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sabato 29 aprile 2023

Blind Ride - Paranoid-Critical Method

#PER CHI AMA: Garage Rock/Post Punk
Per Dalí, la rielaborazione razionale delle conseguenze della paranoia, ovvero le delusioni, le allucinazioni e il delirio, rappresentano il processo critico, concetto sul quale poggia la nascita del disco di debutto dei molisani Blind Ride, ‘Paranoid-Critical Method’, che esce tre anni dopo l’EP ‘Too Fast for a Sick Dog’ che ci aveva fatto conoscere la band italica. Ora il terzetto torna più in forma che mai con un sound scontroso ma atmosferico, pesante ma vellutato, il tutto certificato dall’apertura affidata a “Surrogate of a Dream” che mi conquista immediatamente con quella sua matrice ossessiva che sembra coniugare dissonante post punk e garage rock. Il post punk esplode forte anche nella successiva distorsiva “Relationship Goals”, un pezzo che per certi versi mi ha evocato lo spettro dei Fountains D.C. che vanta peraltro un fantastico lavoro alle chitarre nel finale. “For You” ci prende a schiaffi con un groviglio di riff marci quanto basta per catapultarci indietro nel tempo di una trentina d’anni (chi ha detto Sonic Youth?), con la voce di Marco Franceschelli a mandare a fare in culo il mondo intero. “Holy Arrogance” è un manifesto contro le guerre fatte in nome della religione, che si muove su una ritmica piuttosto lineare e che mostra un buon lavoro alle percussioni, al pari di quello delle chitarre. Con “Numbers” ci si muove nei paraggi di uno psych rock compassato, melodico ed ispirato, tale da renderla anche la mia traccia preferita del disco. È decisamente in questa veste più raffinata ed elegante che preferisco infatti i Blind Ride, anche se devo ammettere che il loro fare “arrogante” non mi dispiaccia affatto, come testimoniato nelle chitarre sghembe di “Corporate Rock” e nelle sue lugubri atmosfere dark punk di primi anni ’80. Una modalità che sembra ripetersi anche nella tribalità stoner psych rock di “Stranger to My Eyes”. A decretare la fine dei giochi ci pensa la frenesia pulsante acid rock della strumentale “A Song Without Words”, che sottolinea la capacità dei Blind Ride nel districarsi positivamente in territori musicali battuti e strabattuti. Bravi! (Francesco Scarci)

domenica 19 marzo 2023

Laika nello Spazio - Macerie

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post Hardcore
È giusto che sempre più persone sottolineino come il mondo stia andando a farsi fottere, siamo destinati all'estinzione lo sappiamo, e questo processo ha accelerato pericolosamente negli ultimi anni: prima il covid, poi la guerra e le catastrofi climatiche in ogni angolo del mondo. E i Laika nello Spazio, in questo nuovo capitolo della loro discografia, ne fanno cosi il loro manifesto, 'Macerie', ecco cosa rimarrà del nostro pianeta e la band originaria dell'hinterland milanese, non fa altro che ricordarcelo dalla traccia d'apertura in avanti, con un sound che prosegue coerentemente quel processo iniziato in 'Dalla Provincia', che già avevamo recensito su queste stesse pagine nel 2019. Il terzetto lombardo ci offre quindi uno spaccato della società odierna, quella frastornata e sfiancata "dalle polveri sottili, dalle isterie di massa, dalla falsa informazionme, dai virus e dal popolo sovrano coglione" ("Coprifuoco Definitivo" che mostra richiami ad un ipotetico ibrido tra Teatro degli Orrori e IN.SI.DIA), quella dei profughi e del femminicidio ("Reazione"), quella conformista narrata in "Schrödinger". Il tutto accompagnato poi da una proposta musicale che oscilla tra post-punk ed un oscuro post-hardcore, con la conferma di un trio a due bassi, voce e batteria (si, non ci sono chitarre, avete letto bene), mentre il cantato di Vittorio Capella continua ad evocare più di una certa similitudine con il frontman dei Massimo Volume, come già aveva evidenziato il buon Bob Stoner ai tempi di 'Dalla Provincia'. La musica dei nostri non è affatto male, presentando più di un qualche richiamo ai Marlene Kunz nella title track, cosi come pure echi stoner rock nella più intimista "Evento Sentinella", con quei bassi magnetici (scuola New Model Army) che s'intrecciano tra loro con una certa benevola efficacia. Ciò che fatico però a digerire è proprio il cantato di Vittorio, che nelle parti non narrate, mi pare stoni pericolosamente. Le liriche in italiano rischiano poi di relegare questa release entro i soli confini nazionali (il (para)culo dei Måneskin qui non è di casa), ma va bene cosi, gustiamoci a tutto volume e con i bassi del nostro stereo a manetta, mi raccomando, la nuova fatica dei Laika nello Spazio. (Francesco Scarci)

domenica 8 maggio 2022

Remote - The Great Bong of Buchenwald

#PER CHI AMA: Stoner/Doom
Buchenwald fu uno dei più importanti campi di concentramento e sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale, argomento non proprio simpatico in questo periodo storico. Tuttavia, la presente uscita si riferisce ad un album, 'The Great Bong of Buchenwald', rilasciato in realtà nel 2014 dalla Bad Road Records e ripreso lo scorso anno dall'Addicted Label per promuoverlo ad un pubblico ben più ampio, non ha nulla a che fare con il nazismo essendo focalizzato sull'uso delle droghe. Quello dei Remote, band originaria di Kaluga che da poco abbiamo recensito anche con la loro release 'The Gift', è infatti un altro disco rimasto nascosto nel cassetto e che propone, come già raccontato in precedenza, un mix ostico e corrosivo di sludge, psych e doom, che trova nel death l'unico punto di contatto grazie ad un growling vetriolico. Il trio comunque si diletta nel muoversi tra i generi sopraccitati con spunti più o meno interessanti che vedono nelle esplosioni chitarristiche o in assoli lisergici ("150"), forme più o meno indovinate della loro espressione musicale. Non mi avevano entusiasmato con 'The Gift', non lo fanno certo oggi, anche se devo ammettere che alla fine, ho apprezzato maggiormente questo lavoro rispetto a quello che sarà il successivo. Complice una serie di brani che i nostri mettono in fila con maggior convinzione, ossia l'allucinata "Doped" tra stoner e psichedelia, la successiva "Pandemonium", entrambe nel loro incedere, evocano un che degli americani Bongzilla e ovviamente degli Eyehategod che già avevo evidenziato in 'The Gift'. Per il resto, i nostri sono buoni mestieranti, che non hanno certo inventato l'acqua calda, ma che comunque sanno come mettere in fila tre note sensate, soprattutto nella conclusiva "Ashes to Ashes", ubriacante emblema desert stoner doom dei Remote. Ultima mezione con plauso, alle sempre meravigliose copertine dei dischi, oniriche. (Francesco Scarci)

