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domenica 19 giugno 2016

Sepvlcrvm – Vox In Rama

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
I Sepvlcrvm, progetto anticonformista e ultraterreno, ci regalano 'Vox in Rama', album sacrale meditativo e trascendente. Un altro gioiello di casa Agronauta, che ho avuto il piacere di contemplare all’Argonauta Fest di quest’anno. Premetto che l’ascolto su disco e davanti ad uno stage sono due esperienze totalmente differenti per qualsiasi act, ma per i Sepvlcrvm il salto è ancora più grande. Dal vivo l’atmosfera è come se fosse in grado di fermare il tempo, ma non al momento presente, bensì in un momento non meglio specificato del medioevo oscuro ove gli animi delle persone erano tormentati dalla violenza, dalla fame e dalla sofferenza. 'Vox in Rama' appare come un’espiazione di colpa, una via crucis che purifica lo spirito ed eleva la coscienza. La classificazione del genere ci porta sotto l’ala del drone ritual/ambient, se vogliamo identificare progetti simili possiamo citare i Sunn O))) ma mi permetterei di andare indietro nel tempo fino a Brian Eno e ai King Crimsom anche se non finirebbe qui, visti gli echi di musicalità dimenticate da secoli: canti sacri, formule magiche e suoni ancestrali. La band si esibisce utilizzando svariati strumenti che vanno dai moderni sintetizzatori, looper e chitarre elettriche fino ai sonagli, ai flauti indiani e ai tamburi sciamanici. La commistione di nuovo e antico colloca i Sepvlcrvm fuori dal tracciato del drone moderno sconfinando nel sacro e meditativo ed in più, lasciando una volta per tutte i lidi della forma canzone, arriviamo ad una fruizione musicale inversa dal classico concerto rock. Qui l’ascoltatore non assiste a dei brani o a delle soluzioni musicali orecchiabili, ma è costretto a ricercare dentro se stesso il senso di quanto accade sul palco, come se la canzone si formasse direttamente nella mente dello spettatore, bypassando la percezione del senso letterale delle parole e del senso musicale delle note. Tutto è un unico flusso di energia che si evolve lentamente; ascoltare 'Vox in Rama' è come ammirare il tempo atmosferico che muta e si trasforma, rimanendo immobili in un limbo di coscienza cosmico. Ma ora premiamo play. Rumore, sonagli, la sillaba sacra intonata con fermezza: sembra una processione di monaci custodi di un segreto inaccessibile che, con il loro fardello, vagano senza sosta e senza destinazione. D’un tratto una radura sonica di qualche secondo e poi il tuffo nella prima mastodontica parte dell’opera. Si passa da voci provenienti dalle profondità abissali al suono dell’industria moderna. Difficile parlare di struttura quanto di melodia, ma ad ascoltare con attenzione, vi accorgerete quanto ogni elemento è curato e come ogni passaggio porti ad un ambiente complementare al precedente. La seconda parte, se mai fosse possibile, appare ancor più criptica della prima. I suoni si fanno più aggressivi e ruvidi, una jungla notturna di frequenze, in continua sospensione. Circa a metà della traccia, le voci ancestrali dei monaci escono di nuovo allo scoperto e si fanno più presenti ma solamente per sprofondare in un deserto artico dal quale emergono le prime voci umane, che sembra un accorato dialogo preso da un vecchio film in bianco e nero. Un ultimo assalto sonico ci riporta nella roboante tenebra propria dei Sepvlcrvm, ma lentamente anche questa sfumerà per approdare ad un finale deliziato da una voce femminile. La ragazza è quella del fim in bianco e nero, parla di sogni, religione e morte e ci lascia ancora un volta sospesi nel vuoto. L’ascolto del cd è un’esperienza forte, permette a chiunque si lasci completamente trasportare dalle onde sonore, di viaggiare nel profondo della propria anima e delle proprie paure. 'Vox in Rama' è un memento mori, è un monito che ricorda di vivere non nella paura ma nella consapevolezza della morte, come se il domani non esistesse. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

