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martedì 10 maggio 2016

Weird Fate - Cycle of Naught

#PER CHI AMA: Post Black/Avantgarde, Deathspell Omega
Bella scoperta i tedeschi Weird Fate, me li ero stranamente persi per strada, visto che 'Cycle of Naught' rappresenta già il loro secondo album, dopo l'esordio sulla lunga distanza nel 2012 e addirittura uno split datato 2008. I quattro di Rhineland tornano con sei pezzi di black ancestrale in cui convogliano diverse influenze: nell'iniziale "The Worthlessness of Striving", è impossibile non cogliere l'eco dei Melechesh nel saliscendi ritmico imbastito dai nostri nella prima parte del brano, che evolverà poi in un evocativo finale ritualistico, quasi da pelle d'oca. Con "Irretrievable" si cambia registro, conducendoci nei meandri di un funeral doom contaminato da sonorità post black. Ma con i Weird Fate non si possono certo dormire sonni tranquilli, visto che la loro proposta musicale si conferma costantemente mutevole con cambi repentini di tempo, di umori e pure di genere, per cui talvolta il rischio è addirittura quello di perdere il filo conduttore. Non c'è pertanto da stupirsi se in un preciso momento vi sembrerà di udire un che dei Behemoth per quelle sfuriate black/death, il secondo successivo cogliere l'epicità dei Bathory, un attimo dopo le scorribande cascadiane dei Wolves in the Throne Room fino ad arrivare al black "sconnesso" dei Deathspell Omega, tutto questo in otto minuti di totale delirio sonoro che ricordo essersi originato da suoni funeral. Tutto chiaro ora? No, perchè se avete ancora dubbi a proposito, sono certo che i nove minuti della folle "Inside the Sore", potrebbero schiarirvi le idee oppure incasinarvele ancor di più, data l'incredibile capacità del quartetto teutonico di buttare sul fuoco talmente tante idee da indurmi ancora una volta a faticare nel seguirne la proposta, non proprio lineare. Forti anche di un'ottima produzione e sicuramente di una preparazione tecnica di primo livello, i Weird Fate hanno modo di sparare altre significative cartucce nella post rockeggiante (si, avete letto bene) "Foreboding", una traccia che ha il merito di minare ulteriormente le mie certezze, mischiando un prologo post rock con un oscuro pezzo black. Un bell'arpeggio apre "Of Void and Illusion", ma è la classica quiete prima della tempesta, non fatevi ingannare pure voi. Il sound dell'act del Palatinato esplode in un dirompente black che ha modo di evocare nuovamente le ultime evoluzioni sonore dei Deathspell Omega, ma in grado anche di farci sprofondare nelle viscere della terra nel finale, in cui i suoni, ormai totalmente disarmonici, mi fanno pensare di essere in preda agli effetti di non so quale droga psicotropa. Il disco si chiude con la title track, che ci investe con gli ultimi deliranti minuti di questa band tanto incredibile, quanto ostica da approcciare, segno comunque di una forte e spiccata personalità. Coraggiosi. (Francesco Scarci)

sabato 19 marzo 2016

Witte Wieven - Silhouettes Of An Imprisoned Mind

#PER CHI AMA: Black Atmosferico
Provenienti da Tilburg in Olanda, i Witte Wieven (che sta per "donne sagge") sono un duo formato da Sarban (batteria) e Carmen (voce, chitarra e basso), dediti a un black metal d'atmosfera, tinto comunque di influenze cascadiane e post black. Lo si evince immediatamente dall'opener track, "Ruin", un'autentica galoppata di suoni post black, in cui le uniche voci sono lasciate ai sussuri soavi della brava Carmen che per certi versi richiama le produzioni più delicate di Myrkur. "Silhouettes of an Imprisoned Mind", la traccia che dà anche il titolo a questo mini cd (racchiuso in un digipack elegante dalla cover assai suggestiva che riprende 'Dancing Fairies' del pittore svedese August Malmström), continua nella sua opera di ritmiche serrate in pieno stile US, fino a quando la quiete non prende il sopravvento e come una ammaliante sirena, Carmen torna a proporre dei brevi sussurri in sottofondo. Non per molto a dire il vero, perchè la furia dilagante del duo orange, avrà modo di esplodere ancora in vibranti accelerazioni, lasciando la parola alla sola musica. Si arriva velocemente alla terza e ultima song di questo EP, che funge da apripista all'imminente album di debutto. "Faces of Unreality" si muove tra sinistre atmosfere, rallentamenti al limite del doom e sfuriate black, che lasciano soltanto intravedere le potenzialità che questo duo olandese possiede. Quindici minuti sono un po' pochi per capire cosa ci riserva il futuro, soprattutto se le tracce che verranno saranno completamente strumentali o se Carmen sarà in grado di offrire vocalizzi alla stregua della collega danese, leader dei Myrkur. A breve per nuovi aggiornamenti. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://wittewieven.bandcamp.com/

