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mercoledì 7 ottobre 2015

Mondo Naif - Turbolento

#PER CHI AMA: Stoner, Queens Of The Stone Age, Verdena
C’è stato un momento in cui davvero sembrava che anche in Italia il rock venisse preso sul serio non dico dal pubblico, che l’ha sempre fatto, ma dall'industria discografica. Un momento in cui c’erano un sacco di band che facevano rock in italiano e non solo risultavano credibili, ma a cui veniva data la possibilità di dare alle stampe album di livello assoluto. Oltre ai consueti nomi di rilievo quali Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Massimo Volume, che si sono assicurati una lunga carriera, c’erano un sacco di altre band magari meno fortunate ma che hanno lasciato segni importanti in quei tardi anni '90, e penso ai leggendari Ritmo Tribale (in realtà dei precursori), ai vari Karma, Gea, Politburo, Hogwash, Malfunk, Fluxus, tutti responsabili, a vario titolo, di lavori che hanno segnato un epoca. Ecco, i Mondo Naif hanno tutte le carte in regola per affiancarsi, e forse ergersi al di sopra di tutti quei nomi, ai quali in qualche modo viene spontaneo assimilarli. Il loro è un rock pesante e pensante, che musicalmente pesca dallo stoner o dal grunge d’oltreoceano, declinato però in italiano come ho sentito fare poche altre volte. 'Turbolento', il loro secondo album, esce per l’ottima Dischi Bervisti (in collaborazione con GoDown Records e Dreamin Gorilla Rec) ed è prodotta da quel Tommaso Mantelli, aka Captain Mantell, già responsabile dell’ottimo Bliss, a suo tempo recensito su questi lidi. Kyuss, Monster Magnet e QOTSA tra le probabili influenze dirette della band, così come tutto il rock degli anni '70. Ma i Mondo Naif non si limitano ad un’operazione revivalistica, hanno molto da dire e lo fanno con stile e convinzione. “NonTempo” apre l’album con un tiro potente, la bella voce di Stefano ricorda a volte quella di David Moretti dei Karma anche nelle linee vocali, come avviene anche in “Niente” e nell’ottima “Scatole Magiche”, fusa in una sorta di suite con “Maelstrom”, strumentale che tiene fede al suo titolo con un gorgo chitarristico da cui è impossibile sfuggire. Da citare la presenza di alcuni ospiti che impreziosiscono il suono donandogli varietà, come il sax di Sergio Pomante (anche lui dei Captain Mantell) che dà una marcia in piú ad “Aquilone” o di Nicola Manzan (Bologna Violenta) e Alberto Piccolo, responsabile rispettivamente di archi e chitarra classica che arrivano a pacificare la cavalcata stoner della conclusiva “Belfagor”. Disco di grande rilievo, a cui forse manca una grande canzone per risultare davvero indimenticabile, ma ci sarà tempo anche per questo. Nel frattempo godiamoci questa musica turbolenta. Da avere. (Mauro Catena)

(Dischi Bervisti/GoDown Records/Dreamin Gorilla Rec - 2015)
Voto: 80

Fashion Queens – Infiniti di Forme Rosa e Blu

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues/Grunge
Uscito sul finire del 2014, questo EP di debutto dei padovani Fashion Queens, fuori per la Jetglow Recordings, mostra una band affiatata e ben avviata. Le sei tracce del disco ci vengono presentate dall'etichetta come il perfetto connubio tra musica rock stoner, velata da un retrogusto blues e liriche poetiche, che in parte può esser vero e in parte no, visto che di stoner qui non v'è traccia se non in qualche apertura vocale alla John Garcia (ai tempi degli Unida) sparsa qua e là tra i brani. Più visibile è un rimando a formazioni grunge del passato nazionale, che poi cantando in italiano, per forza di cose ci si accosta ai lavori di Timoria o Karma. Il fatto di volersi accostare al mondo stoner a forza, toglie quello che realmente si cela tra le note di questa band, ossia un buon hard rock blues di stampo classico con chiaroscuri tipici della musica alternativa italiana e buone aperture soniche molto classic rock. Contornati da un canto singolare di buone doti ma che sinceramente manca di spirito psichedelico e predilige spesso una tonalità che poco si prestano al trip, e sovente si spostano verso territori hard rock, rappresentano alla fine il vero territorio di conquista della band patavina. Buone le composizioni, fantasiose e ben radicate, come detto in precedenza, nel blues (il brano "3/4"), il disco presenta una qualità di registrazione ottima, pulitissima, anche se manca il tocco che spacca o che la rende veramente unica, però ben fatta, forse un pizzico più di polverosa U.S.A. e di calore nel sound non sarebbe guastato. Centrato anche il brano "George Jung" ove affiora maggiormente la vena più metal con all'interno un bel innesto recitato di ottimo effetto; infine è una pillola rock dal velato accenno Afterhours quello della conclusiva "Unaware". Fashion Queens, un buon inizio che lascia ben sperare. (Bob Stoner)

(Jetglow Recordings - 2014)
Voto: 70

Dalla Nebbia - Felix Culpa

#PER CHI AMA: Black Progressive, Enslaved, Windir
'Felix Culpa' è il nuovo lavoro degli statunitensi Dalla Nebbia, che già avevamo avuto modo di apprezzare con il full length di debutto 'The Cusp of the Void' del 2013. I quattro loschi figuri del South Carolina tornano con una importante novità ossia la presenza al violino di Sareeta (Borknagar e Solefald tra gli altri) a donare un pizzico di magia in più al sound maledettamente oscuro del combo statunitense. Cosi dopo l'immancabile intro, ecco materializzarsi "Until the Rain Subsides", song che palesa quel filo di malinconia che contraddistingueva già la proposta dei nostri agli esordi e che oggi assume connotati ancor più forti, quando è proprio il violino di Sareeta a irrompere sul tappeto eretto dalle melodiche ma serrate ritmiche dei Dalla Nebbia. La voce di Zduhać si conferma velenosa e interseca i propri vagiti con quelli puliti (e più rari) di Yixja. Tuttavia, la cosa che più mi colpisce (e maggiormente ho apprezzato nel corso dei ripetuti ascolti dell'album) è la psichedelica matrice sonora che vede la band dell'East Coast miscelare il black con il progressive (in stile Enslaved) e l'avantgarde, mantenendo tuttavia inalterato il proprio estremismo sonico. Una proposta che vede irrobustirsi nella successiva "Abandoned Unto Sky" che ci affida una band decisamente più matura che in passato, il che si riflette anche in un più complicato approccio musicale. Con "Lament of Aokigahara" il sound dei nostri sprofonda nelle viscere di un black doom dalla vena funeral che mostra un suono nostalgico ma rarefatto, che va a nascondersi in anfratti ambient e arriva a sfociare nel devastante impatto di "The Banner of Defiance", dove il quartetto esprime tutta la frustrazione accumulata in questi due travagliati anni che hanno anticipato l'uscita di 'Felix Culpa'. Il brano segue uno strano cammino con suoni disarmonici ma sontuosi, talvolta difficili da decifrare, che tuttavia rappresentano il punto di forza del nuovo lavoro dei Dalla Nebbia. Sebbene non sia cosi facile avvicinarsi alla musicalità dell'act statunitense, a causa di una marcata complessità sonora, che basa le proprie fondamenta su una certa alternanza di atmosfere depressive e altre ritmiche infernali, il disco trova la sua summa in "Not Within the Stone", che vede la presenza alla chitarra, in qualità di guest, di Aort dei Code (il quale presterà i suoi servigi anche nella title track). Le chitarre confermano la propria vena schizofrenica anche in questo pezzo, stratificandosi su più livelli, rendendo la proposta dell'ensemble americano ancor più interessante e longeva in termini di ascolto. A questo aggiungete il violino di Sareeta, una certa imprevedibilità di fondo che mi ha evocato un che degli Oranssi Pazuzu e una struttura piuttosto ricercata, e forse sarete solo lontanamente in grado di assaporare gli umori che si celano e alternano nelle complesse note di questa song. Manca immediatezza non ve lo nascondo, i suoni non sono cosi facili da essere digeriti, intanto il disco prosegue con il funambolico refrain della title track che vorrei associare a dei coloratissimi fuochi artificiali che esplodono nel cielo, quando il gran finale garantisce la presenza di tutti gli esplosivi a illuminare a giorno l'oscurità della notte. I Dalla Nebbia analogamente utilizzano tutti gli orpelli strumentali, le chitarre, le tastiere, il programming techno, i violini, le screaming vocals che sono a loro disposizione e sfoderandoli tutti insieme, e finendo per ubriacarci tra le distorsioni elettriche ed elettrizzanti del loro sound. Sembra l'inizio di un deprimente film in bianco e nero degli anni '50, quello invece affidato alle note di "Paradise in Flames", con le chitarre che seguono l'overture di violino e tastiere, e richiamano il grande amore nordico del 4-piece verso i Windir, con un epico incedere che ondeggia nell'etere come il vento gelido del nord sferza minaccioso l'aria. Il brano per 2/3 strumentale, trova solo nel finale una maggiore efferatezza nei suoi toni con lo screaming di Zduhać a palesarsi nell'ennesimo cambio di passo di un disco che farà certamente la gioia degli amanti di sonorità estreme che ambiscono, con un malcelato interesse, a sperimentazioni soniche assai ricercate. Il disco placa il proprio flusso evocativo nel conclusivo interludio semi-acustico di "The Silent Transition" che conferma, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, la stralunata vena psicotica dei Dalla Nebbia. (Francesco Scarci)