(Bad Road Records/Addicted Label - 2014/2021)
Voto: 65

https://remote-band.bandcamp.com/album/the-great-bong-of-buchenwald

Transnadežnost' - Monomyth

#PER CHI AMA: Kraut Psych Rock
Visioni cosmico stroboscopiche per i Transnadežnost', band originaria di San Pietroburgo e dotata del nome verosimilmente più impronunciabile al mondo. Fatte le dovute premesse, perchè non domandatemi domani come si chiama questa band, non saprò rispondervi, andiamo a dare un ascolto a 'Monomyth', album di debutto uscito nel 2018 e dedito a sonorità space prog rock strumentali. Questo almeno quanto certificato dall'opener "Pacha Mama". La successiva "Ladoga" sembra infatti portarci in altri mondi, dilatati e lisergici, oscuri e magnetici, suonati peraltro con un certo spessore tecnico compositivo. Chiaro, poi manca una voce a guidarci nei meandri di questa release e per me spesso questo costituisce un problema, ma mi lascio comunque ammaliare dalle sonorità a tratti anche arrembanti che i nostri hanno da offrire nel loro sperimentalismo sonoro. Intanto si prosegue nella conoscenza della band russa e in "Kailash" si sconfina in suoni orientaleggianti che sembrano condurci a meditazioni mantriche di natura buddista, comunque inserite in un robusto contesto rock sofisticato dotato di una bella cavalcata finale. Quando accennavo agli sperimentalismi, ecco che "Star Child" mi viene in aiuto con un assolo di sax (che ritornerà anche nel finale) inserito in un atmosferico e seducente contesto musicale jazz/blues. "Huldra" sembra invece proseguire quel percorso psichedelico-meditativo-desertico messo in scena in "Kailash", con la sola deroga che qui troviamo finalmente una voce a prendersi la meritata scena. Certo, non proprio una performance memorabile, ma comunque accresce il tenore della proposta dei nostri. "Chewbacca" è un breve ma suggestivo pezzo prog rock (che mi ha peraltro evocato i Porcupine Tree) pronto ad introdurci a "Day/Night", il brano più lungo ma anche strutturato di 'Monomyth', quello in grado di combinare tutte le sfaccettature del quartetto russo, addizionate di una componente doom che ben s'incastra nelle allucinate derive stoner, kraut, tribal, prog, space, jazzy rock dei Transnadežnost' che vi ingloberanno in quest'ultimo ipnotico e delirante viaggio. (Francesco Scarci)

martedì 8 marzo 2022

Sound of Smoke - Tales

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
Ancora una volta mi piange il cuore nel sentire un buon lavoro che non mette in risalto tutte le sue reali possibilità, per un missaggio svolto in maniera poco incisiva, con poco mordente e non sempre efficace. Non è mia consuetudine criticare il difficile lavoro di chi sta dietro al suono di un disco, ma stavolta rimango allibito come una bella chitarra sia stata da più parti emarginata nel contesto musicale. Al suo secondo album (il primo aveva un suono già più hard!), i Sound of Smoke, esnemble originario di Friburgo, cercano una dimensione più fumosa e cupa, sfoderando un buon stile blues dal passo pesante e compatto. Hanno le carte in regola per suonare anche un ottimo rock dalle tinte vintage, anni '70 a tutto tondo, supportati dalla preziosa e splendida voce di Isabelle Bapté (che mi ricorda Emma Ruth Rundle in una veste più soul e più allucinogena), da una massiccia sezione ritmica e, come accennato in precedenza, da una chitarra bassa di volume, che a volte sarebbe bello sentire uscire dalle casse dello stereo, mentre la sua apparizione, è sempre inspiegabilmente tenuta in sordina. La band gira bene e mostra un buon feeling tra i musicisti e tralasciando qualche rischio di plagio (vedi "Witch Boogie" verso gli ZZ Top), si nota subito che la musica dei Sound of Smoke scorre che è un piacere. Il quartetto teutonico crea dalle ceneri degli inni di settantiana memoria, cimentandosi nella ricerca di originalità e riuscendoci in brani come "Indian Summer", dal fascino di scuola The Doors, cadenza ipnotica e ritmica profonda, cembalo, polvere, deserto e una gran prova vocale. In "Dreamin'" e "Devils Voice", i nostri potrebbero gareggiare con i Lucifer o Jess and the Ancient Ones, ma le chitarre sono miti e non sempre decollano, sopra una ritmica che suona trascinante come quella dei brani più orecchiabili degli ultimi the Jesus and the Mary Chain. In questi ultimi brani, effettivamente, le chitarre si prendono un po' più di spazio ed il sound risulta già più cosmico, e nella lunga suite finale, una canzone di oltre 10 minuti, si sente il potenziale stoner che in teoria dovrebbe accompagnare l'intero disco. Presumo che il tipo di equilibrio scelto tra i volumi degli strumenti sia stato voluto per aumentare l'effetto psichedelico del disco ma a mio modesto parere, devo dire che ha funzionato solo nelle parti più soft, rimanendo carente in quelle più heavy. Il disco ha una bella grafica di copertina e i Sound of Smoke hanno delle buone idee, anche se alle volte un po' abusate, la conclusiva "Human Salvation" mi ha molto colpito e la continuo ad immaginare con un pizzico di distorsione in più per deliziare le mie orecchie desertiche. Una band che ha del potenziale, una band che se focalizzerà al meglio la propria direzione sonora, potrà togliersi parecchie soddisfazioni in ambito psichedelico e vintage rock. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 73

