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mercoledì 25 febbraio 2015

T.K. Bollinger & That Sinking Feeling - A Catalogue of Woe

#PER CHI AMA: Blues Rock, Nick Cave, Father John Misty
T. K. Bollinger, da Melbourne, è un losco figuro che nelle foto mostra quell’eleganza old style allo stesso tempo fascinosa e inquietante di un Captain Beefheart, con tanto di cappello piumato e barba da mormone. Il nostro uomo si porta dietro il suo blues come un fardello doloroso quanto necessario e calca i palcoscenici ormai da una decina d’anni, prevalentemente in formato acustico, in solitaria. I That Sinking Feeling sono l’incarnazione del suo nuovo progetto, una vera e propria band (oltre al leader, voce e chitarra, ci sono R.S. Amor al basso e Vis Ortis dei Megikah alla batteria), che pubblicano ora il loro primo full lenght dopo l’EP 'The Roots of Despair' del 2011 con 9 brani frutto di tre anni di lavoro. Fin dal titolo, 'A Catalogue of Woe' scopre le carte e si propone di mettere in fila canzoni che sono brandelli di emozioni forti, squarci nell'anima torturata e inquieta del suo autore. Il blues è senz'altro la parola d’ordine. Blues per come lo potevano intendere una ventina d’anni fa i Bad Seeds di Nick Cave, la cui presenza in termini di influenze è decisamente tangibile. Una delle caratteristiche prominenti del suono dell’album è la voce di Bollinger, il cui timbro particolare – sorta di via di mezzo tra Nick Cave, Father John Misty e un Anthony meno teatrale - caratterizza fortemente i brani, grazie anche al supporto di una strumentazione asciutta ed essenziale. Chitarra, basso e batteria hanno un suono secco ed elettrico, capace di assecondare il leader tanto nel dipanarsi dei suoi blues sepolcrali, dove sanno mettere a nudo le inflessioni quasi soul che ogni tanto la sua voce rivela, quanto di sostenerlo laddove il suono si fa più rock, cupo e rumoroso. Presi singolarmente, i brani sono tutti di ottimo livello, a cominciare dall’opener “Betting on Your Dying Day”, quasi scarnificata nella sua dolente essenzialità, o la solenne “Nothing is Always Certain”, dove vengono evocati i Bad Seeds più innodici. La scaletta viene poi squassata dal (gradito) frastuono di brani come “Tortured by a Racialised Folk Devil” o “That Which Does Not Kill Me, Gives Me Cancer”, fieramente e oscuramente rock, per poi trovare forse il suo apice nel quasi-gospel da brividi “Where You There When They Crucified My Love?”. Da menzionare anche l’elegante “Rich Man’s Heaven”, e la sinuosamente soul “Wearing Down My Devotion”. Impossibile poi non soffermarsi sui testi, un viaggio doloroso e personale dritto al cuore di storie dure, che tuttavia lasciano intravedere la possibilità di una redenzione, che non viene però dall'alto, quanto da dentro. Perché, per dirla con l’autore, c’è sempre la possibilità che “ the shit in life can become the compost for new growth”. Disco davvero bello, toccante e fragoroso allo stesso tempo. (Mauro Catena)