(Razed Souls Productions - 2015)
Voto: 85

domenica 4 ottobre 2015

La Fantasima - S/t

#PER CHI AMA: Drone/Experimental/Folk metal
"La Fantasima è l’immagine, il cuore, il suono ed il desiderio che è parte dei silenzi e dei colori della natura Italica. Dalle sue notti, dai boschi, da sotto i suoi monti, tra le pagine di antiche leggende e nel tepore della luce dei fuochi, rendiamo omaggio alla nostra terra, raccontandola". Cosi i nostri descrivono la propria proposta nelle loro pagine. Da ammirare innanzitutto il lato isolazionista e underground del trio romano che licenzia in download gratuito il proprio lavoro senza troppa pubblicità. Le cinque tracce che compongono il disco sono ispirate alle bellezze della natura italica e solo a pensare quante di essa versano in situazioni disastrose o dimenticate, l'omonimo album ne diviene un'ottima colonna sonora, una reale fotografia di quanto in Italia si stia regredendo in tal materia. Il sound dei nostri ha la veste oscura e il passo rallentato del freddo funeral doom siberiano, prediligendo suoni puliti e d'atmosfera, molto cupi e riflessivi; i brani sono totalmente strumentali, rallentano i battiti cardiaci, risultano depressivi e notturni, pieni di pathos e malinconia. Mostrano una magia ancestrale, una capacità ipnotica e magnetica, una collocazione fuori dal tempo, tra armonici di chitarra e un basso carico di atmosfera, orgoglioso del suo sound anni '80, con una batteria minimal ad effetto psichedelico che li fa entrare di diritto nell'olimpo del drone/depressive/metal pur non sfoderando mai una chitarra distorta. In realtà l'insieme dei pezzi ha una forma di romanticismo decadente, quasi occulto che si avvicina al misticismo sonoro di Ion (vedi Duncan Patterson) in "Madre, Protègenos" e richiama le sospensioni temporali soventi nella musica dei Sigur Ros e il concetto mistico uomo/natura perfettamente espresso dagli Agalloch in 'The White', anche se poi qui il risultato definitivo è un ambient folk metal dalle caratteristiche schive e riservate. Da ascoltare almeno una volta nella vita per cercare di capire il significato della propria esistenza! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Roberto Alba

Lychgate - An Antidote for the Glass Pill
Mgla - Exercises in Futility
Lycia - A Line that Connects

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Francesco Scarci

Ketha - #!%16.7
Amorphis - Under the Red Cloud
Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

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Don Anelli

Mare Infinitum - Alien Monolith God
Symbolical - Collapse in Agony
Christian Mistress - To Your Death

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Mauro Catena

Algiers - S/T
Mark Lanegan - Houston Demo 2002
Yo La Tengo - Stuff Like That There

Interview with Ketha

Follow this link to know who is hiding beyond the name Ketha and their last incredible EP '#!%16.7' a crazy mix of death, math, alternative, jazz, avantgarde and cinematic visions:


sabato 3 ottobre 2015

Doomed - Wrath Monolith

#PER CHI AMA: Death/Doom
A Gennaio avevo recensito 'Our Ruin Silhouettes': l'instancabile sassone Pierre Laube, mastermind dei Doomed torna prontamente con un nuovo album pregno di sonorità doom/death metal. Se non conoscete il personaggio, Doomed è un progetto solista dove Pierre si occupa di scrivere i pezzi, suonarli ed arrangiarli, facendosi supportare da fidati compagni solo per le esibizioni live. 'Wrath Monolith' contiene sei tracce per un totale di cinquanta minuti ed è arrivato tra le mie mani in versione semplificata per gli addetti ai lavori, quindi non posso dire granché sul packaging. La grafica della copertina riprende gli album precedenti, con l'utilizzo del colore verde pallido e del nero con rappresentazioni stilizzate di demoni e paesaggi onirici con richiami alle religioni. Questo per dire che Doomed non si fa coinvolgere dalla frivolezza che spesso attanaglia il mondo della musica, ma vuole comunque trasmettere i sui pensieri e gli stati d'animo più profondi e ossessivi. Come anticipa il titolo, l'album vuole essere come un monolito, costruito e innalzato in onore dell'ira, il sentimento che probabilmente ha inspirato Doomed per la scrittura di questi sei brani. Il primo pezzo che ci accoglie dopo l'inserimento del cd nel lettore è "Paradoxon", una breve intro malinconica di pianoforte che lascia subito lo spazio per l'attacco pesante e lentissimo degli altri strumenti. Le protagoniste musicali sono le chitarre, distorte e ribassate per fare da tappeto sonoro ai brani e poi l'onnipresente chitarra solista che, come un navigato cantastorie, conduce l'ascoltatore attraverso le melodie che si intrecciano durante i dodici minuti abbondanti della canzone. Ottimi gli arrangiamenti che sanno tramutare le melodie tenebrose in riff meno ossessivi e che lasciano intravedere una luce in fondo al tunnel. A metà brano c'è un break che di fatto sancisce la rottura con la precedente parte, una sorta di atto secondo, dove la voce duetta tra sé e sé a suon di growl. La batteria si inserisce sempre in maniera impeccabile, utilizzando spesso una grancassa ossessiva aumentando il senso di oppressione che imperversa per tutta la traccia. Un brano che fa da biglietto da visita e mette subito a tacere qualunque dubbio sull'ipotesi che l'artista abbia voluto introdurre qualche novità rispetto ai precedenti lavori. "The Triumph - Spit" apre con il verso di un corvo che come uno psicopompo annuncia l'entrata dell'immaginario carrarmato devastante che stritolerà qualsiasi cosa con i suoi cingoli infernali. I riff di chitarra sono in pure stile death e sono semplicemente sopraffini, inoltre la leggera linea di tastiere arricchisce il brano con atmosfere eteree. La voce conduce, cosi come negli altri brani, con un fare iracondo e senza l'ombra di una qualsiasi pietà per l'oscena umanità che si dimena come zombie sulla superficie della terra. Un lontano coro si inserisce nel brano e poi altri intrecci si susseguono, sempre con massimo armonia e cura per l'attento ascoltatore che cercherà di cogliere le diverse sfumature inserite dal musicista. "I'm Climbing" è l'ultima tracce dell'album e conferma quanto detto precedentemente sulla composizione musicale. Il brano richiama le sonorità dei vecchi Katatonia e Pierre dà libero sfogo al suo cantato potente e autoritario, una sorta di oratore del nuovo millennio che cattura l'ascoltatore e lo incatena davanti a sé fino alla fine. Dopo circa tre minuti il brano muta completamente grazie all'assolo di chitarra che sembra arrivare da una dimensione lontana e che lascia spazio ad un vecchio pianoforte malinconico che chiude il cd facendo calare il sipario. In generale la composizione dei brani è sempre molto complessa, arrangiata in modo ineccepibile e il tutto è coronato da una cura chirurgica dei suoni. L'esperienza dei Doomed è palese grazie a lavori sempre di qualità, un doom mai banale che viene portato ad un livello altissimo e che può avvicinare anche le orecchie meno abituate a queste sonorità. L'inserimento di tastiere, linee vocali prog, suoni ambient e quant'altro alleggeriscono alcuni passaggi che sono oggettivamente sostenibili per un tempo limitato senza cadere nella depressione più nera. 'Wrath Monolith' raccoglie sei brani raccontati ed eseguiti attraverso diversi stati d'animo, con piglio epico da un musicista che merita di essere annoverato tra i più meritevoli degli anni duemila. (Michele Montanari)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/doomedband

