Cerca nel blog

mercoledì 7 gennaio 2015

Lelahell - Al Insane... The (Re)Birth of Abderrahamane

#PER CHI AMA: Death/Black, Pestilence, Nile
Quando mi è arrivato questo CD per l'ascolto, ho subito analizzato la copertina e non ho avuto dubbi riguardo il genere di composizioni che mi si sarebbero presentate: musica pesante e veloce, quel che si dice un bel disco “mazzata”. Questo perché il logo dei nostri riporta agli standard di certe band gore/death e, perché no, anche ad alcuni lavori di black melodico. Aprendo il libretto faccio però una scoperta alquanto inattesa: il gruppo proviene infatti dall'Algeria, ed alcuni testi sono scritti addirittura in lingua araba. Personalmente, è la prima volta che mi capita di ascoltare un gruppo algerino, che suona un genere così “europeo”, per non dire quasi prettamente “scandinavo”. Sorpreso, ma senza alcun tipo di preconcetto, mi appresto all'ascolto e vengo subito assalito, dopo una breve intro strumentale, da una pioggia di doppia cassa e blast beat che per un momento mi lasciano a dir poco stordito. Mai mi sarei aspettato una furia simile: i richiami a gruppi tipo Nile e Pestilence sono ben presenti, i ritmi sono serratissimi e noto anche qualche rimando a gruppi black metal storici (Mayhem e Marduk su tutti). Strumentalmente i tre algerini viaggiano a mille, le capacità ci sono e non si perde occasione per mostrarle. Il growl è a volte furioso e poco comprensibile, in altre occasioni invece si riesce a capire qualche parola (ci sono anche testi in francese, oltre all'inglese e alla lingua madre). I suoni risultano cristallini, netti, non troppo freddi e questo sicuramente è un punto a favore della band, perché posso affermare tranquillamente che la produzione risulta essere ottima, ad un passo dalla perfezione assoluta (ascoltare la traccia "Hypnose" per credere). Il ritmo viene tenuto costantemente altissimo, solo l'intermezzo strumentale "Imzad" ci concede di riprendere fiato; l'ascolto, ve lo anticipo, non sarà dei più semplici, poiché la proposta è davvero estrema. La già citata pulizia della produzione però rende il tutto più digeribile, anche se serviranno non meno di una decina di ascolti per cogliere le sfumature di questo lavoro, che merita tutta la vostra attenzione. Nonostante in qualche punto si venga colti dalla sensazione di già sentito, i valori ci sono e vengono a galla senza troppa fatica: i ragazzi sanno il fatto loro, sanno suonare, sanno cosa suonare e cercano di farlo con una perizia che raggiunge il maniacale in quasi tutti i passaggi del lavoro. Non posso fare a meno di consigliare l'ascolto di “Al Intissar”, “Voices Revealed”, “Hypnose” e la notevolissima “Am I in Hell?”. Lavoro che tutti gli amanti del genere non dovrebbero lasciarsi sfuggire, in quanto come per il sottoscritto, sarete piacevolmente sorpresi da una nuova scoperta in ambito estremo. Buonissimo lavoro, da scoprire scendendo all'inferno con i Lelahell!! (Claudio Catena)

(Self - 2014)
Voto: 75

The Pit Tips: the Best of 2014

Larry Best

Exodus - Blood In Blood Out
Psychostick - Revenge of the Vengeance
Noble Beast - Noble Beast
Overkill - White Devil Armory
Freedom Call - Beyond

---

Kent

The Haunting Green - S/t
Wrekmeister Harmonies - Then It All Came Down
Horseback - Piedmont Apocrypha
Wolvhammer - Clawing Into Black Sun
Grouper - Ruins
---

Claudio Catena

Mastodon - Once More Round the Sun
Judas Priest - Reedemer of Souls
Overkill - White Devil Armory
Exodus - Blood In Blood Out
Cannibal Corpse - A Skeletal Domain
---

