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giovedì 20 dicembre 2018

AstorVoltaires - La Quintaesencia de Júpiter

#PER CHI AMA: Doom/Post-rock, Antimatter
Juan Escobar è musicista cileno parecchio attivo nella scena underground. Dopo aver militato negli ormai disciolti Mar de Grises, e aver fatto parte di una miriade di band tra cui Lapsus Dei e Bauda, il factotum sudamericano, ora trasferitosi in Repubblica Ceca, non solo è mente degli AstorVoltaires, ma anche membro di gente del calibro di Aphonic Threnody o Mourning Sun. Nei ritagli di tempo, si fa per dire, si diletta con la sua creatura, gli AstorVoltaires appunto, da poco usciti con questo 'La Quintaesencia de Júpiter', a rappresentare il terzo album, uscito a sei anni di distanza da 'BlackTombsForDeadSongs'. La proposta di Juan è all'insegna di un umorale post-rock, ampiamente suonato in acustico. I riferimenti per il nostro bravo artista, ci guidano in primis verso gli Antimatter dell'amico Mick Moss, piuttosto che indirizzarci verso le cose più malinconiche degli Anathema, penso ad un lavoro come 'Eternity', ad esempio. E il risultato non può che essere eccellente. "Manifiesto" è la perfetta song da collocare in apertura, un malinconica traccia strumentale che apre magnificamente questo lavoro che per alcune cose, proprio rinverdendo i bei tempi degli Anathema, si avvicina ad una song come "Angelica". Peccato solo per l'assenza della voce, che esce invece nella seconda "Hoy", una canzone aperta da un lungo tratteggio di chitarra acustica e piano, e poi la calda voce di Juan, che come una sorta di artista di strada, sembra volerci intrattenere con le sue melodie dalle tinte autunnali, che verso metà brano, sembrano caricarsi di maggiore energia. "Un Gran Océano" strizza l'occhiolino ancora alla band dei fratelli Cavanagh, con una maggiore elettricità a livello ritmico e con le liriche cantate in spagnolo. La voce drammatica del vocalist è davvero buona e ben si amalgama con la poetica musicale messa qui in scena, seppur inusuale per questo genere musicale. Strano ma originale e per me questo basta a giudicare in modo estremamente positivo la performance del nostro bravo polistrumentista. "Thrinakia: El Reino del Silencio" è un altro esempio dove la malinconia funge da driver del flusso sonico, che si oscura in un break centrale atmosferico che sembra arrivare da un qualunque lavoro sperimentale dei Pink Floyd. Il retaggio doom del mastermind c'è e si sente (e non è affatto un male), soprattutto nella coda un po' più pesante di questa traccia. Più eterea invece "Un Nuevo Sol Naciente", vicina a morbide sonorità post-rock che chiamano in causa nuovamente gli intimismi degli Antimatter, i Lunatic Soul o più semplicemente Juan Escobar stesso in questo 2018. "Arrebol" è un altro pezzo strumentale che ci rimette in armonia col mondo mentre con le conclusive "La Quintaesencia de Júpiter" e "Más Allá del Hiperbóreo", Juan propone l'espressione più "dura" della propria musica, con la lunga title track prima ed una chiusura con una breve song che evoca invece spettri di "ulveriana" memoria. In definitiva, 'La Quintaesencia de Júpiter' è un buon lavoro, che stacca dalle precedenti produzioni di Juan e spinge i suoi AstorVoltaires in una nuova sfida, da prendere o lasciare. (Francesco Scarci)

Doom:Vs - Aeternum Vale

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Del side project di Johan Ericson, dei doomsters svedesi Draconian, sapete ormai già tutto. Sto parlando ovviamente dei Doom:Vs, in cui il musicista scandinavo dà libero sfogo a tutti i suoi lati più oscuri e funeral oriented. 'Aeternum Vale' è il primo lavoro di tre, un cd uscito oramai nel 2006, ma riproposto dalla Solitude Productions in questo 2018, insieme al secondo 'Dead Words Speak'. È un cammino di 50 minuti nel lato più buio e profondo del polistrumentista: sei lunghe tracce che ci porteranno sull’orlo del precipizio e solo allora avremo la forza di decidere se lasciarci andare giù dalla rupe o salvarci. Il disco si apre con le splendide melodie di “The Light That Would Fade”, di certo il brano più riuscito, con quei suoi palesi richiami a 'As the Flowers Withers', debut dei My Dying Bride. È un doom disperato quello di Johan, straziante nei suoi momenti di pausa, dove le chitarre acustiche compongono soffuse e atmosferiche ambientazioni, richiamando inevitabilmente la band inglese; è musica che squarcia gli animi e dilania le menti, per tutta la cupezza e depressione in grado di emanare. Le successive lunghissime tracce si muovono sugli stessi binari: pesanti chitarre apocalittiche e una batteria decisamente all’altezza, ripetono all’infinito i medesimi giri all’interno dello stesso brano (forse unica vera pecca del cd), la voce growl di Johan urla tutto il proprio insopportabile dolore, voce, che si rivela più efficace nella sua veste disperatamente recitata; le tastiere ci regalano momenti di struggente melodia, le chitarre dipingono, in “The Faded Earth”, altra catacombale song, crepuscolari atmosfere da fine del mondo. In “The Crawling Inserts”, la canzone più squisitamente doom (Candlemass docet), trovano posto anche le clean vocals di D. Arvidsson, compagno d’avventura di Johan nei Draconian. Che dire di più su questo disco? Forse non ci troveremo tra le mani una pietra miliare del genere o un prodotto che può essere accessibile ad un vasto pubblico, tuttavia l’ascolto di 'Aeternum Vale' è consigliato a chi ama gruppi come Saturnus, Swallow the Sun e Mourning Beloveth, o per chi ha nostalgia dei primissimi Anathema di 'Serenades' o degli ahimé sciolti Morgion. Mr. Ericson propone sicuramente musica di difficile impatto, arricchita da testi esistenzialistici incentrati sulla fugacità della vita, che aumentano il cupo decadentismo di quest'opera. Se non conoscevate la band o non avete mai dato un ascolto a questo disco, beh è arrivato il momento di farlo. Se siete alla ricerca di una riflessione sulla vostra esistenza, forse qui troverete le risposte che cercavate. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2006/2018)
Voto: 75

https://doomvs.bandcamp.com/album/aeternum-vale

Birnam Wood - Wicked Worlds

#FOR FANS OF: Stoner/Doom, Sleep
With an album cover that absolutely needs to be a poster, the meaty production that finally does the justice this band deserves, and a sample fitting its name and initial theme as a band, “Dunsinane” brings Birnam Wood into fruition with killer soloing, a powerful explosion of verses, and the revelation that this badass Boston quartet has finally blossomed after staying strong on its Sleepy Sabbath path. Without trying to reinvent itself every album, like all too many bands do or (in some cases) absolutely need to do, Birnam Wood has smartly stuck to its distinct direction and it has payed off in the happiest surprise of 2018. The shamelessly Sabbath inspired 'Wicked Worlds' provides a crushing climax to this year and the pride of achievement for a band deserving of its success.

Craning its neck to observe the distance, a raven frames the center of a cover enamored with the regal shades of purple cloaks and green laurels, a photo negative in any other respect with plenty of black and gray to emulate the originators of heavy metal in their own fourth volume. Birnam Wood's 'Vol. 4' brings the psychedelic attitude of a smoked out Sabbath while wearing the riff-guzzling gas masks of Sleep. In very “Sweet Leaf” fashion, “Richard Dreyfuss” shouts “cock-a-doodle-doo” across the speakers before conjuring a riff that starts out as a slow “Snowblind” and grinds the grist with a mind-splitting, bass-heavy, scream and stomp rumble as resonance cascades into clear riffing rises ensuring that blues evolves from the oozy bed. From the filthy “Early Warning” comes predictions of a nuclear hailstorm with the grumbling of static from an evaporated society bringing lilts of fiery devastation, buttoning up each riff with the blinding clarity of fresh flashes before another lingering mushroom cloud of distortion envelops the sonic expanse.

This gargantuan approach, like whales breaching the surface of seas of sludge, is a captivating show of Birnam Wood's strength as the simplicity of the basic heavy metal foursome format is astutely executed, plunging like a knife into a belly, draping intestines over your shoulders, and performing burlesque bathed in blood. The grit that so delights and defines the now, a reaction to a world so obsessed with cleanliness and clarity through high definition, perfectly interplays with these shameless Sabbath snippets as each song weaves itself into the threads of this timeless music and sews its own patch into the denim of yesteryear. A psychedelic break in “Greenseer” with wavering guitars, the fades of a crunchy drum laid in the background, and an abundant series of solos shows Birnam Wood rousting its affinity for improvisation as the band splatters this jam all over the studio, recklessly runs right through another waterfall solo section in “A Song for Jorklum”, and cannot help but re-explore the intoxicating draw of the East in “Return to Samarkand”, jubilantly marching with all its new panoply of war.