sabato 20 febbraio 2016

Aethyr - Corpus

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gli Aethyr sono un quartetto moscovita, costituito da Mr. D, Mr. W, Mr.S e Mr. Y che escono con il loro secondo lavoro, 'Corpus', per la label CSR, a distanza di cinque anni dal debut, intervallati però da una serie di EP e split album. Sette i pezzi a disposizione per lasciare testimonianza della loro nuova fatica musicale, uno sludge/doom (con ricorrenti fughe nel post black cascadiano, come testimoniato nella traccia d'apertura) guidato da vocals aspre come nel più ferale dei dischi degli Immortal. Si parte con la lentezza disarmante di “Nihil Grail” (già presente nell'EP omonimo del 2011) e le sue lenti falcate, fatte di riff ripetuti allo strenuo, su cui poggiano le voci in acido di Mr. D; per fortuna il finale è un crescendo in intensità che dona un certo brio al pezzo. Si passa a “Sanctus Satanicus” e il rifferama dei nostri cambia, transitando per un apprezzabile stoner sludge, dotato peraltro di una certa fantasia a livello ritmico, ma che lascerà ben presto il posto al riffing, un tantino statico, della opening track. Difficile esaltarsi per cosi poco, ma in aiuto dei nostri sopraggiungono delle rasoiate ritmiche che spostano l'attenzione dell'ascoltatore su altri versanti sonori e evitano un precoce collasso dovuto alla noia. Con i dieci minuti di “ATU” (attenzione, non è la sponsorizzazione di una famosa marca di preservativi), ci inguaiamo inizialmente nelle sabbie mobili di uno sludge abissale, ove la band avrà modo di rivitalizzare ed esaltare il proprio sound con assoli psicotici, momenti di stanca lisergica e soffocanti drappeggi di una musicalità comunque melmosa, che lascia presagira le grandi doti fin qui celate del combo russo. Con "Cvlt" si continua a solcare i territori infausti dello sludge, che in taluni frangenti si concede belle accelerazioni black che hanno il grosso merito di rendere più varia la proposta sonora degli Aethyr. Che ai russi piaccia sperimentare è palese con "The Gnostic Mass", un'inquietante traccia noise/ambient non certo memorabile, se non fosse che la voce campionata che si sente, è quella di Mr. Aleister Crowley. Tralasciabile. Con la title track ci prepariamo ad affrontare altri 10 minuti di suoni al limite del funereo, con delle parabole chitarristiche che strizzano l'occhiolino ai brillanti fraseggi melodici dei Saturnus e ci consegnano un gran bel pezzo di suoni plumbei ma atmosferici, che ci accompagneranno fino alla conclusiva "Templum". La song apre lasciando grande spazio alla batteria e a graffianti riff di chitarra che pian piano troveranno il modo di salire in cattedra e lanciarsi in scorribande di isterico post black di scuola statunitense. 'Corpus' è un album interessante, non proprio semplicissimo da approcciare ma che comunque merita un vostro ascolto. (Francesco Scarci)

sabato 6 febbraio 2016

Enisum - Arpitanian Lands

#PER CHI AMA: Shoegaze/Black Atmosferico
Poco meno di un anno fa, il Pozzo dei Dannati descriveva il terzo lavoro dei piemontesi Enisum, 'Samoht Nara', come un miscela di cascadian black e shoegaze. A distanza di 11 mesi, spetta a me raccontarvi di 'Arpitanian Lands', quarta fatica del trio della Val di Susa. L'ingresso nella lunga title track strizza l'occhio agli Alcest e immediatamente conferma quanto descritto dal mio collega nella precedente recensione. Una voce di donna, Epheliin, apre infatti questo brillante disco con i suoi eterei vocalizzi posti su di un arpeggio dal forte sapore folk. Inizia qui il racconto delle terre dell'Arpitania, che abbracciano territori di Italia, Francia e Svizzera, tributandone l'amore della band. La musica di Lys e soci ci accompagna lungo questo viaggio di scoperta, deliziandoci con il loro peculiare black dotato di passaggi atmosferici e frangenti di oscura magia, che hanno il ruolo di esaltare un suono già di per sè assai convincente. "Alpine Peaks" offre la visione estrema delle Alpi che dominano un paesaggio per certi versi estremo, conducendoci per mano sulla cima di quel gigante, creando quel senso di vertigine da far tremare le gambe. Poi alzi lo sguardo, ammiri l'orizzonte, l'apice delle montagne, respiri lentamente e a pieni polmoni con il cuore che rallenta i suoi battiti, e finalmente assapori la bellezza dello scenario che si dipana di fronte agli occhi. La canzone si muove contestualmente, tra arrembanti cavalcate black e frangenti più rallentati che ci danno modo di guardarci attorno e godere. Ma è con "Chiusella's Waters" che i nostri riescono finalmente a fare breccia nella mia anima e inebriarmi con le loro ataviche melodie che narrano del torrente omonimo che scorre in quelle terre e il cui fragore è richiamato da una certa effettistica inserita nel brano, che si muove tra epiche cavalcate e il dischiudersi di splendide melodie. "Mountain's Spirit" si fa notare per la profondità del drumming e comunque, come per le precedenti song, si muove nell'alternanza tra sciabolate black (con tanto di blast beat) e rallentamenti mid-tempo. Le frustrate estreme continuano ancor più violente nella successiva "Rociamlon" (in dialetto piemontese indica il Rocciamelone che è una montagna delle Alpi Graie), anche se qui, le brusche frenate perpetrate dalla band, rischiano quasi di sconfinare nel doom. La voce al vetriolo di Lys si conferma poi come una delle migliori del panorama estremo italico. Un altro arpeggio ed è il momento di "Fauna's Souls", una song permeata di una malinconica aura ancestrale che s'incontra e compenetra con l'irruenza del black degli Enisum, soprattutto a livello del folkloristico break centrale. "The Place Where You Died" include altri otto minuti di estremismi mid-tempo, decadenti melodie inneggiate dallo screaming lacerante di Lys, in una traccia che reputo la più matura e varia del cd. La riflessiva "Desperate Souls" e infine l'incalzante "Sunsets on My Path" (ove i gorgheggi di Epheliin tornano a palesarsi) completano un disco che conferma l'equilibrata evoluzione abbracciata dagli Enisum e paventano la possibilità di aprire a nuovi paesaggi compositivi. (Francesco Scarci)