My Answer - Pictures & Reminders

#PER CHI AMA: Post Hardcore
Già con un certo seguito nel mondo dell'underground transalpino, ho scoperto solo di recente i My Answer, quintetto post hardcore di Nantes, con all'attivo due EP. 'Pictures & Reminders' sembra essere Lp di debutto, anche se la durata di 28 minuti scarsi, farebbe propendere per un altro Extended Play. Il dischetto attacca con "Mistakes", song che possiede tutte le carte in regola per ammaliare i fan con melodie cariche di groove (ma anche di una forte vena malinconica, quasi shoegaze) su cui si pianta lo screamo efficace di Saymon. Un bell'urlaccio apre "Untitled", traccia oscura, dal ritmo nervoso che incanta per delle strazianti chitarre in tremolo picking, per quelle sue variazioni continue al tema e un certo alternarsi tra screaming e growling. Le song filano veloci grazie a delle durate mai eccessive e mi ritrovo senza rendermene conto a "Just a Breath" e alla sua ritmica pungente, calda e pesante, dove ancora mi preme sottolineare la performance vocale di Saymon, veramente bravo in tutte le manifestazioni dello spettro vocale. Si prosegue con "Unsignificant", altra song bella dritta, con interessanti aperture melodiche alle chitarre, un growling profondo e un intenso break atmosferico nella seconda parte del pezzo. Il disco prende questa direzione anche con le successive tracce: "Nightmares" palesa una ritmica serrata, a tratti schizofrenica, senza rinunciare anche a dei rallentamenti e a delle brusche accelerazioni. Con "Our Own Grave" i toni si fanno ancora più dimessi e plumbei, corredati da tutte le caratteristiche del sound targato My Answer. "Coward" chiude un disco, da cui francamente avremo voluto ascoltare qualcosa in più, e lo fa mostrando il lato migliore dei nostri: grande dinamicità, buon impatto emotivo e ottima prestanza. Per il prossimo disco un unico suggerimento, sforzarsi di suonare almeno dieci minuti in più. (Francesco Scarci)

giovedì 16 giugno 2016

Magoth - Der Toten Gesang

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dark Funeral, Narvik, Dissection
Mi sembra che nell'ultimo periodo ci sia stata una sorta di recupero della primordialità del black metal per cui in giro per il mondo, esista un vero e proprio movimento che spinga per un ritorno alle origini del genere. Neppure la Germania è rimasta immune a questo richiamo e dalla regione della Westphalia, ecco arrivare i Magoth con il loro demo cd 'Der Toten Gesang' ('Il Canto Funebre'), che include sette brani di black old school che chiama in causa i maestri scandinavi degli anni '90. Tempo di una brevissima intro e poi il sound dei Magoth irrompe con il ruvido riffing della title track: chitarre semi-zanzarose, drumming serrato e screaming vocals demoniache. Per tipologia della proposta, oltre a rievocarmi per intensità e velocità i gods svedesi Setherial e Dark Funeral, ho trovato anche qualche similitudine con i loro conterranei Narvik. C'è da dire che la furia belluina dell'inizio lascia ben presto spazio ai toni sulfurei della seconda metà del brano, grazie a un black mid-tempo condito dalle urla dei dannati in sottofondo, destinati all'eterno dolore della città dolente. I ritmi si fanno ancor più cruenti ed esasperati con la successiva "Sheol", song che lascia comunque un certo spazio alla melodia delle chitarre e a rallentamenti occasionali, che permettono almeno alcuni attimi di tregua dalle scorribande dell'act teutonico. "Craving Blood", oltre a viaggiare su ritmiche glaciali ed impetuose, trova il modo di costruire impalcature da brividi, alternando interessanti giri di chitarra con sfuriate da manuale del black, scomodando qualche paragone con gente del calibro di Unanimated e Dissection. "Mental Fortress" è invece un pezzo che miscela il black al thrash con epiche galoppate in stile Old Man's Child, per un risultato che, per quanto possa essere palesemente derivativo, ha comunque il suo perchè. Si continua sulla linea del riffing melodico (e pure malinconico) con "Requiem Deus", altra traccia che in fatto di velocità e intensità, non lascia scampo. È però nei momenti più bui e meno caotici, che l'act di Bonn risulta più convincente e coinvolgente nella propria proposta. E l'ultima "Funeral" non fa che confermare le mie parole: spettrale, agghiacciante, tracimante odio e portatrice di atmosfere primigenie, è forse la mia canzone preferita, peccato solo che non vi sia traccia delle truci vocals di Heergott. 'Der Toten Gesang' alla fine è un buon biglietto da visita per i Magoth, in attesa che riescano ad affinare al meglio lo stile, plasmando una propria personalità. Comunque promossi con alti voti. (Francesco Scarci)

