shels (ma anche una certa vena morriconiana), riproposti in una chiave decisamente più soft. Ancora una manciata abbondante di brani, ove vi segnalerei l'inquieta "Santa Cruz" che nelle sue corde ha un che di proto-punk e la conclusiva e suadente "Lustful Lovers" che chiude con le sue note languide e lisergiche un disco che ascoltato cosi, d'emblée, senza conoscere i pregressi della band, me ne ha fatto apprezzare proposta e attitudine. Per ora lascio un giudizio su un disco senza conoscere la precedente discografia della band, spero solo di non dovermi rimangiare le parole in futuro. (Francesco Scarci)

(GoDown Records - 2020)
Voto: 69

https://www.facebook.com/Motherisland/

sabato 16 maggio 2020

VV. AA. - 2003-2020

#PER CHI AMA: Garage Rock/Punk
Lo dichiaro immediatamente, non amo le compilation dove sono inserite più band, uno strumento utile solo per le etichette per fare propaganda al proprio roster, noioso per chi come il sottoscritto, deve ascoltare alla rinfusa brani scelti a rappresentare in modo totalmente casuale e poco approfondito, le varie band incluse. Fatte la dovuta premesse, dirò anche che non è assolutamente mia intenzione fare un track by track, non ne avrebbe alcun senso considerato poi che molte delle 28 band incluse in questa carrellata infinita, sono già state recensite su queste stesse pagine con i rispettivi album. La Go Down Records per celebrare i 17 anni di vita (non poteva aspettare i 20, mi domando) ha pensato bene di rilasciare questo lavoro, che si apre col blues rock mellifluo degli Alice Tambourine Lover e con la delicata ugola della sua frontwoman. Poi a ruota, il garage rock degli Ananda Mida con un estratto da 'Cathodnatius', il surf rock dei Diplomatics e il desert rock dei Fatso Jetson. Il comun denominatore lo vedete pure voi, è solo uno, il rock appunto, in ogni sua forma e manifestazione, un genere di cui la Go Down Records ne è assoluta alfiere. E allora nella giostra di questa raccolta non potevano mancare le divagazioni prog jazz de Glincolti o il più robusto stoner degli Humulus. C'è un quantitativo esagerato di musica, tutti pezzi assai brevi per un'ideale abbuffata di musica di facile presa, rock'n roll, di che altro stiamo parlando altrimenti. E allora ecco l'acid rock dei Mother Island, freschi di un nuovo album in uscita (cosi come l'hard rock dei Beesus), il punk-rock dei The Morlocks, per divertirsi in leggerezza in poco meno di tre minuti, la psichedelia dei Vibravoid, o lo sludge dei Jahbulong e ancora, per identificare un mio pezzo preferito, "Raul" dei Maya Mountains, probabilmente la band, più delle altre, in grado di differenziarsi dal marasma sonoro qui contenuto, per un ascolto però alla fine, comunque distratto. Inutile dare un voto ad un simile prodotto, ne avrebbe francamente molto poco senso. Non posso far altro che augurarvi un buon ascolto. (Francesco Scarci)