https://soundofsmoke.bandcamp.com/

martedì 26 ottobre 2021

Glasgow Coma Scale - Sirens

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
La scena teutonica per cosi dire alternativa, sta crescendo ormai da un paio d'anni a vista d'occhio, sfornando band a destra e a manca. Gli ultimi di cui faccio conoscenza, ma non sono certo pivelli avendo quasi dieci anni di attività alle spalle, sono questi Glasgow Coma Scale, combo originario di Francoforte che con questo 'Sirens' mostra il proprio suggestivo mix di post rock e stoner. Peccato solo che si tratti di una proposta strumentale perchè le carte in regola per fare benissimo, c'erano tutte. Lo dimostrano le intimistiche sonorità dell'opener "Orion", che ammiccano nei suoi quasi otto minuti, ad uno space rock che potrebbe chiamare in causa un che degli Hawkwind, senza dimenticarsi di quelle partiture psichedeliche nel finale che ci conducono nei pressi di un sound di kyussiana memoria. Niente male, davvero. Peccato solo che il comparto vocale sia coperto da pochi secondi di spoken words. "Magik" parte in sordina, con un prog rock astrale seducente ma che necessita di quel quid per farla esplodere e renderla più coinvolgente. Arriverà verso il terzo minuto con il brano che aumenta i giri del motore per 60 secondi prima di un break atmosferico di scuola Porcupine Tree che fa da preambolo ad un finale a dir poco infuocato. Ci siamo, ci siamo quasi, bisogna lavorare esclusivamente sui dettagli. Quelli che verosimilmente vengono maggiormente sottolineati in "Underskin", un delicato ed etereo brano post rock, niente di particolarmente originale, ma dotato sicuramente di un certo appeal, soprattutto là dove i nostri schiacciano con più veemenza sull'acceleratore dando delle bordate elettriche su di un tappeto ritmico post metal malinconicamente ondivago. Però diavolo, se ci fosse stata una voce, non sarebbe forse stato meglio? La title track prova a venire fuori con un sound ancor più accattivante ma niente, quello che manca è un urlaccio che faccia sentire tutte le emozioni che stanno in seno alla band. "Day 366" prosegue sulla scia di un emozionale post rock d'annata, fluido, melodico, sicuramente interessante ma che tuttavia manca di un pizzico di originalità in più, cosa che magari poteva essere prodotta da una voce, chissà. Si lo so, risulto provocatorio addirittura noioso, ma non mi stancherò mai di ribadire la necessità di un vocalist che blateri qualcosa anche solo per pochi secondi. Tutto sarebbe risultato molto più figo, anche per quel che concerne la conclusiva "One Must Fall", ultimo fragoroso atto all'insegna di oscuri suoni lisergici guidati da una poderosa ritmica che rendono questo 'Sirens' un disco da consigliare però ai soli amanti del genere. (Francesco Scarci)

giovedì 9 settembre 2021

Yawning Sons - Sky Island

#PER CHI AMA: Post Rock/Grunge
Quello degli Yawning Sons è un progetto anglo-americano formatosi nel 2008 e inizialmente costituito da membri delle leggende californiane del desert rock, Yawning Man e dai post rockers inglesi Sons of Alpha Centauri. Da qui la crasi dei due nomi con 'Sky Island' a rappresentare l'incontro delle due realtà musicali, che tornano quasi dodici anni dopo il loro debut del 2009, 'Ceremony to the Sunset', in un lavoro raffinato, che sembra prendere le distanze dagli stili musicali delle due band madri. "Adrenaline Rush" e quel suo pulsante basso in apertura, si muove infatti attraverso sonorità prog rock che mi hanno evocato Porcupine Tree e Riverside, e che ci riserva uno spettacolare coro che si affianca alla voce di Marlon King (chitarrista dei Sons of Alpha Centauri). Blues rock invece per la suadente "Low in the Valley" che si dipana tra post-rock e post-grunge, con la mia sottolineatura assegnata alla strepitosa voce di Dandy Brown (Hermano, Orquesta del Desierto), uno degli ospiti che popola questo lavoro. "Cigarette Footsteps" vede invece alla voce il mitico Mario Lalli (Yawning Man e Fatso Jetson) in un pezzo compassato ed ipnotico, per un viaggio nei meandri del post rock più onirico. Con "Passport Beyond the Tides", la band arriva ad esplorare mondi lontani e dilatati, a cavallo tra synth wave e space rock, in una caleidoscopica girandola di emozioni esclusivamente affidata al suono della sei corde e dei synth. Ci si muove veloci ed è il momento di "Shadows and Echoes", che ci stupisce per la presenza alla voce di Wendy Rae Fowler (We Fell to Earth) con quel suo stile canoro accostabile a Dolores O’Riordan, in un pezzo sciamanico dai forti rimandi malinconici. Ci si avvia verso il finale dove mancano ancora a rapporto una beatlesiana "Digital Spirit", sorretta dai vocalizzi di un altro mitico personaggio, Scott Reeder (Kyuss, The Obsessed e Fireball Ministry). E ancora, "Gravity Underwater" dove al microfono ritorna Dandy Brown in un pezzo dal forte piglio settantiano che però non mi ha convinto del tutto, nonostante il suo ottimo assolo. In chiusura la strumentale "Limitless Artifact" per un pezzo che incarna invece sia il desert rock dei Yawning Man che il post rock dei Sons of Alpha Centauri, a fare questa volta, una crasi dei loro stili musicali. Un elegante ritorno. (Francesco Scarci)

mercoledì 1 settembre 2021

Dez Dare - Hairline Ego Trip

#PER CHI AMA: Punk Rock
Un po' di insana follia punk rock era tempo che non la ascoltavo. Dovevo attendere questo frescone inglese nato in Australia che, durante il famigerato lockdown, ha pensato di mettersi in proprio e buttare giù un po' di stravaganti pezzi orecchiabili. Ecco la genesi di questo 'Hairline Ego Trip' dei Dez Dare. Nove brani che partono dal punk primigenio di "Dumb Dumb Dumb", tanto selvaggio quanto scanzonato per poco meno di due minuti di musica. La cosa prosegue con il garage rock di "Conspiracy, O' Conspiracy", niente di travolgente ma mostra un tocco che palesa già una certa personalità. Quella che emerge forte invece in "King + Queen Monstrosity", laddove potrebbe sembrare stravagante, ma non lo è affatto, parlare di psych punk doom, vista la natura slow motion del brano. Esperimento riuscitissimo. Si passa ad un surf rock sporcato di venature stoner con "My My Medulla", un pezzo che ci conduce direttamente agli anni '60. Non male ma un po' lontano dai miei gusti musicali. Divertente ma troppo vintage. Si continua a percorrere la strada dello stoner/desert rock polveroso con "Sandy’s Gonna Try" ed un cantato che invece sembra uscire da uno dei brani dei Sex Pistols, ma l'energia che emana ahimè non è la medesima. "Break My Vice" sono 100 secondi di uno stralunato post punk, mentre "Crowned by Catastrophe" ha quasi un piglio blues rock nel sua cantilentante incedere ipnotico. "Goodbye Autonomy" mette in scena altri 107 secondi di un sound tanto stravagante quanto difficile da etichettare senza doverci scrivere una tesi che descriva cosa il musicista di Brighton voleva realmente proporre. Ancora punk rock con la lunghissima "Tractor Beam, Shitstorm", quasi dieci minuti di musica psicotica e ridondante in grado di destabilizzare i sensi con i suoi giri di chitarra in loop ma anche in grado di sottolineare l'imprevedibile genialità di quest'artista britannico. (Francesco Scarci)