Birnam Wood has finally found the production befitting its sound, and with that production has also come its most inspired work to date as quality continually inclines an ear to perk up at each fizzling fade of a note. The overwhelmingly meaty guitar, the band's willingness to loose itself upon a good riff in earnest exploration, and the sheer rapture of this climactic culmination in 'Wicked Worlds' renews a metalhead's zeal for the joy of jamming and playing with a focus on preeminence over pretense. As the result of the past four years of effort, Birnam Wood has very much come into its own as a cohesive unit and expressed its ambitious strengths through powerful heavy rock and beautiful blues that, as addling as a rush of chemicals, presents a potent product. (Five_Nails)

mercoledì 19 dicembre 2018

Gravespell - Frostcrown

#PER CHI AMA: Black/Death, Windir, Opeth, Dragonlord
Dall'assolata California, San Diego per la precisione, ecco arrivare i Gravespell e il sound dinamitardo contenuto nel loro secondo full length, 'Frostcrown'. Il riffing compatto dell'opener, nonchè title track del disco, ci ricorda perché il thrash metal abbia avuto la sua massima diffusione là dove Testament, Metallica, Slayer ed Exodus, si davano battaglia negli anni '80. La song che esordisce con questo thrashy mood, in realtà muterà in seguito, in una serie di cambi di tempo, stile e generi che arrivano ad abbracciare il techno death (a livello ritmico) e il black metal nord europeo. I cinque californiani picchiano duro, mantenendo però intatta la forte componente melodica che li contraddistingue, sempre gradevole, attraverso epiche cavalcate che scomodano un ulteriore paragone con un'altra realtà del luogo, i Dragonlord, creatura di Eric Peterson dei già citati Testament. Otto minuti quelli di "Frostcrown" per cercare di inquadrare la proposta dell'act statunitense, sempre in bilico tra scorribande black e velleità death progressive. Il disco è davvero buono, il che è certificato anche dall'arpeggio iniziale (una sentenza in quasi tutti i brani) di "Imprisoned", una traccia che ammicca agli Opeth, prima di esplodere in un riffing serrato che troverà successivi rallentamenti in atmosferici break acustici che si sovrappongono al rifferama compatto dei nostri e ad una sezione solistica di primo livello. Un breve interludio acustico ci dà modo di rifiatare, prima di imbatterci in "Shadows of the Underdark", song ben impostata a livello ritmico, che gode sempre di una certa libertà esecutiva, a testimoniare che i Gravespell non vogliono essere rinchiusi in un filone ben preciso. Le vocals di Garrett Davis poi sono un ibrido tra growl e scream e le chitarre qui si agitano rincorrendosi, in scale ritmiche da urlo. Se c'è una cosa su cui non discutere è pertanto la porzione ritmica dell'ensemble americano, cosi come l'ottimo gusto per le melodie. Forse c'è da lavorare un pochino su quei pezzi che suonano più come dei classiconi: penso a "Intrinsic Frost", un macigno, forse un po' troppo ancorato agli stilemi di un genere e quindi più suscettibile a giudizi perentori prima di godere di un finale in cui le chitarre si lanciano in aperture in stile Windir. Beh, tanto di cappello alla band che riesce a controvertere ogni pronostico, a fronte di commenti un po' troppo severi, con una prova di spessore. Lo stesso dicasi di "Occam's Razor", un pezzo che ha da offrire un diligente esempio di death metal tecnico, dotato di harsh vocals e di ottimi assoli conclusivi, l'altro punto di forza dei Gravespell. Sonorità più anguste sono quelle che compaiono nella più fosca e claustrofobica "Fear of My Vengeance", una traccia che per certi versi si avvicina come veemenza e compattezza del riffing a "Intrinsic Frost" ma che in taluni frangenti, fa riecheggiare quell'epicità, marchio di fabbrica dei Windir. Il disco ha le ultime cartucce da sparare e lo fa con gli ultimi tre belligeranti pezzi: "Ignis", spettacolare per quel rincorrersi delle sei corde. "Deadhand" è un brano dalla forte indole death thrash, un robusto omaggio alle grandi metal band del passato, che trova in un break acustico centrale un punto dove concedersi il meritato riposo, prima del conclusivo sprint, affidato alle stilettate della nervosa "Redemption", traccia che evidenzia una componente atmosferica più strutturata ed individua gli ampi margini di miglioramento in cui la band potrà muoversi in futuro. Insomma, 'Frostcrown' è un buon lavoro che vanta ottimi colpi, soprattutto a livello solistico ma che soffre ancora di qualche ingenuità. Ma le possibilità di crescere per i nostri sono davvero interessanti, basta solo coglierle al volo. (Francesco Scarci)

martedì 18 dicembre 2018

Mate's Fate - Eve

#PER CHI AMA: Metalcore/Post-Hardcore
Non sono mai stato il fan numero uno del metalcore. Scrivo da quasi vent'anni e francamente credo di averlo visto nascere, crescere e morire, per poi vederlo nuovamente riapparire molte altre volte. Tuttavia, ogni tanto mi piace avvicinarmi a qualche realtà meritevole del panorama metalcore mondiale e vedere a che punto stanno le cose, quali progressioni sono state fatte nel corso degli anni. Quest'oggi ho pensato di dare un ascolto ai francesi Mate's Fate per capire lo status del genere. 'Eve' è il debutto sulla lunga distanza del quintetto di Lione, dopo l'EP d'esordio dello scorso anno, 'A Home for All'. Il nuovo lavoro, rilasciato in un elegante digipack, contiene 10 song, che dall'iniziale "Alone" alla conclusiva "Eve", avranno modo di dirci di che pasta sono fatta questi giovani musicisti. Dicevamo di "Alone", l'opening track del disco: è una song che miscela egregiamente il metalcore con il post-hardcore, probabile retaggio dei nostri in un tempo non troppo lontano. Cosa aspettarsi? Beh, il classico rifferama potente e melodico tipico del genere, le vocals rabbiose, graffianti, e a tratti anche pulite, del frontman Matthieu, ed un ottimo lavoro dietro alla batteria, cosi come una ricerca di parti atmosferiche volte ad ammorbidire la proposta dell'ensemble transalpino. Ci riescono infatti con il più morbido attacco di "Peace", in cui la parte da leoni sembrano farla invece voce e batteria, la prima che si muove su molteplici tonalità, la seconda decisamente fantasiosa e tecnica. Le chitarre comunque crescono col tempo, ma non rappresentano la parte preponderante del pezzo se non dopo metà brano, quando divengono finalmente il vero driver del flusso sonoro dei nostri, col vocalist qui in veste di growler incallito. "Empty" è il classico brano con drumming sincopato e ritmiche sghembe, urla sguaiate ma anche vocals ammiccanti ai vari Tesseract o Architects. Muoviamoci su "Sadness", dove troviamo il featuring di Elio dei The Amsterdam Red-Light District, altra alternative punk rock band francese, in una song sicuramente carica di groove e melodie dal forte sapore catchy, in cui è interessante ascoltare i due vocalist duettare insieme. Il disco prosegue su questi binari fino al termine, non presentando particolari sussulti o trovate che mi inducano a pensare che il metalcore stia percorrendo nuove strade sperimentali. Probabilmente, l'eccezione alla regola è offerta da "Proud", una song dal mood malinconico che ho apprezzato più delle altre, o l'eterea (nel prologo e nel suo bridge) "Different", che proprio nel suo titolo sembra nascondere quel desiderio di sentirsi diversa dalle altre canzoni sin qui ascoltate e che alla fine, la pone di diritto in cima alle mie preferenze di 'Eve'. Ultima menzione per la title track, bella oscura, sebbene un cantato quasi rappato, davvero coinvolgente e più carica emotivamente parlando. Insomma, cose buone ed altre meno, alcune trovate interessanti sono spendibili per sottolineare la bontà di questa release, considerato poi che si tratta di un debutto, non possiamo che stimolare la band lionnese non solo a proseguire su questa strada, ma a cercare qualche variazione al tema, che spingerebbe i nostri a ritagliarsi un piccolo posto nell'iper inflazionato mondo metalcore. (Francesco Scarci)