Beesus - 3eesus

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
Le vie dello stoner sono infinite. Almeno così pare, osservando la prolifica scena underground del belpaese, in costante fermento ultimamente per quanto riguarda le ruvide sonorità fuzzate e le frequenze ultrabasse. La trasposizione del copione poi, può risultare anche altamente personalizzata, nel caso intervenga una sapiente lungimiranza dell’interprete. Ne sono un esempio i Beesus, gruppo laziale attivo da una decina di anni, che pubblica quest’anno il terzo LP. Dopo qualche burrascoso cambio di line-up occorso negli ultimi anni, la formazione si assesta sull’attuale essenziale power-trio. Non si può dire però che '3eesus' sia altrettanto essenziale. Abituata a sperimentare incessantemente per dare forma alle varie visioni allucinogene, la band capitolina riconferma la propria tendenza ad assimilare elementi delle più disparate provenienze, dal doom allo psych, fermandosi talvolta ad un “lo-fi-pit-stop”. Quello che forse traspare da quest’ultimo lavoro rispetto alle due precedenti uscite, è probabilmente il raggiungimento di una maggior compattezza e organizzazione sonora, per quanto possibile. Ci si scrolla di dosso qualche sporcatura punk da 'Sgt. Beesus… And The Lonely Ass Gangbang!' (2018), senza però perderne l’attitudine. Il primo impatto con “Reproach” è un vero pugno nello stomaco, con riff annichilenti da far tremare le interiora. Energia catalizzata in ritmo e potenza. Compaiono anche i primi cori ed intrecci a tre voci, come novità. Se pensate poi che non sia possibile sentire Melvins e The Doors in uno stesso brano, vi invito ad ascoltare “Sand for Lunch”. Uno dei più emblematici del disco sicuramente, dal titolo già di per sé evocativo. Ci troviamo inizialmente immersi in una tipica allucinazione morrisoniana, a sorvolare distese aride e desolate, per poi riscoprire nella seconda parte della track, le antiche tracce dei pionieri, quelli del già più riconoscibile Palm Desert. Se è vero che i Kyuss hanno interrato un seme estremamente vigoroso, è altrettanto vero che i germogli che crescono assumono le forme e le dimensioni più varie in assoluto. “Flags of the Sun” rappresenta un’altra dimostrazione di come il trio romano abbia concepito la propria impronta sonora per questo disco. Oltre alla viscerale sintesi dello stoner, qui si scorge qualche ispirato fraseggio dalle intenzioni blueseggianti. Le atmosfere psych sempre a fare da cornice, anche nella lisergica “Gondwana”. Forte anche di un’ottima produzione, più pulita e diretta, '3eesus' vanta l’interessante privilegio di essere stato registrato in presa diretta dal vivo. Pootchie (Guitars/Vocals), Johnny (Bass/Vocals) e Mudd (Drums/Vocals) hanno infatti avuto l’occasione di eseguirlo niente meno che al Monk Club, famoso locale da concerti della capitale. Questo grazie anche alla disponibilità di Giacomo Serri che ha reso possibile la realizzazione di questo notevole lavoro. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(More Fuzz Records/GoDown Records/New Sonic Records - 2020)
Voto: 77

https://beesus.bandcamp.com/album/3eesus

sabato 11 aprile 2020

Licantropy - Extrabiliante

#PER CHI AMA: Surf Rock'n' Roll
Storie di lupi e di lune, di metamorfosi e delirio, di fantasie e demoni squisitamente antropomorfi. Scritte e cantate dal diabolic-trio più diabolic del Triveneto, i Licantropy. Incise ad arte su un compact-disc e confezionate da un’iconica copertina, decisamente evocativa (devo ammettere che mi ha fatto sorridere a prima vista). Se pensate che un tale abstract, non possa riassumere un album simile rendendogli giustizia, beh avete certamente ragione. Non è compito facile raccontarvi con esattezza cosa si può trovare dentro questo disco. Niente paura, non vi ho per niente rovinato la sorpresa, anzi: quelle non mancano. Sempre in agguato dietro l’angolo, brano dopo brano. Dopo una ispanica intro ("Hispanic Wolf") a dipingere il background notturno in cui ci trasportiamo, veniamo investiti dall’impetuoso surf-rock’n’roll sanguigno e affamato dei Licantropy. Aggiungiamoci un pizzico d’influenza punk e una buona dose di psichedelia ammaestrata dagli organi e dai synths di Mr. “Royal Albert Wolf”. Ed eccoci servito. Due brani diretti e sparati come "Big Bad Affaire" e la licantropica "Pale Moon Light", ottimamente impiegabile come colonna sonora per una surfata al chiaro di luna, con i suoi notevoli fraseggi affidati all'Hammond guitar. E ancora, dopo le cavalcate a ritmo di rock della title-track (che contiene addirittura una sezione di scratching), arriviamo persino ad incontrare elementi progressivi: ad esempio in "Bite Me Wolf", con la sua struttura ritmica in continua evoluzione, seppur poco evidente ad un primo ascolto, o nella conclusiva "Coyote", perfetto brano da applausi finali. Dall’incalzante energia iniziale giungiamo, oso dire, ad una dilatazione in chiave stoner. Complessità strutturale, arrangiamenti da manuale ed un’altra abbondante dose di scratch per questo vero e proprio viaggio, verso la fine dell’incubo a luna piena, iniziato una decina di canzoni prima. La visione interpretativa personale di un rock’n’roll più oscuro e notturno, mi ha ricordato un’altra underground-band nostrana a cui sono piuttosto affezionato, gli Slick Steve & The Gangsters, seppur, sia chiaro, ci troviamo su due strade stilistiche abbastanza diverse. 'Extrabiliante' vede la luce come secondo album in studio dei Licantropy, che avevano esordito nel 2017 con 'We Were Wolves', un disco dalle sonorità molto più ruvide e scatenate. Il ritorno del trio composto da Tom Wolf (chitarra & voce), Luke Sky Wolfer (batteria & voce) e Royal Albert Wolf (organo & voce), vede un lavoro di canalizzazione di quella stessa energia in arrangiamenti molto ben studiati. Molta attenzione ai numerosi e ricercati dettagli, che emergono ascolto dopo ascolto: come dicevo, ricco di sorprese che non si raccontano, ma si devono ascoltare. Avvertenze: 'Extrabiliante' può causare irrefrenabile voglia di muovere la testa e battere i piedi a ritmo frenetico. Voluto omaggio al west di Costner 'Dances with Wolves'? (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

