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lunedì 20 gennaio 2014

Ashes of Chaos – Eye

#PER CHI AMA: Progressive Avantgarde, Ihsanh, Pain of Salvation, Devin Townsend
Bella la prima prova della band riminese che esordisce con questo full lenght intitolato 'Eye', uscito per la logic(il)logic records nel 2013. La band irrompe di peso negli ambienti prog metal con buona verve, idee giustamente ricorrenti nel genere e con qualche velo di novità, tanti variegati innesti che toccano anche il funk ("Ashesh of Chaos"), tempi reggae e astratta opera cabarettistica ("Atmosfear part II") fino ad entrare in alcune parti nel black metal melodico e sinfonico. Sarebbe riduttivo accostarli solo al filone dei Dream Theater, poiché nella band coesistono anime di diversa natura e non tutto è votato al virtuosismo, anzi possiamo dire che la band punta dritto al cuore con fantasia e destrezza utilizzando una tecnica sopraffina. L'anima metallica è riconducibile ai Megadeth per pulizia nei riff più thrashy e per la velocità, oltre che per la straordinaria somiglianza vocale del cantante nelle parti aggressive, mentre quella melodica, con sonorità più malinconiche e space derivate dal prog di certi Marillion e dai gloriosi Goblin che rendono tutto oscuramente affascinante. Altro fattore notevole, la buona prova del vocalist sul pulito, un concentrato di Rush e Leprous, la cui performance amplia di molto gli orizzonti canonici verso nuove idee in stile Pain of Salvation e Leprous stessi. Comunque a far la differenza è il lato melodico/tecnico/compositivo che si eleva per epicità, teatralità, corposità e magnificenza sonora con evoluzioni tastieristiche/chitarristiche che non verranno disdegnate dagli amanti di Planet X, Transatlantic o Devin Townsend Project, ovviamente tutto da immaginare con un' attitudine molto molto più heavy. La parte più violenta di questa sfera magica è data da iniezioni di melodico black metal sulla scia di band dal carattere aperto e sperimentale sulla scia di Ihsanh (vedi l'album 'The Adversary') o Die Apokalyptischen Reiter ed evoluzioni prog/ power sulla falsa riga dei Symphony x o Balance of Power oppure le cose più recenti degli Helloween. L'album nella sua totalità è fluidissimo e variegato con disseminati momenti di calma apparente dominati da un gran cantante. Tanta e tanta carne al fuoco, preparata con perizia e professionalità e una lucida capacità compositiva che va oltre i normali standard (nel brano di chiusura dal titolo "Rinascita" la band si cimenta nel cantato in madre lingua con un risultato decisamente inferiore alla media dovuto al difficile uso dell' italiano, ma ciò non compromette la bellezza dell'intero lavoro). Tassativo non farsi scappare questo ottimo lavoro! (Bob Stoner)

(Logic(il)logic - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Ashes-of-Chaos

Alice Tambourine Lover – Star Rovers

#PER CHI AMA: PJ Harvey, Alternative, Blues
Ma quanto erano bravi gli Alix? Per gli orfani dell’ottima psych rock band bolognese, e anche per tutti coloro sempre alla ricerca di musica pulsante di vita, arriva il secondo lavoro degli Alice Tambourine Lover, duo composta da Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli, che degli Alix erano rispettivamente voce e basso. 'Star Rovers' è un album scarno nella strumentazione quanto ricco di suggestioni, che basa tutto su pochi, granitici elementi: una voce splendida, un solido songwriting e un suono caldo, avvolgente, pastoso. E cominciamo proprio dal suono, scarnificato, ripulito, alleggerito, ma mai “povero”. Le atmosfere elettroacustiche sostenute da eleganti chitarre bluesy e un onnipresente tamburello a scandire il tempo, rimandano spesso e volentieri, soprattutto per il modo di cantare di Alice, alla PJ Harvey meno arrabbiata e più roots, come nell’iniziale “Digging This Song”, che potrebbe essere una outtake di "To Bring You My Love", oppure nella sognante “Dreams Slip Away”. Altre volte a emergere è l’anima blues della calda slide di Romanelli, come quando sporca appena i delicati intrecci acustici della splendida “Falling Deep Inside”, impreziosita da un Ukulele che sembra un violino pizzicato, o quando punteggia “Gipsy Mind”, cantato assieme al tedesco Conny Ochs, o la sostenuta “Temptation”. Proprio in pezzi come questo, o “Between the Cup and Lips”, si avverte forse la mancanza di percussioni un po’ più “presenti” del solito tamburello, marchio distintivo del suono del duo (che d’altronde ne decreta l’amore già dal nome), ma che rischia di suonare un po’ ripetitivo. Comunque ci troviamo di fronte ad un lavoro notevole e godibilissimo, in grado di confrontarsi con nomi ben più altisonanti nel panorama internazionale. Un unico commento: sarei davvero tanto curioso di sentire Alice Albertazzi alle prese con testi in italiano. Chissà che i due non lo prendano in considerazione, in futuro. (Mauro Catena)