Project Helix - Robot Sapiens

#PER CHI AMA: Thrash/Metalcore/Math
Non è che ci sia troppo sul web a raccontarci di questi Project Helix, se non che si tratti di gruppo teutonico originario di Stoccarda, dedito a un thrash metalcore carico di groove e che questo EP sembra voler affrontare temi relativi alla difficoltà di vivere in un mondo moderno, dove in qualche modo si deve "funzionare come macchine" e quindi 'Robot Sapiens' è una sorta di prototipo di ciò che "il sistema" vuole che siamo. A completamento delle liriche, i nostri affrontano anche il tema della disumanità in generale. Ma iniziamo a dare una musica a queste liriche cosi tematicamente pesanti e via che si parte con i veloci riffoni di matrice thrash metal di "Demons Aren't Forever" e al vocione animalesco del frontman Tim Gallion, che inizia a ringhiare su un sound iper ritmato di scuola Gojira. Il vocalist alterna poi il suo falso growl con un cantato più pulito, orientato al versante post-hardcore che contestualmente vede anche un ammorbidimento delle chitarre e ad uno stravolgimento generale del sound. Ci ritroviamo in balia di un nervoso riffing con la seguente "Rorschach Dilemma", una traccia che sembra incanalarsi invece in schizofrenici territori math, complici tematiche verosimilmente legate ad una qualche malattia della psiche umana. Il pezzo si muove su ritmi sincopati, cambi di tempo da paura, come quelli che ritroviamo a sessanta secondi dal termine, in un finale in cui metalcore e djent (stile Tesseract) si sposano alla perfezione. La voce del frontman continua con alterne fortune nella sua battaglia tra urlato e pulito. Di altra pasta "I Don't Hear the People Sing", più diretta, una song che può considerarsi una certezza in termini thrash metalcore ma che in realtà dice poco o nulla di nuovo. Meglio allora quando i nostri si muovo su terreni più intricati, a macinare riffs pesanti e urlarci sopra, sono capaci un po' tutti. Li promuovo pertanto nella loro componente più ricercata, ma anche più ostica da digerire: "Conduct Disorder" ha un doppio strato di chitarre, uno ritmato di scuola Pantera, l'altro che srotola qualche riff più psicotico che dona inevitabilmente imprevedibilità e originalità alla proposta di questi giovani musicisti teutonici. "Echoes" è un pezzo che vede ancora ritmiche frastagliate, suoni che sembrano arrivare da mille direzioni differenti, cosi come le vocals del buon Tim che si palesano in mille modi diversi. "Control", come già dichiarato dal titolo, parte un po' più compassata per provare a sfogarsi nel corso dei suoi quattro minuti, con tutto l'armamentario palesato sin qui dai Project Helix. 'Robot Sapiens' è in definitiva un album complesso, articolato, che al primo ascolto pensavo banalissimamente inserito nel filone metalcore, ma che alla lunga, mette in scena una serie di trovate che dimostrano per lo meno una certa ricercatezza di suoni da parte della compagine germanica. Al solito, siamo lontani da un risultato che possa definirsi memorabile, serve ancora una buona dose di sudore per venir fuori dall'anonimato legato alla moltitudine di band che popolano l'underground. Ma rimboccandosi le mani e mettendocela tutta, chissà non se ne possano sentire delle belle in futuro. (Francesco Scarci)

lunedì 17 dicembre 2018

The Pit Tips

Francesco Scarci

Avast - Mother Culture
Elderwind - The Colder the Night
Dallian - Automata

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Dominik

Skulled - Eat Thrash
Belliciste - Bàrdachd Cogaidh
Scheitan - Travelling in Ancient Times

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Five_Nails

Birnam Wood - Wicked Worlds
Moss Upon the Skull - In Vengeful Reverence
Oak Pantheon/Amiensus - Gathering II

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Pietro Cavalcaselle

Amenra - Mass VI
Ornaments - Pneumologic
ISIS - Panopticon

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Shadowsofthesun

La Fin - Empire Of Nothing
Cult Leader - A Patient Man
Emperor - In the Nightside Eclipse

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Alain González Artola

Bucovina - Septentrión
Rauhnåchtt - Unterm Gipfelthron
Sacrificia - Tormenta

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Luneavre - MDLXXI
Voices - Frightened
Gris - À l'âme Enflammée, l'âme Constellée...

Nereide - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal
Solo quattro pezzi per farsi notare e giocarsi le proprie carte. Ecco i Nereide e il loro EP d'esordio omonimo. Un dischetto che si apre col parlato di "Mindful", una traccia che sottolinea immediatamente le qualità del trio pugliese che si muove con disinvoltura attraverso un post rock intimista, caldo quanto basta per abbassare le nostre difese e farsi avvolgere dalla strumentalità di una song che gioca e successivamente soggioga, con un bel lavoro alla sei corde, prima tra riverberi e ridondanti giri di chitarra, e poi punisce con accelerazioni improvvise dal forte sapore post black. In "The Wave", compare la voce del frontman Roberto Spels, un ibrido tra Fernando Ribeiro dei Moonspell e Peter Steele dei Type O Negative, a fare da contraltare ad una ritmica melodica e dal forte impatto darkeggiante, in cui a guidare il tutto c'è sempre la chitarra ben ispirata del buon Roberto, accompagnato in questo viaggio da Cosimo Barbaro (basso) e Giacomo Scoletta (batteria). La musica qui non va mai oltre i confini del dark/post rock e risulta alla fine assai gradevole. Di ben altra sostanza invece "Surmise", che sembra scollegata dagli altri due pezzi, e mostra sia a livello ritmico (decisamente più pesante) che vocale (qui Roberto canta con un growl graffiato), le potenzialità del combo italico nel cimentarsi in territori post metal ma anche dotati di venature progressive, come palesato nella sezione solista del brano stesso. A chiudere i giochi arriva "Polars", una song strumentale, meno sognante della prima metà del cd, che sembra riflettere il carattere più nervoso sostenuto dalla precedente "Surmise". Diciamo che 'Nereide' alla fine è un buon modo per affacciarsi nel mondo musicale e che quello dei Nereide per il momento sembra un cantiere aperto alla ricerca dei giusti incastri da offrire in futuro. (Francesco Scarci)

(Karma Conspiracy Records - 2018)
Voto: 70

https://nereide.bandcamp.com/album/nereide-3

Bölthorn - Across the Human Path

#PER CHI AMA: Viking/Death, Amon Amarth, Manegarm
Pronti a sfoderare la vostra spada e a brandirla in cielo? Col debut album dei parmensi Bölthorn, 'Across the Human Path', dovrete prepararvi infatti ad affrontare la battaglia insieme ai nostri nuovi amici vichinghi. E quando si parla di viking, il primo nome che viene alla mente è inevitabilmente quello degli svedesi Amon Amarth, fonte d'ispirazione numero uno per il trio di Parma. Nove le tracce a disposizione per convincerci della bontà della loro proposta che da "Sentinel" (tralascio la battagliera intro) alla conclusiva "The Kaleidscope", ci terranno compagnia per tre quarti d'ora di musica, che pur non proponendo novità alcuna, si lascia comunque ascoltare con piacere. Dicevo di "Sentinel", una song ritmata di scuola svedese, costituita da ottime melodie e da un dualismo vocale che si muove tra il growling e il cantato epico nei cori. Più thrash/death oriented a livello ritmico è invece "For Honor", un pezzo che vanta una bella melodia dotata di un certo piglio malinconico in sottofondo, sorretta da un muro di chitarre che trova anche improvvise accelerazioni furibonde, ma che continua comunque a solleticarmi i sensi per quel suo epico refrain. "Thor", come preannuncia il titolo, deve essere un omaggio alla divinità della mitologia norrena. La musica è potente quanto il dio del tuono e l'arrembante lavoro di chitarra, batteria e basso, rende merito ad una song davvero interessante. Un po' meno convincente, almeno nella prima metà, è invece "Curse of Time", song che suona un po' sconclusionata sebben vada lentamente migliorando in un finale un po' più guerreggiante. "Warriors" parte in modo più cauto, anche qui c'è una bella melodia dalla forte vena malinconica, che mi ha rievocato per certi versi, la title track di 'Once Sent From the Golden Hall' dei già pluricitati Amon Amarth, certo manca la classe che contraddistingue la band svedese, ma i tre emiliani sono decisamente sulla strada giusta. Sia chiaro che sarà necessario lavorare su una maggior ricerca di originalità, è il minimo richiesto d'altro canto per poter emergere dalla massa. Il disco va un po' calando la propria qualità verso il fondo: se "Midgaard" è un brano ancora apprezzabile per robustezza (e per le sue melodie parecchio orecchiabili), è con le conclusive "The Lair of the Beast" e "The Kaleidscope" che i nostri perdono un po' di verve: la prima secondo me merita esclusivamente per quell'accelerazione post black che il trio si concede a metà brano, mentre nell'ultima, la band sembra arrivare svuotata di idee. Alla fine 'Across the Human Path' è un buon disco per appassionati di battaglie, mitologia vichinga e de 'Il Trono di Spade': tuttavia le sue note riportano ancora la dicitura "lavori in corso". (Francesco Scarci)