venerdì 27 marzo 2020

Maya Mountains - Era

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Kyuss, Ufomammut
Era da un bel po' di tempo che non sentivamo parlare dei Maya Mountains, ossia dal 2008 quando i nostri fecero uscire il loro debut, 'Hash and Pornography'. La band si è poi disunita, cosi presa dai molteplici progetti paralleli. A distanza di 12 anni e soprattutto dopo cinque anni spesi a buttar giù idee e riff, ecco che 'Era' vede finalmente la luce. La proposta del terzetto veneziano è un concentrato di stoner rock dai risvolti psichedelici che si srotola attraverso le 10 tracce contenute in questo Lp, raccontando la storia di tal Enrique Dominguez (il titolo della opening track) e il suo vagabondare interspaziale che lo condurrà in un deserto di un mondo sconosciuto dove, pungendosi con un cactus, finirà in uno stato di allucinazione tale da condurlo ad incontri particolari. Detto del concept che sta dietro ad 'Era', veniamo anche alla musica qui contenuta che si apre con la tribalità della già citata "Enrique Dominguez" e dei suoi effluvi ritmici che ci portano a sballarci già con i primi 120 secondi di brano, almeno fino a quando i vocalizzi filtrati di Alessandro Toffanello, faranno la loro comparsa. Il riffing è compatto, lento, ossessivo, con i classici rimandi a chi ha fatto la storia di questo genere, Kyuss e Black Sabbath in testa. La parte solistica è suggestiva e, mentre la chitarra di Emanuel Poletto tesse interessanti linee melodiche, è il basso di Alessandro a pulsare il proprio magnetismo in sottofondo. Il sound dei nostri s'ingrossa man mano che scorrono le tracce: "In the Shadow" e "San Saguaro" scorrono via che è una bellezza, soprattutto la seconda con quel suo chorus cosi coinvolgente. Più pachidermica invece "Dead City", che parte lenta e possente, per finire con un rifferama decisamente più nervoso. Il mio pezzo preferito del disco è però "Raul", con quelle linee di chitarra ipnotiche e profonde, avvolgenti fino quasi a stritolarci; l'unico neo di questa traccia è però il fatto che sia strumentale e sapete quanto alla fine mi pesi la mancanza di un vocalist, sebbene qui non sia particolarmente evidente la sua carenza. Ribadisco comunque che tutto il lavoro ha un suo fascino, dopo tutto se i Maya Mountains ci hanno impiegato 12 anni per rilasciare un disco, si auspica che l'impegno non sia stato del tutto vano. E in effetti da un punto di vista qualitativo, il prodotto è davvero buono; se devo muovere qualche appunto è che forse sia uscito un po' fuori tempo massimo per riscuotere il successo che verosimilmente meriterebbe, d'altro canto di gioielli in questo ambito ne sono stati rilasciati ormai parecchi ed aggiungere qualcosa di nuovo e coinvolgente, a mio avviso, rimane davvero complicato. Comunque tutti coloro che amano sonorità di questo tipo, pregne di rimandi seventies o che strizzano l'occhiolino a gente del calibro di Ufomammut, Monster Magnet e Melvins, sapranno apprezzare alla grandissima le esplorazioni fantascientifiche di 'Era'. (Francesco Scarci)