(Yippie Bean - 2014)
Voto: 80

Country Corpses - Protozoan in Love

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Sludge
Fantastico, apri la pagina Facebook dei COUNTRY CORPSES e ti ritrovi la foto di loro tre con Cristina D'avena, un must! Dopo questo biglietto da visita goliardico, andiamo a parlare seriamente di questo trio nato nel 2008 a La Spezia. Da quello che ho potuto recuperare dal Web, i nostri sono un side project (vi hanno partecipato tutti e tre gli elementi) degli ALLIGATOR GAR, i quali un paio di anni fa lanciarono un disco dal profetico titolo 'Country Corpses'! Dopo questo principio di emicrania dovuto all'intersecarsi di nomi, passiamo all'album prodotto dalla Skatti Vorticosi Records, contenuto in un semplice jewel case dalla grafica a mano libera che richiama scene di vita agreste di un mondo onirico. Infatti, le figure rappresentate sono incroci di diversi animali o insetti, come la sensuale formica-sirena, anche se il pezzo forte è il disegno all'interno del booklet: il ritratto di famiglia fatto dal piccolo Cthulhu che rappresenta un papà umano e una mamma medusa felicemente ritratti in spiaggia. I Country Corpses sono di sicuro dei buontemponi che raramente si prendono sul serio, ma quando si parla di musica, la questione cambia. I brani sono relativamente brevi, e gli otto pezzi contenuti scorrono veloci in poco più di venti minuti, sposando la filosofia del noise/hardcore/punk. "Healthcare" è il primo brano ed è bello forte, un treno pieno zeppo di grunge/stoner che arriva veloce e che puoi scansare solo se hai i riflessi pronti. Il chitarrista/cantante Dani ci mette l'anima, dando alla luce ottimi riff e assoli, cantandoci pure sopra in maniera abbastanza convincente. Lo stile è sofferente, spesso urlato e graffiante, che regala maggior enfasi alle melodie dei vari brani, ma che talvolta risulta troppo forzato e poco naturale. Eli (basso) e Nico (batteria) fanno del loro meglio per fondersi un'unica entità fatta di puro ritmo con risultati piuttosto piacevoli. "The Cities Kingdom" è il brano che convince di più, arrangiato meglio ed equilibrato, dove anche il cantato si trova più a proprio agio. La canzone graffia e morde come un animale in gabbia, le chitarre sono potenti e oggettivamente belle da ascoltare. C'è pure spazio per un breve break a metà traccia, una giusta motivazione per riprendere dallo stesso punto, senza tante remore. Più interessante lo special che arriva qualche secondo più tardi, dove i Country Corpses si trasformano in satanassi dello sludge. Probabilmente troppo brevi le parti interessanti e troppo lunghe quelle scontate, ma il brano scorre che è una meraviglia. "Worthless" strizza l'occhio ai Verdena e agli Smashing Pumpkins dei tempi passati, una bella cavalcata ruvida e polverosa. Tanta energia incanalata nel modo giusto, un brano che sicuramente renderà parecchio nei vari live che la band sta affrontando in questi ultimi mesi. Un ottimo lavoro questo 'Protozoan in Love', ben arrangiato e registrato anche discretamente. Le uniche pecche sono da relegare alla sezione creatività che dovrebbe spingere la band a cercare una propria strada, da qui il futuro dei Country Corpses si potrebbe rivelare ancor più promettente. (Michele Montanari)

(Skatti Vorticosi Records - 2014)
Voto: 75

sabato 21 febbraio 2015

Diversion End - Building a Maze

#PER CHI AMA: Groove Metal, Scar Symmetry, Soilwork
Come più volte ho scritto, è un vero peccato che alcuni album passino inosservati alla massa semplicemente perchè non c'è un'adeguata promozione sui giornali o in giro per il web. Credo che ormai dovremo farci il callo e andare in cerca, surfando in internet nei giusti canali, di titoli underground che un qualcosa di interessante da dire ce l'hanno pure. La mia corsia preferenziale è ovviamente bandcamp che oggi mi porta alla scoperta dei Diversion End, band finlandese dedita a sonorità moderne, grondanti di groove. E il terzetto formato da Simi, Liffe e Tupe si diverte sin dall'opening track con song che citano Soilwork, Scar Symmetry e Raunchy (tanto per fare qualche nome), calibrando poi la propria proposta con un limitato pizzico di originalità. Chiaro, nulla di mai sentito, ma comunque di sicuro interesse. La title track mostra la robustezza dei nostri in sede ritmica, ma anche il dualismo canoro growl/clean di Simi e l'utilizzo copioso ed esuberante di synth e tastiere che hanno modo di garantire suoni tanto piacevoli quanto ruffiani. E "As the Light Drowns Again" non può che esser da meno con le sue meravigliose linee melodiche, che non faranno certo gridare al miracolo, ma che comunque avranno modo di tenervi compagnia mentre percorrete con la vostra auto strade deserte, fischiettando la melodia accattivante dei Diversion End. "For My Shadows" è la terza traccia di questo mini EP, che si configura come la song più malinconica delle cinque contenute in 'Building a Maze'. Il che ci sta anche, per spezzare quel ritmo forse un po' troppo "happy" delle prime due tracce, dall'impatto easy listening. Non è infatti difficile ascoltare questo terzetto della prolifica scena di Oulu, che torna a spaccare con "Reverie", brano che offre il riffing preciso dei due axemen che va a plasmarmi benissimo con le percussioni chirurgiche di Tuomi in un sound ammiccante e piacione. La conclusiva "King of Illusions" chiude il dischetto, sciorinando un'ultima seducente ritmica cyber death. I Diversion End alla fine, pur rimanendo ancorati ad un genere che ha già detto molto, si lasciano comunque facilmente ascoltare. Per il futuro tuttavia, consiglierei una maggiore ricerca di originalità, diamine siete finlandesi e avete la genialità insita nel vostro DNA. Bravi ragazzi, ma ora serve un po' più di coraggio. (Francesco Scarci)