Maïeutiste - S/t

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Dopo ben otto anni di riflessione dal loro demo cd, i francesi Maïeutiste giungono al tanto agognato debut album. Risale infatti al 2007 'Socratic Black Metal', il primo vagito del sestetto di Saint-Etienne. Nel frattempo i nostri non si sono persi d'animo, hanno proseguito con la scrittura dei brani e hanno finalmente partorito questo self-titled di debutto, che l'onnipresente Les Acteurs de L’Ombre Productions ha messo sotto la propria ala protettrice. Undici claustrofobiche tracce che sanno più di una marcia funebre che altro sin dall'opener che delinea i tratti somatici di quest'oscura creatura. Non fatevi ingannare però perchè il mostro che si cela nell'antro della bestia, emergerà dalle viscere nella seconda "... In the Mirror" e si scatenerà col suo malefico vocalist. Il sestetto, che peraltro vanta tre chitarristi in formazione, ha il merito di cambiare registro più e più volte nel corso dei brani e se ci avevano impressionato per la ferocia introduttiva, sarà interessante anche sentire come il brano acquisisca un piglio più solenne ed epico col passare dei minuti. In "Reflect - Disappear" i nostri mutano radicalmente la propria proposta, risultando, passatemi il termine, più rock oriented, anche se poi la sgroppata black metal non la si nega a nessuno con i suoi classici blast beat impazziti. Bravi comunque a far coesistere più generi tutti insieme anche se nei momenti di furia black, non ci troviamo realmente nulla di innovativo fra le mani, che già non sia stato proposto in tutte le salse possibili. Tuttavia è assai apprezzabile lo sforzo di proporre un sound che vari dal black al doom, passando tra aperture gothiche o liturgico esoteriche come quelle che aprono "Purgatoire", un inquietante inno alle forze del male che si evolverà in un arpeggio conclusivo, bellissimo. È la fine del primo atto, "Eveil"; con "The Fall" si ritorna ad un primigenio black metal che scomoda facili paragoni con 'De Mysteriis Dom Sathanas' dei Mayhem, sia a livello ritmico che vocale, anche se un inebriante break acustico centrale scombina tutto quanto fin qui detto. Ma questo è decisamente il punto di forza dei Maïeutiste che riescono a scomporre e riconfigurare il proprio sound, plasmandolo a propria immagine e somiglianza a livello emozionale. L'arpeggio classicheggiante di "Absolution" conferma la transumanza dei generi su cui i nostri vanno continuamente a virare, prima che tutto muti ancora una volta in un pezzo che è più death oriented (chi ha citato gli Slayer?) soprattutto a livello degli infuocati assoli che riempiono questo brano e che spiazzano ancora una volta l'ascoltatore, prima di abbandonarsi in un cinematico break jazzistico. Tutto questo per dirvi che se i Maïeutiste ci hanno impiegato cinque anni per scrivere questo disco, forse era dovuto al fatto di non voler apparire scontati nella loro stralunata proposta musicale. Un grande plauso quindi ad un lavoro difficile ma che merita tutta la vostra attenzione. Con "The Eye of Maieutic Art" si ritorna ad un black dalle venature doom in una epica song di oltre nove minuti, che chiude il secondo capitolo, "Chute", e ci prepara alla terza parte del disco, "Elévation", aperta dalle visioni apocalittiche di "Lifeless Visions", ansiogena song funeral doom che mette ancora in mostra le proprietà tecnico esecutive dei nostri. Ma forse il bello deve ancora venire. "Death to Free Thinkers" è infatti un'altra traccia sperimentale aperta da una serie di percussioni (base portante di tutti gli oltre otto minuti del brano), delicate note di chitarra e un cantato epico da brividi. "Annonciation" rappresenta l'epilogo della terza parte, in 240 secondi che potevano star bene in uno qualsiasi dei dischi dei Pink Floyd. Attenzione perchè il disco riserva ancora gli 11 minuti di "Death to Socrates", un pezzo di black mid tempo che trova ancora il tempo e il modo di scuotere l'ascoltatore con i suoi sussulti. Che altro dire di un lavoro che mostra le innumerevoli sfaccettature di una band piena di risorse e interessanti idee? Speriamo solo di non dover aspettare altri 7 anni per sentir parlare dei Maïeutiste, rischierei di dimenticarmene il nome. Nel frattempo godiamoci questo incredibile debutto. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions- 2015)
Voto: 80

https://www.facebook.com/maieutisteofficial

giovedì 1 ottobre 2015

Dead Shed Jokers – S/t

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock, Queens of the Stone Age
Suonare come nessun altro, eppure risultare immediatamente familiari. Sarebbe probabilmente il sogno di buona parte delle band che popolano il pianeta, e ogni tanto qualcuno ci riesce. I Dead Shed Jokers sono una band strana, ci vuole tempo per metterli a fuoco, eppure non ci si riesce mai del tutto. Come osservare un dipinto in cui la prospettiva è leggermente ingannatoria, non ci si sente mai del tutto a proprio agio, solleticati da un leggero e indefinibile senso di disagio. I cinque ragazzi gallesi, al loro secondo album, propongono un hard rock che è sí debitore dei gloriosi '70s, quanto influenzato dal grunge o dai Queens Of The Stone Age. L’istrionico cantante Hywel Davies ha una voce pazzesca e uno stile a metà tra Robert Plant e Chris Cornell, ma con un’attitudine alla teatralità piú spiccata, cosa che rende davvero peculiari molti dei brani in scaletta. A sorreggere Davies ci pensano gli altri quattro (due chitarre, basso e batteria) e lo fanno come meglio non si potrebbe: riff granitici, una bella varietà ritmica e la capacità di costruire brani complessi e mai scontati, senza perdere un grammo in termini di energia. Il tutto è poi ben supportato da un suono sporco e per nulla patinato. Il mix che ne viene fuori ha un certo non so che di originale, qualcosa che non si riesce del tutto ad afferrare mentre si cerca di individuare tutti i riferimenti, che all’inizio sembravano evidenti. Dopo molto ascolti non sono ancora riuscito a capire bene di cosa si tratta, ma dev’essere nascosto nelle pieghe della voce e dalla personalità di Davies, che non si limita a cantare, peraltro benissimo, ma sembra sempre volerti raccontare una storia in modo molto serio, riuscendo quasi sempre a catturare la tua attenzione. Degli 8 brani, nessuno può essere considerato un riempitivo, e si viaggia dal rock dritto e tirato dell’opener “Dafydd’s Song” alle sfumature folk di “A Cautionary Tale”, ai riff irresistibili di “Memoirs of Mr Bryant’s” (scelta come singolo e della del quale vi invito caldamente a visionare il delirante e bellissimo video), fino al tiro pazzesco di “Rapture Riddles”, in un’incedere dance punk che non avrebbe sfigurato nel post-punk revival britannico di inizio millennio, tra Bloc Party e The Music. Si chiude poi con la ballata pianistica in stile glam “Exit Stage Left”. Disco sorprendente, che riesce a coniugare al presente il verbo del rock d’annata in un modo credibile e a suo modo originale. Forse non li troverete mai nelle liste delle next big thing di oltremanica, ma dopotutto, quante delle band citate in quelle liste vi ricordate oggi? I Dead Shed Jokers, invece, ci sono per restare. (Mauro Catena)