Round7 - United Kids

#PER CHI AMA: Hardcore Newyorkese
I Round7 tornano un mini EP a due tracce, praticamente 1 euro ciascuna per far fronte alla crisi globale e della musica. Autoprodotto e registrato in sale prove, 'United Kids' arriva probabilmente per non far passare troppo tempo dal precedente 'Dedicated to Nyhc' e il prossimo full lenght. I cinque minuti abbondanti di contenuti sono ovviamente pochi per una recensione a 360 gradi, ma permettono di apprezzare la band e il loro lavoro che non si è fatto fermato, anzi. Viene confermato il sound in puro vecchio stile hardcore newyorkese con tutta la sua violenza e velocità che lo contraddistingue e la registrazione volutamente fai da te enfatizza lo stile di questo genere. Sanguigno, senza tanti fronzoli. Il brano che da il nome all'EP è una corsa forsennata fatta di riff di chitarra ultra carichi, batteria fulminea e basso che fa scintille per star dietro a così tanta energia. L'evoluzione a livello compositivo è evidente e dimostra che il progetto Round7 non è nato per perdere tempo in sala prove, ma per produrre qualcosa di concreto e mirato, nonostante un concept HC sia difficile da proporre, soprattutto in Italia. "2013" dura il tempo di un respiro, ma preannuncia una sperimentazione più ardita nel settore chitarre, che prende da generi come il metal e impreziosisce gli arrangiamenti, dando carattere e personalità al brano. Last but not least, la collaborazione del nuovo batterista porta linfa vitale e da quello che si può intuire, i Round7 non si vogliono fermare. Manco per sogno. (Michele Montanari)

(Self - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Round7hc

domenica 19 gennaio 2014

Lifewoven - Dreadnought

#FOR FANS OF: Black Jazz Progressive
Dreadnought is a Denver (CO) band that can best be described as psychedelic jazz/prog-metal fusion. Between frequent drum rim shots and ride cymbal, odd time signatures, clear vocal harmonies that at first hearken to Jon Anderson and Chris Squire in Yes which in the next second they morph into something far more tense and foreboding. Classic rock influences poke their heads though occasionally and briefly--with organ textures reminiscent of Keith Emerson and Jon Lord (Hammond B3) making furtive cameos. Flute melodies on top of power chords meld into sections with black metal vocals which segue into instrumentals leaning into prog-rock territory when suddenly, trumpet solos erupt. Lifewoven can be reflective and jazzy with rock undercurrents one moment and with demonic vocal howls overlaying the song the next. For listeners who like progressive and jazzy elements mixed with rock and metal, I suggest you give this a try. I've yet to find anything quite like this, but it does grow on you. The musicianship is top notch, as the members of Dreadnought take you on emotional and mental voyage, as they explore elements of multiple genres with each song movement, while making the synthesis and evolution of each song somehow sound natural. There are five songs on this release, each with a single-word title: "Nascence", "Lift", "Deluge", "Utopia", "Immolate" and "Renaissance". The shortest song, "Immolate" clocks in at just under five minutes, the longest, "Deluge" at almost thirteen-and-a-half. A lot of emotions and feelings are explored on "Lifewoven". It's a musical journey that is well worth taking. (Bob Szekely)

The Pit of the Damned Vol. 1


Online, the first compilation of The Pit of the Damned: 80 minutes of stoner/punk/post sounds

giovedì 16 gennaio 2014

Mournful Gust - For All the Sins

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, Tristania
A distanza di tre anni (ma allora si trattava di una compilation), ritroviamo sulle nostre pagine il granitico impasto sonoro degli ucraini Mournful Gust, band dedita ad un death doom stillato di venature gotiche. Come da copione per il roster BadMoonMan Music e Solitude Productions, è d'obbligo trovarsi fra le mani un esempio di musica che faccia di riff pesanti e growling da orco, il suo verbo. I Mournful Gust provano a togliersi di dosso questa insulsa e grigiastra patina di grigio e ci offrono un qualcosa che prova a prendere le distanze da quanto descritto sopra. Diciamo che alcuni degli elementi appena citati, ancora permangono nel sound evoluto di 'For All the Sins': "Sleeping With My Name" è la lunga opening track in cui ritroviamo il growling cattivo, qualche bel riffone pesante, ma anche splendide ariose aperture melodiche che scongiurano la possibilità di stroncare immediatamente il disco causa carenza di idee. Il ruolo fondamentale, per evitare questo spiacevole epilogo, è svolto dalle tastiere di Stanislav Mischenko e dal flauto di Inna Esina, che ci consentono di godere di suoni più raffinati e meno scontati. Certo che se poi vi faccessi ascoltare "Keep Me Safe From The Emptiness", senza dirvi di quale band si tratti, vi sfido, offrendovi 50 possibilità per indovinare quale band stiamo ascoltando. Eccolo forte quel senso frustrante di già sentito e risentito, prima che una serie di effettistica cibernetica e una voce pulita, mostrino una via d'uscita ai nostri che si stavano cacciando nell'ennesimo vicolo cieco. Ecco diciamo pure che 'For All the Sins" soffre di questa grave mancanza; mi spiego meglio. I suoi lunghi brani (meglio se la prossima volta stringiamo un po' i tempi) soffrono di palesi limiti di voler o dover stare all'interno di un tracciato sonoro dettato dal genere. Questo mi sfianca e innervosisce facendomi talvolta annoiare. Fortunatamente in soccorso dei nostri arrivano delle intuizioni che rendono molto più gradevole, addirittura entusiasmante il suo ascolto. Un break di basso (ascoltare "Falling in Hope" per capire meglio), l'utilizzo quasi pop rock delle sensuali vocals pulite, delle eteree voci femminili ("Until I'm Bright" o "Your White Dress"), un magistrale assolo o un break di violino, partecipano in coro alla buona riuscita di un lavoro che per un attimo ho temuto di dover stroncare ingiustamente. Buon come back discografico, anche se dopo cinque anni era forse lecito aspettarsi qualcosina in più. (Francesco Scarci)

