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mercoledì 23 aprile 2014

Infection Code - Fine

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Industrial Noise Rock, Neurosis
Mi giunge, purtroppo in un misero cd-r, 'Fine' ultima fatica in ordine temporale degli alessandrini Infection Code, in attesa del nuovo 'La Dittaura del Rumore' in uscita a giugno per Argonauta Records. Il platter si apre con l'ipnotica "Varnish" che mostra una voce e un drumming ripetitivo sorretti da un tappeto di effetti rumoristici che accompagna l'arrivo di "All Colours", traccia abbastanza anonima ed isolata dal resto dell'album. La successiva "Grey" è la traccia più prolissa del disco a trasmettere una quiete mistica dove sono continuano a essere protagonisti i sintetizzatori che cullano l'ascolto grazie alla loro modulazione. La seconda parte del disco presenta tracce monotone e ripetitive come l'industriale "Collapse of the Red Side" e la sconclusionata a tratti fastidiosa "Black Glue", mentre la cover dei CSI "Cupe Vampe" non è memorabile. L'opera si conclude con "Painting My Life", composizione interessante che si fonda essenzialmente sull'elettronica e sulle vocals, capace di offrire una distinta atmosfera e una buona trasformazione finale. In sostanza questo 'Fine' è un album relativamente piatto, dove solo pochi spunti riescono a risaltare sul complesso. (Kent)

(New LM Records - 2010)
Voto: 55

domenica 20 aprile 2014

Coraxo - Starlit Flames

#PER CHI AMA: Cyber Death, ...And Oceans, The Kovenant
Chi di voi si ricorda gli ...And Oceans, mitica band finlandese (ora Havoc Unit) che a fine anni '90 coniugava con eleganza il death metal con l'elettronica? Ebbene, io ho amato i loro quattro album e mi è dispiaciuto quando si sono sciolti, soprattutto perché la loro reincarnazione non si è rivelata poi all'altezza. Per sopperire alla mia "perdita", giunge in mio soccorso un'altra band dalla Finlandia, tali Coraxo. Il duo di Tampere, formatosi pochi mesi fa (settembre 2013), sforna questo EP di 5 pezzi più intro e bonus track, nell'ottica di completare una trilogia di lavori quanto prima. Il mini cd in questione, farà la gioia di chi ama il death metal contaminato da elementi cibernetici che si ispirano al sci-fi e ai film horror degli anni '50-70. Ottimo per il sottoscritto che non può far altro che godere quando 'Starlit Flame' irrompe, con le sue scariche cyber death, nelle mie casse. Intro spaziale e poi ecco che i nostri si mettono in contatto con gli umani dalla loro navicella e con "Signal Detected" invadono il pianeta Terra col loro electro death melodico che inequivocabilmente richiama i The Kovenant (che fine hanno fatto a proposito quelli?). La vicinanza con l'act norvegese è parecchio evidente nelle linee di chitarra e synth, cosi pure nelle linee vocali. Niente male davvero, soprattutto perché di Nagash (o Lex Icon, come preferite) se ne sono perse le tracce da quasi 10 anni e allora ben vengano i Coraxo con la loro proposta futuristica. Synth a manetta aprono "The Xenotaph", con una ritmica che pare presa in prestito dai Cemetary 1213. Notevoli per quanto il sound dei nostri possa apparire ai più derivativo. Suoni industrial si mischiano con il roboante e violento (quasi black) riffing dell'ensemble finnico in "The Big Fight Scene" con le vocals di Tomi Toivonen, dotate di una timbrica velenosa, perfette per questo genere musicale. "Transformed" apre che sembra quasi un videogame anni '80 per poi perdersi in vocals evocative; finalmente la song parte per offrirci però solo due miseri minuti di sonorità mid-tempo che mi impressionano solo per un growling profondo e un'effettistica che tanto era cara ai già citati ...And Oceans. Sette sono invece i minuti affidati alla psichedelica "Escape?" che chiude il dischetto con un sound che mischia sonorità estreme piuttosto lineari con viaggi progressive e vocals che si alternano tra il growling e il pulito. Il cd non finisce però qui, visto che l'epilogo vero e proprio è affidato a una cover dei Sepultura, "Refuse/Resist", riletta ovviamente in chiave tribal cibernetica, per un esperimento finale riuscito solamente a metà, in quanto a mio avviso non si tratta di una song che si presta appieno a questa genere di rilettura. Un plauso però per l'arduo tentativo. A quando ora il nuovo EP? Attendo fiducioso. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