(Pity My Brain Records - 2015)
Voto: 75

martedì 29 settembre 2015

Apneica - Pulsazioni... Conversione

#PER CHI AMA: Post Metal/Death Doom
L'underground italiano c'è ma non si vede. Sebbene la scena sembri alquanto statica, vuoi per l'assenza di locali, vuoi perchè le poche case discografiche preferiscono puntare su band straniere, c'è ancora chi crede nelle realtà di casa nostra. Da sempre la My Kingdom Music (e ora la sua sottoetichetta Club Inferno Ent.) tiene le antenne alzate e oggi pubblica il secondo lavoro degli Apneica, un 4-track EP interamente cantato in italiano che propone un death doom di caratura internazionale che sembra fondersi con un genere alquanto distante, il post metal. Strano infatti respirare le atmosfere rarefatte del doom dei My Dying Bride con l'alternanza vocale pulito-growl che trova modo di muoversi attraverso ritmiche che sembrano prese in prestito dai Cult of Luna. Cosi si presenta infatti "Alba Artificiale", pezzo evocativo dove mi suona parecchio strano sentire un growling minaccioso interamente cantato in italiano e dove a tratti mi sembra anche di risentire i Klimt 1918 degli esordi che si mischiano con gli Isis. Strano no? Interessante quindi questo connubio, a cui inevitabilmente dovrò farci l'orecchio per l'accostamento alquanto anomalo. E "Assenza di Gravità" segue a ruota, con Ignazio Simula dietro al microfono che, in versione pulita, sembra avere ancora ampi margini di miglioramento, mentre in versione gutturale dà prova di grande maturità. Ma è la musica a destare il mio più vivo interesse, visto che si muove sinuosa tra territori doom e divagazioni post, non dimenticandosi peraltro di una certa componente malinconica in pieno stile Katatonia, come palesato nell'incipit di "In Orbita". Poi qui si piomba nelle tenebre di un sound minimalista che sfocierà in un death doom melodico meditativo e intenso, grazie ancora alla performance oscura del bravo Ignazio, che nelle clean vocals si sforza di emulare quella di Aaron Stainthorpe, frontman dei My Dying Bride. La conclusiva title track è un pezzo strumentale, retaggio di ciò che erano gli Apneica agli esordi, una realtà dedita a introspettive sonorità strumentali. Esperimento riuscito. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2015)
Voto: 75

Manitu - Raw

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock
Dal cuore della Svizzera, i Manitu sfornano il loro, se non erro, terzo album, con un titolo che è un manifesto programmatico. 'Raw', ovvero grezzo, selvaggio, poco incline alla morbidezza. Dieci brani per circa 40 minuti di rock duro, dal respiro decisamente internazionale. Quello che spicca prima di ogni altra cosa è la voce e la personalità di Manna Lia, una ragazza che ci sa fare e sa come catturare l’attenzione e tenerla desta lungo tutta la durata del disco. In realtà la cantante non è esattamente alle prime armi, avendo alle spalle diverse esperienze anche oltreoceano. La sua innegabile energia, unita ud un timbro che ricorda ora Alanis Morrisette, ora una sorta di versione femminile di Eddie Vedder, sembra contagiare i suoi compagni di avventura (David Grillon alle chitarre, Lionel Ebi al basso, Fabio Duro alla batteria) che risultano convincenti nel loro declinare un rock fortemente influenzato dagli anni '90, a metà strada tra il nu-metal, il grunge piú metallico di Soundgarden e Alice in Chains, e il rock da stadio di Foo Fighters o Skunk Anansie (paragone plausibile non solo per il fatto di avere una cantante donna). I Manitu piacciono quando spingono sul pedale dell’acceleratore, come nella trascinante opening track “What you Realize”, o in “Blind” dove fa capolino anche un’interessante vena protopunk alla Stooges, e si dimostrano capaci anche di inaspettate aperture melodiche di grande respiro e potenziale come nel chorus di “The Edge”. Ma i momenti in cui si fanno preferire, quelli in cui riescono a sfoderare una personalità piú definita, sono quelli in cui i ritmi rallentano e la componente emotiva reclama piú spazio: “24/7”, “Another Lie” o i saliscendi della conclusiva “Mary”. Nulla di nuovo sotto il sole quindi, tuttavia 'Raw' è un lavoro sincero e appassionato, che potrà sicuramente guadagnare ulteriori punti nella sua riproposizione live. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

domenica 27 settembre 2015

Hollow Haze - Countdown to Revenge

#PER CHI AMA: Power Sinfonico
I vicentini Hollow Haze, capitanati dal chitarrista fondatore Nick Savio fin dal 2003, hanno da poco pubblicato il loro sesto album in studio, ‘Memories of an Ancient Time’, il quale sta riscuotendo un discreto successo. Tuttavia, quello di cui andiamo a parlare oggi è il precedente full-length della band, quel ‘Countdown to Revenge’, pubblicato nel 2013, che forse rappresenta il loro lavoro migliore. La formazione degli Hollow Haze del 2013 vede dietro al microfono il signor Fabio Lione, veterano della scena power italiana (Rhapsody of Fire, Vision Divine, Labyrinth), che sicuramente rappresenta una spinta in più per il gruppo veneto. Punto di forza di ‘Countdown To Revenge’ è la collaborazione anche con la Wintermoon Orchestra di Simone Giorgini, che apporta una interessante innovazione nel sound della band, amalgamando la potenza delle composizioni di Nick Savio ad azzeccate orchestrazioni sinfoniche, le quali fortunatamente non rubano mai la scena, ma vanno ad inserirsi nel sound dei nostri senza appesantirlo troppo. Lo si può percepire già dalla cavalcata iniziale “Watching in Silence”, che si presenta con un pomposo intro orchestrale fino all'ingresso della band che ci travolge con la sua accelerata, a cui partecipa anche l'orchestra che sembra non mollare mai la presa, andando a creare uno dei passaggi più belli del disco. Le atmosfere sinfoniche ci accompagnano fino alla fine del brano (e anche per tutto l'album), in cui possiamo apprezzare anche un ottimo assolo di chitarra, che mette in luce le doti tecniche di Savio. Il disco prosegue con il tipico sound power-moderno dell’ensemble veneto, sempre accompagnato dalla Wintermoon Orchestra e arricchito dalla voce del grande Fabio (che qui si è occupato anche della stesura dei testi) che ci accompagna fino all'interessante suite che dà il nome all’album, per poi concludere con la strumentale “The Gate To Nowhere” che ci riporta alla dimensione iniziale. Un altro ottimo passaggio a favore per la formazione vicentina, che con quest'album mette a segno l’ennesimo colpo per farsi largo nella scena, valorizzati peraltro dal sempre ottimo lavoro di produzione da parte di Sascha Paeth, sicuramente uno dei produttori in circolazione più in gamba in assoluto che rende questo disco uno spettacolo di suoni. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Scarlet Records - 2013)
Voto: 80

http://www.hollowhaze.com/

sabato 26 settembre 2015

Hamleypa - Im Morgen von Einst

#PER CHI AMA: Post Black Atmosferico, Deafheaven, Austere
Partito come un progetto di due musicisti nel 2007, la band di Norderstedt ora consta addirittura di sei loschi individui che si celano dietro le sole iniziali dei loro nomi, dietro il monicker Hamleypa e il titolo di quest'album che tradotto starebbe a significare "La mattina di Einstein". Oltre a questo non riesco a spingermi e la curiosità di sapere cosa risiede nei testi di quest'act teutonico si fa molto forte. Nel frattempo vi posso spiegare che cosa potrete attendervi dalle note di 'Im Morgen von Einst' ossia quattro lunghi brani di sofferente black atmosferico. Il disco esordisce infatti con il sound crepuscolare di "In Tausenden Flüssen" (la traduzione di "in migliaia di fiumi") che lascerà ben presto spazio alla furia iconoclasta del suo riffing zanzaroso black (scuola Austere) su cui si staglia lo screaming, non proprio raffinato, del suo frontman. Per fortuna lungo gli undici minuti di flusso sanguinoso, il sound secco della band trova modo di adagiarsi in arpeggi acustici, aperture malinconiche e velenose epiche cavalcate. Peccato che la produzione non proprio impeccabile, penalizzi il suono globale, rendendolo talvolta un po' troppo impastato in cui si fa più fatica a riconoscere i singoli strumenti piuttosto che le vocals belluine del cantante. Con "Endlos" (infinito) la musica non cambia e ci abbandoniamo pertanto alle violente percussioni dei nostri che si intrecciano con le rasoiate delle sei corde e il feroce cantato dell'oscuro vocalist, ma non temete perché nell'arco dei suoi quasi dieci minuti, la song troverà anche il modo di dare spazio ad aperture dal lontano sapore shoegaze cosi come pure a nevrotiche spinte di black funesto o a delicati tocchi di piano che delineano uno dei pezzi più ad alta tensione di questo debut album. "Diese Welt, das Was War, die Erinnerung an Dich, Unser Werk War es und Unseres Allein" è interessante per il suo lungo ed enigmatico titolo e altrettanto per il contenuto che non si discosta, strutturalmente parlando, dalle precedenti song, con l'alternanza tra foga black e passaggi atmosferici. A chiudere 'Im Morgen von Einst' ci pensa la demoniaca (almeno a livello vocale) "Algol", song che conferma la bontà della proposta del combo teutonico, ma sul cui sound suggerisco qualche miglioria a livello vocale e a livello di produzione, per poter presto sfondare con un nuovo lavoro che consenta ai nostri di stare accanto a fenomeni del calibro dei Deafheaven. (Francesco Scarci)