mercoledì 13 gennaio 2016

A Flourishing Scourge – As Beauty Fades Away

#PER CHI AMA: Black Progressive
Affrontare questa band di Seattle è compito arduo: nei ventotto minuti totali del cd infatti si può trovare di tutto e questo complica davvero le cose. Per iniziare dobbiamo riconoscere che i quattro brani sono belli e originali, che i musicisti in questione si distinguono per fantasia e sensibilità musicale, qualità e tecnica, che 'As Beauty Fades Away' suonerà alle vostre orecchie come ostico, atipico ma anche divino se solo riuscirete a carpirne il significato sonoro. Io ci ho provato, ci ho messo un po' e alla fine ho scoperto con piacere che questi A Flourishing Scourge sono una scommessa sul futuro del metal estremo. Quello che si cela tra le quattro lunghe tracce dell'album è un'attitudine progressiva evoluta (stile Hammers of Misfortune), caparbietà da doom metal band, atmosfere di chiara matrice Agalloch, un'anima death metal alla Anterior, voce nervosa e gutturale alla maniera dei Neurosis e la volontà di stupire tecnicamente tanto cara agli Opeth. Sia chiara una cosa però: gli A Flourishing Scourge non imitano nessuno, non ricalcano le impronte dei maestri, anzi, ne fanno ottimo insegnamento creando nuove strade e nuove aperture mentali. Quindi, le parti più dure opteranno per non essere esasperate ma solamente potenti, saranno più scarne, compresse e leggibili, tirate, contorte ma sempre decifrabili, sulla scia dei mitici Disharmonic Orchestra, tutta tecnica da gustare con quella verve retro rock che in alcune band sludge/doom fa davvero la differenza. Ecco degli assoli pirotecnici, le cavalcate e la doppia cassa che vola, il black metal d'atmosfera ma niente suoni glaciali, banditi in toto. Le sonorità si muovono calde, intense, nessuno spazio al freddo dominante, vietato guardare ai ghiacciai del nord. Il suono si scalda come lava colata, il ghiaccio si scioglie in un'iperbole grigia per aumentare quel senso di malinconia autunnale, momenti di vita che bruciano, quel senso di reale caduta, evanescente e inspiegabile che pervade l'intero disco e che raggiunge apici altissimi nei vari pezzi acustici sparsi qua e là nel disco (con "In Continuum" ad essere il mio brano preferito) . Proprio qui, in queste parti delicate e riflessive, i nostri quattro strumentisti americani trovano la loro ideale collocazione con partiture sofisticate e variegate, nate tra i ricordi delle sculture sonore di 'Damnation' degli Opeth, il capolavoro 'Grace' di Jeff Buckley e 'The White' degli Agalloch. L'artwork estratto da 'Il Trionfo della Morte' di Bruegel completa l'opera in bellezza per questo gioiellino underground autoprodotto in maniera lodevole. Album difficile da catalogare, intenso come i lavori dei mitici Agalloch. Una band seria e motivata, con tutte le carte in regola per approdare ad un full length memorabile. Consigliato. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

sabato 10 ottobre 2015

Chiral - Night Sky

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch, Wolves in the Throne Room
Che sorpresa, anche in Italia esistono le one man band, e soprattutto sembra abbiano più classe di quelle nordiche o di quelle a stelle e strisce, fatte di chitarre ronzanti e screaming disperati. Signori, vi presento i Chiral, ove dietro in realtà si cela Teo Chiral, che dal 2013 porta avanti questo progetto ambizioso di black metal dalle forti tinte folk. Lo si evince dalla opening track di 'Night Sky', "My Temple of Isolation", in cui la comparsa di un certo armamentario strumentistico tipicamente folklorico, incrementa il mio interesse nei confronti della band emiliana di quest'oggi. E se la matrice sonora su cui poi poggiano questi strumenti è un qualcosa che si avvicina a quella proposta dagli Agalloch, potete ben capire il mio entusiasmo nei confronti di questa neo realtà italiana. Certo, come sempre non è tutto oro quel che luccica, ma qui stiamo parlando di un bell'argento placato d'oro. Interessanti infatti i cambi di tempo, l'alternanza tra atmosfere bucoliche e sfuriate black, o la voce stessa di Teo, mai esasperata nel suo palesarsi. Ciò che non sono riuscito proprio a farmi piacere invece il suono troppo plasticoso della batteria, che forse costituisce il vero limite strumentale dei Chiral. Poi devo ammettere che ascoltare la prima traccia è un po' come immergersi nella magia sonica di 'The Mantle', dando quell'impressione di respirare a pieni polmoni l'aria della campagna, stando tranquillamente adagiati sull'erba e scrutando con il naso all'insù il cielo stellato. Dieci minuti di melodie sognanti spezzate dalla furia sovversiva di "Nightside I: Everblack Fields", brano della durata di oltre diciotto minuti, in cui comunque sapranno tornare quegli aromi e quelle essenze nell'aria che hanno reso speciale la prima traccia. Dopo pochi minuti infatti, il riffing selvaggio si tramuta in suoni ambient, in cui il retaggio black dei Chiral rimane solo in sottofondo con delle inquietanti vocals lontane. Per il resto, c'è solo la possibilità di rilassarsi, godendo delle melodie che fuoriescono dagli strumenti del mastermind piacentino. Ovviamente, tutto ha una fine e ben presto l'incantesimo verrà interrotto da nuove sferzate post black e da un nuovo ciclo che ricomincia con frammenti acustici ed intermezzi onirici fino alla terza "Nightside II: Sky Wonder". Qui le armoniose melodie dei Chiral proseguono indisturbate con arpeggi di chitarra avvolti in un'aura sognante, quasi eterea, con addirittura il suono di campane in lontananza a rendere più evocativa la proposta del factotum di Piacenza. Sullo sfondo si stagliano però nubi minacciose che irrompono con brevi sfuriate black, come se si trattasse di un temporale estivo che per una manciata di minuti interrompe la tranquillità di una bella giornata, ma che in realtà ha il merito di amplificare i profumi stagionali. Allo stesso modo fa Chiral con l'inserto di quelle rare galoppate di matrice estrema che rendono il successivo pigolare degli uccellini ancor più magico. Una pausa interamente acustica ci accompagna a "Beneath the Snow and the Fallen Leaves", l'ultima song (dei Chiral) di questo interessante 'Night Sky' che vede la band continuare tra atmosfere soffuse e lunghe ed evocative fughe strumentali dal forte sapore cascadiano. Da rivedere magari l'utilizzo un po' troppo elementare delle keys, ma questa è ovviamente la mia personale opinione. Scrivevo ultima song ma non difatto tale, perchè altre due cover rimangono in attesa di giudizio: "Vestige", della one man band olandese Algos, pezzo non proprio memorabile, non fosse altro per la sua squisita parte acustica. A chiudere il disco ci pensa la cover interamente acustica di "Night Spirit" dei Lustre, forse l'influenza più marcata nel sound dei Chiral. In definitiva, 'Night Sky' è un bel viatico per vedere la band piacentina crescere nel panorama del post black cascadiano, alla luce di un netto miglioramento a livello di songwriting, dopo le escursioni meno raffinate dei precedenti lavori. Applicando ulteriori migliorie, mi aspetto grandissime cose dai Chiral già a partire dal prossimo lavoro, che a questo punto attendo con grande ansia. (Francesco Scarci)