Slomatics – Estron

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
E’ già da qualche tempo che gli Slomatics sono uno dei motivi per cui tenere bene a mente il nome di Belfast, oltre a Van Morrison, George Best, Kenneth Branagh e gli attentati dell’IRA. Il trio nordirlandese, infatti, ha all’attivo già una manciata di lavori di assoluto spessore e una BBC session, che li hanno imposti come uno dei nomi importanti dello sludge-doom europeo e non solo. Tra i motivi di interesse di 'Estron', il loro nuovo album, c’è l’esordio di Marty alla voce e alla batteria, mentre Chris e David (i tre hanno anche dei cognomi, suppongo, ma non sono riuscito a trovarli in rete) continuano a saturare in maniera criminale le loro chitarre. Tutto, in questo lavoro, sembra fatto bene e ci consegna l’idea precisa del concetto di solidità. Dalla splendida copertina illustrata dall’artista sci-fi Tony Roberts, che qui sembra omaggiare Moebius, alla qualità dei brani, alla perfetta resa del cataclisma sonoro orchestrato dai tre. Quello creato dagli Slomatics è un maelstrom sonico sempre sul punto di implodere sotto il suo stesso peso, ottenuto accumulando strati di fuzz e percussioni tonanti, che se ascoltato al giusto volume (e in questi casi, il volume “giusto” è sempre quello che si avvicina al fine corsa della manopola) è in grado di entrare in risonanza con la vostra cassa toracica e gli organi interni, e prendere il controllo del vostro corpo contro la vostra volontà. La prova di Marty è assolutamente di alto livello, tanto dietro le pelli quanto alla voce, mentre i suoi sodali sfornano riff colossali a ciclo continuo, e i brevi momenti drone, a base di theremin e synth, sono azzeccatissimi e permettono di prendere fiato prima di venire nuovamente sommersi da valanghe di watt. I brani sono tutti di altissimo livello, e diventa difficile trovare vette nella scaletta, mentre di cedimenti nemmeno l’ombra. Mi piace citare le iniziali “Troglorite” e “Tunnel Dragger”, oppure la pachidermica, devastante “Lost Punisher”, o ancora “And Yet It Moves”. In ogni caso la sensazione è quella di trovarsi ai piedi di un vulcano in eruzione, quando è ormai troppo tardi per mettersi in salvo, e l’unica cosa da fare è provare a godersi lo spettacolo, sperando, chissà come, di uscirne indenni. Mastodontici. (Mauro Catena)

(Burning World - 2014)
Voto: 80

sabato 19 aprile 2014

Edenian - Rise of the Nephilim

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, Draconian
Edenian atto II. Dopo la risicata sufficienza di 'Winter Shades' del 2012, ecco arrivare il come back discografico degli ucraini, fuori sempre per la BadMoonMan Music, per vedere di risollevare una prima prova non proprio memorabile, almeno per il sottoscritto. Ci si ritrova come al solito, al cospetto di un death doom dalla forti sfumature gotiche, in cui però ci sono delle novità da sottolineare, almeno a livello di line-up. Fuori il pessimo vocalist Volodymyr Tsymbal e la donzella Samantha Sinclair, e dentro Valery Chudentsova con le growling vocals affidate al mastermind Eternal Tom, che gestisce pure l'intero impianto strumentale dei nostri. Questo smottamento interno deve aver fatto bene al duo di Kharkiv, che con 'Rise of the Nephilim', vede migliorare la propria proposta. Sia chiaro che a livello musicale non c'è nulla di nuovo, bensì si continua a portare avanti un discorso già impostato con il precedente lavoro, ossia un sound che ricalca quello di Draconian e Swallow the Sun, affidando il compito di non far annoiare i fan, alle ottime melodie e alle eteree vocals femminili. Ecco, forse il cambio a livello di voce femminile, non ha portato i benefici auspicati, in quanto il suadente modo di cantare di Valery alla lunga stanca o stona (si ascolti "Nearer my Love to Thee" a tal proposito), mentre molto più convincente è il growling catarroso di Eternal Tom. Difficile poi elevare una song piuttosto di un'altra, in quanto un po' tutte si assomigliano o meglio assomigliano a quelle dei colleghi nordici ben più famosi. Tuttavia posso permettermi di dire che il sound di questo secondo lavoro risulta più articolato e apprezzabile, complici i buoni arrangiamenti e un ben più elevato songwriting. Un piccolo passo in avanti è stato fatto, ne attendo altri per il futuro. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music - 2013)
Voto: 65

venerdì 18 aprile 2014

Ølten - S/t

#PER CHI AMA: Post Sludge Strumentale 
Debutto per gli svizzeri Ølten, che nel giugno 2013 rilasciano questo EP omonimo in forma digitale e a settembre dello stesso anno, lo fanno uscire in vinile. La proposta del trio del Canton Iura è piacevole anche per chi, come il sottoscritto, non predilige composizioni interamente strumentali, complice anche la non eccessiva lunghezza dell'album. Il lavoro si apre con il noise ammorbante di "Péplum" che ben presto virerà la propria proposta verso più ipnotiche sonorità dal tratto comunque melmoso. Stiamo parlando di sludge/post (per convenienza eviterò di mettere una qualsiasi etichetta dopo) che tra sfuriate elettriche e intermezzi più rarefatti e inquietanti, ha modo di mostrare anche una certa personalità in una song dotata di un crescendo da panico. Bell'impatto, non c'è che dire. "Kàpoé" è un altro brano che attacca con stilettate di chitarra e un drumming marziale a cui farà seguito un sound minimal indefinito e dai tratti alieni, che non fa che confermare l'originalità di fondo della proposta. Un altro inizio all'insegna dell'ossessività è dato da "Tallülar" che inizia a logorarci con la ripetitività dei suoi giri che deviano verso acuminate sonorità post-rock. Chiude l'EP "Blöm", la song forse più oscura delle quattro, che conserva nei suoi tratti la discriminante dei nostri: il binomio offerto dalla marzialità della sua batteria e dalla ridondanza delle sue chitarre che finirà ben presto per sfiancarci. Ølten, un'altra bella scoperta per chi ha voglia di variare ogni tanto i propri ascolti in territori post bellici. (Francesco Scarci)