(Throats Productions - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Hamleypa

Clouds Taste Satanic – Your Doom Has Come

#PER CHI AMA: Doom/Stoner
Torna una delle più belle realtà stoner/doom degli ultimi anni con un secondo album autoprodotto di qualità superiore. Nelle sei tracce medio lunghe della band strumentale di Brooklyn si trovano mille sfaccettature e varianti sonore tutte gravitanti attorno la vasta orbita dello stoner rock. Dalle cadenze rallentate del doom alle allucinazioni cosmiche dello space rock, le tipiche cavalcate stoner ed il tocco vintage a ricordare che il tutto nacque dai mitici Black Sabbath. Potreste dire che fino a qui è tutto normale ma in realtà 'Your Doom Has Come', pur non contenendo innovazioni musicali, risuona fresco e tonante, ricco di personalità, prodotto divinamente, senza lacune ne plagi. I Clouds Taste Satanic suonano come i Monster Magnet dell'ultimo album 'Last Patrol' ma più arcigni oppure come i mai dimenticati 7zuma7 e condividono con queste due leggende la stessa visione della musica suonata come rituale, un mantra che inebria e allarga la mente, un vortice di suoni e ritmi visionari, selezionati e calcolati a dovere per ottenere l'effetto psichedelico dovuto. Nulla è lasciato al caso, l'attitudine ipnotica, costantemente virata ai 70's ma senza imitarli, li rende unici ed anche quando si atteggiano a fare i doomster, riescono a far uscire il loro lato più rocker senza risultare banali e ripetitivi. Potremmo paragonarli ai primi Karma to Burn ma sono più acidi e meno heavy, avvicinarli ai primi esaltanti 35007, immaginando il glorioso combo olandese ovviamente con un suono più a stelle e strisce, magari per chi se li ricorda, riallacciarli al capolavoro dei geniali Core in 'Revival' del 1996 in una forma più attuale. In realtà, i quattro musicisti americani mostrano talento, orgoglio, creatività e voglia di esplorare nuove vie per un genere che il più delle volte negli ultimi tempi ha offerto solo patetici cloni. Sanno scrivere brani avvolgenti e cavalcano l'onda con abilità, mostrando anche una sensibilità ipnotica di tutto rispetto, compreso l'artwork creato sul capolavoro di Peter Bruegel, 'The Fall of the Rebel Angels' che si raccorda alchemicamente al mitico 'Forest of Equilibrium' dei Cathedral. Se amate il vintage ma non volete ascoltare delle false imitazioni e lo cercate proiettato nel futuro, più potente, rivisitato, allucinato e catartico, abbracciate questo album e fate di questa band il vostro oggetto di culto! Adorabili! (Bob Stoner)

Interview with Shepherds of Cassini

Follow this link to know who are the guys of Shepherds of Cassini, authors of the new album 'Helios Forsaken', an interesting mix of Porcupine Tree, Tool and King Crimson:



venerdì 25 settembre 2015

Mare Infinitum - Alien Monolith God

#FOR FANS OF: Atmospheric Doom/Death Metal, Morgion, Shape of Despair
As has become quite common-place recently, Russia has spewed forth an impressive collection of Doom/Death Metal bands that offer sprawling, majestic paces mixed with melody and aggression, and much like those bands this three-piece effort offers a crushing display of that style on this second full-length. The whole idea here is glacial-slow paces, built around thudding bass-lines and plodding, simple drumming with a fine mix of churning, low-end guitar riffing compiling some of the heaviest rhythms possible at such a finite tempo to produce a fine Doom/Death Metal base while the rather pleasing addition of clean vocals and celestial keyboards provide this with some rather pleasing atmospheres, and the whole affair is effectively dripping with a kind of quality one expects from the recent explosion of Russian acts attempting similar styles. In fact, the pace and vibe here borders on Funeral Doom Metal at times in terms of tempo but still keeps this one more firmly rooted in the Death Metal realms which is quite enjoyable at times even if responsible for making this a little slower than would be expected from such a genre, and as a whole the album is quite enjoyable. Opening track ‘The Nightmare Corpse – City of R’lyeh’ turns from light lilting guitars to a steady mid-paced crunch and follows through nicely as the mix of cleans and harsh growls compliment the raging tune nicely as this kicks off the album in fine fashion. ‘Prosthetic Consciousness’ also follows suit with a similar opening style that again turns into a simplistic, plodding series of crushingly heavy rhythms and plenty of stylish patterns that do keep the atmosphere going while never quite doing much of anything to get the pace going as this is just too slow and plodding to mean much of anything here against the other tracks. The epic title track is another massively slow-burning effort filled with plodding tempos and a series of fine celestial-inspired keyboards coursing through the middling pace as the heaviness is substituted very nicely for melody instead as the massive arrangements move into a light, relaxing celestial journey that makes for quite a moving experience here, and while it could’ve been trimmed up a bit still ranks as one of the highlights. ‘Beholding the Unseen Chapter 2’ attempts to change that up with a more pronounced and explosive series of truer Doom/Death Metal stylings with a rather discernible emphasis on a heavy rhythm and rather bombastic series of keyboards amidst the thumping riffs that make for another strong highlight offering. Lastly, ‘The Sun That Harasses My Solitude’ offers a strong, lilting piano intro with atmospheric keyboards through the plodding, celestial tempos crashing along with the Doom rhythms and a grandiose, majestic finale that makes for a great conclusion here. They do this style quite well, and are certainly enjoyable enough overall even if they can do with some shortening up from time-to-time. (Don Anelli)

(Solitude Productions - 2015)
Score: 80

mercoledì 23 settembre 2015

Deluge - Æther

#PER CHI AMA: Black/Post Hardcore
Tanto per usare un termine calcistico, la cantera transalpina produce ogni giorno una serie infinita di fenomeni, dei Messi, Xavi o Iniesta in erba. Ovviamente traslate il tutto in termini musicali, e non stupitevi se la Francia raccoglie nei propri confini tra le migliori band estreme in circolazione: Alcest, Blut Aus Nord, Deathspell Omega, Dirge o Hacride sono i primissimi nomi che mi sono venuti in mente mentre ascoltavo la prima corrosiva song dei Deluge, una new sensation appunto, proveniente da Metz, inglobata da poco nel mondo Les Acteurs de l'Ombre Productions. La band irrompe selvaggia come non mai, senza filtri, senza intro smelense o accattivanti, un attacco all'arma bianca fatto di irruenti ritmiche viscerali, che miscelano la velocità del black con la caustica melodia del post-hardcore. "Avalanche", la opening track di 'Æther', mi convince istantaneamente, per la sua innata capacità di far coesistere generi cosi distanti tra loro ma mai cosi vicini come in questo caso. Un'eccelsa produzione poi fa il resto, esaltando i suoni e le criptiche atmosfere in cui ai nostri piace cosi di frequente celarsi. "Appât" dà un altro scossone, nemmeno ce ne fosse stato bisogno, con il tonante suono di una batteria impazzita, più vicina a un terremoto dell'ottavo grado della scala Richter piuttosto che a uno strumento musicale. Terremotanti, eccolo l'aggettivo giusto da affibbiare ai Deluge, anche se nel corso del brano non mancheranno rallentamenti post sludge a rendere il suono accattivante. Più suadente appare invece il prologo di "Mélas|Khōlé", prima che una pericolosa deflagrazione sfoci in una mostruosa combinazione di riff nevrotici e drumming schizofrenico, che troverà la pace interiore nel suono conclusivo di un temporale. Si sa che tuoni e fulmini non portano nulla di buono ed ecco che in "Naufrage" esce ancor più forte l'acredine hardcore della band francese, con il suo vocalist, dallo screaming urticante, a vomitare il proprio livore. Il temporale non accenna a placarsi e su distorte linee di chitarra, lo si sente presente in sottofondo ad accompagnare la progressione di "Houle", un'altra song burrascosa in cui le melodiche linee dei Deluge, fanno più fatica ad emergere, lasciando che l'assalto sonoro ci dilani le carni. Ci provano i Deluge a darci un attimo di respiro, ma poca roba, l'annichilimento sonoro risulterà completato già sul finire di questa traccia. Con le ossa ormai rotte, mi avvio ad ascoltare la seconda metà del cd, che esordisce con i nove minuti e mezzo della strumentale "Klarträumer" e prosegue con l'interlocutoria "Vide", di cui francamente se ne poteva anche fare a meno. Il temporale è incessante in sottofondo e introduce con rarefatti tocchi di chitarra, l'inizio di ogni brano. Sembra che lo spirito battagliero della band vada via via assopendosi lungo il disco, almeno nelle battute iniziali di ogni traccia, per poi venir rivelato nel corso delle seguenti vetrioliche tracce che terminano con la finale "Bruine", a suggellare la performance di un'altra, l'ennesima, entusiasmante realtà musicale, proveniente dalla vicina Francia. Un ultimo plauso va all'attività di scouting della Les Acteurs de l'Ombre Productions, sempre più attiva in casa propria a cercare le migliori band. Un po' come dovrebbe capitare in Italia, paese sin troppo esterofilo, ricco tuttavia di ottime band e anche di giovani campioni nel calcio. Meditate gente, meditate! (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2015)
Voto: 75