giovedì 8 luglio 2021

Ananda Mida - Karnak

#PER CHI AMA: Psych Rock
Poco più di 21 minuti di musica per saggiare lo stato di forma dal vivo degli Ananda Mida, che abbiamo già recensito nel 2017 e nel 2019 qui sul Pozzo, con 'Anodnatius' e 'Cathodnatius', rispettivamente. La band torna oggi con un nuovo EP, 'Karnak', che comprende in realtà due tracce registrate live nel 2018 al Teatro delle Voci Studios (la strumentale "Anulios" e "Jam With Mario") e una nel luglio 2019, al Mirano Summer Festival ("The Pilot"). Si parte appunto con "Anulios", pezzo già incluso nel primo album, che vede nella raffinatezza delle chitarre il punto di forza di un brano che sembra qui dimenticare le fiammate stoner rock del combo italico. Tanto blues rock in sinergia con suoni psichedelici e il gioco è fatto per sei minuti spensierati, a tratti venati di un sottile velo di malinconia ma pure di una robusta dose di rock nel finale. Si passa ad una sorta di jam session, come riportato nel titolo del brano, a "Jam With Mario" e i suoi otto minuti e mezzo in compagnia di Mario Lalli dei Yawning Man, da più parti definito il fondatore del desert rock. Cosa aspettarsi quindi se non pura improvvisazione, con Mario a prendersi giustamente la scena con le sue magie alla sei corde, tra psych rock settantiano, blues e jazz. Che volete di più? C'è ancora tempo per "The Pilot" in effetti, song inclusa nel secondo lavoro, che dispiega in sede live tutta la forza e l'energia di cui si può godere assistendo ad una esibizione live del collettivo nostrano, con alla voce la performance inconfondibile di quel Conny Ochs, songwriter tedesco divenuto punto di contatto tra doom e folk americano. Insomma per ingannare il tempo e in attesa di vedere alle stampe una nuova release targata Ananda Mida, potreste dare un'occasione a questo 'Karnak', c'è il rischio di conoscere un aspetto dei nostri che forse vi era sfuggito in passato. (Francesco Scarci)

(Go Down/Vincebus Eruptum - 2021)
Voto: 72
 

sabato 8 maggio 2021

Yawning Man – Live At Maximum Festival (reissue)

#PER CHI AMA: Psych Rock
«Gli Yawning Man erano la desert band più assurda di tutti i tempi. Ti bastava essere lassù, nel deserto, con tutti gli altri a divertirti. Ed apparivano loro, sul loro furgone, tiravano fuori la loro roba e la montavano proprio nell'ora in cui il sole calava, attivavano i generatori [...] Era tutto molto alterato, confuso, era tutto molto mistico. La gente stava lì a sballarsi, e loro continuavano a suonare per ore. Oh, sono la più grande band che abbia mai visto» Firmato Brant Bjork (2002). Mario Lalli è uno di quei musicisti la cui influenza sulla scena che ha contribuito a creare, è di gran lunga più grande del successo o della riconoscibilità della sua figura verso il grande pubblico. E se oggi più o meno tutti sanno chi sia Josh Homme, e molti altri conoscono John Garcia, Brant Bjork e Nick Olivieri, quello di Mario Lalli è rimasto un nome di culto. Un culto fedele e devoto, certo, ma che mai ha nemmeno sfiorato la popolarità degli altri alfieri del cosiddetto “Desert rock”. E se la sua creatura degli anni '90, i Fatso Jetson, ha raccolto consensi sfruttando l’onda lunga del successo di Kyuss e QOTSA, la storia degli Yawning Man rimane ancora parzialmente non scritta, complice il fatto che, pur avendo praticamente inventato il genere negli anni '80, la loro prima registrazione ufficiale è datata 2005. E ora la Go Down Records ci offre questa reissue di una loro esibizione live in Italia del 2013, che ben fotografa il loro rock, rigorosamente strumentale, tonante ed ipnotico, caratterizzato da lunghe cavalcate desert-psych in cui il basso di Lalli la fa da padrone, magnificamente supportato dal potente drumming di Alfredo Hernandez e dalla chitarra di Gary Arce. Il suono del trio si caratterizza per un bilanciamento quasi paritetico dei ruoli, senza che nessuno alla fine risulti preponderante, e risulta evidente come una proposta del genere, che oggi non stupisce più di tanto, possa aver smosso (ed espanso) le coscienze di chiunque abbia assistito ad un loro show nel deserto negli anni '80. La dimensione live è sicuramente quella ideale per apprezzare gli Yawning Man in tutto il loro spessore, e in questo il disco centra sicuramente l’obiettivo. Rimane il fatto che un concerto del genere, spogliato della sua dimensione esperienziale, risulta inevitabilmente monco, ma questa è un’altra storia. (Mauro Catena)

lunedì 22 marzo 2021

Squeamish Factory - Plastic Shadow Glory

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Stoner/Grunge
Riff grintosi e melodie accattivanti. Evidenti richiami a mostri sacri del rock pesante conditi con sperimentazioni sonore e spunti personali. Il secondo album degli Squeamish Factory è un interessante tavolozza di colori diversi, nonché una prova del buon percorso di maturazione della band. Il loro alternative rock, che si mantiene fieramente vicino al grunge degli Alice In Chains e allo stoner dei primi Queens of the Stone Age, ben si presta per una critica sociale come quella presentata in questo 'Plastic Shadow Glory', rilasciato lo scorso novembre per Overdub Recordings. Si parla infatti di alienazione, della doppiezza e dell’ipocrisia che sembrano essere diventate caratteristiche necessarie per avere successo nella vita e che condizionano ogni aspetto della nostra cultura. Su questa base, gli Squeamish Factory confezionano una bella serie di schiaffoni da distribuire a tutti i responsabili di questo degrado morale: pezzi come “Humandrome” e “Burn” sono schiacciasassi che uniscono la potenza dei Kyuss alle sferzate nu-metal dei Deftones, “Mirror Gaze” e “Suspended” esplorano territori più atmosferici giocando su passaggi psichedelici ed eco post-punk, mentre il grunge dei maestri Alice In Chains riceve un doveroso tributo in “Snufftshell”. Al di là delle distorsioni dispensate a piene mani, 'Plastic Shadow Glory' rimane un album ammantato da un sentimento di malinconia, come se alla rabbia provata dal quartetto nell’assistere impotenti al triste spettacolo offerto dalla nostra società, subentrasse la frustrazione: per quanto piene di energia positiva, purtroppo queste nove canzoni non basteranno per invertire questa triste tendenza. (Shadowsofthesun)