John Holland Experience - S/t

#PER CHI AMA: Psych Blues Rock
I John Holland Experience (JHE) sono un power trio nato nel 2013 nella provincia di Cuneo che si è subito concentrato sulla produttività: nel 2014 lanciano il primo Demo EP mentre a marzo di quest'anno arriva questo self title di debutto. Un album fortemente spinto a livello di produzione, co-prodotto da una lista interminabile di labels, tra qui Tadca Records, Electric Valley Rec, Taxi Driver, Scatti Vorticosi, Dreamingorilla Rec, Brigante Records, Longrail Records, Edison Box, Omoallumato Distro e altro ancora. Il digipack è stilisticamente ben fatto, la grafica in particolare richiama gli anni '70 grazie ad una invasatissima fanciulla che in ginocchio, ai piedi di una landa desolata, innalza le braccia al cielo, laddove si staglia il logo della band. I JHE sono anagraficamente giovani, ma sono stati tirati su a buon vino e blues rock, a cui hanno aggiunto influenze garage e qualche goccia di beat. I testi sono in italiano e se in prima battuta potrebbe sembrare una scelta assennata a discapito dell'audience, dimostra invece di essere vincente, con i testi azzeccati che accompagnano perfettamente il sound dei nostri. Inutile parlare di impegno sociale o abusivismo edilizio mentre la musica in sottofondo diventa sempre più festaiola. Vedi la donzella che ci fa girare la testa in "Festa Pesta", una sorta di serenata in salsa hard blues che ha lo scopo di lusingare la tipa di turno mentre i riff classici e ben suonati, si snodano sopra e sotto le ritmiche incalzanti. "Elicottero" è un ottimo crescendo, dove il trio si sfoga al massimo, aumentando il tiro e la velocità mentre si decanta l'infanzia sognante che si trova a far i conti con la dura realtà della vita. Il rallentamento a metà brano ci dà qualche secondo di respiro, giusto per lanciarci di nuovo nel vortice hard rock organizzato ad hoc dalla band. Menzione d'onore va infine a "Tieni Botta", un classic blues che vede la collaborazione di un vocalist dalla voce più calda che mi sia capitato di sentire negli ultimi anni. Se i JHE hanno l'energia e il sacro fuoco del rock 'n'roll dalla loro, l'ospite ci delizia con la sua timbrica suadente e graffiante, affinata a suon di wiskey e sigarette, consumati nei peggiori bar di New Orleans. Pochi minuti di blues scatenato che si tramutano in uno stacco quasi psichedelico, lento e abbellito da un assolo hendrixiano. Un album ben fatto, suonato altrettanto bene, che merita di essere ascoltato (la release è scaricabile peraltro gratuitamente su Bandcamp), soprattutto perchè ci suone buone possibilità che la band prenda la giusta via e tornino presto a far parlare di sè su queste stesse pagine. Nel frattempo i JHE sono in tour per l'Italia: io vi consiglio di andarveli a vedere. Io l'ho già fatto ed è stata una gran scarica di energia. (Michele Montanari)

(Tadca Rec, Brigante Rec, Electric Valley Rec, Dreamin Gorilla Rec, Scatti Vorticosi Rec, Edison Box, Longrail Rec, Omoallumato Distro, Taxi Driver Rec - 2016)
Voto: 75