domenica 20 settembre 2015

Luna – On the Other Side of Life

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Gothic
Risuona come un presagio plumbeo il nuovo album della one man band ucraina Luna. Uscito per la Solitude Prod. in questo 2015, il disco mostra tutta la sua devozione alla musica del destino, con tastiere epiche ed immortali, una cadenza lenta ed esplosioni dal suono metallico, granitiche e possenti. Le uniche due lunghe tracce che compongono l'album sono monolitiche e solenni, in puro stile Skepticism anche se Luna tende a mantenere sempre un legame viscerale con certe sonorità death e gothic molto radicate nella sua costruzione. L'album è di pregevole fattura, sale di intensità continuamente e si inserisce bene nella media dei lavori inerenti al doom/ funeral/ambient metal, che richiedono una preparazione tecnica elevata e una certa sensibilità compositiva al di sopra della norma per non creare lavori ripetitivi e noiosi. Con un artwork pregevole ed insolito ricavato dalle opere di Munch e Demort, la mente dei Luna, intende ritagliarsi uno spazio nel tempio del doom che conta, offrendo un prodotto dalle atmosfere surreali, oscure, ampie e drammatiche, un flusso continuo di energia grigia che esalta ed estranea l'ascoltatore portandolo in un mondo desolato atto ad indurlo ad una riflessione infinita. Due tracce affascinanti, intense, dove il secondo brano, che dona anche il titolo all'album, spicca per la sua inusuale vena decadente e romantica, piena di speranza. Una composizione sinfonica più che perfetta, 33 minuti di malinconica melodia dove l'autore sarà in grado di amplificare la sua anima gotica ed eterea, sacrificando leggermente il lato più doom del sound, senza perdere la caratteristica tensione, avvicinando infine la propria proposta ad una imperiale colonna sonora dall'evoluzione progressiva. Album da ascoltare tutto d'un fiato e in completa solitudine! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

sabato 19 settembre 2015

Potmos Hetoimos - The Paragon Trisagion

#PER CHI AMA: Death/Black/Progressive/Post Metal/Sludge Opera
Che sia un viaggiatore nella vita, è noto da tempo. Altrettanto mi piace fare nella musica: un giorno sono in Nuova Zelanda, il seguente in Polonia e poi ancora in Sud Africa o in Argentina. Oggi il mio viaggio fa tappa in US, Baltimora, per scoprire l'ambizioso progetto di Matt Matheson, la sua one man band Potmos Hetoimos e l'infinito album (solo in termini di durata, per cui non so neppure se arriverò al termine) 'The Paragon Trisagion'. Il lavoro, che vede la partecipazione di una innumerevole serie di ospiti, consta infatti di 21 brani con delle durate che oscillano tra i 4 e gli 11 minuti, con la vetta massima di "Wayward Stars", che dura la bellezza di 55 estenuanti minuti. Ecco facendo due conti, 'The Paragon Trisagion' è un'opera monumentale che si aggira sulle 3 ore e venti di musica che inizia con "Light Wells" che vede Matt muoversi su un territorio assai vicino ad un sound progressive, anche se nelle note della traccia è facile imbattersi in influenze sludge. Notevole l'apporto del sax e di percussioni tribali che continueranno anche nella successiva "Synthetic Eclipse", traccia dal lento incedere, ove compare, in veste di guest, Teemu Mäntynen voce dei Crib45. La song palesa comunque una certa umoralità di fondo che rende il risultato assai vario e mutevole lungo i suoi 10 minuti abbondanti di durata. Un break cibernetico ed è il momento di "Amethyst" in cui, dietro al microfono ecco vedersi Andrew Millar dei Patrons of the Rotting Gate, che abbiamo avuto modo di conoscere anche qui nel Pozzo, il cui furioso spirito battagliero si riflette nelle note di questa song black/death mid-tempo. "Strawgod" ha il piglio malinconico, lo percepisco già dalla melodia di quella che sembra essere un'arpa, per poi evolversi in un altro lungo e tribolato cammino in cui affiorano tutte le influenze del bravo Matt: ambient, post rock, sludge e death coesistono egregiamente in un pezzo, il cui solo limite potrebbe essere costituito da una produzione non sempre all'altezza. "Cherubae" è una traccia strumentale delirante che si muove tra ombre progressive e noise. "Fear and Bright" affonda pienamente le sue radici nel folk. Difficile star dietro all'eccletismo sonoro dei Potmos Hetoimos, perchè da un pezzo all'altro, i nostri subiscono drastici cambi di fisionomia: non stupitevi pertanto se "Queen of the Fire" appaia di primo acchito, un pezzo di black grezzo; avrà comunque modo di rifarsi con splendide chitarre dal sapore cascadiano che inneggiano agli Agalloch. Credo alla fine sia proprio la peculiarità di 'The Paragon Trisagion' quella di apparire come un diamante grezzo che debba essere lavorato e reso più puro. Ma forse sta proprio qui il limite di quest'incredibile opera, che prosegue con la psichedelica ferocia di "Heliamartia" e l'onirica "Adamah, Anima", che mostra forti richiami al rock progressivo anni '70. Si torna a sognare con "Fallow Soil" anche se le sue plumbee atmosfere non mettono decisamente a proprio agio; ma quando sono le chitarre acustiche ad affrescare l'etere, qui accompagnate anche da percussioni tribali, sembra addirittura di trovarci in un mercato di un qualunque paese esotico. Nella rockeggiante "The Devil's Miracles" ecco un altro ospite, Carlos Lozano dei Persefone a regalarci un prezioso assolo in un'altra lunghissima e mutevole canzone che si muove tra suoni mediterranei, fraseggi acustici ed irruenze metalliche. La classe di Matt e dei suoi ospiti emerge forte anche nelle successive tracce grazie ad una musicalità multicolore che continuerà a spaziare tra post metal, ambient, rock e doom, e in cui gli estremismi sonori si ritrovano solo nei vocalizzi gutturali del mastermind statunitense. Mi soffermo infine sui 55 minuti di "Wayward Stars" che fondamentalmente fa da colonna sonora a una breve epica storia che verrà fornita a chi acquisterà la release digitale di questo incredibile musicista, un vero pozzo di idee che nel suo epilogo toccheranno il punto più alto della sua immaginazione e dove convoglieranno tutte le influenze dell'artista del Maryland. Che altro dire se non che 'The Paragon Trisagion' sia il disco più ambizioso che mi sia mai capitato di recensire negli ultimi vent'anni. L'unica nota di demerito per Matt è il fatto di non aver spezzato questo lavoro in tre release separate in termini temporali, cosi da renderle disponibili anche in formato fisico e non solo digitale. La grande abbuffata rischia infatti di far passare in sordina siffatto capolavoro. (Francesco Scarci)