lunedì 15 marzo 2021

OJM - Live at Rocket Club

#PER CHI AMA: Stoner/Garage Rock
Gli OJM non hanno bisogno di presentazioni, essendo una delle band di culto negli ambienti stoner rock e nella psichedelia, e avendo una carriera alle spalle notevole con svariate release e performance che li hanno resi popolari in tutta Europa ed anche oltreoceano. La band vanta tour e collaborazioni importanti con artisti del calibro di Brant Bjork o Paul Chain e numerosi concerti assieme a band di fama internazionale. La compagine trevigiana è entrata di diritto nell'olimpo dello stoner rock del vecchio continente partendo dalla gavetta e sudando note da tutti i pori, mangiando pane e distorsioni fuzz per tanto tempo, coltivando il rito dell'esibizione live, credendo in essa come nella massima espressione del rock'n'roll, che doveva essere esplosiva, trascinante, acida, proprio come nella loro formula musicale. Quindi la Go Down Records, in collaborazione con la Vincebus Eruptum, decidono in questo 2021, a 10 anni di distanza da quell'evento, di dare alle stampe, in edizione limitata in vinile di sole 300 copie, l'intero live degli OJM al Rocket Club di Landshut, in Germania, donando ai fans della band un'occasione in più per riassaporare la grande energia, sprigionata sul palco e catturata da Martin Pollner nel lontano 2011, nel tour dell'ultimo studio album intitolato, 'Volcano'. L'act italico non si è mai sciolto, si è semplicemente preso una lunga pausa e questo disco ci delizia e accompagna, dopo tanto tempo di latitanza, nella riscoperta di un combo compatto, lisergico e allucinato, che traeva spunto dal garage dei The Fleshstones, quanto al mito degli Mc5, che osavano rivendicare una vena altamente psichedelica, riproponendo "Hush" dei primi Deep Purple, suonando ruvido e sporco come i primi Mudhoney. L'album si fregia della presenza di piano bass e organo elettrico, suonati da Stefano Paski, che risaltano il ricercato suono vintage, mentre il resto degli strumenti sputano fuoco e fiamme per una prestazione assai calda e sanguigna. Il solo difetto di questo disco, a mio parere, sta nella qualità che si avvicina più ad un buon bootleg live vecchio stile ponendosi pertanto inferiore alla qualità del precedente 'Live in France' del 2008 (prodotto da Michael Davis – Mc5), pur risultando essere un'ottima fotografia dell'ultimo periodo del gruppo, con molti brani estratti da 'Volcano' e, oltre alla già citata cover dei Deep Purple, con brani tratti dal precedente album in studio, 'Under the Thunder'. Un disco che farà la felicità dei fans degli OJM e del loro sound, averlo sarà un buon pretesto per completare la loro discografia oppure, per chi se li fosse persi fino ad ora, un ottimo motivo per scoprirli in tutta la loro irruente energia live. Un nuovo disco dal vivo che ci porta alla riscoperta di una grande band, stimata da molti musicisti di livello internazionale. (Bob Stoner)

venerdì 16 ottobre 2020

Slomosa - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Punk, Offspring
Quello dei norvegesi Slomosa è senza dubbio un buon disco di debutto, suonato bene, con giuste sonorità, tanto tipiche se non un po' scontate dello stoner rock. Un genere che annovera tra i più famosi e storici rappresentanti, i Queens of the Stone Age, creatori e divulgatori di un suono che ha fatto storia e che ha influenzato migliaia di band, rischiando di generare una vera e propria dinastia di cloni che però ha impedito allo stoner di evolversi in maniera libera come fu per il primo periodo negli anni '90/2000. Da perfetti estimatori della band di Joshua Homme, il quartetto di Bergen si è impegnato a ricreare conosciute atmosfere e scorribande rock che spingono molto sull'acceleratore, mostrando muscoli e sudore assieme ad una lieve propensione space rock, lodevole caratteristica che nei primi tre brani funziona assai bene, poi va un po' perdendosi. "Horses", "Kevin" e "There is Nothing New Under the Sun", accompagnati da un cantato che stranamente ricorda molto l'effetto epico del positive punk (tra Theatre of Hate e The Offspring), suonano splendidamente carichi di energia, creando quel coinvolgimento nell'ascoltatore, cosa che non si può dire della seguente "In My Mind's Desert", con l'inizio che anima un drammatico presagio, ovvero il ricordo di band mollicce come Lit o Sugar Ray degli anni '90, sfatato solo in parte da un suono ruvido e pesante. Fortunatamente a seguire, parte il giro in puro stile Kyuss di "Scavengers", giusto in tempo per rianimare le mie aspirazioni desertiche e ristabilire i canoni sonori per una band che quando esce dal seminato stoner non riesce ad essere convincente ed interessante fino in fondo. Quello che esce poi da questo disco, per i tre brani conclusivi, risulta essere un susseguirsi di richiami statici verso un rock mascherato di stoner, con suoni e riff, triti e ritriti, volti verso una assidua ricerca dell'orecchiabilità perfetta, della simbiosi musicale verso i maestri, come la conclusiva "One and Beyond" dove i chiaroscuri del brano riescono solo in parte, visti i soliti richiami al genere. A mio modesto avviso gli Slomosa avrebbero doti e capacità per aprirsi verso sonorità più grunge e underground della prima ora, oppure spostarsi verso un sound molto più europeo, liquido, acido e pesante alla 7Zuma7. Lavoro con otto brani altalenanti nel carattere, band con una personalità ancora acerba e un sound troppo derivativo. (Bob Stoner)