https://johnhollandexperience.bandcamp.com/album/john-holland-experience

Coroner - Grin

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash Progressive
'Grin', ovvero come prendere una pistola, puntarla alla tempia del thrash metal più tradizionale e premere il grilletto, facendo si che da questo momento in poi, i canoni stessi di questo genere non siano mai più quelli di prima, proprio perchè con questo platter, l’asticella stilistica è stata spostata in avanti (e di molto), rispetto alla data di pubblicazione di quest'album (era il lontano 1993). 'Grin' fu l’album testamento degli sperimental-thrashers svizzeri Coroner. La band ha sempre avuto la formazione di un power trio ( Ron Royce, voce e basso; Tommy T. Baron, chitarra; Marquis Marky, batteria). Una caratteristica che ha sempre differenziato i Coroner rispetto ad altre bands thrash di fine anni ’80, inizio anni ’90 (i nostri sono stati discograficamente attivi dal 1987 al 1993, riformatisi nel 2010), sta nel fatto che essi abbiano sempre cercato una via più ricercata e cerebrale al thrash, sostituendo e affiancando alle classiche sfuriate veloci tipiche del genere, passaggi più cadenzati e ricercati, dove spesso, sopra la granitica base ritmica, si stagliavano assoli di chitarra finemente cesellati dal genio di Tommy T. Baron. Questa vena tecnica sperimentale del combo elvetico si è andata accentuando, disco dopo disco, (i primi quattro album sono: 'RIP', 'Punishment for Decadence, 'No More Color' e 'Mental Vortex', per chi volesse approfondire), ma è senza dubbio con 'Grin' che lo sperimentalismo di cui sopra, raggiunge il suo apice compositivo. A mio avviso l’album è fantastico ed andrebbe goduto nella sua interezza per poter essere apprezzato in tutte le sue sfumature, ma una menzione particolare meritano le tracce "Caveat (to the Coming)" e "Paralyzed/Mesmerized". Nella prima traccia i nostri ci sorprendono decisamente, stagliando sul muro basso/batteria un giro di chitarra acustica che si alterna perfettamente ai passaggi elettrici più aggressivi; in "Paralyzed/Mesmerized" addirittura, assistiamo all’inserimento di alcune brevissime parti synth, mentre la traccia precedente, la geniale "Theme for Silence" è un breve intro di rumori ambient naturali, una soluzione spiazzante che sino a quel momento non era mai stata neanche lontanamente pensata in ambito thrash metal. Una band non per tutti, ma solo per metallers che siano “open minded”, un act che ha scelto di percorrere sempre la strada meno battuta, avendo il coraggio di imporre la propria personalità e partorendo, prima di congedarsi dai propri fan, un autentico gioiello che si chiama 'Grin'. Semplicemente spettacolare. Ora li attendiamo al varco con un nuovo album. (Sam)