Septic Mind - Rab

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Avantgarde
C'è qualcosa di indescrivibile in questo terzo album assai inspirato dei russi Septic Mind. Un universo di sfumature oscure che toccano un'infinità di generi che si trasformano in magia sonora traccia dopo traccia. Una sonorità fredda che potrebbe simulare i mitici Fields of the Nephilim, viene riplasmata con influenze d'avanguardia inaspettate tipo Spherical Unit Provided, venature dark/black metal, inserti d'elettronica minimale e altre diavolerie varie, improbabili chitarre acustiche dal lontano sapore di folk e rumoristica varia. Ad estrarli definitivamente dal calderone funeral metal, è un'attitudine glam esuberante ben radicata nel duo, che rende il loro suono esageratamente attraente, una qualità che non tutte le band odierne possono vantare. Il suono del duo di Tver è tipicamente derivato dal doom metal ma caratterizzato da una vena molto dark che sembra uscire dalle migliori band death rock con un velo 80's di tutto rispetto, con riverberi esagerati di batteria, tappeti di tastiera incantati, chitarre taglienti e voci cavernicole intriganti, sensuali, perverse e dal fascino luciferino, una sorta di Ex-VoTo in salsa Incantation. Le tracce sono variegate e ben prodotte (la mia preferita è la lunga "Na Poroge Peremen" che chiude il disco con un sound sperimentale, psichedelico spiazzante, decisamente originale), piene di escursioni e rimandi sonori a più entità del passato tra cui Swartalf, Atrocity, Rapture, e con una certa propensione ai Shape of Dispair che fa da legame su tutto. 'Rab' (in cirillico 'Раб') è alla fine un album ostile, ottimo per ascoltatori amanti della ricerca sonora, chicca per estimatori della sperimentazione tra generi e del funeral doom più contaminato e ricercato, quello che non si presta ad omologazioni e di difficile catalogazione, per quei suoi connotati progressive e d'avanguardia. Quattro lunghi brani licenziati sul finire del 2014 via Solitude Prod. che innalzano ulteriormente il valore delle sempre più ricercate uscite dell'etichetta russa. Una band notevole! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/SepticMind

venerdì 18 settembre 2015

Regarde Les Hommes Tomber - Exile

#PER CHI AMA: Black/Postcore/Sludge, Altar of Plagues
C'era una certa attesa per il secondo lavoro dei transalpini Regarde Les Hommes Tomber, che avevano ben impressionato (anche il sottoscritto) con il loro debut album omonimo, uscito per la sempre più attiva Les Acteurs de l'Ombre Productions, ormai focalizzatasi alla ricerca di talentuose band nella scena post black. Li avevamo descritti come una sorta di black contaminato da post metal e sludge, con influenze che sfociavano nel sound torbido di Neurosis e Cult of Luna. 'Exile' ripropone quelle sonorità ma ce le offre corredate di una classe sopraffina che esplode con una certa dirompenza in "A Sheep Among the Wolves", song che mette in scena tutta l'ecletticità dell'ensemble di Nantes: incipit tribale e poi tutta l'adrenalinica furia del quintetto divampa come il peggiore degli incendi. Il sound però ben presto assume un'altra fisionomia e dal black si vira verso lidi più lugubri, prima del post e poi dello sludge. L'arcigna voce di Thomas, che lo scorso anno sostituì U.W., si mostra malefica e carismatica al tempo stesso, e ben si amalgama con la ferocia di fondo dei RLHT. L'impeto dei nostri però non si placa nemmeno nella successiva "Embrace the Flames" dove anzi, la band alza ulteriormente il tiro con un carico di atmosfere nefaste e caustiche ritmiche, che comunque garantiscono una costante melodia di fondo e rendono 'Exile' ancor più appetibile. Un breve intermezzo e si precipita nelle atmosfere sulfuree di "...To Take Us", il pezzo più scuro dell'album, quello che ha più punti di contatto con il claustrofobico sound degli Altar of Plagues. E la sensazione di vertigine da assenza di ossigeno, si manifesta anche nella demoniaca "Thou Shall Lie Down", introversa, ossessiva, malata e con delle velenose sferzate di intima violenza post black che la votano come il mio pezzo preferito di 'Exile'. L'album si chiude con la traccia più estesa del disco, "The Incandescent March", undici minuti che si aprono con tocchi delicati che pian piano vanno crescendo in intensità, per il definitivo colpo di grazia che i Regarde Les Hommes Tomber sono pronti ad inferire in quest'ultimo drammatico brano di 'Exile' che pur evocando lo spettro di Blut Aus Nord e Deathspell Omega, pone seriamente il combo francese tra i candidati più accreditati a raccogliere lo scettro degli Altar of Plagues. Pestilenziali. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2015)
Voto: 80

giovedì 17 settembre 2015

A.C.O.D. - II The Maelstrom

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Machine Head
È interessante vedere come il death metal non sia solo un fenomeno relegato al paese a stelle e strisce. Anche l'Europa dà segni di vita in questo ambito e lo fa, manco farlo a posta, nella nazione con la scena più attiva negli ultimi anni, la Francia. Gli A.C.O.D. vengono infatti dalla Costa Azzurra, Marsiglia per l'esattezza, a infuocare il panorama death/thrash mondiale. Tredici sassate per un pomeriggio di assoluto relax fra arrembanti aggressioni sonore, riffoni trita budelle, in pieno stile Machine Head, growling vocals, blast beat e taglienti assoli. Non vorrei che 'II The Maelstrom' alla fine si riduca a questa breve descrizione, altrimenti il rischio di annoiarsi con un simile album poteva essere parecchio elevato. Fortunatamente il quintetto transalpino ha capito l'antifona e ha pensato bene di inserire qualche variazione al tema, per rendere più interessante il prodotto finale. E cosi non sarà difficile anche per voi imbattervi in qualche divagazione industrial ("Abuse Me") o in un qualche episodio che sfocia nel black metal come "Words of War", la traccia che in assoluto rimane la mia preferita. In "Ghost Memories" addirittura fa la sua comparsa l'ubiquitario Björn 'Speed' Strid, con le sue inconfondibili vocals. Se "Black Wings" è una song abbastanza lineare a livello ritmico, la breve "Rise" vi scalderà con il suo death'n'roll. Una intro acustica ed è il turno di "Cold", la traccia più imprevedibile del lotto, capace di stop and go, rallentamenti e belle sfuriate omicide. In "Unleash the Fools" ecco il secondo ospite dell'album, Shawter dei Dagoba, a prestare la sua voce e impreziosire ulteriormente 'II The Maelstrom', in un brano che vanta anche un ottimo liquido break centrale. Altri tre i pezzi a disposizione degli A.C.O.D. mirate a superare le vostre ultime perplessità: la melodica e oscura "Fallen", altra traccia inserita tra le mie preferite, la caustica "Crimson" e la conclusiva "To the Maelstrom", che ci catapulta definitivamente nell'inferno creato dagli A.C.O.D.. Album in definitiva interessante, soprattutto per la sua capacità di andare oltre i classici dettami del death metal. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 75

AM:PM - Aberrant Minds Provoke Murder

#FOR FANS OF: Metalcore/Melodic Brutal Death Metal Suicide Silence, Trivium
This debut EP from the Swiss metallers AM:PM is a rather nice amalgamation of modern Extreme Metal in a very succinct, brief package that does what it does quite nicely, but unfortunately what it’s doing isn’t exactly all that inventive or unique. Alternating between two tempos for the most part, fast and slow, the faster sections are pretty enjoyable thrash-infused Metalcore inspired riffs with a fine sense of melody and aggression with a fair bit of technicality offered while the slower sections are chug-heavy breakdowns ripped from the latest Brutal Death Metal section of the spectrum, and almost without exception the band tends to play in either section which tends to make this album feel a lot longer than it really is as there’s a lot of familiarity bred into these songs. They’re all nearly the same length and feature the same kind of tempo changes which makes them bleed into each other quite easily, which certainly isn’t helped by the gruff vocal growls that effectively match the intensity displayed but also keeps this one from being quite similar to everything. Even with this, it’s still a good enough example of the style that there’s some good to be had from the songs here. Instrumental intro ‘Prelude’ starts this off nicely with a melancholy riff that blasts into the driving Metalcore blasts and rhythms quite well as it segues into proper first track ‘Lady Hurricane’ as the spindly riffing and thrashing drumming with a series of sharp breakdowns chugging through the tight series of riffs make for quite a vicious, tight offering that gets this one charging along quite well. The heavy ‘Make a Choice’ blasts through with a thunderous roar blasting through tight, pounding rhythms and thick, heavy chugging riff-work breaking down into several vicious breakdowns that tends to wrap around throughout the finale for its most impressive track quite easily. ‘Humans are Their Own Rivals’ whips back into the Metalcore phase with some impressive swirling riff-work alongside the pounding rhythms as the chugging breakdowns return to carry the violent charge through the scalding finale that’s fun but again feels rather familiar. Finale ‘Salvation’ gets a little more exciting with an extended series of twisting rhythms thrashing through a mid-range series of riffs with the out-of-place clean vocals leading into the crushing breakdowns and trinkly keyboards sprinkled into the melodies for a fine ending impression here. It’s certainly a decent start here, but it’s just way too familiar at this stage to warrant more than a passing interest. (Don Anelli)