(Apollon Records AS - 2020)
Voto: 63

https://slomosa1.bandcamp.com/album/slomosa

sabato 16 maggio 2020

VV. AA. - 2003-2020

#PER CHI AMA: Garage Rock/Punk
Lo dichiaro immediatamente, non amo le compilation dove sono inserite più band, uno strumento utile solo per le etichette per fare propaganda al proprio roster, noioso per chi come il sottoscritto, deve ascoltare alla rinfusa brani scelti a rappresentare in modo totalmente casuale e poco approfondito, le varie band incluse. Fatte la dovuta premesse, dirò anche che non è assolutamente mia intenzione fare un track by track, non ne avrebbe alcun senso considerato poi che molte delle 28 band incluse in questa carrellata infinita, sono già state recensite su queste stesse pagine con i rispettivi album. La Go Down Records per celebrare i 17 anni di vita (non poteva aspettare i 20, mi domando) ha pensato bene di rilasciare questo lavoro, che si apre col blues rock mellifluo degli Alice Tambourine Lover e con la delicata ugola della sua frontwoman. Poi a ruota, il garage rock degli Ananda Mida con un estratto da 'Cathodnatius', il surf rock dei Diplomatics e il desert rock dei Fatso Jetson. Il comun denominatore lo vedete pure voi, è solo uno, il rock appunto, in ogni sua forma e manifestazione, un genere di cui la Go Down Records ne è assoluta alfiere. E allora nella giostra di questa raccolta non potevano mancare le divagazioni prog jazz de Glincolti o il più robusto stoner degli Humulus. C'è un quantitativo esagerato di musica, tutti pezzi assai brevi per un'ideale abbuffata di musica di facile presa, rock'n roll, di che altro stiamo parlando altrimenti. E allora ecco l'acid rock dei Mother Island, freschi di un nuovo album in uscita (cosi come l'hard rock dei Beesus), il punk-rock dei The Morlocks, per divertirsi in leggerezza in poco meno di tre minuti, la psichedelia dei Vibravoid, o lo sludge dei Jahbulong e ancora, per identificare un mio pezzo preferito, "Raul" dei Maya Mountains, probabilmente la band, più delle altre, in grado di differenziarsi dal marasma sonoro qui contenuto, per un ascolto però alla fine, comunque distratto. Inutile dare un voto ad un simile prodotto, ne avrebbe francamente molto poco senso. Non posso far altro che augurarvi un buon ascolto. (Francesco Scarci)

Beesus - 3eesus

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
Le vie dello stoner sono infinite. Almeno così pare, osservando la prolifica scena underground del belpaese, in costante fermento ultimamente per quanto riguarda le ruvide sonorità fuzzate e le frequenze ultrabasse. La trasposizione del copione poi, può risultare anche altamente personalizzata, nel caso intervenga una sapiente lungimiranza dell’interprete. Ne sono un esempio i Beesus, gruppo laziale attivo da una decina di anni, che pubblica quest’anno il terzo LP. Dopo qualche burrascoso cambio di line-up occorso negli ultimi anni, la formazione si assesta sull’attuale essenziale power-trio. Non si può dire però che '3eesus' sia altrettanto essenziale. Abituata a sperimentare incessantemente per dare forma alle varie visioni allucinogene, la band capitolina riconferma la propria tendenza ad assimilare elementi delle più disparate provenienze, dal doom allo psych, fermandosi talvolta ad un “lo-fi-pit-stop”. Quello che forse traspare da quest’ultimo lavoro rispetto alle due precedenti uscite, è probabilmente il raggiungimento di una maggior compattezza e organizzazione sonora, per quanto possibile. Ci si scrolla di dosso qualche sporcatura punk da 'Sgt. Beesus… And The Lonely Ass Gangbang!' (2018), senza però perderne l’attitudine. Il primo impatto con “Reproach” è un vero pugno nello stomaco, con riff annichilenti da far tremare le interiora. Energia catalizzata in ritmo e potenza. Compaiono anche i primi cori ed intrecci a tre voci, come novità. Se pensate poi che non sia possibile sentire Melvins e The Doors in uno stesso brano, vi invito ad ascoltare “Sand for Lunch”. Uno dei più emblematici del disco sicuramente, dal titolo già di per sé evocativo. Ci troviamo inizialmente immersi in una tipica allucinazione morrisoniana, a sorvolare distese aride e desolate, per poi riscoprire nella seconda parte della track, le antiche tracce dei pionieri, quelli del già più riconoscibile Palm Desert. Se è vero che i Kyuss hanno interrato un seme estremamente vigoroso, è altrettanto vero che i germogli che crescono assumono le forme e le dimensioni più varie in assoluto. “Flags of the Sun” rappresenta un’altra dimostrazione di come il trio romano abbia concepito la propria impronta sonora per questo disco. Oltre alla viscerale sintesi dello stoner, qui si scorge qualche ispirato fraseggio dalle intenzioni blueseggianti. Le atmosfere psych sempre a fare da cornice, anche nella lisergica “Gondwana”. Forte anche di un’ottima produzione, più pulita e diretta, '3eesus' vanta l’interessante privilegio di essere stato registrato in presa diretta dal vivo. Pootchie (Guitars/Vocals), Johnny (Bass/Vocals) e Mudd (Drums/Vocals) hanno infatti avuto l’occasione di eseguirlo niente meno che al Monk Club, famoso locale da concerti della capitale. Questo grazie anche alla disponibilità di Giacomo Serri che ha reso possibile la realizzazione di questo notevole lavoro. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(More Fuzz Records/GoDown Records/New Sonic Records - 2020)
Voto: 77