(Broken Bones Records - 2018)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Bolthornband

domenica 16 dicembre 2018

Svältfödd - King of the Burial Mound

#PER CHI AMA: Black/Death, Sarcasm
Si sa ben poco di questi Svältfödd, se non che arrivino dalla Svezia, da una cittadina non troppo distante da Stoccolma, chiamata Eskilstuna, che ha dato i natali a Daniel Gildenlöw, vocalist dei Pain of Salvation. A parte queste nozioni generali, 'King of the Burial Mound' rappresenta l'EP d'esordio dell'act scandinavo, che nelle cinque tracce qui contenute, si fa promotore di un black/death melodico. La title track, posta in apertura di cd, parte incalzante con le classiche ritmiche serrate, coadiuvate da diaboliche vocals ed un'impianto ritmico che va via via normalizzandosi, trovando anche dei rallentamenti piuttosto insoliti. Diciamo che non siamo di fronte a nulla di sensazionale, un pezzo che si lascia ascoltare e che raccoglie forse maggiore attenzione in un epilogo più rilassante. Molto meglio "Bloodsoaked Invocation", sempre bella tirata ma con le harsh vocals del frontman qui più convincenti e le linee di chitarra melodiche in linea con gente del calibro di Sarcasm o Dissection, anche se si sente più forte una venatura death metal che si farà più rimarchevole nella terza "Suicidal Rites" Quest'ultima è una song che sta in bilico tra thrash, death e black metal, in cui i gorgheggi del vocalist si fanno più cupi, proprio per essere in linea con la matrice sonora della band. "To Question the Word of God" vanta qualche richiamo alle linee di chitarra di Arch Enemy o Amon Amarth, anche se nelle scorribande più feroci, il black torna a farsi largo spazio, con lo screaming ad affiancare il growl. Diciamo che la band mi convince maggiormente però quando si lascia andare in mid-tempo o come accade in questa song, dove sembrano addirittura dar spazio ad una porzione solistica. Il disco volge al termine e lo fa con "Pestilential Whore", l'ultima scorribanda death black di una band che deve assolutamente crescere perché ha tutti i mezzi per poterlo fare e lo testimonia anche l'assolo con bridge annesso, che va a rievocare anche qualcosina dei Death, mica poco. Alla fine la proposta degli Svältfödd non è male, va semplicemente meglio inquadrata e messa più a fuoco, le potenzialità ci sono testimoniate dalla buona capacità tecnica dell'ensemble scandinavo. Serve coraggio però, il compitino rischia di non bastare più. (Francesco Scarci)

The Subliminal - Relics

#PER CHI AMA: Metalcore, Gojira
Dall'Olanda con furore, mi verrebbe da dire. A crearci qualche fastidio sonoro oggi, ci pensano i The Subliminal (da non confondere con gli ecuadoreñi omonimi) e il loro EP d'esordio, 'Relics', che segue un paio di singoli rilasciati tra il 2016 e il 2017. Finalmente è arrivato il momento di dimostrare la pasta di cui sono fatti questi quattro ragazzi di Utrecht, spesso indicati come epigoni di Gojira o Lamb of God. E allora cerchiamo di dissipare un po' di nubi e dire che i cinque pezzi contenuti in questo disco, pur soffrendo di qualche influenza proveniente dalle band sopraccitate, e penso all'opening track "Lowlife", mostrano, rispetto agli originali, un sound marcatamente più cupo. Certo, molti avranno da obiettare che la proposta dell'ensemble olandese è ancora un po' acerba, ma mio nonno diceva che "nessuno nasce imparato". E allora facciamoli crescere questi quattro musicisti e noi accompagnamoli nella loro crescita personale, godendo delle melodie e del groove, che comunque permeano i loro brani. "Defiance" è più roboante dell'opener, complici le chitarrone trituraossa e il vocione in formato growl di Milan Snel, ben più efficace però - e dove peraltro lo preferisco - nel cantato pulito. I nostri martellano che è un piacere, trovano tuttavia modo di spezzare il loro incedere feroce con un bel break melodico accompagnato dalle vocals a tratti ruffiane, ma estremamente accattivanti del frontman, che vanno via via migliorando nel corso di un brano che gode di notevoli cambi di tempo. Più dritta, ma in realtà solo nella prima parte, la terza "Unforeseen Demise", visto che la band si dimostra più intrigante nella seconda metà del pezzo, laddove ad un sound in your face, privilegiano un bel po' di cambi di ritmo (qui quasi dal sapore deathcore), ma c'è ancora tempo per lavorare e smussare gli angoli. Come quelli che ritroviamo in "Sleepwalkers", un altro pugno nello stomaco, che parte direttissima per poi divenire decisamente più ritmata, manco fossero i Pantera di "Walk". E poi giù di nuovo di mazzate, per un lavoro dietro la batteria davvero notevole. Ribadisco però che l'act tulipano riesce meglio dove i tempi sono più ritmati e il suono più ricercato. In chiusura, "Final Ordeal" è un'altra cavalcata dal forte sapore thrash metal in stile Testament/Exodus, rotta da ambientazioni melodiche e da un bel chorus che funge da ciliegina sulla torta per un EP che merita un po' della vostra attenzione, non fosse altro che potreste scaricare un po' della rabbia che questi giorni di festa inevitabilmente generano. (Francesco Scarci)

venerdì 14 dicembre 2018

Haiduk - Exomancer

#PER CHI AMA: Black/Death
Gli aiduchi erano formazioni di combattenti mercenari dell'area balcanica che furono impegnati nella resistenza contro l'impero ottomano a partire dal XVI secolo. C'è chi crede che la parola derivi dal turco haiduk per indicare i soldati di fanteria dell'esercito d'Ungheria o chi pensa che derivi dal magiaro per definire i mandriani. Ringraziando come sempre wikipedia, ci avviciniamo alla band di oggi, che ha scelto proprio questa parola come moniker. Si tratta della one-man band canadese degli Haiduk appunto, guidata dal factotum Luka Milojica, guarda caso un cognome che rimanda inequivocabilmente a quell'area geografica. E in assonanza col tema trattato, anche la musica di 'Exomancer', sembra voler ricalcare la veemenza dei temi bellici con un sound all'insegna di un oscuro death black. La contraerea sparata dall'opener "Death Portent" ne è la prova: ritmiche frenetiche, instabili e discordanti, con stop'n go che sembrano dettare i tempi di marcia dell'esercito contro il nemico. Le soffocanti growling vocals sono episodiche, largo spazio infatti è lasciato alla musicalità debordante del mastermind di Calgary. Lo stesso dicasi della seconda "Unsummon", ma più in generale di tutto l'album: la song è breve e sotto l'impianto estremo, mi sembra di captare un che di folkish mediorientale che potrebbe, ma solo lontanamente, evocare i vari Melechesh, Akhenaten o Arallu. Le progressioni di chitarra (contraddistinte da suoni ribassati) sono assai interessanti cosi come i tecnicismi messi in atto dal frontman canadese a stupire l'ascoltatore con il suo tumultuoso lavoro ritmico. "Evil Art" e "Subverse" ne sono chiari esempi: song dalle brevi durate che sembrano descrivere la furia della battaglia, e l'altalenante sviluppo dei brani a delinearne l'esito da una parte o dall'altra delle forze in campo. Sicuramente c'è uno studio dietro a questo flusso sonico continuo che non dà tregua e sembra voler imporre l'ascolto del disco tutto di un fiato. Sarebbe in effetti un peccato interrompere l'incedere distruttivo di tale lavoro. "Icevoid Nemesis", "Doom Seer" e via via tutte le altre, arrivano come una grandinata nel deserto, con le melodie del buon Luka (a cui suggerirei solo un aggiustamento a livello vocale) sempre in primo piano a dipanarsi tra accelerazioni paurose, trame dissonanti quanto mai tremolanti e momenti più claustrofobici, come nella morbosa "Once Flesh". Esausti, con le ossa triturate, si arriva alla conclusiva "Crypternity" che chiude con le sue ipnotiche chitarre un lavoro sicuramente interessante. Non ho ancora avuto modo di ascoltare i precedenti album degli Haiduk per stabilire pregi e difetti di 'Exomancer' rispetto al passato, però mi posso permettere di dire che l'album numero tre del musicista canadese, merita sicuramente una possibilità. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 dicembre 2018