(Hummus Records - 2013)
Voto: 70

Church of Disgust - Unworldly Summoning

#FOR FANS OF: Primitive Death Metal, Incantation, Ignivomous, Hooded Menace
A two-man retro death metal act from Texas, Church of Disgust seem to follow the Incantation act of deathly worship that tends to make the band feel like they’re flat-out copying the band. Stripping down the style even more than McEntee and company do, this is cavernous, Lovecraft-inspired Death Metal that tends to rattle along with some noteworthy Doom-inspired riff-work and accompanying tempos along the way to go along with the darker, more ominous styles throughout the rest of the album. This is an incredibly straight-forward effort that really doesn’t offer up many surprises throughout either, tending to focus on such matters throughout the running time so this one tends to resemble primitive-sound Death Metal obsessed with the supernatural and otherworldly horrors in a barbaric cacophony of low-fi guitars, rattling drumming and deep, deep growls that are all straight from the Incantation playbook just without the originality, spirit or ability to gauge the listener the way that band goes about this bestial style of sonic death. Frankly, the band tends to thrash away in a simplistic vibe for a while filling the space with blistering drumming and unrelentingly intense vocals before slowing things down into a slower crawl with sprawling, doom-influenced patterns and chords only to repeat this throughout the song as a whole before returning to matters again on the next track where it repeats the process so it really just depends on the intro to really set the songs apart for it’s awfully difficult to really determine where you are on the album as a whole once it gets going. If there is such a thing as a stand-out track on here, the slightly faster tempos and more extended energy spent on the blistering tempos on "Writhing Dominion" do stand out somewhat from the pack for the ability to comfortably initiate a beat-down for the majority of its running time, but then it really sounds like "Immemorial Lunacy," "Rotting Above Ground" and the title track for that matter as well. "The Great Chamber" also deserves mention for its inherent ability to sound like a B-side to Hooded Menace only with the cavernous vocals being added over the sprawling Doom-tempo they employ, and that’s a sincere compliment in its purest form. Make no mistake, the band is exceedingly well-accomplished at this particular format and style, it’s just not the most original one they’re attempting which is where this one falls. Perhaps album two is where they’ll hit the mark. (Don Anelli)

(Memento Mori - 2014)
Score: 65

mercoledì 16 aprile 2014

Dogs For Breakfast - The Sun Left These Places

#PER CHI AMA: Progressive Hardcore, Mastodon, Unsane
Eccezionalmente particolare questo lavoro dei Dogs For Breakfast, trio di Cuneo dedito ad un genere difficilmente definibile, complementare di numerose influenze, non solo dal punto di vista compositivo ma anche sonoro, quel "un po' di tutto ciò che piace alla gente" che negli ultimi anni affolla le uscite della case discografiche, ma che i Dogs For Breakfast stilano con particolare personalità. Già dall'opener "January 21" rimango piacevolmente sorpreso: riff granitici, esplosioni di volume e ritmi ipnotici caratterizzano le tracce che scorrono piacevolmente nel loro complesso, più che trascinando, incuriosendo l'ascoltatore grazie all'alchimia realizzata dal combo piemontese. Non è la modaiola sequenza di parti sludge e wannabe-hardcore che colpisce, ma un disco costruito su solide tracce, capaci di ritagliarsi il proprio spazio rimanendo collegate nel complesso. Basti infatti ascoltare una composizione come l'allucinante "Tsaatan" o "Red Flowers", collegate grazie al filo di una rabbia interiore che trova il suo picco nella terza traccia senza titolo, ovvero un naufragio droneggiante dove viene urlato il titolo di quest'album, 'The Sun Left These Places'. Un'opera che nel suo complesso risulterà decisamente valida, riuscendo a portare in Italia delle sonorità approcciate solo da pochi nell'ultimo decennio. (Kent)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 75

Moriturus & Xynobis - Confrontation of Opposites 1995: Dark Forbidden Experiments