Deprecated - Deriding His Creation

REISSUE:

#FOR FANS OF: Brutal Death Metal, Suffocation, Broken Hope
One of the most legendary and important releases in the history of brutal death metal, this four-song EP is still held in high regard by the majority of old-school metallers from the scene’s birth. The most glaring option about this album is that it’s far more technical than expected, as there’s a slew of complex rhythms and patterns at play within this, not just from the blazingly-fast guitars but the bass as well which has a few dynamic areas within the music to showcase it’s chops effectively. Of course, the drumming is the real key here as there’s just absolute devastation left after this one gets going, filled not just with complex patterns and blastbeats but also managing to roll throughout the different tracks with a reckless disregard for the number of hits being played on the kit, giving the music an extra intensity and speed that doesn’t come naturally in the genre. Top it off with the ever-familiar gorilla-grunting and pig-squeal vocals that permeate the genre and this is a rather impressive outing in the genre. The opening title track absolutely slays with dynamic waves of technical drumming, tight riff-work and a dedication to pummel all who stand in the way that there’s no let-up at all in the pace or tempo here as it just flat-out rips with ruthless aggression throughout. Follow-up "Mentally Deprived" is just as good with even more dynamic technicality displayed with some absolutely ferocious break-downs as the tight, swirling guitars buzzing in complex variations throughout with absolutely pummeling drum-work. "Realization of Betrayal" and "Induced Deception" really flow together in much the same way, dazzling technicality for the genre matched with devastating drumming, tight patterns and vicious rhythms that don’t really match the speed or urgency of their counterparts on the first half of the disc, but the brutality within still holds up to this day and they remain one of the more important acts in the genre as this one release attests to. (Don Anelli)

(Unique Leader Records - 2013)
Score: 75

https://www.facebook.com/DeprecatedUSA

lunedì 13 gennaio 2014

Ludovik Material – Passion For Red

#PER CHI AMA: Elettronica/Alternative
Non è mai un buon segno quando, dopo aver finito di ascoltare un cd, l’unico brano che ti va di riascoltare è quello intitolato “Intro”. Non è un brutto disco, quello licenziato da questo trio sloveno. Non in termini assoluti, almeno. Lavoro curato, tanto nei suoni, quanto nella sua presentazione (è sempre un piacere avere tra le mani un cd dal libretto “ciccione”), ma quello che non riesco a capire è dove i tre vogliano andare a parare. Quello di mescolare la musica elettronica e punk-rock è un gioco non più nuovo da una ventina d’anni, e tali e tante se ne sono sentite nel frattempo, da rendere davvero difficile rimanere impressionati da operazioni del genere, soprattutto se gran parte della scaletta ha un retrogusto piuttosto stantio. Ecco quindi che, dopo la Intro strumentale che fa il verso, senza da fastidio, a Stone Roses e Primal Scream, arrivano brani come “Passion for Red”, “Made In”, “Vecérni Program”… , un tantino ingenui e grossolani nell’accostare ritmiche dance e voci femminili pseudo sexy e un po’ caricaturali (avete presente la Gerini nei panni di Iris Blond?), starebbero bene in un film ambientato nella Berlino del 1990, ma sinceramente sono difficilmente digeribili oggi. Gli episodi migliori e più convincenti arrivano da metà disco in poi: sono quelli in cui la ritmica rallenta, la voce si fa meno enfatica e le chitarre si sporcano di feedback e riverberi, come nella malsana “Gun” o la sinuosa “Come”, trovando il vertice nel crescendo poderoso di “Heart for Sale”. Lavoro buono per metà e voto che è la media tra una prima parte fiacca e deludente e una seconda decisamente più interessante. Curioso (senza particolari patemi, però) di seguire le evoluzioni future. (Mauro Catena)