Love Club – Pearls Dissolve in Vinegar

#PER CHI AMA: Shoegaze, The Stooges, Rolling Stones
Quinto album per il sestetto di Philadelphia, capitanato da Mitch Esparza, dedito ad un rock piuttosto selvaggio, debitore tanto del r’n’r sporco e cattivo degli Stones di 'Exile on Main Street', quanto degli Stooges, ma anche pesantemente influenzato da una psichedelia meno rassicurante. Molto poco confortante è anche l’immagine di copertina, dove un’aquila dalla testa bianca, simbolo degli States, perde di colpo tutta la sua fierezza e maestosità, mostrandosi fragile e agonizzante. Che sia una non troppo velata critica alla grande nazione americana? Inserito il cd nel lettore, dopo un’intro strumentale, "New Phace" ci colpisce in piena faccia con il suo piglio stridente in stile Detroit anni '70. "Lonely Star" potrebbe essere il frutto di una jam sudata tra Stones e Iggy Pop, mentre "God Hates You" sarebbe un perfetto pop soul daclassifica, se non fosse suonato come non ci fosse un domani e cantato da uno sguaiatissimo ed efferato Esparza. Quale sorpresa quindi, riconoscere nella sua stessa voce nel pezzo successivo, "Need Somebody", ne piú ne meno che quella di Dylan, alle prese con una sgangherata ballad acustica. E se "Don’t Shoot me Down" spinge ancora forte sul pedale di un garage-punk ultra-saturo, è nella seconda parte del disco che i Love Club riservano le sorpese piú grosse e i colpi migliori, a partire dal raga psych-noise "Awaken Satan", 6 minuti di innodici gorghi chitarristici e voci zuccherose, come dei My Bloody Valentine piú grezzi. Non si fa in tempo a riprendersi dallo stordimento, che è la volta di "Murder by Contract pts. II & III", uno strumentale che parte dai set polverosi degli western dei Calexico e arriva, senza soluzione di continuità, all’Etiopia supersonica raccontata dai dischi degli Ex con Getatchew Mekuria, nella stessa estasi di chitarre e sax selvaggio. È ancora un sax basso e grasso a scandire il ritmo di "Blue Eyed Big Dicked Baby Faced Killer", rock blues sguaiato che potrebbe essere uscito dalle sessions di 'Funhouse'. Ancora psichedelia per la strumentale "The Mod Trade", con quelle accelerazioni chitarristiche vorticose che mettono il serio pericolo il nostro senso dell’equilibrio. Si finisce con la title track, altro apocrifo Dylaniano suonato, come sempre, non proprio in punta di fioretto. Davvero un bel lavoro, dal suono grezzo al punto giusto, che riserva sorprese inaspettate e tanta passione per un rock fieramente al di là delle etichette e al di fuori da ogni pretesa mainstream. Consigliatissimi. (Mauro Catena)