Stefano Torregrossa

Primus - Primus & The Chocolate Factory + The Fungi Ensemble
Aphex Twin - Syro
Lost Ubikyst In Apeiron - Abstruse Imbeciles Nailed On Slavery
Phish - Fuego
Meshuggah - I (Re-issue)
---

Bob Stoner

Opeth - Pale Communion
Edda - Stavolta come mi Ammazzerai?
Monster Magnet - Milking the Stars: a Re-imagining of Last Patrol
Peter Murphy - Lion
Twilight - III Beneath Trident's Tomb
---

Mauro Catena

Fire! Orchestra – Enter
Motorpsycho – Behind the Sun
Riccardo Sinigallia – Per Tutti
Pontiak – Innocence
Combat Astronomy – Time Distort Nine
---

Francesco Scarci

Scar Symmetry - The Singularity
Sólstafir - Ótta
Lost Ubykist in Apeyron - Abstruse Imbeciles Nailed on Slavery
Ne Obliviscaris - Citadel
Fallujah - The Flesh Prevails
---

Yener Ozturk

Goatwhore - Constricting Rage of the Merciless
Decapitated - Blood Mantra
Cannibal Corpse - A Skeletal Domain
Gorgasm - Destined to Violate
Eyehategod - Eyehategod
---

Roberto Alba

Sólstafir - Ótta
Morbus Chron - Sweven
Behemoth - The Satanist
Deathtrip - Deep Drone Master
Mysticum - Planet Satan
---

Michele "Mik" Montanari

The Slaughterhouse 5 - Alban B. Clay
YOB - Clearing the Path to Ascend
Thom Yorke - Tomorrow's Modern Boxes
Mastodon - Once More Round the Sun
1000 Mods – Vultures
---

Don Anelli

Cannibal Corpse - A Skeletal Domain
Exodus - Blood In Blood Out
Accept - Blind Rage
Hatriot - Dawn of the New Centurion
Overkill - White Devil Armory

martedì 6 gennaio 2015

Corr Mhóna - Dair

#PER CHI AMA: Black/Death Folk, Enslaved, Solstafir
I Corr Mhóna sono band irlandese proveniente da Cork, che ha sfornato un album autoprodotto particolarissimo, ricco di sfumature e richiami inneggianti al mondo celtico, cantato interamente in lingua gaelica con un sound evocativo e intenso, un artwork pregevolissimo, di ottima fattura. Dotati di una buona tecnica compositiva, i nostri, dopo un demo e un EP del 2009, ritornano con questo lavoro complesso e ricercato dedito a un atmosferico folk metal dalle tinte epiche e guerriere. Molte le influenze acustiche riprese dalla musica celtica irlandese che donano malinconia e magia alle composizioni, di chiara matrice progressive black metal. Ispirate e convincenti nella loro maestosità, le tracce rispecchiano nelle parti più introspettive e sulfuree, le atmosfere mistiche dei primi Ulver e In the Woods, per poi farsi più aggressive e ricalcare i passi black dei maestri norvegesi Enslaved ed il prog folk metal degli Amorphis. Mi piace pensarli come una rielaborazione della blasonata band francese dei Northwinds, che propone un miscuglio geniale di folk celtico, prog rock e Black Sabbath, solo che i nostri quattro menestrelli suonano più oscuri, veloci e moderni. Le ambientazioni sono cariche di grigie suggestioni con una costante propensione all'opera metal in grande stile. I Corr Mhóna mostrano affinità anche con gli islandesi Solstafir ed il modo con cui sviluppano i loro brani appare sempre trascendentale, astratto e riflessivo, sia nel canto pulito che nel growl o nello screaming, senza mai scadere nel banale urlato. Gli attacchi sonici, in ottimo stile symphonic black, non degenerano mai e risultano sempre sotto controllo, ben bilanciati, e ben inseriti nei pezzi, ampliando in questo modo gli orizzonti della musica, senza farne perdere i confini, mantenendo un equilibrio di melodie entusiasmante. L'album, indicato per un solo pubblico di iniziati, estimatori e intenditori, ha bisogno di numerosi ascolti per essere apprezzato nei minimi dettagli, per scoprire il duro lavoro che si cela dietro a ogni singola traccia, e per entrare nel mondo fatto di battaglie, visioni mistiche e sciamaniche di questa band. "Daìr", con il suo magnifico intermezzo di canto corale, oltre ad essere la traccia che dà il titolo all'intero lavoro, è un brano di oltre quindici minuti posto a chiusura del cd che risulta essere la traccia simbolo di un album straordinario, sicuramente al di sopra della media. Sette brani variopinti per quarantacinque minuti di saghe celtiche degne dell'eroe leggendario Cù Chulainn, immersi nelle foreste dei druidi alla ricerca del sapere magico... Corr Mhóna... orgoglio d'Irlanda! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Ghost Bath - Funeral