(Self - 2014)
Score: 70

martedì 15 settembre 2015

Monarca - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative
I Monarca sono una formazione nata recentemente nell'est veronese, un quartetto dedito al rock strumentale, che è partito in quarta vincendo alcuni premi e sfornando questo EP omonimo. Come dichiarato dalla band stessa, i veronesi si inspirano ai granitici Tool e ai A Perfect Circle, ma l'assenza della voce e quindi lo studio di linee melodiche aggiuntive, li porta ad essere più vicini anche a band come Russian Circles e in ai primi Pelican. I suoni dei Monarca sono però meno saturi e lasciano maggiore respiro all'ascoltatore che non viene costantemente investito da muri di distorsioni, che vengono invece utilizzate ad hoc per caricare al meglio le tracce e dare loro maggior dinamicità. I brani contenuti sono cinque e dopo un'eterea traccia introduttiva a ritmo di hang drum, si viene accolti da "Cricktes", sette minuti di prog rock che convince, affascina e non stanca. Le chitarre la fanno da padrone e la loro corposità appaga l'orecchio del rocker smaliziato, mentre le linee melodiche che i Monarca tessono, non fanno certo rimpiangere la mancanza di un vocalist. Alcuni passaggi risultano minimalisti, creano un'atmosfera introspettiva ed oscura per cui probabilmente si poteva osare qualcosina di più. Gli strumenti ci sono e varrebbe la pena sfruttarli fino all'ultima nota. La sezione ritmica viaggia appaiata e lavora all'unisono per regalare una struttura compatta e coinvolgente che muta con una certa costanza. "Kookai" è la traccia che spicca nel lotto grazie ad il suo riff di chitarra che penetra velocemente nel nostro orecchio e si avvinghia ai neuroni in modo indissolubile. Ottimi gli arrangiamenti e la crescita verso l'alto del brano; si denota la qualità compositiva della band che sicuramente investe tempo e sudore per non (s)cadere nella banalità. Il finale è un'esplosione di quelle ben fatte: grande accelerazione e potenza che spingono anche il più timido ascoltatore ad abbozzare un qualsiasi movimento a tempo di musica. "Sunrise" chiude questo self-titled iniziando con un arpeggio ipnotico accompagnato da un synth spaziale, un perfetto biglietto di sola andata per una lontana galassia sconosciuta. L'evoluzione del brano poi non è da meno e ci ritroviamo in un vortice di luci e suoni che annientano il concetto di spazio/tempo, permettendo alla traccia di diventare la perfetta colonna sonora di un cortometraggio futuristico. Come in precedenza, sul più bello che si pensa di essere arrivati al capolinea, la canzone muta di nuova, introducendo una diversa ritmica. A volte si sente il bisogno di qualche bpm in più, questo permetterebbe alle canzoni di aver un piglio più incisivo e probabilmente aumenterebbe il potenziale bacino di proseliti della band. In sostanza l'EP è ben registrato ed eseguito, a volte pecca in alcuni passaggi di immaturità, ma lascia un discreto margine di miglioramento alla band che ci fa comunque ben sperare per il prossimo futuro. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70

Anabasi Road - S/t

#PER CHI AMA: Progressive/Rock Blues/70s Hard Rock
Il giorno in cui il cd degli Anabasi Road viene recapitato sulla mia scrivania, ho iniziato da poco la rilettura de 'I Guerrieri della Notte' di Sol Yurick, libro dichiaratamente ispirato all’Anabasi di Senofonte. Lo prendo per un segno del destino e inserisco immediatamente il dischetto nel lettore. Non mi è semplice esprimere quelli che sono i miei sentimenti verso quest'album e la formazione reggiana che si è scelto un nome così impegnativo. Perché se da un lato amo il progressive e il blues rock degli anni 70, dall'altro non riesco proprio a digerire le propaggini virtuosistiche da essi originatisi nel corso degli anni e sfociate in pletore di guitar hero dediti ad un prog hard rock onanista (leggasi Dream Theater e compagnia cantante) che ho sempre ritenuto sterile e per me poco interessante. E quest'album sembra essere composto in egual misura da entrambe queste componenti, in un delicato gioco di equilibri, a mio avviso non sempre riuscitissimo, con il risultato di essere a volte un po’ troppo pesante; non una sintesi quanto una somma delle parti. C’è tanta, tanta carne al fuoco qui, a partire dal fatto che gli Anabasi Road sono tutti eccellenti musicisti, nessuno escluso, ma il problema sta proprio nel fatto che sembra vogliano rimarcarlo incessantemente per tutta la durata del disco, senza un solo secondo di pausa. Così facendo, purtroppo, i brani a volte scappano un po’ di mano e sembrano diventare solo delle vetrine per le proprie qualità strumentali. Se l’iniziale “Pleasure in Me” promette molto bene con il suo hard screziato black grazie a un hammond caldissimo, già dalla successiva "Clashing Stars" le cose iniziano pian piano a sfilacciarsi fino a diventare pretenziose, con le inutili prolissità di “Say Man”, improbabile nel suo accostare blues canonico e prog neoclassico, o “I Walk Alone”, che nel finale vuole forse omaggiare i duetti voce-chitarra di Page e Plant con un risultato però parodistico. Troppo spesso chitarre e tastiere si suonano sopra, quasi senza ascoltarsi, lasciando un po’ l’amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere con solo un po’ piú di moderazione un ottimo lavoro, forte anche della presenza di un vocalist ispirato e potente, dal timbro profondo e personale (anche se nell'unico brano cantato in italiano, il peraltro ben riuscito “Guerra Mondiale”, ricorda il cantante dei Nomadi, quelli di oggi). Se posso riassumere la recensione in una frase, direi “Bravi, ma fermate un secondo quelle chitarre!”. Mark Hollis, geniale leader dei Talk Talk dice che non c’è bisogno di suonare due note, se puoi suonarne una sola. Ecco, senza arrivare a questi estremi, un produttore che avesse dato un freno alle debordanti sei corde degli Anabasi Road avrebbe fatto un gran servizio al disco. C’è del talento, qui dentro, e anche tanto. Bisogna solo lasciare che emerga, magari qualche volta togliendo piuttosto che aggiungendo sempre. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

sabato 12 settembre 2015

The Morganatics - We Come From The Stars

#PER CHI AMA: Alternative Progressive Rock, Lacuna Coil
Le torride giornate di quest'estate che volge al termine, hanno visto arrivare tra le mie grinfie diversi CD abbastanza interessanti e quello di questa band francese, si dimostra essere forse tra i più convincenti. La band arriva da Parigi e dà alle stampe questo secondo lavoro, dopo un debutto che aveva dimostrato le potenzialità del combo. Cinque componenti, ognuno con delle influenze diverse confluiscono in un solo progetto per produrre musica davvero “scintillante”. Definisco così la loro proposta perchè, sebbene io non sia un grande estimatore dei miscugli di genere, le loro composizioni (oltre ad essere molto interessanti) brillano di luce propria, nonostante emergano qua e là i riferimenti alle band preferite dai vari componenti. Nella biografia della band leggo che le band maggiormente apprezzate sono Linkin Park e Porcupine Tree, due proposte nettamente agli antipodi, ma di cui chiari sono i rimandi in alcune tracce. Aggiungerei poi che in alcuni passaggi i nostri mi hanno ricordato anche i nostrani Lacuna Coil, pertanto mi sentirei di definire la proposta dei transalpini come un solido prog rock moderno. Non vorrei dare per forza un'etichetta ai The Morganatics, ma cerco di farlo per far comprendere meglio a chi legge, se possibile, la particolarità e l'originalità di 'We Come From The Stars'. La musica scorre via piacevolmente lungo i 64 minuti dell'album che consta di 11 tracce. Le canzoni sono facilmente apprezzabili sotto un punto di vista melodico e di esecuzione, risaltate da una produzione al limite della perfezione. Sintetizzatori, archi e parti electro si amalgamano a chitarre più classicamente metal, con un drumming preciso e coinvolgente a creare la solida struttura sulla quale si intersecano precise linee di basso e le vocals, sia femminili che maschili, sempre in clean. Alla fine dell'ascolto rimane la consapevolezza di essere a cospetto di un lavoro assolutamente ben concepito, che a mio parere potrebbe dare il meglio di sé in sede live. Le mie song preferite, pur apprezzando tutte le composizioni, rimangono l'opener “I'm a Mess (but I am Free)” e “Even Terminators Can Cry”. Se avete voglia di ascoltare un disco ben fatto, allontanatevi (come ho fatto io) dai preconcetti legati al genere e date una chance a questi ragazzi transalpini, non ve ne pentirete di certo. Ottimo lavoro. (Claudio Catena)