https://beesus.bandcamp.com/album/3eesus

sabato 9 maggio 2020

Kayleth - Back to the Earth

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner
Dopo aver viaggiato in lungo e in largo nello spazio interstellare, ecco che i Kayleth fanno ritorno a casa. La band veronese torna infatti col terzo full length intitolato 'Back to the Earth', continuando con quella loro bella abitudine di trattare tematiche filosofico/spiritual/sci-fi a livello lirico. Il disco include dieci song e la prima cosa che avverto all'ascolto dell'opening track "Corrupted", è un forte ancoraggio dei nostri ai classici del passato, pur non rinunciando alle caratteristiche space rock che ne hanno contraddistinto le loro ultime release. Ma quello del quintetto veneto, più che un ritorno sulla Terra, mi pare piuttosto un ritorno alle origini, là dove tutto è cominciato. Black Sabbath e Kyuss tornano ad essere le preponderanti influenze di questa nuova fatica. La song pertanto mette in mostra un bel riffone di matrice sabbatthiana, con la voce di Enrico Gastaldo però che rimane quasi strozzata in sottofondo, mentre le keys di Michele Montanari assurgono sempre quel ruolo di arrangiamento che va a riempire a tutto tondo il sound dei nostri. Il brano va comunque in levare, con una bella base ritmica che accelera anche grazie alle martellate sulle pelli erogate dal sempre puntuale Daniele Pedrollo. "Concrete" è violenta e abrasiva sin da subito, una cavalcata desertica che trova il proprio ristoro in un litanico break centrale ove dar sfogo a tutte le visioni lisergiche dettate dalla Psilocibina contenuta nei funghi di quei luoghi cosi desolati. I giri di chitarra e basso, a cura del duo formato da Massimo Della Valle e Alessandro Zanetti, ci conducono ancora indietro nel tempo, anni '70 per l'esattezza; quello che non mi torna invece è ancora la voce del buon Enri sommersa da una produzione probabilmente troppo ovattata. Con "Lost in the Canyons", i nostri proseguono sulla medesima pista desertica, guardando questa volta agli Hawkwind, percependo anche un che dei System of a Down in una qualche nota di chitarra, e sottolineando poi come l'ipnotico incedere ritmico venga costellato dai pregevoli synth di Mick che qui assumono quasi la fisionomia del frinire dei grilli nella notte. Se non mi sono poi bevuto del tutto il cervello, mi pare di udire in questa traccia anche il verso di quello che sembra essere un sax ad arricchire i nebulosi arrangiamenti dei nostri. "The Dawn of Resurrection" è un'altra bell'esempio della roboante proposta dei nostri, guidata qui dal basso stentoreo di Ale che, a braccetto col rutilante drumming di Dany, mette a ferro e fuoco un'aria già di per sè incendiata. Qui l'influenza degli Electric Wizard torna a riaffacciarsi, cosi come quella dei Queens of the Stone Age, il cui fantasma aleggia un po' ovunque nel disco. Con "Delta Pavonis", i Kayleth vogliono ricordare parte del loro viaggio intergalattico quando si affacciarono alla costellazione del Pavone, a quasi 20 anni luce dal nostro sistema solare. I suoni da queste parti appaiono più freddi e rarefatti, anche se le melodie delle keys cercano di riscaldarli guidando poi un inebriante giro rock'n roll a base di chitarra e basso. È poi ancora una ritmica pesante quella contro cui sbattiamo il muso nell'incipit di "By Your Side". Mentre le tastiere fanno il diavolo a quattro, la voce di Enri prosegue nel suo evocare il vecchio Ozzy. Quello che preferisco della song è però quel finale etereo tra chitarre e keys che ne rendono davvero giustizia. "Electron" è un pezzo magnetico d'altro canto con un titolo del genere che cosa vi aspettavate? Carico grondante di groove fin dalle note iniziali, il brano scivola che è un piacere in bilico tra uno stoner rock mid-tempo, un post-grunge e una darkwave di fine anni '80, senza troppi fronzoli e trovate, il che ci mostra un lato ancora nascosto del quintetto italico. La sua essenza è tanto perfetta quanto imprevedibile, ideale per un po' di meditazione alla ricerca del proprio IO supremo, l'autocoscienza, prima che nel finale i nostri riaccendano i motori della propria astronave e decidano di riprendere il volo. "The Avalanche", come una valanga, ci investe in modo forse volutamente un po' disomogeneo, mentre "Sirens" ha un che di decisamente magico ed esoterico nei suoi solchi, forse la traccia più strana ed originale del disco, anche se dobbiamo ancora commentare "Cosmic Thunder", la song che furbescamente (e maliziosamente) chiude il disco. Si tratta di una track dall'incedere disco dance anni '70/80 che ci mostra come, in perfetta simbiosi col rock rude dei Kayleth, ci sia ancora molto da scoprire in questa parte non del tutto esplorata di mondo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2020)
Voto: 75

https://kaylethstoner.bandcamp.com/

martedì 20 agosto 2019

Jesus Franco and the Drogas – No(w) Future

#PER CHI AMA: Garage/Punk, Queens of the Stone Age, Iggy Pop
Se pensavate che al mondo i seguaci degli ultimi QOTSA fossero solo dei cloni inespressivi, allora dovrete ricredervi ascoltando questo disco dei Jesus Franco and the Drogas (uscito per la Bloody Sound Fucktory). 'No(w) Future' è divertente e ben fatto, intossicato dall'irriverente verve degli Eagles of Death Metal ed in perfetta sintonia con la follia degli ultimi dischi della band di Josh Homme ("Acufene"), carico di emozioni psych di tutto rispetto tra the Dukes of Stratosphere, Hey Satan e Nudity, con una voce gogliardica in puro stile Captain Beefheart ("No Talent Show") per cui non rimarrete delusi. La cosa che più convince in questo quinto disco della band di Ancona è la ricerca e la volontà assidua di sperimentare in campo psichedelico, sempre ai confini della realtà, tra orecchiabilità rock'n roll ("Right Or Wrong") e pupille dilatate, con una capacità esagerata di riuscire a rendere accessibili anche divagazioni allucinogene complicate ed indigeste. Tutti i brani sono un pugno allo stomaco altamente tossico, adrenalinici e deviati, a volte dai toni in salsa psych estrema ("Some People") o sparati come se il mondo non dovesse mai fermarsi e, cosa che risulta assai gradevole, è che oltre ad essere ben suonati e prodotti con un suono tipicamente garage, non risparmiano l'ascoltatore, cercando di stupirlo in continuazione, sfornando uno dopo l'altro, pezzi pieni di vita e mai banali, devastanti ed incendiari, la perfetta colonna sonora per un sequel di 'Paura e Delirio a Las Vegas'. Questi abili musicisti giocano con il garage punk ed esplodono nella psichedelia claustrofobica, il garage rock'n roll è una base solida e mai nome di una band è stato più azzeccato, per una musica figlia del più vizioso ed anfetaminico Iggy Pop ("Blast-o-Rama"). Si ritorna sui toni storti e sperimentali del divino capitano in "Brain Cage", mischiandolo ad un tono vagamente più heavy e pesante alla stregua di certi pezzi degli Amen, anche se suonati in chiave più ipnotica e meno hardcore. Nel concludere, la band anconetana inserisce il brano più soft della raccolta, "Wake Up" che aspira ad una forma di alienazione e prende le distanze dalle precedenti composizioni proponendo un volo psichedelico assai avvolgente con una voce che ricorda molto da vicino il mito sotterraneo di Mark Stewart and the Mafia. In sostanza, 'No(w) Future' è un album prezioso nel panorama sotterraneo italiano, pieno di colori e divagazioni lisergiche di varia forma e tipologia, un caleidoscopio esaltante, un disco ben fatto! (Bob Stoner)