#PER CHI AMA: Black Noise, Black Funeral 
Grafiche allettanti in stile indie hipster e titoli misteriosi alle volte sono solo fuorvianti. A fatica cercherò di descrivere lo scempio che le mie povere orecchie sono state costrette ad assimilare, e sono convinto che mi ci vorrà ancora più impegno per purificare la mia mente dalla povertà fuoriuscita da questo split Moriturus/ Xynobis. Il titolo recita 'Confrontation of Opposites 1995: Dark Forbidden Experiments', mi domando cosa ci sia da confrontare in due band che non sanno stare nemmeno in piedi e che non hanno alcuna storia? Questo split pretende di far risorgere due progetti abbandonati nel 1995 con risultati da pelle d’oca, 2 band che hanno solamente avuto la fortuna o la sfortuna di debuttare con una demo nella metà degli anni '90, demo che tra l’altro nessuno conosce, nè vuol ricordare, due cassette tra le migliaia di release sprecate di quel periodo. Veniamo ora al 2013 anno di pubblicazione di questa eresia black metal/noise: sarò schietto, questo cd è terribile, altamente punitivo, anche se dura poco più di 30 minuti, ascoltarlo tutto è stata un esperienza estremamente distruttiva. L’unica cosa tollerabile è la prima traccia pop (intro) frutto dell’unione “creativa” di entrambe le “band” che anche se non innovativa ne interessante è pur sempre ascoltabile, la seconda traccia mostra invece quanto in basso si possa scendere, chitarra zanzarone digitalizzato, riff banali e arpeggi anche peggio, niente batteria, i Moriturus hanno voluto lasciare largo spazio alla voce che starnazza come una gallina che sta per fare l’uovo, sembra di ascoltare uno di quei Clown assassini da cinema di serie B oppure un Muppets ubriaco che si lamenta per il mal di stomaco e tutto questo è ripetuto per più di 8 minuti che ricorderò come i peggiori della mia vita. Dopo questa imbarazzante prova di eroismo, i Moriturus continuano imperterriti nell’intento di distruggere la propria autostima, ma questa volta la terza traccia ha una batteria, una drum machine monotona e priva di cambi, sopra un poverissimo riff che si trascina a stento domandandosi il perché della sua esistenza, anche qui la voce del Muppets rende il tutto estremamente ridicolo, in questa canzone la voce è persino peggiore (se è possibile) della precendente song, fortunatamente la traccia dura solo 3 minuti. Alla canzone numero 4 abbiamo ancora i Moriturus con 4 minuti di delirio strumentale, una chitarra scordata che in realtà non suona, fa finta di suonare, ci prova ma non riesce e mai riuscirà. Proprio quando ci si comincia a domandare dove siano finiti gli Xynobis eccoli apparire come per magia per eliminare ogni residuo di speranza rimastoci, la quinta traccia è infatti è opera loro, apre un loop di drum machine un po’ hip hop e ci si attacca una chitarra bella ignorante ma che non ha nulla da dire ne da dimostrare, la voce degli Xynobis anche se estremamente digitale (come tutto in questo cd) è più orecchiabile, ovviamente la canzone è sempre uguale, non cambia minimamente ed è solamente il sottofondo per i deliri del cantato che si lamenta di non so che cosa, traccia ascoltabile con una grande dose di misericordia sparata in vena per sopportare la pena. La misericordia che abbiamo assunto via endovenosa non era un dosaggio sufficiente e lo scopriamo subito, perché torna a torturarci Moriturus con la penultima song che cida il colpo di grazia, blast beat elettrico, chitarra insensata voce pupazzesca che stride a più non posso, formula ripetuta per più di 4 minuti, sempre identica, (sembra che questi 2 gruppi per questioni stilistiche abbiano deciso di suonare ripetutamente solo un riff a traccia + deliri vari) a questo punto del dischetto ci si domanda se forse non è il caso di cambiare vita, forse abbiamo sbagliato qualcosa? Siamo stati cattivi o ingiusti con qualcuno? Perché questa punizione? Siamo alla fine ed ecco riapparire nuovamente Xynobis che praticamente non compare in questo cd, ha solo partecipato all’intro, ha avuto spazio per una canzone obrobriosa ma forse la migliore del cd ed ora si dedica alla chiusura dell’album, questa settima canzone vuol essere una specie di noise, abbiamo dei colpi sommessi di drum machine e una chitarra che suona cose simili ad assoli improvvisati pigiando a caso sulle corde, un pastone deleterio perfetto per concludere questa disastrosa accozzaglia di ciarpame. Mi rivolgo ora alle persone che hanno collaborato (?) per commercializzare questo cd, era meglio non rievocare i fantasmi del passato e lascia re questi progetti morti e sepolti, riposavano in pace, ed anche noi riposavamo in pace, ora che li avete rievocati, noi riposeremo ancora in pace, voi durante la notte, anziché dormire, dovreste farvi molti esami di coscienza perché qualcuno potrebbe persino rimanere affascinato dalla copertina dell’album e darvi dei soldi per questo e credo che questa sia una cosa ingiusta, dovreste essere voi a dare dei soldi agli ascoltatori per scusarvi di questa porcheria!!! Cd consigliato solo a membri dei servizi segreti, per la tortura psicologica negli interrogatori a prigionieri di guerra. (Alessio Skogen Algiz)

