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giovedì 22 settembre 2016

Virgo - S/t

#PER CHI AMA: Desert Rock
Secondo full length per il quintetto veneto che, dopo l’esordio autoprodotto de 'L’Appuntamento', si sono aggiudicati il premio MEI in occasione della “Biennale Marte Live 2014”, con la possibilità di registrare un lavoro per l'Alka Record Label. 'Virgo' è un album intenso e molto interessante nel suo coniugare il desert rock d’oltreoceano con testi in italiano. Il suono si conferma potente, compatto e aggressivo, valorizzato da una produzione di alto livello, in grado di rimandare al meglio l’ottima coesione dei musicisti. Quello che appare evidente fin dal primo ascolto però, è la fortissima connotazione data al loro sound dal connubio tra la voce di Andea Perrino ed i testi delle canzoni. Sappiamo quanto la lingua italiana sia difficilmente domabile ed adattabile al rock duro, tanto da aver generato negli anni tanti approcci diversi, dal cut-up dei primi Afterhours, allo spoken-word dei Massimo Volume, passando per il quasi non-sense dei Verdena, più attenti al suono delle parole che al loro reale significato. I testi dei Virgo cercano un approccio più poetico ed ermetico, simile ai primi Marlene Kuntz, senza paura di utilizzare termini ricercati e accostamenti arditi. Questo, unito al timbro scuro, profondo e bluesy di Perrino (che mi ha ricordato alcune band anni '90 tipo Movida o Politburo) crea una combinazione estremamente personale, che può piacere o meno, ma infonde indubbiamente carattere alla band. Nel suo dipanarsi tra 12 episodi ugualmente convincenti, il disco raggiunge picchi in cui il mix tra testo e musica risulta particolarmente azzeccato ("Danza di Corteggiamento" o "Selene", giusto per citarne un paio), anche se, alla lunga, sembra pagare un’eccessiva uniformità di atmosfere che tendono a far sì che nella seconda parte i brani finiscano tutti per assomigliarsi un po’. Un lavoro assai interessante, soprattutto per l’esposizione di un linguaggio fortemente personale. Se riusciranno a variare un po’ il canovaccio (e ne saranno senz’altro capaci, basti ascoltare le ottime versioni unplugged di alcuni brani presenti sul loro sito) e a fare i conti con una voce che può risultare “ingombrante”, sono certo che i Virgo potranno regalarci in futuro cose eccellenti. (Mauro Catena)

(Alka Record Label - 2016)
Voto: 70

https://soundcloud.com/virgo-the-band

mercoledì 21 settembre 2016

Drachenblut - A Foretaste of Apocalypse

#PER CHI AMA: Symph Death, Graveworm
Sorprendente come i Drachenblut abbiano impiegato "solamente" cinque anni dalla loro fondazione, per partorire il loro demo cd, di cui posso vantarmi di essere uno dei pochi fortunati possessori. Ancor più sorprendente ascoltare suoni che pensavo un po' scomparsi dal panorama musicale da parecchi anni. Si perché i parmensi Drachenblut (che in tedesco vuol dire sangue di drago), propongono un death dalle forti tinte sinfoniche che si esplica attraverso i due brani contenuti in 'A Foretaste of Apocalypse'. Il primo, "Kingdom Apocalypse", è caratterizzato da un sound in cui potrete udire un ipotetico ibrido tra il symph death degli altoatesini Graveworm e le suggestioni gotiche dei Cradle of Filth, in una certa alternanza a livello ritmico, dove sottolineerei la bella prova alle tastiere di Daniele Corradi (anche se un po' troppo abusate in taluni frangenti) e la convincente performance dietro al microfono di Saylor, possente nelle sue growling vocals, più originale nella sua timbrica pulita. "Swancry" è la seconda lunga traccia del dischetto che si farà ricordare per il suo inizio fantasy, la sua bella cavalcata centrale, ma ancor di più per la sezione solistica che si (e ci) diletta in un avvincente finale, in cui il quintetto sfodera tutte le potenzialità a livello tecnico. Auspico che i nostri possano ottenere quanto prima quel minimo di visibilità per farsi notare ad un pubblico più vasto e farsi perché no, esponenti di una nuova ondata di death sinfonico che necessiterebbe di una bella ventata d'aria fresca. Per ora un piccolo assaggio, gradirei qualcosa di più sostanzioso per placare la mia fame. (Francesco Scarci)