sabato 19 settembre 2015

Potmos Hetoimos - The Paragon Trisagion

#PER CHI AMA: Death/Black/Progressive/Post Metal/Sludge Opera
Che sia un viaggiatore nella vita, è noto da tempo. Altrettanto mi piace fare nella musica: un giorno sono in Nuova Zelanda, il seguente in Polonia e poi ancora in Sud Africa o in Argentina. Oggi il mio viaggio fa tappa in US, Baltimora, per scoprire l'ambizioso progetto di Matt Matheson, la sua one man band Potmos Hetoimos e l'infinito album (solo in termini di durata, per cui non so neppure se arriverò al termine) 'The Paragon Trisagion'. Il lavoro, che vede la partecipazione di una innumerevole serie di ospiti, consta infatti di 21 brani con delle durate che oscillano tra i 4 e gli 11 minuti, con la vetta massima di "Wayward Stars", che dura la bellezza di 55 estenuanti minuti. Ecco facendo due conti, 'The Paragon Trisagion' è un'opera monumentale che si aggira sulle 3 ore e venti di musica che inizia con "Light Wells" che vede Matt muoversi su un territorio assai vicino ad un sound progressive, anche se nelle note della traccia è facile imbattersi in influenze sludge. Notevole l'apporto del sax e di percussioni tribali che continueranno anche nella successiva "Synthetic Eclipse", traccia dal lento incedere, ove compare, in veste di guest, Teemu Mäntynen voce dei Crib45. La song palesa comunque una certa umoralità di fondo che rende il risultato assai vario e mutevole lungo i suoi 10 minuti abbondanti di durata. Un break cibernetico ed è il momento di "Amethyst" in cui, dietro al microfono ecco vedersi Andrew Millar dei Patrons of the Rotting Gate, che abbiamo avuto modo di conoscere anche qui nel Pozzo, il cui furioso spirito battagliero si riflette nelle note di questa song black/death mid-tempo. "Strawgod" ha il piglio malinconico, lo percepisco già dalla melodia di quella che sembra essere un'arpa, per poi evolversi in un altro lungo e tribolato cammino in cui affiorano tutte le influenze del bravo Matt: ambient, post rock, sludge e death coesistono egregiamente in un pezzo, il cui solo limite potrebbe essere costituito da una produzione non sempre all'altezza. "Cherubae" è una traccia strumentale delirante che si muove tra ombre progressive e noise. "Fear and Bright" affonda pienamente le sue radici nel folk. Difficile star dietro all'eccletismo sonoro dei Potmos Hetoimos, perchè da un pezzo all'altro, i nostri subiscono drastici cambi di fisionomia: non stupitevi pertanto se "Queen of the Fire" appaia di primo acchito, un pezzo di black grezzo; avrà comunque modo di rifarsi con splendide chitarre dal sapore cascadiano che inneggiano agli Agalloch. Credo alla fine sia proprio la peculiarità di 'The Paragon Trisagion' quella di apparire come un diamante grezzo che debba essere lavorato e reso più puro. Ma forse sta proprio qui il limite di quest'incredibile opera, che prosegue con la psichedelica ferocia di "Heliamartia" e l'onirica "Adamah, Anima", che mostra forti richiami al rock progressivo anni '70. Si torna a sognare con "Fallow Soil" anche se le sue plumbee atmosfere non mettono decisamente a proprio agio; ma quando sono le chitarre acustiche ad affrescare l'etere, qui accompagnate anche da percussioni tribali, sembra addirittura di trovarci in un mercato di un qualunque paese esotico. Nella rockeggiante "The Devil's Miracles" ecco un altro ospite, Carlos Lozano dei Persefone a regalarci un prezioso assolo in un'altra lunghissima e mutevole canzone che si muove tra suoni mediterranei, fraseggi acustici ed irruenze metalliche. La classe di Matt e dei suoi ospiti emerge forte anche nelle successive tracce grazie ad una musicalità multicolore che continuerà a spaziare tra post metal, ambient, rock e doom, e in cui gli estremismi sonori si ritrovano solo nei vocalizzi gutturali del mastermind statunitense. Mi soffermo infine sui 55 minuti di "Wayward Stars" che fondamentalmente fa da colonna sonora a una breve epica storia che verrà fornita a chi acquisterà la release digitale di questo incredibile musicista, un vero pozzo di idee che nel suo epilogo toccheranno il punto più alto della sua immaginazione e dove convoglieranno tutte le influenze dell'artista del Maryland. Che altro dire se non che 'The Paragon Trisagion' sia il disco più ambizioso che mi sia mai capitato di recensire negli ultimi vent'anni. L'unica nota di demerito per Matt è il fatto di non aver spezzato questo lavoro in tre release separate in termini temporali, cosi da renderle disponibili anche in formato fisico e non solo digitale. La grande abbuffata rischia infatti di far passare in sordina siffatto capolavoro. (Francesco Scarci)