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Shoegaze
La Pest Productions continua la sua ricerca di talenti e questa volta lo fa direttamente a casa propria, andando a scovare i Ghost Bath nella semi sconosciuta città di Chongqing, una delle quattro municipalità indipendenti della Cina, considerata peraltro uno degli agglomerati urbani più grandi al mondo che raccoglie milioni di immigrati dal resto del paese. Probabilmente il senso di disagio che si respira in questa metropoli, l'inquinamento e una miriade di altri problemi che popolano le grandi città cinesi, devono essersi riversate nella musica quanto mai straziante del quartetto dagli occhi a mandorla. Undici piccole gemme di un depressive black che verrà ricordato soprattutto per le ottime linee melodiche piuttosto che per le lancinanti grida dei due vocalist, a tratti davvero insopportabili. Un vero peccato perché le premesse sono a dir poco stupefacenti: "Torment", la opening track, ci offre infatti un sound all'insegna del suicidal black miscelato allo shoegaze, con le urla belluine dei cantanti, appunto, a rovinare il tutto. Le ariose chitarre, i fraseggi malinconici, le atmosfere drammatiche suggellano una prova davvero convincente che si tramuta in poesia più cupa nella successiva "Burial", una mesta sepoltura che trova sfogo nello stridore vocale dei malefici vocalist. "Silence" è un semplice arpeggio di un paio di minuti che straripa in una cascata emozionale nella successiva "Procession", song che si arricchisce di ulteriori influenze derivanti dal Cascadian black metal, una splendida cavalcata in mezzo ai boschi, attraversando fiumi e cascate, scalando montagne e raggiungendo la vetta dei nostri sensi. Splendida. Ma è una bellezza incompiuta che avrebbe tratto maggior beneficio se, anziché udire l'ululato assurdo nel microfono, magari si fosse sussurrato, narrato o cantato in modo pulito o con uno screaming decisamente più convenzionale. La cosa drammatica è che 'Funeral' avrebbe in effetti le carte in regola per essere un signor album, per piacere ai fan di Alcest, Deafheaven o Shining indistintamente. Il problema, e mi spiace averlo più volte sottolineato, risiede nella performance, a dir poco mediocre, dei due cantanti. Se siete in grado però di superare lo scoglio delle urla belluine, vi garantisco che vi innamorerete delle song celestiali fin qui descritte, per continuare con "Dead", passando dalla delicatissima "Sorrow", l'elettrizzante "Calling", e la più desolante "Continuity", fino alle un po' più sconclusionate song finali in cui i Ghost Bath si perdono per strada. Per concludere, a parte suggerire un cambio di ugola e una migliore produzione, quello dei Ghost Bath è un disco che va testato, nella speranza di un futuro migliore. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