giovedì 19 febbraio 2015

L'Alba di Morrigan - The Essence Remains

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative, Katatonia, Novembre
Pelle d'oca, esaltazione e nodo alla gola. Quanti di noi possono dire di aver mai provato tali sensazioni ascoltando musica? Personalmente, durante i concerti più belli della mia vita, oppure ascoltando il nuovo album delle band che preferisco. Ma provarlo così, inaspettatamente, aumenta a dismisura l'esperienza sensoriale ed emozionale. Quando il lettore cd va a leggere le prime note di questo 'The Essence Remains' ti rendi conto che hai tra le mani qualcosa di speciale e allora ti lasci avvolgere dai quarantasette minuti che seguono, in caduta libera. La band nasce a Torino nel 2008 e dopo qualche cambio/assestamento di formazione, si consolida con gli attuali cinque membri che hanno dato vita al primo demo 'The Circle' nel 2009 e infine l'album in questione. Il sound si posizione tra post rock e alternative metal, ma quello che colpisce subito è la qualità della proposta, la minuziosa ricerca fatta per suonare ed incidere quelle precise sensazioni che la band regala dal vivo. Un mix tra Katatonia (hanno collaborato con il loro tastierista e questo spiega molte cose), gli ahimè scomparsi Novembre e gli Anathema. "Snowstorm" è una ballata lieve e leggera come fiocchi di neve che si appoggiano a terra senza fare rumore, tra arpeggi profondi di chitarra e il cantato che sussurra una ninna nanna che ci faccia dormire per sempre tra braccia calde. La ritmica non è scontatamene lenta, anzi, batteria e basso si intrecciano e si rincorrono sempre leggeri, ma decisi. In "Lilith" inizia a prendere forma la parte più aggressiva della band: il brano infatti è introdotto da un riff di chitarra, leggermente acido nel suono o comunque che ricorda le distorsioni di qualche anno fa. Il testo è in italiano e gli arrangiamenti sono sempre all'altezza, ben strutturati e che scorrono fluidi come l'acqua di un ruscello. Il riff iniziale ritorna e spezza brevemente la struttura di arpeggi e assoli, permettendo al brano di riprendere il suo mood iniziale. "24 Megatons" racchiude l'anima dei L'Alba di Morrigan fatta di dolcezza e decisione, una duplicità che convive perfettamente in un brano dove fraseggi puliti e cristallini aprono la via a riff potenti che sembrano ancora più decisi proprio perché vengono circondati da tutto in poco più di quattro minuti, ma sono sufficienti per apprezzarne ogni singolo cambio di direzione, come i passaggi math rock, dove la ritmica si protrae in una sequenza chirurgica e cadenzata. Solo alla fine ci si rende conto che è un brano strumentale, ma il lavoro fatto è talmente complesso e ricco di sfumature che sarebbe stato praticamente impossibile infilarci una linea vocale. Un ottimo lavoro questo 'The Essence Remains', peccato solo averlo recensito con qualche anno di ritardo. Personalmente avrei sperato in un suono più potente, ma si percepisce ogni singola vena di speranza ed emozione che solo una band matura e valida può condividere e trasmettere così bene. (Michele Montanari)