martedì 20 settembre 2016

Fallen Eight - Rise & Grow

#PER CHI AMA: Metalcore/Nu metal/Alternative, Disturbed
I Fallen Eight vengono da Parigi e non propongono metal estremo. Questa è già una novità per chi come me, è abituato a frequentare band black o death d'oltralpe. Il quintetto, al debut con questo 'Rise & Grow', propone un heavy metal contaminato assai potente, in un 6-track ben confezionato e (self)prodotto. "Reborn", "Come From the Sky", "Final Shot", "Breath of the Ages", "Light" e l'ultima "Worst Nightmare", scorrono via veloci, miscelando un ruffiano metalcore con una forma più moderna di Nu metal, che assai spesso tende ad indurre un feroce headbanging, come se nel vostro stereo stesse ancora scorrendo un pezzo dei Pantera del 1992 o un qualcosa di più alternative in stile Disturbed. Ecco l'effetto Fallen Eight, proporre song dirette, vocals incazzate, ma quasi mai in versione growl e chorus catchy. Un plauso va poi alla sezione ritmica grazie ad un riffing metallico, ben calibrato che incorpora al suo interno sia la cattiveria del heavy metal più intransigente anni '80 che di sonorità decisamente più mainstream, stile Linkin Park o Avenged Sevenfold. Per quanto non sia un un fan del genere, un ascolto disinteressato a 'Rise & Grow', lo concederei anche. (Francesco Scarci)

Blobfish Killer - S/t

#PER CHI AMA: Hardcore, The Bronx
Picchiano, picchiano duro i marsigliesi Blobfish Killer, esponenti di un hardcore in acido davvero interessante. L'Ep omonimo (peccato averlo avuto in mano soltanto oggi) consta di tre pezzi, che partendo da "Erotic Palace", cattura per la linearità della sua proposta: un rifferama molto rock con voci invece assai caustiche, contaminato da schegge di musica elettronica, metalcore e sicuramente un pizzico di follia, il che non guasta mai. Ottime le linee di chitarra in "Party Hard", belle pestanti con sopra quella voce schizzata del frontman a gridare tutta la propria rabbia; spettacolare il break rock'n roll quasi ad inizio brano, che incendia l'aria che è un piacere. I nostri poi vanno via spediti verso la meta, ossia il terzo brano, "Never Again", che in poco meno di tre minuti, ha il compito di chiudere con ferocia un breve EP, che rappresenta un buon antipasto per questa dinamitarda band transalpina. Niente per cui gridare al miracolo, ma tanti suoni intimidatori adatti ai fan dei The Bronx. (Francesco Scarci)

Compass & Knife – The Setting of the Old Sun

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogwai
Ok, mi arrendo. Alzo le braccia, abbasso la testa e confesso: non so davvero cosa scrivere di un disco di questo genere. Non che non sappia cosa scrivere in assoluto, ma non so bene che scrivere di nuovo e che non abbia già fatto molte altre volte. I Compass & Knife sono un trio di Tacoma, nello stato di Washington, e suonano rock strumentale. Non userei il termine post rock, che per me ha accezioni ben diverse, se non fosse che così facciamo prima e ci capiamo: i C&K sono un trio post rock che sul finire dello scorso anno ha pubblicato questo loro secondo lavoro che ha riscosso reazioni molto positive su diverse webzine oltreoceano. 'The Setting of the Old Sun' è un bel disco? Oggettivamente, si. È ben suonato, ben registrato, non dura un’eternità e anzi riesce a fare della sintesi uno dei suoi punti di forza. Mette in fila otto tracce piacevoli e accattivanti, che puntano tutto sulla melodia e un impatto piuttosto energico, con le consuete alternanze tra vuoti e pieni che non esagerano né in un senso né nell’altro. 'The Setting of the Old Sun' è un disco originale? Per quel che vale, no. E difficilmente potrebbe esserlo, tanto è ben ancorato a modelli di riferimento saldi e riconoscibili, dai Mogwai ai God is an Astronaut, anche se non li ricalca mai in modo pedissequo, cercando piuttosto di fondere gli stili in una proposta coerente. In questo senso, credo che l’esperimento tentato con due brani cantati – sorta di shoegaze sognante - "Transconsciousness" e "Our Home is Nothing but a Memory" - sia non solo perfettamente riuscito ma che possa rappresentare la direzione per il futuro. 'The Setting of the Old Sun' è un disco che ascolterò a lungo? Difficile dirlo adesso, ma credo abbia le carte in regola per resistere alla prova del tempo. E adesso abbasso le braccia, alzo la testa, e accetto la sentenza. (Mauro Catena)