(S.N.D. Production - 1995-2013) 
Voto: 40 

martedì 15 aprile 2014

Colossus of Destiny - In Lesser Brightness

#PER CHI AMA: Sludgecore, Mastodon
Ed è arrivato il giorno del giudizio anche per loro: i Colossus of Destiny, band parigina, si presenta con questo lavoro intitolato “In Lesser Brightness”, che si snoda in un tortuoso percorso composto da post-metal, sludge, prog rock; dico subito che i “nostri” ragazzi non fanno nulla per evitare di prendere la strada principale e cercare percorsi alternativi, andando piuttosto sul sicuro scegliendo sentieri già battuti in precedenza da molti altri gruppi. Sono 6 le tracce che compongono questo dischetto, nel mio caso imbustato in un semplicissimo packaging promo e quindi esente da fronzoli inutili; sinceramente, appena vista la copertina, ho pensato di trovarmi di fronte ad un disco di prog e anche di quello piuttosto classico. Puntualmente smentito dalla partenza della prima traccia “Dismay in Empty Eyes” che però, per una strana coincidenza, rimane la più prog del lotto. I riferimenti ad altre formazioni sono subito chiari e sembra proprio che i transalpini facciano veramente poco per nasconderli. Mastodon, Isis e Baroness le influenze più chiare, mentre io ho trovato anche qualcosa dei primi Incubus nei suoni e nelle atmosfere; per carità, non voglio certo sminuire il lavoro fatto dal gruppo, che rimane assolutamente di rispettabile valore. Infatti la qualità complessiva rimane alta, i ragazzi sanno quel che fanno e lo fanno piuttosto bene. Con gli strumenti ci sanno fare eccome, ascoltate ad esempio la mia preferita “Heavy Loads”, dove i ritmi accelerano e le melodie si fanno incisive; oppure la successiva title track, dove l'ombra dei Mastodon è davvero ingombrante ma sicuramente piacevole (per me che li amo particolarmente poi...); non voglio di certo dimenticare la conclusiva “Naked & Unbound” che farà scuotere più di una testa. Lavoro di veloce assimilazione, grazie a composizioni non troppo complicate e melodie piuttosto orecchiabili; niente di epocale, ma di certo un buon lavoro. Menzione particolare per l'ottimo lavoro svolto in studio dai tecnici, perché il disco gode di una produzione ben al di sopra della media. Parere personalissimo: non mi convince la voce del cantante, rauca e abbastanza monotona, capace di poche modulazioni. Nel complesso un buon lavoro, che non mi ha colpito particolarmente e che però ha una caratteristica: si lascia ascoltare molto facilmente. A voi scoprire se si tratta di un pregio o di un difetto. (Claudio Catena)

(Self - 2013)
Voto: 70

domenica 13 aprile 2014

Lili Refrain – Kawax

#PER CHI AMA: Rock sperimentale, Dead Can Dance, Glenn Branca, Alan Parson
Ottimo debutto su SubSound Records della chitarrista e performer romana, Lili Refrain che con questo primo lavoro del 2013, dal titolo 'Kawax', si estrae dalla massa sfornando un album alquanto misterioso e mistico a cavallo tra Dead Can Dance e certa musica progressiva/sperimentale di qualità. Niente è inteso nella forma tradizionale del rock, dagli echi nei loop di chitarra che ricordano il The Edge di 'The Unforgettable Fire' in veste spettrale e post atomica, alle voci corali a metà tra i cori delle mondine e la sperimentazione chirurgica di un'altra mitica performer italiana, Stefania Pedretti meglio nota per il suo progetto solista, ?Alos. Non ci stancheremo mai di ripetere e sottolineare la forma ascensionale di questo gioiellino sonoro che in "Nature Boy" tocca l'epicità trascendentale del duo anglo-australiano composto da Lisa Gerrard e Brendan Perry, con una prova vocale degna della migliore Bjork intinta nel nero più oscuro e che oscilla di continuo tra le teorie sonore di Alan Parson e l'avanguardia di Glenn Branca, senza dimenticare un uso tribale delle percussioni e le escursioni acustiche dalla cristallina, ammaliante e decadente bellezza. Composizioni al limite del cinematografico e impossibili da classificare, gloriosi accenni di musica classica e, sparsi qua e là, sapori di canto lirico maestosi rendono le composizioni indescrivibili e senza tempo. I brani solo volubili e facilmente ci si può imbattere, ora in chitarre pesanti, ora in forme psichedeliche dal buon gusto progressivo in stile ultimi Yes e il tutto sotto i raggi del sole mistico di certa world music di classe. "Goya" è un brano altamente contagioso, una forma di plagio ai Rolling Stones di "Paint it Black", perfettamente riuscito e realizzato come se venissero ascoltati in un'altra galassia, e intrinseco in questa ruberia, troviamo anche un canto meraviglioso venuto a noi da un altro mondo. Quindi, diamanti sciamanici come "Tragos" o "666 Burns", brani dall'atmosfera tolta ai migliori incubi di David Lynch e dei Sunn O))), risulteranno imperdibili per chi cerca un approccio assolutamente libero verso la musica progressive d'atmosfera e la colta sperimentazione alchemica. Arrendetevi, non vi resta che ascoltarlo, ne vale assolutamente la pena! (Bob Stoner)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 85