(My Kingdom Music - 2012)
Voto: 85

People are Mechanisms - VII

#PER CHI AMA: Doom/Rock Depressive
Quest'album è un viaggio in cui la meta passa in secondo piano. Armatevi di torce, bussole e fuoco. Vi serviranno quando vi troverete sperduti in quelle terre dimenticate dalla coscienza, abitate solo dai fantasmi della vostra anima. “Envy”, questo il brano d’esordio in cui la materialità della terra diviene avulsa allo spirito, in favore della risacca del vento. Turbina la musica, sprigionando abbracci immaginati, in cui il tepore è solo un’illusione. Mentre ascolto questa strumentalità, apparentemente asettica, sento che in essa vi è il potere di alienare freddo e solitudine. Questa essenza in musica, ha l’arroganza e la forza di smemorizzare il cuore, rendendolo un guerriero che vincerà, dopo aver pagato l’obolo del contrappasso. La velocità del nostro viaggio cambia con “Gluttony”. La batteria marcia incalzando gli spazi tiepidi che aveva scavato “Envy”, per poi mescolarsi a corde metalliche di chitarre sprezzanti, quanto definite in un evolvere metal che fa togliere cappello e vestiti, tanto è il calore che si solleva dalla carne in un ballo ipnotizzante descritto da quest’altra song strumentale. Se vi sono sembrata predata romanticamente dal dark, con “Lust”, stravolgerò le vostre percezioni. Vi invito a stringere tra i denti il vostro pensiero più ossessivo. Trattenetelo, perché nel mettere a volume questa traccia potrebbe confortarvi. Ci addentriamo con “Lust”, in verbalizzazioni squisitamente metalliche in cui si avvicendano ottoni violentati, bassi sguaiati, rimembranze sensualmente spinte in accordi graffiati. Un orgasmo sonoro dall’anima nera. Ben fatto. Straziante. Coinvolgente. Riprendetevi in fretta. Perché “Sloth” non vi lascia respirare. Bissiamo “Lust” in un tutt'uno di batteria, gesti secchi sulle corde di chitarre elettriche dallo stomaco ben carburato. Questi due brani sono appendice, l’uno dell’altro. Ora prendete le vostre torce, le vostre bussole ed i vostri fuochi. Spegnete. Buttate. Soffiate. Questa “Proud” ce la assaporiamo avvolti dal buio pesto che non filtra né speranza, né salvezza, né possibilità. Chiudiamo con un catenaccio ferroso la porta dell’anima. Lasciamo che “Proud” ci guidi nei sentieri bui delle paure. Lasciamo all'udito il beneficio del dubbio che questa band russa, possa farci non solo perdere, ma trovare. Lascio il passo al vostro riascolto. Consiglio agli astanti questo viaggio, ma lasciando a casa l’armatura. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 75

Red Hills - Pleasure of Destruction

#PER CHI AMA: Melo Death
Uscito nel 2014 per la label Total Metal Records, il CD di questi cinque ragazzi ucraini arriva tra le mie grinfie con grandi aspettative, in quanto il booklet e l'artwork davvero ben curati, indicano che probabilmente ci troviamo di fonte ad un bel disco, fatto secondo i sacri crismi. La formazione è composta da voce, due chitarre più basso e batteria, e inizia subito forte, martellando a più non posso su ritmi cari al death metal scandinavo più classico (ascoltando i Red Hills, si capisce quanta scuola hanno fatto gruppi come In Flames e co.), con una voce però che cerca di fare il verso al Chuck Schuldiner anni '90 (Control Denied compresi ovviamente). L'abbinamento all'inizio potrebbe spiazzare, ma poi piace, anche se non finisce di convincermi appieno. Doppia cassa onnipresente, ottimo il lavoro di chitarre, i Red Hills continuano la loro marcia lungo i 26 minuti del disco andando a ricalcare, il che si palesa dopo qualche ascolto, terreni già toccati dai Children of Bodom anni or sono. Ecco il punto cruciale di 'Pleasure of Destruction', la poca personalità. Formalmente il disco va oltre la sufficienza, grazie a suoni meritevoli, precisi e degni di un disco metal moderno; tuttavia, le canzoni sembrano davvero tutte uguali e anche dopo svariati ascolti, si fatica a riconoscerle. Tra le song emergenti, per la qualità dei refrains, vi cito la canzone in apertura, “Hard to Be a Good Man”, e la notevole “Nocturne”, mentre tracce come “Whispering in My Mind” e “Bullet in My Head” rimangono piuttosto anonime nell'economia del disco, risultando monotone e poco originali. Un punto a favore dei nostri va invece nella durata delle composizioni, che si attestano su una media di 3 minuti a canzone, rendendo l'ascolto agile e per niente noioso. Tirando le somme quindi, 'Pleasure of Destruction' è un disco piuttosto innocuo, che non aggiunge e non toglie nulla al panorama attuale del genere, barcamenandosi dignitosamente intorno alla sufficienza. Sul filo del rasoio i Red Hills strappano una sufficienza; neanche mezzo voto in più, sarebbe davvero troppo. (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 60