Celesterre - A Blooming Spring

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
Con il loro ultimo lavoro 'A Blooming Spring', i Celesterre si fanno portavoce dell'umanità in un concept EP dalle tinte apocalittiche e sibilline. Dopo il lavoro d'esordio omonimo del 2012, il quartetto olandese propone un genere che parte dall'heavy metal per arrivare a toccare altri stili. La trama del concept - sviluppato in 5 brani - prende in considerazione l'estinzione umana a causa dell'inesorabile approssimarsi della Terra, nella sua rotazione intorno al Sole. Ogni brano tratta questo catastrofico evento da un diverso punto di vista. "Celesterre Burns In Gold", nella quale la band si pone a rappresentare l'umanità intera, vede il nostro pianeta letteralmente inghiottito dall'enorme disco d'oro che è il Sole, immaginando una realtà ustionata dalle radiazioni solari. "The Droning Earth" descrive invece il pianeta come scosso da convulsioni febbrili, in terremoti che muovono gli oceani, a simboleggiare un genere umano rigettato dalla Terra come una malattia. In "A Blooming Spring", la fine dell'uomo è arrivata...il cancro è stato estirpato a fuoco, la primavera di una nuova era è descritta, alimentata dalla morte nel ciclo vitale e resa da questa rigogliosa. "Vegetation Terror" vede la natura dilagare e allungare le sue dita frondose su tutto ciò che prima apparteneva all'uomo, e inconsapevole si riappropria di ciò che le era stato tolto. "Dust" interpreta chiaramente la frase: polvere eravamo e polvere ritorneremo. La coscienza umana dona il proprio corpo, trasformato in vita dai microrganismi, affinché nutra la terra, prima che essa si fonda con il sole... Sebbene queste tematiche non rappresentino una novità dal punto di vista concettuale, s'inseriscono comunque tra i punti di forza di questo lavoro e, grazie a un songwriting d'effetto, seppur appesantito dall'uso di termini eccessivamente ricercati e un incedere talvolta criptico, rendono questo EP strutturato e non banale. La opening track da il via alle danze con un arpeggio acustico subito accompagnato dal basso, il tutto circondato da inquietanti feedback. L'arpeggio prosegue poi sovrapponendosi all'attacco della strofa e andando con essa in controtempo. La prima strofa cantata s'apre subito con declamatoria veemenza, contrappuntata dalle parti corali nel grido "Burn!". Il chorus, meno aggressivo e preceduto da un ponte interessante nel quale il basso esce allo scoperto, distende ritmica e parti accordali. Dopo il secondo chorus un assolo misurato e non virtuosistico precede la parte finale, caratterizzata da ritmi serrati alla batteria, tappeto di basso e chitarre ritmiche e una voce secondaria più delicata, che s'alterna a samples di registrazioni parlate tratte da documentari scientifici, prima che il pezzo termini improvvisamente. Un discreto pezzo d'apertura che non dona ancora però un'idea completa dello stile della band. La seconda traccia si scaglia improvvisa con un ritmo quasi tribale e delle vocals immediate, che appaiono nella loro distribuzione un po' scollate dalla musica. Con degli effetti resi in un'interpretazione stravagante, che punta a creare una sorta di polimorfismo vocale. Il chorus, più disteso, spezza quasi il ritmo a creare un inno non privo di drammaticità ed epicità. Poi il ritmo s'anima nuovamente per le nuove due strofe, ciascuna dalla differente base strumentale, prima del nuovo chorus che porta con sé una variazione nell'arrangiamento, oltre che un'efficace pausa improvvisa. Nella struttura complessiva il pezzo ricalca il precedente, ma si differenzia nelle code del finale, che è qui più strutturato e interessante. Un brano che non aggiunge molto di nuovo a quello d'apertura se non una maggior omogeneità e coerenza strutturale, nonché una maggiore fluidità. E' solo con la title track, brano fra i più significativi dell'EP, che la band esce allo scoperto per quella che è. Suoni di uccelli e ronzii d'api precedono ritmi distesi contrappuntati da pause, che rendono questo inizio a blocchi accattivante. Questo incedere più aperto e cadenzato permea tutto il brano, e il cantato, più asservito e amalgamato alla musica, risulta più efficace. A metà brano il riff iniziale viene variato e alternato a scariche di grancassa e basso ove prima vi erano pause, su questa base si staglia un assolo, che viene poi abbandonato a se stesso a fungere da introduzione a una parte acustica, sostenuta da un bel giro di basso, che ricorda i germogli dei primi Opeth in "Black Rose Immortal". Davvero bello questo passo quasi sussurrato da parte di strumenti, voce ed effetti sonori. La parte finale ricalca la struttura del brano precedente, ma in veste più "ragionata". Il quarto brano esordisce con una chitarra "ronzante" cui si aggiunge poi la seconda per un effetto creato da trilli cromatici simili a quello del volo di un calabrone, il tutto preceduto da pochi blocchi introduttivi. Poi un altro blocco interrompe tutto, cui segue una coda di sirena creata dalla lead guitar e un grattare secco della ritmica che simpatizza per stilemi thrash. Questa introduzione