martedì 1 settembre 2015

Hercyn - Dust and Ages

#PER CHI AMA: Post Black/Folk, Agalloch
Non mi nascondo, gli Hercyn li ho osannati in occasione del loro demo cd, 'Magda', un po' meno per lo split album con i There Roya, ma li stavo aspettando al varco. Finalmente esce in questi giorni il loro debut album, 'Dust and Ages' per cui sono assai curioso di saggiare lo stato di forma del quartetto del New Jersey, che tanto mi aveva impressionato per quel sound in stile 'The Mantle' degli Agalloch. Quattro i brani a disposizione, anche se il terzo è in realtà una lunga suite costituita da cinque momenti. Si parte con "Dust", pezzo semi strumentale di quasi quattro minuti che funge più che altro da intro, ove si subodora già la vicinanza ai mostri sacri dell'Oregon. È con "Of Ruin" che inizio a godere: chitarra acustica ed elettrica procedono sincrone, legate da un invisibile filo che serve a donare quell'impercettibile aura magica, di cui avverto 'Dust and Ages' esserne ampiamente avvolto. I suoni po' ovattati sono quasi un must nel genere, le vocals di Ernest Wawiorko sono molto simili a quelle di John Haughm degli Agalloch, ma poco importa. La musica degli Hercyn, pur essendo inevitabilmente derivativa da quella dei ben più famosi colleghi, preserva intatto quello spirito neofolk che avevo saggiato ai loro albori. I quattro musicisti partono poi con le tipiche incursioni malinconiche che si muovono tra il post black e il post rock. Lungo i 14 minuti abbondanti di "Storm Before the Flood" se ne sentono di tutti i colori: si parte da un approccio decisamente brutale, ma poco a poco, la band va in cerca della propria essenza naturistica e la struttura tipicamente black del prologo, lascia spazio ad un mid-tempo più ragionato e onirico, anche se a cadenza puntuale, il sound sfocia in rabbiose galoppate che trovano presto la pace in inebrianti break acustici dal forte sapore rock. A metà brano, e siamo al minuto 7'40" è la splendida abbinata chitarra acustica/basso a solleticare la mia fantasia, consentendomi l'abbandono a soffuse atmosfere rilassante. Ma da li a poco, ecco il rutilante incedere dell'armeria pesante a spezzare ancora una volta l'incantesimo con un riffing epico, che tuttavia non dilapida quello status emotivo che si era fin qui addensato nella mia anima e che troverà peraltro modo di accrescere anche nello spumeggiante assolo di questa lunga song. "Ages" chiude ahimè il debutto degli Hercyn, con 4 minuti e mezzo di delicati arpeggi e il soffice percuotere della batteria. Siamo alla fine di questa prima avventura ufficiale targata Hercyn, ma ne sono certo, sentiremo ben presto parlare di loro. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 24 maggio 2015

In Cauda Venenum - S/t

#PER CHI AMA: Post Black Progressive, The Great Old Ones
La Les Acteurse de l'Ombre Productions ha dato il via a una nuova sottoetichetta, la Emanations, con la quale diffondere, in edizione limitata (digicd o tape, e prossimamente anche in vinile), le release delle band emergenti estreme più interessanti. Iniziamo col conoscere gli In Cauda Venenum, duo francese dedito ad un ferale e apocalittico post black. Due le tracce contenute nei quaranta minuti abbondanti di questo lavoro, che esordisce con "Alpha", song dall'intro ambient/noise volto a rendere più trepidante l'attesa per la musica che andrà a sprigionarsi da qui a breve. La tensione va via via aumentando per diversi istanti, prima che divampi la violenza dei nostri, a materializzarsi attraverso ritmiche intense e screaming vocals demoniache, stemperate tuttavia, spesso e volentieri, da frangenti atmosferici e break melodici. L'elemento cardine su cui poggia il sound dei nostri è un black metal sostenuto, a tratti dai contorni infernali, che tuttavia mette in mostra anche una certa abilità da parte del duo transalpino, nel sapere miscelare una certa veemenza sorretta da blast beat isterici, con eterei sprazzi post rock, rendendo la proposta dell'ensemble di Lyon, assai accattivante. La traccia viaggia comunque sui binari di una certa alternanza tra ritmi infuocati e pause più ragionate in cui emergono le influenze più disparate, dal progressive al doom ossessivo, dal black cascadiano fino a lambire i confini del rock, anche quando verso fine brano, irrompe addirittura un assolo, merce rara da queste parti. La seconda canzone, "Omega", inizia ancora con melliflui attimi di quiete che vanno irrobustendosi quando le chitarre elettriche squarciano l'etere e infiammano l'aria con bordate velenose, urla ferine e ritmi punk. Poi ancora un melodico assolo e cascate di note in tremolo picking, scardinano il concetto di black metal classico, incanalando la proposta degli In Cauda Venenum verso sonorità ancor più personali, intimiste e liturgiche, pur mantenendo intatto uno spirito indomito e battagliero, per un finale a larghi tratti malinconico. Se il buon giorno si vede dal mattino, sentiremo parlare parecchio degli In Cauda Venenum in futuro. Bravi. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod/Emanations - 2015)
Voto: 75

martedì 5 maggio 2015

Sol Sistere - I

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves of the Throne Room, Alda, Addaura
Questa volta la Pest Productions è andata a pescare in Cile, più precisamente nella capitale, Santiago. I Sol Sistere è un terzetto formato da membri ed ex- di altre band che abbiamo già incontrato qui nel Pozzo, Bauda e Animus Mortis, tanto per citarne un paio. La proposta dell'act sud americano è un post black atmosferico (tanto per cambiare) che nelle tre song contenute in 'I', trova modo di citare gli Addaura, gli Alda o i decisamente più conosciuti Wolves of the Throne Room. Gli amanti del black cascadiano troveranno qui nuove scintille illuminanti di un black metal che vive di sussulti furibondi e onirici frangenti atmosferici, come già la opening track, "Relentless Ascension", ha modo di offrire. Sebbene melodici e decisamente piacevoli da ascoltare, il genere inizia a essere sovrassaturo di entità di questo tipo. È già infatti giunto il momento di dare una netta sterzata ad un sound che negli ultimi due-tre anni ha regalato ottime perle musicali (Deafheaven su tutti), ma che, ora come ora, inizia anche a stancare, poiché già povero di soluzioni. E 'I' giunge proprio nel momento sbagliato perché poco ha da regalare di nuovo. Non bastano le cavalcate di "Egregorian", lo screaming animalesco di C. o le notturne sterzate post-rock di "Reborn", per gridare al miracolo; rimaniamo lontani anni luce dai gods americani, che peraltro dovranno inventarsi nuove soluzioni per svecchiare il post black. Superflui. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 60