(GoDown Records - 2020)
Voto: 74

https://www.facebook.com/mayamountainsera/

venerdì 13 marzo 2020

The Roozalepres - S/t

#PER CHI AMA: Punk Rock
Dalla Toscana con furore mi verrebbe da dire, dopo aver ascoltato queste 12 fottute tracce dei The Roozalepres. Trentaquattro minuti di suoni punk rock lanciati a tutta forza. Cori accattivanti annessi ad assoli arroganti ("Rough'n'Roll Rooze 'Em All"), merce rara per il genere e non solo. "Come and Go" è una bella cavalcata punk che mi hanno evocato gli esordi dei Rostok Vampires e di quell'indimenticabile, almeno per il sottoscritto, 'Transilvania Disease'. Ancora chitarre velenose, melodie che inducono ad un bell'headbanging che a quest'età rischia ormai di procurarmi qualche problemino alla cervicale. Ma sapete che penso, me ne fotto e mi lascio trascinare dal sound di questo quartetto che, pur non inventando nulla di nuovo, assembla in quest'album omonimo un mare di influenze che smuovono anche sua maestà Glenn Danzig ai tempi dei Misfits, coniugando quindi dark, punk e rock'n roll, senza dimenticarsi qualche scorribanda in territori hardcore. Inutile stare qui a fare il classico track by track ed elencarvi peculiarità, pregi e difetti di ogni song, molto meglio lanciarsi allora in pogo sfrenato creato dal combo italico e cercare di dimenticare per una mezz'ora abbondante quel frastuono che ci circonda. Il punk rock dei The Roozalepres (ecco sul moniker avrei di che ridire) è sicuramente molto più rumoroso e divertente. Difficile identificare una song piuttosto di un'altra ma dovendo esprimere la mia opinione, devo dire di preferire la band su ritmiche più tirate come "Frankenstein Heart" o "Riding Cosmos", dove i nostri trasmettono grande energia, piuttosto che pezzi più mid-tempo come possono essere "Black Magic Killer" o "Mean Mean World", una song quest'ultima più Ramones oriented. Alla fine, mi sento di consigliare la fatica di quest'oggi a tutti gli amanti di questo genere di sonorità, poco impegnate e scavezzacollo. (Francesco Scarci)

(Go Down Records - 2020)
Voto: 69

https://www.latest.facebook.com/roozalepres

mercoledì 15 gennaio 2020

The Lu Silver String Band - Rock' n' Roll is Here to Stay

#PER CHI AMA: Rock'n'Roll, Status Quo
Il nuovo album della The Lu Silver String Band mantiene le promesse consegnando al mondo una manciata di brani incandescenti, suonati con passione ed esperienza, per una lunga carrellata nel mondo del rock, condito di soul e blues al fulmicotone. Niente fronzoli ma puro rock'n'roll d'altri tempi che attinge a piene mani dai classici suoni di Rolling Stones, Flamin' Groovies, Faces, Tom Petty e Status Quo, per regalarci un gioiellino super divertente da ascoltare, che fila liscio e punta adrenalinico al nostro lato più selvaggio e ribelle. Dieci brani suonati perfettamente e prodotti in maniera esemplare, ridanno vita ad un'epoca speciale, tra polvere di strada, pub, saloon, auto americane, moto e vita spericolata. Con due cover ad effetto di Small Jacket ("No More Time") e Stevie Wright ("Hard Road"), 'Rock' n' Roll is Here to Stay' ha poi da offrire un piano e chitarre bollenti, una batteria dal suono fantastico e coretti sparsi qua e là alla maniera del southern rock, ballate e bruciante rock'n'roll. Lu Silver & Co. ritorna cosi a svegliare le anime assopite con il suo tocco di classic rock dalle forme perfette, piacevole all'ascolto, elettrizzante, mai pesante nè stantio, energico, come lo era 'The Southern Harmony and Musical Companion' dei micidiali The Black Crows all'epoca. Un album dai marcati riscontri temporali, che attinge alle memorie eterne del rock, tanto vintage e per nulla innovativo ma che fa esplodere una bomba sonora che funziona da decenni. Niente di nuovo ma tanto di buono, meraviglioso rock'n'roll, una miscela musicale che ci fa saltare dalla sedia, un intruglio sonico che con una sequenza di brani omogenea e coinvolgente, riesce a tenerci legati all'ascolto per l'intero disco. Splendida la ballata, "In a Broken Dream", con la voce di Lu a ritagliarsi un posto d'onore assoluto, per bellezza, calore e profondità profuse. Ascolto obbligato per gli amanti del rock con R maiuscola e la V maiuscola di vintage nel cuore. (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 75