Opera IX - The Gospel

#PER CHI AMA: Esoteric Black Metal
Quando penso al black metal in Italia, mi vengono in mente tre band: Mortuary Drape, Necromass e Opera IX. Oggi siamo a celebrare l'agognato come back discografico di questi ultimi, che per rilasciare un nuovo album, ci impiegano da sempre, un bel po' di tempo. Avevamo aspettato otto anni dal poco ispirato 'Anphisbena' a 'Strix - Maledictae in Aeternum'; questo giro, ci accontentiamo di soli sei anni per dare il benvenuto a 'The Gospel'. Per chi si fosse distratto nel frattempo, sappiate che dietro al microfono di questo disco non c'è più Abigail Dianaria, che bene aveva fatto nel corso della sua militanza nell'ensemble piemontese. È approdata infatti negli Opera IX, Dipsas Dianaria, all'anagrafe Serena Mastracco, cantante romana (peraltro di molteplici formazioni black), di indubbio talento. E allora diamo un ascolto a come si è evoluto il sound dei nostri in questo lungo lasso di tempo. Le danze si aprono con la title track che mi riporta in un qualche modo agli esordi della band, complici quelle atmosfere orrorifiche che popolavano i miei incubi notturni ai tempi di 'The Call of the Wood' o 'Sacro Culto'. L'impatto non è affatto male, soprattutto perchè quella primigenia aura sinistra della band, pervade l'intero brano, mentre la voce maligna di Dipsas Dianaria, accompagna quelle esoteriche orchestrazioni che caratterizzeranno tutto il lavoro. Il clima si fa più tetro nella successiva "Chapter II", con un sound che ammicca alle vecchie composizioni dei nostri ai tempi di 'The Black Opera', e un riffing qui più nervoso e meno melodico rispetto al passato, che in taluni passaggi sfiora addirittura il post black nel suo infernale avanzare, e che arriva a toccare anche le partiture gotiche tanto care ai Cradle of Filth. Non mi dispiace affato, anche se per forza di cose, suona come già sentito. Peccato poi che la feroce cantante non riesca ad offrire, almeno fino a questo momento, variazioni alla sua voce, come era invece solita fare l'ineccepibile Cadaveria. Certo non si vive solo di passato, però francamente il pulito della storica cantante, aiutava non poco a caratterizzare il sound di Ossian e compagni. Ora ci troviamo di fronte ad un sound arrembante, estremo, con meno sbavature rispetto al passato e che dà maggior risalto alla porzione sinfonico-vampiresca con "Chapter III", dove finalmente emerge la peculiarità della vocalist, con una preziosa prova in pulito che rende qui la proposta degli Opera IX decisamente più ammaliante e magica, e dando contestualmente più ampio spazio ad ambientazioni mistiche ed arcane. La sacerdotessa alterna uno screaming ferale ad un cantato quasi cerimoniale, mentre le ritmiche si confermano tesissime, quasi un black primordiale, la cui irruenza viene stemperata dalle sempre invasive keyboards. "Moon Goddess" è la riprova che certifica l'adeguatezza vocale della neo arrivata all'interno della band: la musica si muove su linee di black sinfonico che mantengono comunque inalterate le linee serrate di chitarra, che molto spesso sembrano virare verso lidi death metal. Un assolo a metà brano aumenta il mio interesse per la release che ora suona anche più varia. Più lenta e poco originale "House of the Wind", una traccia anonima di cui avrei fatto volentieri a meno. Ben più interessante invece "The Invocation" e le sue tastierone in apertura, sparate a mille all'ora nel roboante impianto ritmico dei nostri, che vanno lentamente ritraendosi per lasciar posto ad un approccio ritmico dal sapore quasi militaresco. "Queen of the Serpents" è un inno dedicatao alla dea Diana che nel suo fosco e disarmonico incedere black doom, si lascia ricordare più che altro per il il chorus in italiano, e per l'utilizzo di strumenti ad arco, a cui avrei dato francamente più spazio, un esperimento alla fine mezzo riuscito. Arriviamo agli ultimi due episodi del disco, "Cimaruta" e "Sacrilego". La prima apre con i bisbigli della vocalist che torna ad incantarmi col suo cantato pulito, e ad una ritmica che si muove sui binari di un black death melodico ed orchestrale. La seconda è l'ultima tirata black di questo 'The Gospel', un rito negromantico, un incantesimo, un inno funerario (che chiama in causa anche il buon Chopìn) che sancisce il ritorno di una grande band sulle scene, da cui però è sempre lecito aspettarsi molto di più. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2018)
Voto: 75

https://dusktone.bandcamp.com/album/the-gospel

martedì 11 dicembre 2018

Hazards of Swimming Naked - Take Great Joy

#FOR FANS OF: Post-Rock, Godspeed You! Black Emperor, Mogway
This melodic Australian post-rock album is a joy for the people who like to dream during their listenings, a delightful piece of harmonious music, a work almost wordless except for the nostalgic and sweet remake of the Icelandic lullaby "Sofðu Unga Ástin Mín" where a female voice lulls fear and anger, letting us dive into a lake of peace and hope. Hazards of Swimming Naked reveal in this 2018 their second album, almost nine years after their debut ‘Our Lines are Down’ and promise to launch a tour starting apparently from the 15th of December 2018. This latter release is one of those albums that make me thankful to write music reviews, in a bunch of unknown artists this Brisbane’s collective switch a light on and illuminate my boring afternoons, a breathing proof that a singer is not necessary to compose a great rock album. What I liked the most is for sure the sensation of resonance and nostalgia played by the brilliant arpeggios, the feeling of an enjoyable sadness orchestrated by pieces of trombones, arches and bells. ‘Take a Great Joy’, in conclusion, is a sweet electric fable, one of these tales that we never want to stop listening: an epic announcement in "There Was Never a Right Time", an adventurous development in "Waiting for 5120", a breakdown in "Curtis", a mysterious ascent in "I Don’t Know This Road", a reflexion in "This Common Thread" and, in the end, an inevitable advice: "Accept the Mystery". Well done mates! (Pietro Cavalcaselle)

Rings of Saturn - Embryonic Anomaly

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Deathcore/Techno Death
Il vocalist Peter Pawlak passa dal growl simil maiale-sgozzato-con-un-grosso-fermacarte allo screaming tipo pitbull-malauguratamente-attaccato-al-tuo-polpaccio con la medesima disinvoltura con la quale il giallino diventa marronechiaro nelle mutande di un metallaro accampato da quattro giorni al Wacken Open Air. Il batterista Brent Siletto passa con altrettanta animalesca disinvoltura dal trrrrr velocissimo al trrrrr ancora più velocissimo al trrrr ancora più veloce dell'ancora più velocissimo. Il chitarrista Lucas Mann passa dai ghghgh-ismi ai laserchitarrismi con la disinvoltura con la quale il sottoscritto, notoriamente afflitto da sindrome di Tourette, passa dall'espressione "colgo l'occasione per porgerle i miei più cordiali saluti" appena prima di riattaccare all'espressione "mavaffan*ulo stron*odim*rda porcodun*io di quella puttanama*onna" subito dopo aver riattaccato. L'alien-prog "Seized and Devuored", in apertura, risulta l'unica canzone vagamente intelligibile. Il deathcore manieristico di "Grinding of Internal Organs" è inopinatamente introdotto da un suono dichiaratamente ottobìt. Forse reminscenze di una vecchia versione di Guitar Hero che girava su Commodore 64? (Alberto Calorosi)

(Unique Leader Records - 2011)
Voto: 45

https://www.facebook.com/RingsofSaturnband/

Tristania - Beyond the Veil

BACK IN TIME:
#FOR FANS OF: Death/Gothic
Drastic and bombastic, Tristania provides a fine example of the breadth of heavy metal in sinister symphonic tones, gothic theatrics, and a classic example of cleanliness and propriety meeting the hazy gloom of such an inverted style, making its simultaneously catchy and esoteric visions transform from an alluring siren into the violent succubus as its sinister other side appears. Flirting with the many tropes in classical music from startling operatic highs to a symphony of strings, sometimes synthesized and other times implied through an electric and acoustic guitar combination, 'Beyond the Veil' is a descent into perdition promising the privations populating such a plane with angelic allure.

Simultaneously, Tristania denies the classical sound its monopoly with a tinny drum recording that becomes the catalyst for more techno oriented exchanges later in the album and hazy harmonies that swell in short bursts. The schizophrenia of loosing fire at such gorgeous constructs is a common theme in metal, a juxtaposition that relishes the relationship between carefully created beauties and a destructive counterpart. In Tristania this becomes a major focus as subtle hints of the harsh reality 'Beyond the Veil' become a world of strife as the album progresses.