domenica 8 marzo 2015

Barrowlands - Thane

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch
Vediamo se avete imparato la lezione. Se una band arriva da Portland - Oregon, che genere di musica dovremo aspettarci? Se anche voi avete risposto di getto Cascadian black metal o post black, meriterete un bel 10 in pagella. Si perché i Barrowlands in questo 'Thane', edito dalla cinese Pest Productions, ci propina un 5-track di sonorità nere come la pece, a partire addirittura da un artwork minimalista in bianco e nero. Poi i nostri musicisti, alcuni peraltro coinvolti nel progetto dei Mary Shelley, si abbandonano al black dalle tinte fosche di "Alabaster", la opening track. Il pezzo offre una ritmica semplicistica su cui si staglia lo screaming aspro di David, mentre in sottofondo si può udire il suono di un violoncello, unica vera peculiarità della band della West Coast. Poi qualcosa per cui valga la pena una segnalazione in effetti non c'è, se non una non troppo accentuata vena doomish nella seconda metà del brano. L'approccio apocalittico si mantiene anche nella successiva "Peering Inward", lenta e magmatica nel suo preambolo che vede echeggiare nell'aria un che dei My Dying Bride più primordiali, prima che si diletti nella ricerca di scoppiettanti linee melodiche che regalino frizzanti frangenti atmosferici. La song si muove in seguito sul classico mid-tempo che da copione cita i primi Agalloch, con le chitarre suonate nel tipico tremolo picking. "Mother of Storms" apre con un arpeggio e lascia quanto prima il passo a una cavalcata epica che evoca il sound dei gods più famosi di Portland mixato a quello dei norvegesi Windir. Direi che il momento topico ce lo regala l'intrecciarsi tra le chitarre "tremolanti" e il suono del violoncello, ahimè troppo spesso relegato in secondo piano. "1107" è una lunga traccia malinconica che parte tranquilla e va via via aumentando di intensità, senza però mai convincere appieno e palesando i veri limiti della band. "On Bent Boughs" ci regala gli ultimi lunghi spettrali minuti di 'Thane', grazie alla timbrica greve del violoncello che quando va dileguandosi dal sound dei nostri, lascia una band acerba, come mille altre ve ne sono in giro. La raccomandazione d'obbligo finale sta pertanto nel concedere molto più spazio allo strumento ad arco, incrementando le parti d'atmosfera e mitigando l'asprezza di fondo racchiusa nelle feroci linee di chitarra e nell'acido cantato. C'è ancora molto da lavorare, ma le basi sembrano già buone. (Francesco Scarci) 

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

mercoledì 4 marzo 2015

Enisum - Samoht Nara

#PER CHI AMA: Cascadian Black Metal/Shoegaze, Wolves in the Throne Room, Alcest
Tra le tracce di questo primo album uscito per la Dusktone Records nel 2014, troverete qualcosa di magico, un ponte reale tra la vostra anima e lo spirito della natura, quello più battagliero, romantico e misantropo. La one man band si fa chiamare Enisum e arriva dalla Val di Susa nelle Alpi Piemontesi; tutto il suo concept sonoro è ispirato dalla superba potenza e dalla bellezza dell'ambiente che ci circonda. E l'artwork non lascia ombre di dubbio sul connubio esistente fra musica e la forza di quella natura che ha ispirato questi sette brani di ottimo black folk metal, gelido e potente quanto basta per divenire un piccolo gioiello sotterraneo. La qualità assai alta della produzione rende il suono cristallino e vivace, limpido come una cascata di montagna, le parti folk (o meglio cascadiane) emergono senza prevalere intersecandosi alla perfezione con le incursioni più violente e dinamiche. Anche se leggermente meno corrosivi, gli Enisum ricordano il sound dei Wolves in the Throne Room per l'attitudine oscura, riflessiva e mistica che si protrae per tutti i quarantasei minuti circa di atmosfere spettrali e glaciali, ma dalle forti venature malinconiche e depressive. Le due tracce più lunghe del disco, ovvero "Civrari" e "L'Arvoiri du Cüdlit", racchiudono gli intimi segreti della mente che si cela dietro al monicker Enisum, la cui anima è divisa tra il decadente e l'introspettivo che spesso vira verso un black metal più "morbido" e dalle tinte alternative. Un sound che abbandona spesso e volentieri, ma solo in parte, la strada maestra del defender per esplorare un meltin' pot sonoro molto personale, vedi i cori angelici di "Rüvat Rùciaj", ove un suono astratto ed efficace sorprende anche senza reinventare il genere, lo rielabora con gusto e fantasia, sfoderando una buona padronanza a livello strumentale. Le parti vocali poi si fanno apprezzare nel tipico screaming black, che va alternandosi ad un raro cantato pulito e a cori che potrebbero essere migliorati per raggiungere le vette di Alcest o simili. Nel tirare le somme, possiamo affermare che 'Samoht Nara' è un album decisamente riuscito, accessibile ed intenso, omogeneo, diversamente estremo nelle sue sonorità ancestrali, emotivamente tagliente e penetrante, ricco d'atmosfera e pathos ad effetto. Uno splendido disco per sognatori oscuri. (Bob Stoner)