https://www.facebook.com/lusilverandstringband

domenica 15 settembre 2019

Virtual Time – a.gò.gi.ca

#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative
Devo confessare che ci ho messo un po' di ascolti per comprendere il nuovo album (uscito per la GoDown Records) di questa band veneta, i Virtual Time, le cui uscite precedenti non mi avevano entusiasmato più di tanto e per cui nutrivo forti dubbi e perplessità anche a riguardo di una loro nuova release. Dubbi e perplessità che sono svaniti dopo variegati ascolti di 'a.gò.ci.ca'. Valutando a fondo questo lavoro, si denota infatti una maturazione musicale enorme, le composizioni si arricchiscono, hanno più stile, sono più aperte e strutturate, lasciando trasparire un amore per il rock anni '70, quello più colto, complicato, cerebrale e sofisticato, Pink Floyd oriented per intenderci ed il rock dei grandi album concettuale dei The Who, il tutto, mescolato con abili mani ad aperture dal sapore alt country e sonorità moderne rubate a Muse e agli Arcade Fire. Ottima la commistione sonora, molto intrigante, che strizza l'occhio al buon ascolto e all'immediato, lasciando sempre trasparire una trama ben costruita ed un groove radicato e profondo, cosa che la verve sbarazzina di cui la la band si rivestiva nei dischi precedenti, riusciva a nascondere quasi del tutto. Dei bravi musicisti questi Virtual Time, che accantonano il voler divenire a tutti i costi una rock band modaiola, per salire di grado e presentare una manciata di brani adulti, originali, pieni di pathos e molto spesso dal sapore malinconico e visionario, talvolta anche intrisi di una solida base free rock molto avvincente. L'uso di parti elettroniche, rumori e suoni di fondo, l'eco della voce sullo stile dell'ultimo Springsteen, calano l'asso vincente, le aperture timbriche ariose ed esplosive alla maniera dei maestri canadesi, sciolgono l'anima in una catarsi vorticosa e sebbene il disco apra con un tempo truffaldino molto cool, ben presto ci si accorge di essere di fronte ad una suite sonora intensa e costruttiva. Un artwork di copertina assai intrigante, una produzione con i fiocchi ed un suono ricercato, una forma classica ma che si avvale di un sound fresco e moderno, con echi degli ultimi U2. Da sottolineare poi l'intensa prestazione vocale di Filippo Lorenzo Mocellin, che sfodera con grazia e vigore, le sue qualità canore sullo stile del buon vecchio prog rock di matrice '70 e l'interpretazione da navigata rockstar sempre a portata di nota. Dal lotto di brani si ergono a superstar, la perla oscura "Falling Away", la floydiana, contorta e sognante "Moonshadows", la psichedelica "She" ed il brano conclusivo dalla bella coda finale esplosiva, "Distant Shores". Un disco da gustare nota per nota, scoprirne il valore ed apprezzare una band che ha trovato il modo giusto di diventare adulta artisticamente, rinnovandosi, evolvendo in maniera originale. Ottimo disco! (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 72