lunedì 19 settembre 2016

417.3 - 34

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale, Mono
Rostov sul Don è la più grande città della Russia meridionale che apre le Porte del Caucaso al territorio sovietico, nonché patria storica dei cosacchi e per il sottoscritto, da oggi, anche la città che ha dato i natali a questi 417.3. Non so esattamente a cosa si riferisca questo numero, una ricerca su internet mi ha condotto a qualche protocollo HACCP, che non credo faccia esattamente riferimento al moniker della band; ho pensato anche di interpretare questa misteriosa cifra come una data, 3 luglio 1941, un giorno in cui Joseph Stalin fece un discorso radiofonico all'Unione Sovietica per invitare il popolo a sollevarsi contro l'invasore o ancora potrebbe riferirsi al giorno della battaglia di Białystok–Minsk, dove i tedeschi ebbero la meglio sulle truppe sovietiche, 417.3 rimane per me un mistero. Il quintetto russo nasce nel 2005 e in dieci anni hanno prodotto un paio di album, di cui questo '34' è l'ultimo da poco uscito. Le influenze dell'ensemble pescano a piene mani nel post rock di gente quali Explosion in the Sky o Mono, ma nelle corde dei cinque ragazzi scorrono anche fiumi di math e prog rock. Quel che conta però è che i cinque brani (i cui titoli fanno riferimento ad altri codici per una numerologia a me sconosciuta) mi convincono pienamente per la loro maturità di fondo e la consapevolezza di saper catturare l'attenzione di un ascoltatore esigente come il sottoscritto, che fatica in assenza di un vocalist. Servono pertanto un crescendo di suoni, splendide melodie ed atmosfere vellutate nei dieci minuti di "15", la traccia d'apertura, per scaldare gli animi di quei diffidenti. Quello che più mi colpisce della proposta strumentale del quintetto, è l'utilizzo che fanno delle percussioni, vero punto catalizzatore del flusso musicale dei 417.3. Queste deliziano il mio palato con sommo piacere, accompagnandosi a tocchi forse un po' ruffiani ma azzeccatissimi, delle 6-corde e a quel senso di malinconia che è diffuso un po' in tutto il disco, un'emozione che fa chiudere gli occhi e ondeggiare il capo sulle note dei nostri. Ed è solo la prima song, quasi dieci minuti di fulgide emozioni. "92" parte ancora una volta piano, delicata come una dolce carezza sul viso, capace di accelerare solo in un paio di frangenti. È poi il momento di "581", una song più stralunata, che vede il supporto degli Henry Teil, una band locale sperimentale, formata peraltro da membri dei 417.3 stessi e dai Retina, combo dedito ad un sound elettronico downtempo e che fa dell'improvvisazione il suo credo. Questo si riflette inevitabilmente nell'incedere ambient/noise della traccia, a cui aggiungerei anche industrial e IDM, che arricchiscono ulteriormente la proposta della band di Rostov che sul finale, trova il modo di restituire l'originale verve rock ad una traccia che aveva intrapreso strane derive sperimentali. Con "501" (che faccia riferimento ai Levis?), i nostri tornano apparentemente sulla "retta" via, con un sound inizialmente post rock, sfruttando il canonico uso di ripetizioni di versi di note e consueti improvvisi cambi di tempo, anche se la vena noisy/minimal/ambient sembra diventare preponderante per gran parte degli oltre dieci minuti del pezzo. Il disco si chiude con "52", che cita ulteriori influenze kraut rock per l'act russo, in un flusso dinamico che portano alla creazione di trame e desolati paesaggi sonori che si fondono con il resto della strumentazione. I nostri ci metteranno anche del tempo a produrre i loro album, c'è da dire che il risultato finale è davvero meritevole. (Francesco Scarci)