(Dusktone Records - 2014)
Voto: 80

martedì 2 dicembre 2014

Numenorean - Demo 2014

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch, Fen, Panopticon
Nelle suggestioni fantasy di Tolkien, i Númenóreani (e poi i loro discendenti) furono corrotti da Sauron durante la Caduta di Númenor, e seguirono il re Ar-Pharazôn nella guerra contro Valinor. I Numenorean traggono ispirazione dallo scrittore inglese per quanto concerne il loro monicker, rilasciando questo brillante demo di due pezzi. Il terzetto di Calgary, fin dalle suadenti note iniziali, lascia capire le proprie intenzioni, nonché le palesi influenze musicali. Il sound infatti svelato nell'opening track, "Let Me In", è un post black che fa delle catartiche atmosfere il proprio punto di forza. Otto minuti di suoni invernali, in cui potrete meditare, camminando in uno di quei boschi canadesi resi celebri recentemente in qualche film sugli orsi, visualizzando davanti ai vostri occhi solo il forte contrasto tra il bianco luccichio della neve e l'inteso blu del cielo, mentre il battito del vostro cuore insegue lentamente il riffing delicato dei nostri, che giocano con fraseggi acustici contrapposti a strappi elettrici, su cui campeggiano le mai troppo strazianti vocals di Aidan Crossley. Un po' Agalloch, nella versione più folk, un po' Fen nella componente più aggressiva, i Numenorean vi sapranno esaltare non poco per quel feeling che saranno in grado di emanare. Il tutto confermato anche dalla lunga e sofferta "Follow the Sun", in cui accanto alle influenze citate poco fa, ritroviamo anche un che dei Ne Oliviscaris nelle melodiche e dilatate linee di chitarra, cosi come pure echi degli ultimi Panopticon, per un pezzo che si rincorre e cresce esponenzialmente fino alle sue note conclusive che finiscono per mettere in pace col mondo per quel pathos che sgorga a fiotti dai solchi di questo inatteso demo cd. E se i nostri sono già sotto contratto con una piccola etichetta un perché ci deve pur essere, per cui valga la pena assolutamente di continuare a seguirli con grande attenzione. A questo aggiungete poi un ottimo packaging sia nella versione digipack che nella limited edition numerata a mano, e capirete la gioia di tenere in mano questo piccolo gioiellino di post black atmosferico. Epici! (Francesco Scarci)

(Filth Regime Records - 2014)
Voto: 75

domenica 12 ottobre 2014

Sedna - S/t

#PER CHI AMA: Post Black Sperimentale, Altars of Plagues
Eccoci finalmente alla resa dei conti. I Sedna li seguo da vicino da qualche anno: era infatti la notte di Halloween del 2011 quando li conobbi e ascoltai per la prima volta, in un piccolo locale nel bresciano. Da li a poco recensii il loro EP, li intervistai in radio e da quasi tre anni attendo con ansia il tanto agognato debutto su lunga distanza. Eccomi accontentato. I tre ragazzi di Cesena rilasciano, dopo qualche assestamento di line-up, un 4-tracks costituito da più di 50 minuti di musica cupa e malefica che incarna l'anima dannatamente maledetta del trio romagnolo. Sarà verosimilmente una certa affinità musicale con i defunti Altars of Plagues, o la vena marcatamente diabolica che ristagna nel sound dei nostri, ma il self/titled dei Sedna è un qualcosa che s'imprime nella testa e marchia a fuoco come l'indelebile segno del diavolo. Ma mettiamo un po' d'ordine a tutte queste frasi che introducono 'Sedna'. Dicevamo delle quattro song che costituiscono il cd, che tra l'altro vanta un artwork in bianco e nero squisitamente angosciante. “Sons of the Ocean” apre il disco con i suoi quasi 20 minuti di sonorità tetre e caliginose: sembra infatti il suono di una nave, nelle nebbie di un porto di mare, quelle che si percepiscono nell'incipit della song, prima che le strazianti chitarre di Crisa prendano il sopravvento e ci conducano nella bolgia infernale. Le ritmiche, soffocanti e serrate, corrono veloci, ammantate da un'aura di tormentata malinconia, che sembra trovare pace, almeno per una manciata di secondi, in un break dai vaghi contorni post rock, spezzato dallo screaming efferato del polivalente Crisa. Il ritmo però va lentamente smorzandosi, sprofondando nei meandri assurdi di un cerchio dantesco, probabilmente l'ottavo, dove dimorano maghi e indovini e dove sonorità al limite del drone, fumoso e psichedelico, potrebbero farne da ideale colonna sonora. L'atmosfera è a dir poco spettrale e nel suo irriducibile climax di risalita, la tensione creata è sicuramente di forte inquietudine. L'epilogo acustico ci introduce a “Sons of Isolation”, traccia il cui inizio mi fa pensare a campane che suonano a morte. Potete ben capire lo stato di angoscia persistente che si è instaurata nel mio io, ormai turbato. E dire che non siamo, per lo meno ancora, al cospetto di sonorità depressive-sucidal, ma i giochi di chitarra e basso (a cura della brava Elyza Baphomet), mettono a nudo l'essenza della mia anima, scaraventandomi in un turbinio di ansie e paure, eccitate come elettroni impazziti, dal sound mefitico dei tre, che arriva da li a poco, a toccare il funeral doom, almeno per pochi istanti. Non temete perchè la furia omicida, dettata dal vibrante drumming di Mattia, instaura la sua feroce dittatura, lanciando i nostri in una cavalcata che ondeggia tra il post hardcore teutonico, lo sludge e il black metal cascadiano. Davvero, niente male. Se poi considerate che un incedere marziale (dal flavour leggermente shoegaze) subentra a mischiare le carte in tavola, potrete ben capire la portata di questa esplosiva miscela raggelante. A grandi passi, come quelli inferti dal drummer sul finale del brano, arriviamo alla psicotica traccia “Life_Ritual” in cui compare, in veste di guest, la litanica voce di Stefania Pedretti, meglio conosciuta per le sue performance negli Ovo e nei BTOMIC. L'effetto sul tappetto ambient drone del brano, è come quello di una strega atta a lanciare il suo peggior maleficio. In “Sons of the Ancients”, in aiuto dei nostri arriva Michele Basso (alias Mike B) dei Viscera///. L'incedere è ancora una volta funesto, ossessivo, macabro pur rivelandoci il lato più intimista dei nostri, che ben presto sfocerà in suoni altalenanti e idiosincrasici, sviscerando l'odio dei Sedna attraverso le vetrioliche vocals di Mike e conducendoci nella nona bolgia, quella dei seminatori di discordia. In definitiva, 'Sedna' è ciò che stavo aspettando da tempo dal trio di amici della Romagna, una miscela di corrosivo ed elegante post black sperimentale. Detto questo, vi lascio ai vostri incubi e io torno nel mio loculo per incontrarli, qui all'interno del Pozzo dei Dannati. (Francesco Scarci)