http://www.virtualtimemusic.com/

lunedì 29 luglio 2019

Alice Tambourine Lover - Down Below

#PER CHI AMA: Psych Alternative Rock
Ottima nuova uscita per il duo bolognese degli Alice Tambourine Lover che, con un'apparente semplicità musicale, espressa attraverso chitarre cristalline e liquide, piccoli rintocchi ritmici ed una splendida voce femminile, vellutata, delicata e sognante, sfornano una perla sonora degna di lode. In una giornata strana, in attesa del temporale, mi appresto ad ascoltare questo 'Down Below', disco dalla copertina intrigante, dai colori vividi e psichedelici. Una psichedelia intima, vissuta, polverosa, sabbiosa, una calda estate ed un tramonto introspettivo che chiudono il giorno con un pizzico di nostalgia costruttiva. Ecco, questa è la giusta visione con cui inquadrare un disco completo, potrei dire quasi perfetto, carico di emotività ed esistenza liquida, un viaggio lisergico tra le note acustiche ed una manciata di soffici riff che colpiscono dritti al cuore. Senza dimenticare l'ambientazione Paisley Underground del contesto, il tocco alt country a stelle e strisce ed il rustico ruggito solitario alla Mark Lanegan, reso ancor più intenso dal bel duetto con il noto cantante, musicista e produttore, Dandy Brown (Hermano, Orquesta del Desierto, John Garcia) nella magnifica "Dance Away". Una registrazione ed un missaggio con i fiocchi a cura di Luca Tacconi ai Sotto il Mare Recording Studios, che rende omaggio all'America desertica e solitaria, attraverso un ampio set di strumenti, foot tambourine, armonica, resonator, dobro, percussioni varie, chitarre acustiche ed elettriche, in una sospensione eterea senza tempo che permette di viaggiare indisturbati tra un brano e l'altro, coi capelli al vento a bordo di una vecchia cabriolet yankee anni '50 per le polverose distese di campi americani. Otto brani ammalianti che toccano l'apice artistico del duo formato da Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli, senza mai scadere nella ripetitività e ricreando anzi una magia cristallina brano dopo brano. Complice l'ipnotica, delicata, suadente e spettrale voce di Alice, quanto poteva esserla quella di Kendra Smith in 'Empty Box Blues' dei mitici Opal qualche decennio fa, ci lasciamo trascinare dalle canzoni dei nostri in un vortice allucinogeno di grazia, libertà e sofisticato misticismo rock (ascoltatevi i capolavori "Follow" e "Into the Maze"), tutte composizioni dotate di un sound complesso, rarefatto e magico. Il grado di orecchiabilità dei brani è altissimo e mostra uno spessore artistico di tutto rispetto, una conoscenza del genere assai avanzata ed una padronanza della propria arte da far impallidire band molto più in voga nel panorama internazionale. Un disco bellissimo, un'opera che riempie l'anima, una nobile band da seguire ad occhi chiusi. (Bob Stoner)

domenica 14 luglio 2019

Glincolti – Terzo Occhio/Ad Occhi Aperti

#PER CHI AMA: Prog/Stoner/Indie
Passarono gli anni e finalmente venne il giorno per Glincolti della prova live e questo nuovo disco, sfornato dalla GoDown Records, ne è il risultato. Le registrazioni sono avvenute durante l'esibizione dal vivo presso il Labirinto della Masone il 3 agosto 2017, vicino a Parma e mostrano la band trevigiana ancora molto in forma. Nei quattro brani del lato A di questa edizione deluxe, il combo si esprime egregiamente indicando chiaramente come la dimensione live sia la più consona ad esprimere il loro sound rigidamente strumentale, fatto di stoner e desert rock, digressioni prog alla Omar Rodriguez Lopez group, free rock e bicchieri di tequila dal tramonto all'alba, per una musica coinvolgente, ben strutturata, ben eseguita e fantasiosa. Il tocco indie li eleva dallo status riduttivo di solita o normale prog band e la bravura dei musicisti fa in modo che il live sia piacevole e frizzante con una buona registrazione che avvalora tutti gli strumenti, un calore nel suono che fa tanto piacere all'ascolto. Per ampliare la proposta, nel lato B, troviamo pubblicati tre brani inediti, registrati durante le session dell'album 'Ad Occhi Aperti', con alcuni ospiti d'eccezione, Sara B (Messa), Jason Nearly (Mad Fellaz, Sonic Wolves) e Andrea F. a supportare queste composizioni che fin'ora non erano mai state liberate. In "Triporno" il suono ha il sapore ed il groove di certo funk/acid jazz anni '90 ma, a mio modesto parere, la voce di Sara, doveva essere trattata in maniera più soul e nera, manca il calore giusto ed anche se l'interpretazione è assai buona, risulta troppo fredda, frenando leggermente la verve del pezzo. "Ad Occhi Aperti" è in linea con tutti i pezzi del precedente album e non si capisce perchè sia stato estromesso, polveroso e avvolgente, la perfetta colonna sonora da immaginare in sella ad una motocicletta sulla mitica Route 66, una versione vellutata del geniale tocco dei Fatso Jetson. "Insonnia" è l'ultimo brano, un esperimento ritmico/rumorista dal gusto etnico che spiazza un po' e che sinceramente non mi ha soddisfatto molto, quasi tre minuti che risultano un po' forzati nel contesto. Alla fine rimangono un buon documento live e tre inediti per i fans di questa buona band che può (e deve) ancora dire e dare molto nel panorama musicale alternativo italiano. (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 68

https://www.facebook.com/GLINCOLTI/