From this approach is a worthy wellspring of fresh and tantalizing variety, decadent and arousing while also crisp and cutting in spite of such lengthy and expansive riffs and harmonies that diabolically document the derangement of one's descent into a world of ritual and death. A long swinging churn to the title track brings unmistakable choral highs and tinkling cymbals, the wailing web of guitars delicately settles along a middling pace that easily worms into an ear and, in reaching apogee through soloing while buffeting such cries with double bass, finally finds the sonorous swing expand into a prickly deluge to satisfy even Satyricon with its torrents of grain. “Aphelion” and “A Sequel of Decay” make obvious the turn of intoxicating tones and inviting momentum into the demonic as you enter the embrace of the succubus, a creature literally fucking her way through “Opus Relinque” before tearing out swollen hearts. To say that Tristania's approach is transparent is an understatement, the obvious balance of harmony and hatred is belted across your face like domestic violence at the opera, but that doesn't diminish the theatrical enjoyment of the theme or the profane potency of “Angina” when a cavalcade of choirs clash for control.

The creativity and craft employed through this album ensure a consistently inventive approach that allows the band to experiment at times but also limit itself to only its most presentable attempts. Where “Aphelion” drags at times, its methodical sound accentuating a dormant beauty far from the heat of the Sun, its subtle movements enchant in symphony from the flowing chorus punched by double bass to a heart melting interlude where beautiful highs and a weeping verse pluck at each artery. The nearly eight minutes of this song shows the band patiently holding itself back until its dam breaks and ducts overflow. A piece that by far outruns the track lengths of the rest of the album, “Aphelion” becomes a staple show of the careworn strife breaking into rage that tantalizes Tristania and appropriately harbors its drastic breadth.

Shining in the spotlight are the sopranos from Vibeke Stene, her incredible vocal delivery brings beauty and strength with every cry and fulfills a an enticing half of a filthy combination when joined by Morten Veland's growls. Opening “A Sequel to Decay” with a choir of intense cries easily shows the rhythm employed in this nearly chanting operatic while Veland's range is more protracted, embracing the decadence and magnificent sound of a gruff and massive presence similar to Peter Steele of Type O Negative. At other times Veland employs heaving growls and, with a choir aided by drummer Kenneth Olsson and guitarist Anders H. Hidle, the ensemble completes its medieval majesty. The twinkling apogees and insidious abysses greatly compliment the instrumental deliveries showing that Stene and Veland's contributions are among the many masterstrokes in structuring as well as sounding out the album to make it such a memorable and astounding experience.

Synth plays a prominent role from tinkling classical piano keys and symphonic strings to the wild jarring horns later in its hellish progress. Employed by Einar Moen, one of the major forces behind the songwriting, the placement of synth enlarges the range of this album by giving it the unmistakable theatrical characteristics that capture the magnitude of Tristania's ambition. The snare drum, pacing the percussion at a laborious and lamenting step, has the sharpness of shattering glass and compliments these bouncing rhythms as guitar joins symphonic strings, winding around a choir to create machinery of chaos and hatred by the turn in “. . . Of Ruins and a Red Nightfall”. Like the heartless clanging denoting the fires consuming Fangorn Forest, Isengard melts and molds metals into a new mechanism of conquest.

An ever-energetic motion below the snare finds constant implementation. Double bass brings personality to the central hammer as it pumps like a bellows and brings heat to make malleable the clanging cymbals overhead. Like an endless ride down winding trails in “Lethean River”, the clip clop of double bass is where one notices how riding these percussive fills and interludes typify the bridges between verses and choruses. As majestic as mounting an eagle to escape from the imploding Mount Doom, these amorphous undulating movements create in sound the defined, sinewy, and romantically detailed image of Pegasus taking flight.

Where the band made emotions meander through its opera early in the album, things become more straightforward and streamlined through the back half. A personal favorite, “Angina” brings Stene's voice so high that it nearly becomes as comical as “Take On Me” and its high C. Still, the cascade of choir tumbling down from such a gorgeous summit is the epitome of Tristania's unusual and calamitous sine wave. Cymbals dancing in concert with piano keys while walled into a pit by a crowd of double bass conjures images of a stately show where metalheads meet aristocracy and all gather in lively celebration of the music. Distant organ and marching guitar riffing conjure images of a “Heritique” transported across space-time as flames engulf the stake, a raucous crowd receives its satisfaction, and a star bursts from a blasphemous chest.

Tristania's treble is mainly concerned with an energetic and elaborate labyrinth of strings, upheld by Morten Veland and Anders H. Hidle who tirelessly strum through lengthy lamentatious riffs that harmonize and break from one another with a smooth and studious flow, sometimes finding frenzy or chomping into a juicy rhythm, but never disabusing itself of the bountiful beauty found in resonating strings. In its most frantic moments, clarity is lost in the very treble oriented mix making such a saturated end become slightly hazy and indistinct. In a song like “Aphelion”, where its lumbering gait holds court for the majority of the song, this grandiose sound has a crispness that becomes muddled as layers are added on. Still, the majority of the production is listenable enough though in need of a bit more range on its low end to lend a tighter fist to this expansive energy and bring the necessary punch.

Tristania is a succubus in sound, one that many a man would happily embrace. Wearing a sinister grin as it consumes your soul, its once alluring form quickly contorts into a vengeful demon. Brimming with brief but compelling moments, 'Beyond the Veil' happily babbles like a brook throughout its enticing bubblegum bits, a denial of the darkness lingering behind the lovely cover of stark-naked sirens seemingly sleeping among the rocks of a hot spring refuge. Where the woman in the foreground appears to be enwrapped in a peaceful slumber, the fog settling across the background has begun to obscure bodies unceremoniously lying where they stood showing, as one figure lords herself over the fallen, that slaughter must take place in order for one's ascension. Like its magnificent music, Tristania's foreground of beauty belies the sinister reality that awaits 'Beyond the Veil'. (Five_Nails)
 

Windfaerer - Alma

#FOR FANS OF: Epic/Folk Black
The folk black metal scene has flourished a lot in recent times, not only in Europe, where due to the long and rich history of the continent makes it quite usual. But even in many other parts of the world, sometimes in countries with a long history and in others with a shorter period of existence. US is one of the most obvious cases where we can find some awesome bands like Ifing or Duskmourn, among many others. Sometimes the lyrics deal with Nordic mythology or American history and politics, like Panopticon does. However, I think this is the first time I find a US-based project which sings about Iberian history as Windfaerer does. As far as I know, some members have Portuguese roots, so this could explain this interest which makes Windfaerer’s music even more intriguing for me.

The band was originally created in 2006, so these guys are not newcomers. Some of the members, such as the two guitarists, have extensive experience in the extreme metal scene, though they have found time to release, prior to this new album, two full lengths, an EP and a split album. 'Alma', the name of this new creation, is the third album and as it usually happens, the third attempt is the one that definitively marks if the band's career can have a long-term future. Conscious of this or not, the band has put a lot of effort on this album, and the first positive sign comes before you even listen to the album. This is because for this album they have signed with the Italian label Avantgarde Records, which I personally rate very highly due to the consistent quality of the bands on their roster.

'Alma' starts with the powerful and immense “Dawn of Phantom Light”. The track begins with a short atmospheric intro, interrupted by some great guitars which form a solid wall, full of epic and strength sounds. Vocals are on par with some great screams, accompanied by occasional arrangements in the background, which enhance the greatness of the track. Musically speaking, the song is not repetitive, with occasional ups and downs in the pace and including a calm atmospheric short section. Another standing out element are the guitar solos, which are more elaborate and complex than in many similar albums. The album opener is a definitively good summary of what we will find in this record. Moreover, as we can hear in songs like “Becoming”, the band successfully adds some classical instruments, like the violin or cello, which sound great and give a definitive folkish touch to the songs. They even fit the music in the more straightforward tracks like “Journey”, where they create a quite unique melody, making the song more interesting. The album ends in style with the excellent “Under the Sign of Sol”, which shares many characteristics with the album opener, not only in terms of quality, but as it contains all of the elements which make this album a very pleasurable listen.