(Bloody Sound Fucktory - 2019)
Voto: 73

https://www.facebook.com/jesusfrancoandthedrogas/

domenica 14 luglio 2019

Glincolti – Terzo Occhio/Ad Occhi Aperti

#PER CHI AMA: Prog/Stoner/Indie
Passarono gli anni e finalmente venne il giorno per Glincolti della prova live e questo nuovo disco, sfornato dalla GoDown Records, ne è il risultato. Le registrazioni sono avvenute durante l'esibizione dal vivo presso il Labirinto della Masone il 3 agosto 2017, vicino a Parma e mostrano la band trevigiana ancora molto in forma. Nei quattro brani del lato A di questa edizione deluxe, il combo si esprime egregiamente indicando chiaramente come la dimensione live sia la più consona ad esprimere il loro sound rigidamente strumentale, fatto di stoner e desert rock, digressioni prog alla Omar Rodriguez Lopez group, free rock e bicchieri di tequila dal tramonto all'alba, per una musica coinvolgente, ben strutturata, ben eseguita e fantasiosa. Il tocco indie li eleva dallo status riduttivo di solita o normale prog band e la bravura dei musicisti fa in modo che il live sia piacevole e frizzante con una buona registrazione che avvalora tutti gli strumenti, un calore nel suono che fa tanto piacere all'ascolto. Per ampliare la proposta, nel lato B, troviamo pubblicati tre brani inediti, registrati durante le session dell'album 'Ad Occhi Aperti', con alcuni ospiti d'eccezione, Sara B (Messa), Jason Nearly (Mad Fellaz, Sonic Wolves) e Andrea F. a supportare queste composizioni che fin'ora non erano mai state liberate. In "Triporno" il suono ha il sapore ed il groove di certo funk/acid jazz anni '90 ma, a mio modesto parere, la voce di Sara, doveva essere trattata in maniera più soul e nera, manca il calore giusto ed anche se l'interpretazione è assai buona, risulta troppo fredda, frenando leggermente la verve del pezzo. "Ad Occhi Aperti" è in linea con tutti i pezzi del precedente album e non si capisce perchè sia stato estromesso, polveroso e avvolgente, la perfetta colonna sonora da immaginare in sella ad una motocicletta sulla mitica Route 66, una versione vellutata del geniale tocco dei Fatso Jetson. "Insonnia" è l'ultimo brano, un esperimento ritmico/rumorista dal gusto etnico che spiazza un po' e che sinceramente non mi ha soddisfatto molto, quasi tre minuti che risultano un po' forzati nel contesto. Alla fine rimangono un buon documento live e tre inediti per i fans di questa buona band che può (e deve) ancora dire e dare molto nel panorama musicale alternativo italiano. (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 68

https://www.facebook.com/GLINCOLTI/

mercoledì 26 giugno 2019

Inez – Now

#PER CHI AMA: Mystic Americana Desert Pop, Mark Lanegan
Secondo album per Inez, al secolo Ines Brodbeck, cantautrice basilese di origini cubane classe '81, che si muove con grazia e un piglio piuttosto sicuro in territori roots con influenze latine piú o meno marcate, nel solco tracciato da artisti quali Calexico o i Giant Sand di 'Chore of Enchantment', senza però disdegnare incursioni in scenari più contemporanei, richiamando le suggestioni cinematografiche della collaborazione tra Danger Mouse e Daniele Luppi. Sapientemente prodotto dal musicista di Tucson, Gabriel Sullivan, già membro dei Giant Sand e fondatore degli XIXA, il disco si snoda fra dieci tracce che sono quadretti dai colori intensi e i contorni sfumati, passando dal cuban blues di Guajiro Negro e Verano, ai Calexico apocrifi di 'Buchblatter', anche se i momenti migliori sono forse quelli in cui si cerca una voce piú personale, ibridando l’incedere desertico dei brani con un linguaggio meno legato ai modelli di partenza, come i chiaroscuri sporcati di synth di "Rising Sun", la sinuosa "Man from War" (che vede proprio “Mr. Calexico” Craig Shumacher come special guest), che vira verso atmosfere Coheniane, o la tenebrosa "Prophet", cantata con Sullivan, la cui voce è talmente simile a quella di Mark Lanegan da richiamare i celebri duetti dell’ex Screaming Trees con Isobel Campbell. Manca forse il guizzo decisivo o un pezzo che spicchi in maniera particolare, ma la qualità media della scrittura è evidente e il risultato finale piuttosto intrigante. Da seguire. (Mauro Catena)

(Czar of Crickets Productions - 2019)
Voto: 70

http://inez-music.com/

lunedì 20 maggio 2019

Space Traffic - Numbness

#PER CHI AMA: Psych Rock
L'ho sudata (e fatta sudare) questa recensione, vuoi perchè ad un certo punto mi sono trovato dall'altra parte del mondo con la band che giustamente mi sollecitava alla sua pubblicazione sul sito, vuoi perchè, chi originariamente doveva scrivere queste righe, è scomparso. Alla fine è toccato a me descrivere le sensazioni emanate da questo primo capitolo dei valdostani Space Traffic intitolato 'Numbness'. Un salto indietro nel tempo che mi ha riportato ai vecchi e sempre più rispolverati ultimamente - penso ai The Mighties - anni '60. Lo si evince dall'opener "Numbness", la title track, ma in successione anche dalle varie "U Say U Love Me", "Power and Pride" e "Fire from the Depth". Inizio col raccontarvi di quanto sia suggestivo il motivo del moniker della band, legato a quel momento d'interruzione delle comunicazioni tra la navicella Apollo 10, in orbita nel 1969 sul lato oscuro della Luna, e la Nasa, e la comparsa contestuale a bordo della capsula di una strana musica che venne attibuita poi al traffico degli oggetti spaziali in collisione col campo magnetico della Luna stessa. Ma volgiamo lo sguardo verso il cielo e torniamo a parlare di musica e a quel suo sound parecchio vintage rock che scomoda facili paragoni con grupponi anni '60. Con "Time Machine" penso ad un ibrido tra blues/hard rock, psichedelia nelle sue note iniziali e quella spruzzatina di stoner che non guasta mai. Toni decisamente più pacati con la già citata "Power and Pride", la classica ballata strazzamutande dei vecchi dischi primi anni '70, la song che si metteva alle feste per il classico ballo lento, quello del tête-à-tête con la ragazza dei sogni, in una song che potrebbe richiamare Beatles e Pink Floyd allo stesso tempo. Non male, anche se devo ammettere di aver apprezzato maggiormente il basso, a braccetto con la chitarra solista, di "Hails of Love", un altro pezzo che per certi versi mi ha evocato i Floyd più rock oriented e meno sperimentali. "Mirror Game" tiene invece un ritmo più tirato con la voce del frontman qui più convincente che in altre parti nel cd. Si ritorna a suoni più compassati con "Blue Moon", almeno nella prima parte, cosi delicata e malinconica anche nel cantato di Marco Pica, prima di un finale che si lancia in un chitarrismo sfrontato di scuola zeppeliana (ripresa poi dal bravo Slash) che me la fa optare come mio brano preferito di questo 'Numbness'. C'è ancora tempo per un altro paio di brani, l'intimista "Tear it Down", dove largo spazio è riservato alla chitarra ispirata di Fabio Baldassarri e "Fire from the Depth" che menzionavo all'inizio come classico pezzo di rock'n roll sessantiano. Rimane un'ultima song, "The Dream", qui in versione live, per undici minuti di inossidabile psych rock di scuola floydiana che esalta le qualità del terzetto di Aosta in questa loro prima fatica. Sprazzi di luce, ma anche qualche ombra su cui lavorare (penso ad un perfezionamento a livello vocale ad esempio), ma la strada su cui si sono incanalati gli Space Traffic sembra promettere bene. (Francesco Scarci)