domenica 15 febbraio 2015

Plateau Sigma - The True Shape of Eskatos

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, primi Anathema
È abbastanza impegnativo l'ascolto di 'The True Shape of Eskatos', full length di debutto dei liguri Plateaus Sigma. Il disco, composto da sette tracce, scorre infatti lungo 68 minuti di musica tormentata, straziante, che già si presenta di per sé angosciante, grazie a una spettrale cover. Una lunga intro ci introduce al cuore del disco, "Satyriasis and the Autumn Ends", nove minuti di suoni tenebrosi venati da forti pulsioni funeral doom, enfatizzati dal profondissimo growl del duo formato da Manuel Vicari e Francesco Genduso, abili peraltro nel tessere affannose linee di chitarra che contribuiscono a caratterizzare il sound dei nostri ma soprattutto a rimarcare la plumbea matrice sonora dei Plateau Sigma, che in alcuni spunti ho trovato simile ad un certo sound di origine ellenica, che non riesco ancora a definire. Forse gli esordi degli On Thorns I Lay o forse altro, lo capirò strada facendo. Certo gli agganci ad altri memorabili dischi death doom del passato non mancano. I sofferenti 14 minuti di "Stalingrad" mi conducono ad esempio a 'Turn Loose the Swans' dei My Dying Bride, soprattutto a livello di clean vocals, l'accostamento a Aaron Stainthorpe in "Sear Me MCMXCIII", lo trovo piuttosto scontato. Non sto muovendo una critica nei confronti della band di Ventimiglia, anzi un plauso per provare a richiamare un vecchio classico che pare ormai scivolato nell'oblio. Belli i giri di chitarra che si muovono ansimanti in questa song, che nel suo incedere trova anche modo di assumere connotati più death metal oriented, cosi come fatto recentemente dai già citati MDB; altrettanto suggestivo il finale che invece richiama ancor più palesemente gli Anathema di 'Eternity'. "Ordinis Supernova Sex Horarum" è una lunga e inusuale traccia strumentale, che si muove tra un riffing tipicamente death e onirici frangenti atmosferici (dove fa capolino un etereo chorus), prima di regalarci un finale ancor più singolare, con tanto di assolo jazz affidato ad un incredibile sax, in una cornice musicale che non avrebbe certamente stonato nell'ultimo 'The Endless River' dei Pink Floyd. In "The River 1917" fa la sua comparsa un ospite alquanto inatteso: Efthimis Karadimas dei redivivi Nightfall, presta la sua voce in una song per lunghi tratti monolitica e sfiancante, fatto salvo quando a prendere il sopravvento sono le porzioni al limite dell'ambient, che sottolineano la maniacale cura negli arrangiamenti da parte del four-piece italico. Un'altra montagna da scalare è quella dei 13 minuti abbondanti di "Angst": la voce pulita del vocalist ne semplifica l'approccio e la sua vena stile 'Alternative 4' degli Anathema, me ne fa apprezzare enormemente il flusso sonico. Certo poi che la direzione marcatamente death che la traccia intraprende, mi fa un po' storcere il naso: non era forse meglio continuare a regalare suoni più intimisti e malinconici piuttosto che quel death doom che forse nell'est Europa sanno fare meglio? Questa la critica che muovo alla band nostrana. Le carte in regola per offrire musica indimenticabile ci sono, tuttavia spesso non vengono valorizzate o utilizzate nel modo migliore e i nostri scadono in suoni già ampiamente sentiti e alquanto banali. Meglio cavalcare un'onda bene (e io opterei per la rilettura in chiave Anathema/MDB più eterei) piuttosto che diverse e differenti nella sostanza, pregiudicandosi in questo modo una fetta di fan non troppo avvezzi a sonorità estreme. Grandissime potenzialità quelle dei Plateau Sigma ma non sfruttate al meglio. 'The True Shape of Eskatos' è un buon album che poteva diventare un top, se non si fosse caduti in errori legati ad una certa disomogeneità musicale che alla fine rischia di dividere i fan. Scegliete una direzione ragazzi e percorretela al meglio delle vostre possibilità. Comunque vada, sarà un successo. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 75