The Orange Man Theory - Giants, Demons and Flocks of Sheep

#PER CHI AMA: Death/Grind, Brujeria
Al ritrovamento di questo album nella mia cassetta postale, ero particolarmente contento causa il fatto che in uno storico e defunto locale live del vicentino, trovavo perennemente in bagno il loro adesivo con sottoscritto "Satan Told me I'm Right" (ed un gruppo con uno slogan del genere non può che starmi simpatico). Dopo il primo approccio con questa loro opera però, ho cambiato decisamente la mia opinione. Ciò che mi rende più astioso l'ascolto di questo terzo album della band romana sono principalmente i suoni, causa una voce preponderante su tutto, un'infima chitarra ed un basso enormemente distorto; la produzione però non è scarna e zanzarosa, bensì freddamente chirurgica e molto (troppo) carente di basse frequenze, anche su volumi sostenuti. A ciò purtroppo si aggiunge l'impasto sulle frequenze causato dal basso e dalla chitarra che non permette di cogliere facilmente i tecnici fraseggi dei due, oltre che dalla batteria, resa estremamente secca dalla produzione, della quale però si riescono ad apprezzare pienamente i notevoli giochi ritmici. Dal punto di vista compositivo, le tracce sono per lo più rapide e grooveggianti, ad eccezione di "If I Could Speak", un sapiente mix di grindcore, death metal moderno, un pizzico di noise e strutture southern rock. Altro punto fermo del songwriting sono gli innumerevoli cambi di tempo e le adrenaliniche aperture che occupano l'opera nella quasi totalità. 'Giants, Demons and Flocks of Sheep' è un disco molto vario, che troverà terreno fertile tra gli amanti della musica estremamente movimentata ed aggressiva; personalmente, sarei molto curioso di vederli live con un buon impianto a supporto. Li aspetto. (Kent)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 65

sabato 12 aprile 2014

Grown Below - The Other Sight

#PER CHI AMA: Post-metal, Isis
A distanza di quasi 3 anni dalla mia recensione di 'The Long Now', ecco ricapitarmi tra le mani, per mia somma gioia, il secondo full length dei belgi Grown Below. E confermo immediatamente le sensazioni positive che ebbi nel 2011, dopo l'ascolto della opening track, "New Throne". Il quartetto di Anversa ha centrato nuovamente l'obiettivo. Otto minuti e più di atmosfere sognanti all'insegna di un sound post-, a tratti rock e in altri più marcatamente metal, di influenza Isis, si sveleranno infatti all'ascoltatore. Il disco parte aggressivo con delle chitarre massicce e ipnotiche, che ben presto cedono il passo ad un suggestivo e notturno break centrale; l'effetto che lascia è quello di passeggiare tra le strade deserte di una città, la notte, in un mix di solitudine e libertà. Qui la voce pulita di Matthijs (capace anche di scorribande growl e scream) regala senza dubbio potenti vibrazioni. "My Triumph" attacca con la tribalità del suo drumming magnetico, un caldo basso in sottofondo, una chitarra che timida lascia qualche segno nell'etere e poi di nuovo la suadente voce (a tratti esaltante) del frontman belga. Ma questo lo sapevamo già, l'avevo già scritto in occasione del loro debut. Il sound minimalista dei Grown Below si alterna con quello più roboante dei nostri anche se in questa release maggiore spazio viene lasciato ad una componente dark acustica come nella strabiliante seconda metà di "My Triumph", forse la traccia più riuscita dell'album e quella che lascia intravedere ottime prospettive in chiave futura. "Phantoms" si dischiude offrendoci seducenti frammenti di musica oscura, tipicamente figlia del post rock moderno che ha il pregio di cedere anche a sfuriate elettriche da brividi. E per questo, ho la pelle d'oca alta un dito. "Reverie" è un altro esempio della classe del 4-piece di Anversa: ancora sonorità ammalianti, tenui e rilassate che esploderanno ben presto in nebulose tempeste metalliche che in questa traccia arriveranno addirittura a sfiorare il funeral doom nel finale. Ottimo ritorno questo 'The Other Sight', per una band da cui ora mi aspetto il salto di qualità definitivo. (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records - 2013)
Voto: 80