vale tutto il brano, che prosegue infatti senza notevoli novità ad aggiungersi agli episodi precedenti, eccetto i ritmi incalzanti, la ripresa del tema iniziale e una chitarra solista tematica che si destreggia in assoli che accompagnano strofe e chorus. Un pezzo comunque buono, che si affianca alla title track per importanza e vi aggiunge la presenza di parti solistiche di chitarra molto corpose e virtuosistiche, anche se si distacca da essa per il finale tronco, accostandosi invece alla chiusura del brano iniziale. L'ultima traccia appare come un'evoluzione della sezione strumentale centrale della title track. Il testo è essenziale e minimale, ma nel suo parlato, ad aggiungersi alla guest vocal femminile (Miriam), s'impone come il pezzo con le vocals più riuscite. Centrale qui però risulta la musica (punto di forza della band) e il tutto ne trae vantaggio. Non si può parlare di vero e proprio brano, ma sicuramente questo pezzo di chiusura ha il ruolo di finale per tutto l'EP e l'annesso concept. Sicuramente una conclusione d'effetto che lascia il segno. Già dal primo brano i Celesterre si presentano come una band controversa, nella proposta del genere, nel rapporto fra tematiche affrontate e musica, per arrivare agli indiscutibili pregi e agli evidenti difetti. La scelta di toccare caratteristiche del doom e del black partendo da una solida base heavy è sicuramente coraggiosa e non comune, se poi aggiungiamo a questo tematiche permeate da fatalismo e amore per la natura, unite a un'accusa implicita all'umanità per il suo operato, ci si trova certamente di fronte a molto materiale, musicale e non, da plasmare. I nostri son riusciti con successo solo in parte in questa impresa. Sicuramente nel complesso il lavoro suona abbastanza omogeneo, con brani che sconfinano più di altri verso generi differenti (come il riff principale poi variato in "A Blooming Spring", accompagnato da lente cadenze ritmiche che rimandano a caratteristiche doom o lo sviluppo finale di "Celesterre Burns In Gold" che varia il riff principale con una base ritmica in blast beat strizzante l'occhio al black), sempre con una certa continuità negli arrangiamenti e una buona capacità compositiva. Non mancano poi gli effetti sonori introduttivi a suggerire ambientazioni naturali, riprendendo le tematiche trattate, anche se non vi è mai una fusione completa tra queste allusioni e ciò che comunica la musica. La controversia più grande vi è però nel cantato che, seppur s'inserisca in uno stile di formazione heavy, suona quasi come un declamato, e ciò potrebbe anche risultare interessante, non fosse per alcune parti che tradiscono un'insufficiente padronanza nella tecnica vocale del frontman Wouter Klinkenberg (che ha però il merito di essere autore di musica e testi oltre che chitarrista). Critiche negative non possono invece certamente esser mosse alla sezione strumentale che, con una base ritmica di basso (Jason van den Bergh) e batteria (Tim Zuidema), solida e dall'ottima abilità strumentale, riesce a presentare bene a livello esecutivo il materiale musicale. Lo stesso dicasi per la sezione delle chitarre (del già citato frontman e Floris Kerkhoff), buona sia nella sua parte ritmica che in quella solista, senza sforare in tecnicismi fine a se stessi e senza esser troppo banale, con l'unico neo di esser talvolta un po' meccanica nelle parti soliste più semplici e non valorizzata dal sound generale poco pulito a livello di registrazione. Quest'ultima suona molto "vera" come fosse una presa diretta, e comunque presenta un sound generale buono, anche se in alcuni punti alcuni strumenti e la stessa voce vengono quasi inghiottiti dalle frequenze degli altri strumenti (come il sole farà con la terra in questo concept). L'artwork è tratto dal dipinto di Frederic Edwin Church (1826-1900) "Rio de Luz" e si sposa all'immaginario che suscita il testo di "Vegetation Terror" con una certa efficacia, anche se nella sua grazia e raffinatezza idilliaca spiazza l'ascoltatore circa l'impressione che scaturirà secondariamente dall'ascolto della musica che, soprattutto per via delle vocals, risulta cruda e pe(n)sante tanto quanto si pongono disincantati e profetici i testi. Una nota di demerito va al logo, assolutamente non coerente al carattere di band e songwriting, non attinente a livello cromatico e grafico rispetto allo sfondo e dal sapore "standard font". In ultima analisi ci si trova di fronte all'arduo compito di mettere sul piano della bilancia pregi e difetti. Purtroppo alcuni difetti pesano più di taluni pregi e la valutazione che ne scaturisce è una media tra una sezione vocale che non raggiunge la sufficienza e una sezione strumentale che supera una valutazione buona. Prendendo poi in considerazione la breve durata del lavoro e il fatto che si tratta di un secondo capitolo nel curriculum dei Celesterre non è possibile forzare la mano nella valutazione, ma è augurabile un superamento dei difetti che porti un cambiamento strutturale e innalzi il livello di una band dalle buone potenzialità. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 65