In conclusion, Windfaerer did a step forward with 'Alma', which is a very well-balanced album. The production sounds excellent, clean and powerful. All the elements are very well done, though I would highlight the excellent guitars, which sound convincing and very tastefully composed. As previously mentioned, another remarkable point are the arrangements, especially those including the classical instruments, which embellish the composition and the album itself. (Alain González Artola)

(Avantgarde Music - 2018)
Score: 85

https://windfaerer.bandcamp.com/album/alma

lunedì 10 dicembre 2018

Shuffle - #WontTheyFade

#FOR FANS OF: NuMetal/Alternative Rock, Linkin Park, Incubus
After the 2015’s convincing debut album 'Upon the Hill', this nu-metal youngster quintet releases another raw diamond: '#WontTheyFade'. Everybody would initially spot this band somewhere in the USA, the sound takes us to the late '90s college rock but: first of all, these guys come from France (Le Mans) and second, they re-adapted a 20 years old sound to the XXI century’s second decade with modern lyrics and much more groove. I enjoyed this album a lot and I’m looking forward to monitor the bright future they’re promising, they have everything necessary to break trough the scene and already shown maturity in this latter release comparing it to the first one. The composition, the arrangements, the riffs and the melodies deserve more than a superficial glance, delicacy and brutality are perfectly merged together, I mean, if you are under 30 you have no reason to avoid this album, if you are over 30 and still able to dream, you also have no reason to leave this work un-downloaded. Shuffle is a wonderful reality made of young hungry guys ready to slap your face from the earliest live guitar plug, I’m already checking if they’re planning a gig in Italy! The ingredients of Shuffle are compliant for a world explosion, “Spoil the Ground” and “Faded Chalk Lines” will stay for a long time in my playlists and I will definitely let my girlfriend listen to “Oh Glop D’eternitat”, '#WontTheyFade' has songs for everybody. Emerging or not, material about this band can be found easily with a quick research and what really emerge are their passion and dedication. If the improving path won’t meet distractions, we will here about these guys very, very soon. (Pietro Cavalcaselle)

domenica 9 dicembre 2018

Tarja - The Shadow Self

#PER CHI AMA: Symphonic Metal, Nightwish
Prevedibile ultrametal si(n)fonico ultratastieroso ("Love to Hate"), ultraserioso al punto da risultare ultraprossimo al comico (la scapigliatura pianistica dell'onanistica "Innocence" post in apertura) con sparute pennellate (o, più precisamente, interi sacchi di vernice) genericamente vintage (potete dilettarvi a individuare purple/rainbow-ismi nella cover di "Supremacy" dei Muse), virate mélo-celtiche con tanto di cornamuse e cumulonembi in lontananza ("The Living End"), reminescenze Nightwish ("The Undertaker") e un'archetipica modulazione tutta finlandese del concetto di ballata ("Diva", forse "Eagle Eye"). Completano il quadro, aderenze in pelle nera, un batterista di grido(lino), quello dei Red Hot Chili Peppers e i consueti gridolini da cristalleria in cocci che non mancheranno di solleticare le generose ghiandole lacrimali di flottiglie di vichinghi provvisti di mani grandi e cuore tenero. Ascoltatelo ad alto volume mentre vi esercitate per i mondiali di lancio del cellulare di Savonlinna. (Alberto Calorosi)

(Sheer Sound - 2016)
Voto: 65

http://tarjaturunen.com/home-tarja/

Sabaton - The Last Stand

#PER CHI AMA: Power Metal
La band svedese che sembra sempre tornata ieri sera dall'Iraq, mette in scena l'ennesima inappuntabile power-frittella alleato-oriented intrisa di enfatiche progressioni, scale veloci, cori eterosessuali e rassicuranti vocioni da trincea, ottimamente calati nella parte ("Rorke's Drift" and many more). Tanto per sollevare un po' di polverone nel battleground, occorre collocare, invero sapientemente, qualche epic-sbraganza in apertura ("Sparta") e no ("The Lost Battalion"), poi alternare sporadici mimetismi prog-metal ("Blood of Bannockburn" con tanto, l'avreste detto, di cornamuse) e AOR/ismi tattici d'oltreoceano ("Hill 3234") o d'oltrebaltico ("Last Dying Breath"). Riguardatevi su youtube il video della band di rock duro, duro, duro chiamata I Budini Molli, dopodiché divertitevi a sentire questo disco coi testi davanti mentre, per qualche ragione che preferite non spiegare a voi stessi, vi immaginate l'emorroico culo mimetico di Joakim Brodén morbidamente adagiato su un puff rosa a forma di labbra. (Alberto Calorosi)

(Nuclear Blast - 2016)
Voto: 65

https://www.sabaton.net/

Steel Panther - Lower the Bar

#PER CHI AMA: Glam Rock
Un cogitabondo approfondimento della introspettiva poetica pattumiera-glam già esaustivamente affrontata nei dischi precedenti. Immagini oniriche ("Then she tried to suck my balls at her wedding reception" cantato in "Poontang Boomerang") a tratti vertiginosamente fantasiose ("Steal a Saturn 5 and fuck an astronaut / zero G anal and weightless cumshots" in "Anything Goes"), ardite metonimie ("I got what you want baby / five and a half inches of love" in "I Got What You Want") e inestricabili litoti ("Don't have to be a fireman / to ride the pole" in "Walk of Shame"), colte citazioni musicali ("I got a 20 year old wife and she's eager to please / But she made me throw away my Dokken CD's" in "Wrong Side of the Tracks") ed una inaspettata apertura omofobo-fobica ("Is it a chick or is it a dude? / Doesn't really matter if she looks good nude" in "Now the Fun Starts"). Van Halen ("Anything Goes"), Joan Jett ("Poontang Boomerang"), shock rock, Poison. Nel quarto album gli Steel Panther riescono nella impresa quasi epica di mantenere fede al titolo del disco, cioè abbassare ulteriormente l'asticella. D'altronde "all the critics said / our debut record was our peak" ("That's When You Came In"). Se lo dicono loro... (Alberto Calorosi)

(Open E Records - 2017)
Voto: 55

https://www.facebook.com/steelpanther/

Logrind - Overcome

#PER CHI AMA: Post Grunge/Rock
In copertina, un pianeta dilaniato da ogni genere di umane angherie come metonimia del campionario di emozioni prese in considerazione nello sviluppo del disco. I suoni esordiscono squisitamente grunge-pop primi 90's (i Soul-Asylum-in-carrozza di "Waiting for Your Call"; i Rem-losing-ma-spazientiti di "If You Wanna Cry", ma soprattutto i Pearl Jam-di-Alive di "Alive", forse una sorta di quasi-sequel; oh, ma ve li ricordate i Train?) eppure mutano con impercettibile costanza nella direzione di un melodic antico/moderno ("Hey Guy") o un ultramelodic ancora più moderno/antico ("Stand Tall"), con incursioni arena pop ("Pray For You") e immancabile lentone reggiseno-oriented ("Between Us"). Canovaccio consolidato, professionalità e una produzione precisa e persino pignola. Come dite? Cercavate novità? C'è sempre Brian Eno. Ha fatto un disco nuovo anche l'altro giorno. Sempre che riusciate a reggerlo. (Alberto Calorosi)

(Areasonica Records/Believe Digital - 2016)
Voto: 60

https://logrind.bandcamp.com/releases

sabato 8 dicembre 2018

El Tubo Elastico - Impala

#PER CHI AMA: Psych Rock/Math/Jazz
Chi pensa al classico album di post-rock strumentale, avvicinandosi agli spagnoli El Tubo Elastico, si sbaglia di grosso. L'unica cosa vera è infatti l'essere privo di una guida vocale, cosa che da sempre non mi rende felice, però se vi affiderete anche voi alle cure di questi musicisti provenienti da Jerez de la Frontera, beh credo per una volta uno strappo alla regola si possa anche fare. Perchè questa mia transigenza? Ve lo spiego subito: 'Impala' è un album caleidoscopico che si muove tra mille colori e sensazioni, coniugando il psych rock con il math, il funk ed altre divagazioni jazz che esulano quasi dalle mie competenze, suggestioni esotiche e reminiscenze dal sapore pink floydiano. Ascoltando e riascoltando il cd, sarete certamente più bravi di me a indovinare a cosa o chi i nostri s'ispirano, mantenendo comunque intatta la loro enorme personalità. Il tutto è testimoniato dalla lunga e strepitosa opening track, "Ingrávido", una song che sublima tutto quanto scritto sin qui in quasi dieci minuti di musica, impreziosita anche da qualche tocco di synth. Più calda ed intimista la seconda song, "Antihéroe", con l'elegante epilogo tra chitarra acustica ed elettrica, mentre in sottofondo battono pulsazioni electro. Poi è un crescendo entusiasmante, tra saliscendi ritmici guidati dall'egregio lavoro delle chitarre e da un'elettronica che va divenendo sempre più preponderante. Non è un album semplice 'Impala', ma sia chiaro che potrà regalarvi enormi soddisfazioni, come quelle che si assaporano nelle più sofisticate "Turritopsis Nutricula" prima, dove compaiono delle spoken words, e nelle due parti di "El Acelerador de Picotas (Pt. I Ignición / Pt. II Colisión)" poi. Nella prima delle due song, ammetto di aver temuto si trattasse più di un esercizio di stile che altro, per mostrare l'eccellente livello qualitativo del combo iberico. La tecnica del quartetto è davvero pazzesca e l'inserimento di alcuni ospiti di spicco, sembra elevarne ulteriormente la caratura, in un quadro qui fortemente virato verso il jazz. Nei dodici minuti di "El Acelerador..." mi sembrano invece confluire sonorità latine che ricordano il buon Carlos Santana che vanno a miscelarsi nuovamente col jazz ed una buona dose di rock progressivo, guidato dal basso magnetico di Alfonso Romero (mostruoso in tutto l'album), peraltro responsabile insieme a Daniel Gonzáles - uno dei due chitarristi - delle ottime keys di quest'album. Il massiccio impianto ritmico dell'ensemble spagnolo si completa poi con l'estrosa performance alla batteria e percussioni di Carlos Cabrera e Vizen Rivas all'altra chitarra. "La Avispoteca" ci guida in anfratti musicali che odorano quasi di Medioriente con le strutture percussive ad assumere altre forme e colori assai sofisticati. Sembra di trovarsi nel bel mezzo di un souk arabo, dove tra la calca di gente che affolla strade e piazze, si trovano abili musicanti, che affascinano ed ipnotizzano con la loro musica. L'ultima tappa del nostro viaggio esotico è affidata a "Impala Formidable", un brano che raccoglie tecnica, idee e deliri vari di questi incredibili El Tubo Elastico. (Francesco Scarci)