Grieving Age - Merely the Fleshless We and the Awed Obsequy

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric
Perplesso… molto perplesso. Posso solamente definirmi così dopo l’ascolto provante di questo doppio CD, che rappresenta la seconda opera studio dei Grieving Age, sestetto di ragazzoni arabi… eh, già, arabi! Peccato che, se non lo avessi letto sul booklet, mai lo avrei pensato, andando a collocarli mentalmente in tutt’altra geografia, dato lo spirito doooom che pervade questo disco. Quanto appena affermato può apparire un plagio bello e buono nei confronti di altre recensioni sul medesimo album e gruppo perfettamente consultabili in rete, ma vi assicuro che si tratta solo della logica considerazione spuntata nella mia mente dopo aver completato con notevole sforzo questa maratona pesantissima della durata di ben due ore. Tutto in quest’album è lungo, troppo lungo: il titolo, i titoli dei singoli pezzi, il minutaggio, lo sconforto del recensore di turno. Scordatevi qualunque riferimento al Medioriente: qui si entra in un tunnel marcio in caduta libera, che ben presto si apre in un vero e proprio abisso di melma e fastidio, giacché questa è la prima sensazione che ha evocato nelle mie orecchie il pezzo d’apertura, tale “Merely the Ululating Scurrilous Warblers Shalt Interminably Bray”; e di raglio si tratta, in definitiva, perché il cantato del buon Ahmed a questo assomiglia, sporco, sgraziato e lacera-corde vocali, ma anche monotono e un po’ troppo spesso senza variazioni di sorta. Questo vale pure per le sonorità e tutto quello che rappresenta l’incedere dei cinque (SOLO cinque) pezzi che compongono l’intera opera. Ma è necessario essere onesti: i ragazzi sanno il fatto loro e di sicuro non ci troviamo di fronte a pivelli o musicisti della domenica, perché sulla tecnica esecutiva non si può discutere. I singoli strumenti suonano come dovrebbero suonare in ogni album funeral doom che si rispetti e la scelta di non appoggiarsi a troppi tappeti sonori, magari ridondanti, aggiunge valore (e toglie speranza) al tentativo di ricreare una landa sonora desolata e desolante, al limite del sulfureo. D’altro canto, va da se che quasi due ore di musica, spalmate in sole cinque canzoni, relega questo album ad una sorte da “lavoro di nicchia”, dedicato ai più temerari, musicalmente disperati o masochisti proni a torture lente e prolisse. Non vi è nulla di male nel produrre monoliti di tale entità, a patto di essere in possesso di un’ispirazione tendente al divino ma, nonostante tutta la buona volontà profusa dai Nostri, l’obiettivo non è stato raggiunto. La sensazione è spesso di smarrimento sonoro, dove risulta facile perdersi e confondersi sul che cosa si stia ascoltando, così come quale sia il pezzo o addirittura il CD inserito nel lettore. In parole povere, è facile perdere il segno e, ahimè, il rischio di deconcentrarsi è molto alto. A parere di chi scrive, questo rappresenta solo un demerito. In definitiva, cosa dire? Assolutamente non da ascoltare in auto o durante cazzeggi vari, perché la dose di attenzione da dedicare al lavoro è notevole. Se si tratta di un mezzo passo falso o di un capolavoro incompreso, lo lascio a voi come quesito. Per quel che può valere (molto poco), il consiglio che mi sento di dare è uno solo: accorciare, accorciare e snellire. Dopo ne possiamo riparlare… (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 60

Fate Control - Random Survival

#PER CHI AMA: Swedish Death, In Flames, Soilwork, Slipknot
Freschissimo di stampa, arriva sul mio “tavolo anatomico” questo dischetto, pronto ad essere sezionato e analizzato in tutte le sue parti. Subito un elogio alla casa discografica che accompagna il supporto da un bel libretto di presentazione con tanto di lettera personalizzata; anche per quello che riguarda l'artwork, ci si imbatte in un curatissimo digipack di alto blasone. Quante volte, però, la qualità del contenitore non rispecchia quella del contenuto? Molte, forse troppe...ma vi anticipo subito che, fortunatamente, questo non è uno di quei casi. Il sestetto della vicina Confederazione Elvetica è al suo debutto su CD, da segnalare nel 2012 l'uscita online del singolo “Knockout”, pezzo comunque contenuto in questa release; usciti indenni da qualche cambio di line-up, il gruppo entra in studio, sempre nel 2012, per registrare questo disco. La gestazione è stata piuttosto lunga, considerando che le tracce sono 9, non contando il minuto “d'atmosfera” della intro. Ultramoderni, perfettamente calati nei panni dettati dagli ultimi trend in campo metal, i Fate Control sanno il fatto loro e si muovono sinuosi tra riferimenti agli ultimi In Flames, agli inarrivabili Meshuggah e agli ormai famosi Soilwork; dopo qualche recensione, forse avrete imparato a conoscermi, non è certo il genere che preferisco, ma la qualità va riconosciuta sempre e premiata. Il disco scorre impetuoso, solido, praticamente perfetto sotto il punto di vista formale; i suoni sono spettacolari (da grande band, merito di Daniel Bergstrand, produttore delle band sopraccitate), gli strumenti sono padroneggiati con mestiere, l'uso delle vocals miscela parti in scream e growl alle più confortanti clean, che occupano il ruolo di protagoniste considerando la totalità delle linee vocali. Nulla da dire, in negativo, ci mancherebbe. Nulla da dire, purtroppo però, di estremamente positivo. La famosa “Terra di mezzo” sembra aver attirato questa release, nel senso che questo 'Random Survival' non si muove dal guano che lo intrappola; lo spunto per spiccare un grande salto in alcuni momenti c'è eccome, ma questo grande salto non avviene durante lo scorrere dei minuti. Ricordiamoci che stiamo parlando di un debutto e quindi, forse anche troppo prematuramente mi aspettavo quel qualcosa in più; il disco ad un ascolto superficiale, sembra essere migliore di quando, invece, ci si concentra e si vuole andare a fondo. La struttura di tutte le tracce è sempre la stessa: belle intro, strofe incazzate e serratissime, ritornelli di ampio respiro e molto orecchiabili rigorosamente in clean vocals; una formula collaudata ok, ma che tende ad appiattire il tutto. Comunque, nel complesso la qualità si sente, va solo migliorato il songwriting di quel tanto che basta a far venire fuori tutta la personalità del gruppo; sono certo che con qualche “chilometro” in più, anche questo aspetto verrà sistemato. La testa ve la farà muovere comunque parecchio questo CD e preparatevi per le top del lotto: senza dubbio “E.K.I.A”, dove qualcosa mi ha ricordato i Lacuna Coil, la più classica “Fukushima” , la già citata “Knockout” e la migliore di tutte (ovviamente per chi scrive), quella “You Shall Fall” che da sola alza di un punto la valutazione complessiva del disco (complice la presenza di Bjorn "Speed" Strid). Il mosaico Fate Control richiede ancora qualche tessera da smussare e sistemare al meglio, ma nell'insieme i ragazzi svizzeri hanno fatto un buon lavoro; la strada è ancora lunga e tortuosa, ma con questa tabella di marcia i nostri arriveranno senza troppi patemi abbastanza lontano per guardarsi alle spalle, ed accorgersi della tanta e bella strada percorsa. Curiosissimo, li aspetto alla prossima prova che dovrà confermare quanto di buono c'è su 'Random Survival' e, se possibile, migliorarlo. (Claudio Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