Kelvin - CD01

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Punk/Hardcore
I Kelvin sono un duo padovano (Anna alla batteria e Woolter alla chitarra e voce, in questo lavoro c'era anche Andrea a dar man forte) nato nel 1999 e che ha all'attivo vari lavori, tra cui questo 'CD01' autoprodotto nel 2001/2002 e poi ristampato dieci anni dopo da MacinaDischi, etichetta fondata dalla stessa band. I Kelvin sono una band storica della zona e questo debutto mette in risalto la genialità di un'idea e del progetto che ha scaturito. Il duo ha preso una base noise/post punk & hardcore, nuda e cruda, ha scarnificato la musica e ha reso livida e rabbiosa ogni singola parola pronunciata. Il cd racchiude diciassette tracce brevi e intense, frammenti che si incastrano a formare un quadro di arte contemporanea dove la tela è graffiata, strappata e umida di sudore e sangue. I suoni sono scarti, vittime di una registrazione DIY (do it yourself), ma sono perfettamente in linea con l'idea della band e del genere. Una registrazione super raffinata avrebbe tolto groove e impatto, di questo ne siamo certi. Ci sono brani come "Go Away" che prendono liberamente spunto da band come i Sonic Youth, ma con suoni accattivanti e voce acuta alla Beastie Boys. Non vi dirò che i riff siano estasianti, innovativi e quanto di più creativo si possa ascoltare, ma c'è botta da vendere e groove. Quello che ti fa muovere, sgomitare davanti al palgo o muovere la testa anche se sei in macchina da solo in mezzo al cazzo di traffico. "Mazurka" invece ha un intro con uno dei preset di tastiera più assurdi di sempre, poi entra la batteria che detta il ritmo con una cadenza militare e la marcia ipnotica e tesa a fil di nervi arriva fino alla fine. Il vocalist declama versi come un despota davanti alla folla vittima e sottomessa. Un viaggio allucinante, breve si, ma che vi lascerà sicuramente una retrogusto in fondo alla gola. Amaro, acido oppure metallico, non importa, ora siete pronti a sentire altri brani dei Kelvin. (Michele Montanari)