(Noise Records - 1993)
Voto: 85

https://www.facebook.com/pages/Coroner

martedì 14 giugno 2016

Dark Plague – Perverse Devotion & When the Last Christians Die


#PER CHI AMA: Black, Horde, Pest, Blut Aus Nord
Con il nuovo album della compagine transalpina, 'When the Last Christians Die', ci prendiamo il vanto di aprire una retrospettiva sulle due release dei tre artisti d'oltralpe, prendendo in causa anche il precedente cd del 2014, dal titolo 'Perverse Devotion', usciti entrambi sotto le ali della label coreana Fallen Angels Productions. Analizzando i due lavori, realizzati a distanza di un paio d'anni l'uno dall'altro, si denota subito il cambio di direzione stilistico del nuovo album, dal titolo ideologicamente inossidabile e senza compromessi nella lotta anticristiana. 'When the Last Christians Die' mostra fin dall'inizio che la gran parte dei brani è stata prodotta con un sound più secco e artificioso, meno ostico che in passato ma che per arrivare alle vette altissime della title track del debut cd, bisogna attendere l'arrivo di "Veil of Veneration", quarta song che comunque non soddisfa appieno quelli che hanno potuto apprezzare il lavoro precedente. Quest'ultimo album non è però da scartare anzi, è costruito bene e strutturalmente soffre e gode delle stesse belle e brutte cose dell'esordio. Manca fondamentalmente della stessa vena glamour/diabolica, perversamente abusata in passato e ora tramutata in militanza rigorosa e rispetto del genere. La musica riesce comunque a mantenere un fresco slancio creativo, anche se la scrittura dei brani non è cambiata poi di molto a livello compositivo ovvero, ritmiche secche, propensione ai mid-tempo, stacchi intelligenti ed omogenei, quindi non possiamo che innalzarlo ed acclamarlo come un disco ben riuscito. L'unica vera nota dolente a mio giudizio, è quella di aver voluto ripulire, anche se solo in maniera parziale, il sound originario della band. Infatti, l'impronta sonora è molto definita e professionale (un po' come l'evoluzione avvenuta nei mitici Pest degli ultimi anni), lontana anni luce da quella forma rudimentale, rumorosa, indefinita e fatta di barbara violenza che amalgamava, nella sua primitiva e radicale struttura sonora, lo spirito di una musica estremamente perversa e indomabile, libera di essere semplicemente contro e sotterranea. Lo stile dei Dark Plague non è mutato di molto se non nella tipologia del suono, ed alcuni brani del nuovo disco, come "Pure Fucking Hate" o "Sombre Invocation", risultano geniali per certi aspetti, assumendo un ruolo fondamentale  durante l'ascolto del cd, innalzandone notevolmente la qualità compositiva e facendo notare quanto, in 'When the Last Christians Die', tutto sia più focalizzato ed equilibrato. Anche se le parti violente ed estreme rimangono inalterate, il disco alla fine risulterà, passatemi il termine, più accessibile della precedente uscita. La produzione mette in risalto il nobile lavoro del bassista Infestus, cosa che nel primo disco, il suono zanzaroso e rude tendeva ad annullarne l'effetto. In entrambi i dischi vi è da segnalare l'ottima performance vocale di Daimon, demoniaco di nome e di fatto, che canta con uno screaming ossessivo, amplificato da alcuni effetti di matrice grindcore/brutal, decisamente centrati ed efficaci. Anche qui opto per l'uso più deciso e pesante dell'effettistica sulle parti di voce come avvenne in 'Perverse Devotion', che a tratti suonano veramente disturbanti anche se degno di nota in questo senso, è il bellissimo brano di chiusura del nuovo cd, "Dèliquescence" (il migliore del disco), che apre nuove strade stilistiche per il combo francese, violente, melodiche ed ipnotiche. L'assenza di un batterista nel terzetto si nota per quell'impatto assai freddo e gelido a livello ritmico che passa fortunatamente in secondo piano nascosto dall'ottimo lavoro alle chitarre svolto da Lord of Misery, che macina riff esagerati e muri sonori da ogni parte, facendo apparire interessante e personale ogni piccola sfumatura musicale, con caratteristiche tecniche da ricercare a metà strada tra i Blut Aus Nord di 'Memoria Vetusta I' e i seminali lavori degli Horde. 'When the Last Christians Die' è un passo in avanti verso un sound rivolto al grande pubblico del black metal che conta, è una prova di forza superata con coraggio e senza paura di ripetersi o perdere coerenza, dal gruppo proveniente da Lille. 'Perverse Devotion', che include un capolavoro assordante qual è "Aries Castle", sarà ricordato come un diamante grezzo dell'underground black metal, quello per cultori, che tra i confini di Francia, trovano sempre nuovi talenti, terreno fertile e prosperità, confermato alla grande dalla nuova tetra veste dei Dark Plague. Evolvere per non morire è la parola d'ordine per sopravvivere. Da ascoltare entrambi in maniera molto concentrata, due buone uscite di cui la Fallen Angels Productions deve andarne fiera. (Bob Stoner)

(Fallen Angels Productions - 2014/2015)
Voto Perverse Devotion: 80
Voto When the Last Christians Die: 75

lunedì 13 giugno 2016

Balance Breach - Incarceration

#PER CHI AMA: Melo Death, Soilwork, Omnium Gatherum
Ascoltando l'opener dell'EP dei Balance Breach, nonché anche title track di questo 'Incarceration', ho avuto l'impressione di rivivere le stesse emozioni che provai all'ascolto di 'Quicksilver Clouds' dei Throes of Dawn, qualche anno fa. Chitarra dark corredata da un'avvolgente atmosfera e da vocals graffianti. Impatto a dir poco entusiasmante, peccato solo si esaurisca nell'arco di un paio di minuti e di quel death dark non rimangano altro che briciole affidate invece ad un rifferama sincopato, scuola Meshuggah. "Deprivation". Muro di chitarre, screamo, stop'n go e voilà, il melo death/metalcore del duo di Mikkeli è servito. Il sound dei Balance Breach non propone grosse novità in un ambito in cui non c'è, a dire il vero, più molto da dire e alla fine i nostri si limitano a un compitino ove abilmente l'act scandinavo raggiunge la sufficienza, tra melodie ammiccanti, dark vocals pulite ("Useless Prey"), scale ritmiche inserite in un ipnotico contesto tutto da sviluppare ("Cast Aside") e linee di chitarra che qua e là richiamano a random, Soilwork e Omnium Gatherum, andando poi a braccetto con atmosferiche keys, come in "The Essence of Joy", dove vorrei segnalare un pout pourri di vocalizzi (mi sembra di aver contato addirittura quattro timbriche differenti). Insomma il più classico caso "ci sono enormi potenzialità, ma non vengono sfruttate a pieno". Diamoci dentro ragazzi! (Francesco Scarci)