(Towner Records/Unlock Yourself Records - 2016)
Voto: 80

https://4173.bandcamp.com/

domenica 18 settembre 2016

Lucy's Doll - Formula for Hate

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative Thrash, Machine Head
No, no e ancora no... ma chi sono questi? Il claim pubblicitario dell'epoca affermava che la band arrivava dall’Australia per conquistare l’Europa; francamente, ne potevano fare a meno. Il trio australiano propone infatti un sound alternative, che mischia, in modo ridicolo, il thrash con il crossover, con un cantato molto vicino a Rob Flynn dei Machine Head. La musica dei nostri vorrebbe rifarsi ai grandi del genere ma, anche copiando, il gruppo non riesce a cavarne un ragno dal buco. Sono scontati, noiosi, privi di verve e idee originali: non riesco veramente a salvare nulla di questo disco. Mi spiace, perché amo quella terra e le idee molto spesso originali partorite in quel continente, ma qui proprio non ci siamo. Anche quando i nostri abbandonano il loro banale thrash e si lanciano nella riesumazione del grunge sono da dimenticare. Da denunciare. (Francesco Scarci)

(Twilight-Vertrieb - 2006)
Voto: 40

Dive Your Head – Le Prix Du Sang

#PER CHI AMA: Hardcore/Metalcore
La band francese dei Dive Your Head s'incastra alla perfezione in un limbo sonoro tra metal, nu metal, hardcore e metalcore senza imitare nessuno, pur restando fedele ai canoni stilistici dei suddetti generi. La commistione sonora è lanciata in orbita da una prova canora decisamente esaltante ed esplosiva del vocalist Luca Depaul – Michau, un vero creatore di rabbia urlata al vetriolo. Alla prestazione vocale sopra le righe aggiungiamo anche che Luca canta in lingua madre e questo rende la storia molto intrigante e personale, nel ricordo di grandi band conterranee come FFF o Noir Desir che in ambiti musicali diversi, hanno avuto il coraggio di sostituire il classico inglese con il francese, ottenendo ottimi risultati. La band suona secca e precisa, dominata da riff aggressivi e un drumming tesissimo, per cui tutto il carico del suono è spalmato in brani velocissimi e sempre in tiro, mostrando tutta la loro potenza in composizioni che arrivano al massimo intorno ai quattro minuti. Niente fronzoli e tanta rabbia, da ascoltare e da saltare, con parecchi watt da vendere e quel tocco modernista alla Of Mice & Men che non guasta in una band così giovane, essendosi formata nel 2012. Buona la tecnica di tutto l'ensemble, con poco spazio concesso ad inutili virtuosismi, un'attitudine hardcore, un velato amore per i ritmi alla Slipknot ma anche una propensione all'orecchiabilità, che non vuol dire per forza perdita di coerenza e potenza ma al contrario, così sparsa tra un brano e l'altro, fa in modo che l'album risulti assai trascinante e di facile accesso, in grado cosi di soddisfare anche i più esigenti a riguardo del genere. Si percepisce la voglia di farsi largo tra i tanti progetti esposti in questo campo, spingendo al massimo l'acceleratore su ritmi incalzanti dal sapore metal e dal piglio hardcore, omogenei e pesanti sulla scia di band come August Burns Red, e i già citati Of Mice & Men, qualche nevrosi alla Cursed, anche se non in chiave così sotterranea, e un accenno di folle tecnologia metallica virata verso gli ultimi Fear Factory, che esalta l'impeto di un drumming mozzafiato. Ottima l'apertura affidata a "Les Rois Perdus" o l'incedere lento, teso e futurista di "Luxuria" con le sue sferragliate al veleno che non lasciano il tempo di riprendere fiato (il mio brano preferito) o ancora "Post Mortem" così grooveggiante (in alcune parti di voce pulita immaginate di sentire i geniali Helmet cantati in francese!) e isterica da non riuscire a stare fermi (esplosiva e perfetta per l'headbanging!). Alla fine, la band transalpina con questo album non potrà che ottenere buoni consensi, ed anche al di fuori dei confini nazionali, il cantato in lingua madre potrebbe risultare come una novità e riscuotere un ottimo riscontro di pubblico. Ascoltate e riascoltate senza remore questo album, non ve ne pentirete! (Bob Stoner)