(Macina Dischi - 2011)
Voto: 80

Absinthe River - Echoes of Societal Dysfunction

#PER CHI AMA: Heavy/Hard Rock 
#FOR FANS OF: Heavy/Hard Rock
La schiera di recensori/musicisti del Pozzo dei Dannati si allarga con la release di Bob Szekely e i suoi Absinthe River, trio di Colorado Spring, che debutta con 'Echoes of Societal Dysfunction'. Si tratta di un disco di sette pezzi, dediti ad un heavy/hard rock old school. Accendere lo stereo e far partire "Followers of Dogma" è stato un vero back in time per me, un tuffo nel passato che mi ha ricondotto agli anni '80, quando per la prima volta mi avvicinavo, da pivellino, al metal e magari mi spaventavo dinanzi al riffing dei Metallica di 'Ride the Lightning' o all'assetto ribassato dei Black Sabbath, ecco due nomi non proprio messi lì a caso, anche se non rappresentano certo le influenze cardine del trio del Colorado. Qualcosa di atavico comunque ristagna nel sound dei nostri, cresciuti sicuramente a birra, cicchetti di whiskey e hamburger. La song ringhia che è un piacere e si muove tra l'heavy e il doom con una voce votata all'hard rock. Vista l'intercambiabilità dei vari musicisti polistrumentisti, il vocalist cambia nella seconda song, "Broken Sky" e un eco dei primi Metallica lo avverto, ma anche un che dei Candlemass. Anche se la produzione appare quasi casalinga, le idee e la voglia di divertirsi non mancano di certo al combo composto dal nostro Bob, Rob Rakoczy e Steve Stanulonis. Con la terza "Seeker of the Light", è Bob che torna alle vocals con un cantato simile a quello di King Diamond, mentre la musica gioca a richiamare oscure visioni ottantiane, con un duplice assolo finale, uno più rock oriented e un secondo più vicino al blues rock, a dimostrare comunque una spiccata versatilità della band statunitense. Con "Spirit Journey in Modernity", il ritmo si fa più spettrale e anche un po' più affascinante, e soprattutto meno etichettabile. "Haunted Emotions" è un pezzo di poco più di tre minuti di tenue hard rock che si affida ancora una volta alla sciabolata del suo assolo conclusivo, cosi come la darkeggiante "Swing Doors", tre minuti di suoni all'insegna di synth, programming e chorus femminili, in una traccia dall'andatura un po' sghemba. Diciamo che arrivati alla conclusiva "Aurora (The James Holmes Shootings)", non vi è rimasta alcuna traccia degli Absinth River dei primi tre pezzi, che si erano rivelati decisamente più pesanti. Quest'ultima è una sorta di ballad dal forte sapore settantiano, che si evolverà in pochi minuti, a un suono stile videogame ed infine rock, a completare quindi un disco che forse non fa dell'omogeneità sonora il proprio punto di forza, ma che comunque merita un vostro ascolto e un eventuale download (gratuito) dal sito bandcamp. Stralunati. (Francesco Scarci)