Wastage - Slave to the System

#FOR FANS OF: Thrashcore/Metalcore, Machine Head, Biohazard
One of the longest-running acts in the Slovak underground, Thrashcore/Hardcore group Wastage are just barely now getting to their full-length debut and it’s quite an enjoyable mesh of their styles. Taking the stuttering rhythms and rather heavy propensity for breakdowns that fuel most Hardcore bands with a more rousing Thrash Metal aesthetic when it comes to the straightforward rhythms and paces which is certainly an enticing enough mixture on paper. Offering a mostly mid-tempo chugging charge with an occasional faster charge alongside those other harder-hitting breakdowns featured together here keeps the material nicely enjoyable despite the fact that way too much of the album comes off as rather one-dimensional with the majority played way too much in a straight way. There’s little deviation to be found here and it really seems a little sluggish in the mid-section where it blends together throughout here. In the finale it gets a little better with some stronger tracks but the middle is where it holds this down somewhat. There’s some pretty enjoyable work here. Intro ‘Away From The Darkness’ immediately blasts through a thumping series of mid-tempo hardcore-styled rhythms and tight patterns holding the stilted rhythms along through the stellar series of thumping and pounding drumming as the chugging breakdowns continue on through the charging final half for a fine opener. The title track offers a rumbling bass-line and a thumping series of tightly-wound and charging churning riffing into a steady, breakdown-laden patterns leading into the brief solo section and on into the final half for a solid and enjoyable effort. ‘Game’ features throbbing rhythms and clanking patterns that stuttering along through a plodding, low-key pace with tight patterns swirling along throughout the thumping series of patterns leading along into the plodding finale for an overall disappointing and disposable effort. ‘No Way Out’ utilizes immediate thumping rhythms and hard-hitting patterns thumping along to the charging and hard-hitting pounding breakdowns along throughout the thrashing rhythms charging along to the twisting rhythms found throughout the final half for a solid enough effort. ‘Ham-let’ features swirling thrash rhythms and chugging mid-tempo paces with plenty of thumping breakdowns holding the tight, straightforward chugging patterns in a steady pace with a steady solo section and breakdowns flowing into the finale for a much more enjoyable track. ‘You Can’t Stop’ uses thumping mid-tempo series of charging breakdowns with quicker thrashing patterns with the harder drumming keeping the stylish, stuttering chugging riff-work bringing the blasting rhythms along through the final half for a solid, enjoyable highlight. ‘Right Now’ takes harder thrashing rhythms with soaring leads and thumping drumming along through the steady, mid-tempo pace with the full-on stuttering riffing leading through the solo section and leading through the chugging finale for another rousing highlight. ‘I Walk Alone’ utilizes thumping mid-tempo grooves with plenty of charging riff-work through a hard-hitting series of chugging riffing that brings the stuttering paces along through the steady swirling breakdowns with the steady thumping patterns holding on through the final half for a solid enough effort. ‘Nobody’ features a series of hard-hitting thumping rhythms and steady breakdown-laden chugging that moves through a steady series of swirling thrashing riff-work and pounding drumming that continually moves through the strong patterns leading into the finale for another strong highlight. ‘Let Me Go’ takes immediate thrashing patterns and plenty of stylish swirling riffing with plenty of steady thrashing alongside the few minor breakdowns chugging along to the steady, straightforward thrashing patterns holding on through the solo section and on through the blistering final af for another strong effort. Lastly, album-closer ‘Confidence’ takes intense rattling thrashing riffing and pounding drumming through a steady, intense series of up-tempo charging patterns that whip along into a steady series of swirling patterns full of hard-hitting leads and coming along into the utterly blistering finale for the album’s best track to really end this on a high-note. It doesn’t have enough wrong overall to really hurt it much at all. (Don Anelli)