Absent/Minded - Raum

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge/Depressive
È il terzo album dei teutonici Absent/Minded che recensisco, mi sono perso solo il debut 'Pulsar', semplicemente perché non li conoscevo ancora. Da 'Earthone' in poi, è stata una progressione nel mio indice di gradimento, che mi ha portato ad apprezzare sempre con grande entusiasmo, le proposte dell'ensemble bavarese. Ora, ecco arrivare la loro nuova release, 'Raum', per capire se le mie attese saranno nuovamente confermate. Sei i pezzi per i nostri, che aprono le danze con le vocals sussurrate di "Deep Roots Aren't Reached by the Frost", accompagnate dal classico rifferama ultra distorto della band e quel growling corpulento che da sempre, caratterizza i quattro musicisti di Bamberg. Come già detto per il predecessore 'Alight', in riferimento all'album precedente, non scorgo sostanziali differenze in fatto di genere proposto, vedo semmai la conferma di una qualità che si assesta sempre a livelli standard assai elevati. C'è chi potrebbe storcere il naso e parlare di immobilismo artistico da parte della band, francamente me ne fotto, preferisco rilassarmi e assaporarmi il suono delle poderose chitarre di Uwe che ama creare ambientazioni death doom per poi piazzarci dentro dei riferimenti legati al mondo sludge/post metal. Ancora meglio la seconda traccia, "Treasure", lenta, disarmante, a tratti spoglia, ma non con quella valenza negativa che può avere il termine. Penso semmai alla desolante propagazione sonica dei Cult of Luna o alla malinconica disperazione degli svedesi Shining, che forse in questo pezzo, hanno più di un punto di contatto con i nostri. E forse proprio in questo risiede la vera novità degli Absent/Minded targati 2018, ossia una maggiore vicinanza al black depressivo. Insomma, mica male mi viene da dire, soprattutto perchè tutto l'album si assesta su livelli medio-alti e perchè i pezzi migliori sembrano concentrarsi poi nella parte centrale del cd, quindi la qualità va aumentando man mano che si avanza con l'ascolto. "Fore-ever" parte assai lentamente, la voce bisbigliata di Stevie sembra quasi cullarci nelle sue struggenti e delicate note, almeno fino a quando il riffing deflagra nella sua pienezza e contestualmente s'accresce sinuosamente anche il ritmo. Con "Shore" si parte invece già belli carichi con una ritmica potente per poi fare il percorso inverso, rallentare in interessanti parti atmosferiche e riprendere con la stessa ferocia di inizio brano. Ci sono le onde del mare a darmi un senso di rilassamento in "Yrtm", dove una sorta di guida spirituale declama i versi della poesia "Funeral Blues" di W.H. Auden. L'ultima song è la lunga "Alpha", nostalgica nei suoi giri di chitarra acustica, ma sempre roboante nelle growling vocals e nel suo mastodontico riffing. Gli Absent/Minded sono tornati e non posso che esserne lieto, perchè la prova è sempre di pregevole qualità. Mi sarei aspettato qualche ulteriore variazione al tema classico (ed è per questo che non li premierò più del dovuto) perchè questi ragazzi hanno il dovere di dare e osare di più. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 75

https://aminded.bandcamp.com/

giovedì 6 dicembre 2018

Entropia - Vaccum

#PER CHI AMA: Blackgaze/Trance/Post, Deafheaven, Thy Catafalque, Lux Occulta
'Vacuum' si candida ad essere uno dei miei dischi preferiti del 2018. La band che l'ha concepito è formata dai polacchi Entropia, che mi avevano già colpito favorevolmente col loro debut album del 2013, 'Chimera' ed in seguito con 'Ufonat'. Perché tutto questo entusiasmo vi chiederete? Perchè a mio avviso la band di Oleśnica ha ereditato lo scettro degli Altar of Plagues, l'ha arricchito con le idee deliranti dei Thy Catafalque, rilasciando un lavoro mostruoso per sonorità, sperimentalismi vari ed espressività, che mi ha fatto letteralmente perdere la testa. Il quintetto in un'ora di musica ed in soli sei pezzi, ne combina davvero di tutti i colori: si parte dagli oltre 15 minuti di "Poison", una song ipnotica che miscela elementi psycho trance con il metal estremo, black, post e tanto altro. È semplicemente follia, quella che vado ricercando da tempo immemore, quella che riempie e centrifuga il cervello, che nei suoi magistrali loop elettronici, pop-algebrici, incorpora tutto ciò che un visionario malato di musica metal, vorrebbe sentire in una canzone. I quindici minuti più destabilizzanti della mia vita, ma si sa che la scuola polacca ha altre band antesignane nel genere e penso ai Lux Occulta e alle loro ultime divagazioni avanguardistiche. Ecco, gli Entropia ci hanno messo tanto del loro, della loro classe che già era emersa in passato et voilà, ecco questo meraviglioso gioiellino di musica ascrivibile al genere sperimentale, avantgarde estremista, o come diavolo volete, a me non interessa. Per me è importante che voi diate un ascolto, anzi due, tre o forse dieci, a 'Vacuum' e al drumming ossessivo di "Wisdom" e alle folgorazioni dettate da non so quali sostanze proibite che hanno portato questi cinque pazzi musicisti a scrivere musica di tale consistenza. Delizia per le mie orecchie, e sarà altrettanto per tutti coloro dotati di una mente aperta, apertissima, perchè il disco non è proprio semplicissimo da affrontare. Citavo "Wisdom", un brano che mette in loop per cinque minuti lo stesso giro di chitarra e synth, prima di esplodere in una tremebonda cavalcata post black che sembra trarre ispirazione però da qualche riff prog rock di anni '70. Il tutto senza utilizzo di una voce (uno screaming peraltro fantastico che fa capolino qua e là nel disco) che farà la sua comparsa solo sul finire del pezzo, quando l'ultima centrifugata ci avrà dato il colpo di grazia. Ecco a cosa somigliano gli Entropia, ad una lavatrice che nella sua centrifugazione più estrema, rilascia splendide note musicali. Come quelle che aprono "Astral", un viaggio sparati nell'iper spazio più profondo alla ricerca di una qualsiasi forma aliena con cui interagire. Certo, la musica degli Entropia potrebbe essere un pericoloso biglietto da visita per la specie umana, gli extraterrestri la considererebbero un'arma pericolosissima visto che la ritmica della song somiglia di più ad un cannone laser. E nemmeno la title track ci dà modo di mostrare l'attitudine pacifica del nostro pianeta, è un'altra arma di distruzione di massa, che rallenta i suoi beat a tal punto da ipnotizzarci di fronte alla ridondanza sonica profusa. Un loop di suoni ed immagini che entrano nella testa e non accennano a lasciarci. Io questo album l'ho consumato, ascoltato decine e decine di volte, le sue melodie ormai le sento sotto la mia pelle, la sua furia belluina risuona nella mia testa, le sue geniali trovate le inserirei in un'ipotetica enciclopedia della musica metal, per spiegare come possono convivere differenti forme musicali sotto lo stesso vessillo. Con "Hollow", i suoni si ammorbidiscono un po', rimanendo nei paraggi di uno space rock malinconico, dove le vocals sono cosi cariche di pathos da far venire la pelle d'oca, grazie soprattutto all'eccezionale lavoro di tastiere e synth che accompagnano la progressione blackgaze che si sviluppa nella sua seconda metà. Gli ultimi dieci minuti sono affidati alle melodie di "Endure" e alla sua debordante quanto arrembante ritmica che sancisce la fine di questo capolavoro di musica estrema, che voglio consigliare anche a chi di estremismi non ne vuol sapere, ma ritiene di avere la mente abbastanza "open" da poter affrontare questa sfida targata Entropia. Album dell'anno per il sottoscritto? Mi sa proprio di si. (Francesco Scarci)

(Arachnophobia Records - 2018)
Voto: 90

https://entropia.bandcamp.com/