The team of reviewers / musicians of the Pit of the Damned grows with the release of Bob Szekely in Absinthe River, a trio from Colorado Springs, in their original debut 'Echoes of Societal Dysfunction.' It's a release of seven pieces devoted to a heavy / hard rock old school sound. To turn on the stereo and listen to "Followers of Dogma" truly took me back in time: drawing me into the past back to the 80s when for the first time Heavy Metal drew me in. On my first exposure to the genre, I was excitedly frightened by the riffing of the Metallica’s 'Ride the Lightning' or even those of Black Sabbath, two extraordinary bands. The Absinthe River sound is mired in the influences of this early era of metal, certainly grown in beer, shots of whiskey and burgers. The song growls: a pleasurable sound, as it moves between heavy and doom with a voice devoted to hard rock. Given the interchangeability of these multi-instrumentalists, the vocalist changes to Rob Rakoczy in the second song, "Broken Sky" and his voice echoes that of Metallica as well as Candlemass. Although the production seems a bit basement grown, The ideas and desire to have fun shines through with this combo composed of Bob Szekely, Rob Rakoczy and Steve Stanulonis. By the third song "Seeker of the Light", It’s Bob who returns to vocals sung in a style similar to King Diamond, while the music recalls more obscure visions of the 80's with a dual final solo: one more rock oriented, and the second more blues rock. This shows, however, the remarkable versatility of this US band. With "Spirit Journey in Modernity", the pace becomes more ghostly and even a little more fascinating. "Haunted Emotions" is a piece of a little over three minutes of tenuous hard rock that resolves once again to the saber of the final guitar solo. The dark "Swing Doors", roughly three minutes of dedicated synth programming and female chorus, is a track that’s a little skewed: as it is a departure from the style of the earlier tracks, being more pop than metal. And now we’ve come to the finale "Aurora (The James Holmes Shootings)", there is no trace of the Absinthe River sound found in the first three pieces, which proved much heavier. This last tune is kind of a ballad with a strong 70s flavor, which evolves a few minutes into a sound style of videogame rock. Although this CD may not be something to your liking, it definitely deserves your listening and a possible download (free) from the band's website. Thunderstuck.

(Kludgeworks Garage Productions - 2014)
Score: 65


(Reviewed by Francesco Scarci, Translated by Deborah S Szekely and Edited for clarity and flow by Robert E Szekely)

mercoledì 24 dicembre 2014

Kong – Stern

#PER CHI AMA: Prog Strumentale, Elettronica, Industrial
Di recente mi è capitato di rivedere il primo Matrix, della trilogia di gran lunga il migliore. Un film che quando uscí mi entusiasmó, come credo sia capitato piú o meno a tutti. Visto oggi, pur rimanendo un'ottima pellicola, il suo impatto appare ridimensionato, e per apprezzarlo al meglio è necessario contestualizzarlo nel periodo in cui venne girato. Ebbene, questo disco mi ha fatto piú o meno la stessa impressione. Un mix tra metal ed elettronica del giorno prima che suona energico e piacevole, ma che oggi rischia di risultare un tantino anacronistico. Gli olandesi Kong sono una band longeva, il loro esordio risale addirittura al 1990, e questo è il loro ottavo album, il terzo con la nuova formazione nata nel 2007, dopo uno iato che durava dal 2000. E la loro musica sembra essere perfettamente centrata nel decennio della loro prima incarnazione, figlia di un periodo iniziato con la caduta del muro, e rappresentativa dell’eccitazione libertaria di un cambiamento epocale, ma che, ad un certo punto, si è lasciata superare dagli eventi. 'Stern' mette in fila una serie di composizioni convinte e convincenti, ma che a lungo andare, risultato un po’ piatte e ripetitive nel riproporre uno stesso schema. Ritmiche sintetiche doppiate da batterie vere, elettronica sottile che sporca i riff di chitarroni di stampo prog-metal, senza peró particolari guizzi di originalità. Meglio i pezzi in cui il contrasto tra le due componenti viene spinto al limite, come la danzereccia "Rage8FA", "NOZL" o "Feast of Burden", oppure "Contenu Inconnu", l’unico brano cantato, mentre purtroppo l’approccio totalmente strumentale non giova al resto della scaletta. Probabilmente la dimensione ideale per la musica dei quattro è quella live, dove i Kong sono famosi per i loro show dal forte impatto sonoro. Dal punto di vista tecnico comunque, nulla da eccepire, specie pensando che si tratta di un’autoproduzione, in quanto l’album è prodotto e suonato benissimo, e viene anche scongiurato il pericolo di un’eccessiva freddezza grazie ad un’ottima cura dei suoni. Bella anche la confezione in digipack apribile. Insomma, un lavoro ben fatto che potrebbe regalare diverse ore di divertimento ai cultori del rock contaminato con l’elettronica. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/KONGband