venerdì 11 aprile 2014

April Weeps - Outer Calm, Pain Within

#PER CHI AMA: Death/Gothic, Tristania, Trail of Tears
La Slovacchia non è solo un'ottima fucina di band brutal death; i giovani April Weeps ce lo confermano con il loro debut del 2013, 'Outer Calm, Pain Within', una 11-track di suoni gothic death. "Sacrificial Rite" apre robustamente questo loro debutto, contraddistinto da una sezione ritmica bella potente, coadiuvata dal grosso vocione di N, presto affiancato dai soavi vocalizzi di una dolce (e sembrerebbe anche molto carina) donzella, Marta. Facile pertanto intuire che questo dualismo vocale servi a rendere più abbordabile la proposta del 7-piece di Dunajská Streda. Nella seconda track, "Dream-Master", salgono in cattedra, al fianco della coppia indemoniata di asce, anche le tastiere di Stronghold, in un pezzo veloce e lineare, il cui punto debole risiede ahimè, nella performance della bella Marta, fuori dal contesto sonoro dei nostri. Capisco che la band miri a seguire le orme di act quali Trail of Tears o Tristania (peraltro, entrambi gli ultimi album delle due band norvegesi, sono peccaminosi), ma manca ancora qualcosa, quel qualcosa che tuttavia sembra emergere nella terza "Buried", che anche sul fronte vocale del gentil sesso, mi convince appieno. Ottime e ammiccanti le linee melodiche delle chitarre, che tuttavia non sembrano cedere a nessun tipo di compromesso. Echi gotici si miscelano a epiche galoppate, prese in prestito dal melodeath dei Children of Bodom. L'album scivola veloce, complici anche le non siderali durate dei pezzi, che si assestano sempre sui 4 minuti e mezzo. La title track ha un iniziale mood oscuro, ma poi il pezzo evolve, con le chitarre che si rincorrono in progressivi vortici di colore e partiture di musica classica. "Forever Falling" è la classica song dove si vogliono mettere in luce a tutti i costi, le qualità della vocalist, in una sorta di semi-ballad indolente, dove neppure il growling di N riesce a salvarne l'esito conclusivo, reso tuttavia interessante per lo splendido assolo finale. Insomma, avrete capito che non sono il fan numero uno della giovane fanciulla slovacca anche se giungo alla conclusione che la sua timbrica la si odia o la si ama. Purtroppo rientro nella prima categoria, ma non mi lascio traviare e quando mi metto all'ascolto della lunga e ipnotica "Shards" (bello il giro di basso iniziale, molto AtomA nel suo approccio), decido di assegnarle la palma di mia song preferita dell'album. Tenebrosa, vibrante e coinvolgente, il giusto compromesso tra il gothic alla Nightwish e il death metal dalle venature doom. Stranamente il disco inizia a decollare da questo punto in poi con una serie di pezzi non affatto male: la liturgica "Waiting for the Sun", la malinconica "In a Hurry" o la devastante "Positive Energy", mitigata solo dalle eteree vocals di Marta, responsabile invece della tremenda riuscita di "Faded Memory". A chiudere il disco ci pensa lo straziante pianoforte di "Pass Away", che dimostra una quanto mai apprezzabile maturità del combo slovacco dal punto di vista del songwriting, ma che mostra qualche ingenuità da smussare. Un comunque piacevole esordio. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 70