(Drown Within Records/Unquiet Records - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Sedna.O?sk=wall

sabato 23 agosto 2014

Thera Roya / Hercyn - All This Suffering Is Not Enough

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge, Agalloch
Non più di due mesi fa vi parlai dell'EP di debutto dei ragazzoni del New Jersey, Hercyn. Oggi tornano con uno split album in compagnia dei Thera Roya, compagine di Brooklyn, NY, che si è fatta notare lo scorso anno con un EP omonimo all'insegna dello sludge/post metal. Ed ecco che le due band si mettono insieme e rilasciano 'All This Suffering Is Not Enough', dischetto costituito da due lunghi pezzi che testimoniano l'ottimo stato di salute dei due act statunitensi. Partono sobriamente i Thera Roya, con gli otto minuti di "Gluttony": arpeggio educato, atmosfera soffusa shoegaze, vocals pulite ma sofferenti. Poi finalmente qualche chitarrone fa decollare il pezzo, accompagnato ovviamente da vocals più sgraziate, ma quello che prevale e rimane nell'orecchio è quella ritmica quasi post punk, ammantata da suoni indecifrabili in lontananza che conferiscono quasi un'aura mistica al pezzo del terzetto della Grande Mela, per un risultato finale direi apprezzabile. Solo sul finire del brano, il suono acquisisce anche un vago sapore tra il doom e lo stoner, segno comunque di una certa ecletticità dei nostri. E' il turno degli Hercyn, che tanto avevo adorato con 'Magda' e quel suo feeling "Agallocchiano". "Dusk and Dawn" prosegue su quella strada e i suoi 14 minuti mi convincono appieno, sebbene il sound risulti un po' impastato e ne penalizzi il risultato finale. In questa lunga traccia, si fa più forte l'influenza cascadiana nelle parti tirate, con tanto di blast beat funambolici che per un momento mi fanno pensare ad un indurimento del sound. Dopo cinque minuti di martellamenti vari, le nubi vengono spazzate, l'atmosfera si fa più cupa e la musica accresce in malinconia e inizia il giro nel mutevole mondo degli Hercyn. Il ritmo torna a farsi infernale, ma è solo una breve parentesi perchè una bellissima chitarra prende il sopravvento e pennella una splendida e drammatica melodia. Ma non è finita, come su un roller coaster, i nostri ci riportano giù con ritmi forsennati per poi piano piano risalire il binario con modi più tranquillizzanti. Insomma, uno split piacevole che permette, a chi non li conoscesse, di avvicinarsi a due interessanti realtà del panorama USA. E ora attendo i loro full lenght! (Francesco Scarci)

sabato 26 luglio 2014

Dalla Nebbia - The Cusp of the Void

#PER CHI AMA: Black Epic Progressive, Windir, Enslaved, Agalloch
Apro questa recensione ringraziando Jeremy Lewis e la sua infinita pazienza per avermi inviato due copie di 'The Cusp of the Void', e bacchettando poi le poste svizzere che si sono perse una delle due copie. Comunque mi fa specie (e piacere) trovare una band statunitense che sceglie come proprio nome una parola italiana, Dalla Nebbia appunto. I Dalla Nebbia sono un quartetto del South Carolina che debutta su lunga distanza sul finire del 2013 con questo album di black metal progressivo, che raccoglie in realtà le song del demo ('From the Fog') e dell'Ep ('Thy Pale Form...'), precedentemente prodotti dall'ensemble americano. Andiamo meglio ad inquadrare qual'è la proposta dei nostri: dicevo di black progressive e infatti quando "Dimmed Through the Smoke" fa irruzione nel mio stereo con le sue malinconiche melodie autunnali (perfette per questo periodo), mi lascio travolgere dal suo incedere che trae forte ispirazione in primis dai suoni etno-folk cascadiani degli Agalloch, ma anche dalle produzioni più ricercate degli Enslaved. Insomma mica pizza e fichi, questo a dimostrare che la proposta dei nostri assume una certa rilevanza artistica per i suoi contenuti davvero interessanti e mutevoli. La traccia alterna infatti diversi umori con una linea di chitarra flebile e triste che si stampa nella testa e successivamente muta tra bilanciati slanci black, momenti acustici e altri atmosferici, e infine parti corali da brivido. Ottimo il mio giudizio fin qui anche se dopo il solo ascolto della opening track. Irrompe la furia selvaggia di "Standing on the Precipice", song carica e veloce ma avvolta da un'aura magica ed epica, con lo spettro dei Windir che ammanta la song e la carica di puro misticismo. Sono rapito dalla proposta dei Dalla Nebbia, che si rivelano band dotata di grande intelligenza e capacità tecniche. E dire che le song sono vecchie di 2-3 anni, chissà quindi cosa attenderci dalla maturità compositiva di questi ragazzi. "Thanatopsis" conferma le influenze nord europee per il combo, con una traccia ricca di pathos e maestosità, nonostante tracimi del black metal velenoso e incazzato: ci pensano poi degli intermezzi in cui compaiono strumenti ad arco o break rock progressive, a restituire l'ordine a quell'empio caos sonoro su cui i nostri poggiano, ma solo per alcuni frangenti, la loro proposta. Proseguo con la spettrale "Humanity (The True Art)", song che mostra un ipnotico giro di chitarra a guida del pezzo e un chorus liturgico spezzato dalle scorribande sonore dell'axeman Yixja e dal growling acido di Zduhać (simile per certi versi a quello di Grutle Kjellson dei già citati Enslaved). Le song dei Dalla Nebbia continuano a stupire per la loro ecletticità, la capacità di modulare i propri suoni disorientando non poco l'ascoltatore, offrendo un qualcosa a dir poco fenomenale. Speranzoso che stiate già segnando l'ennesimo nome sul vostro taccuino, "Sovereign Moments" mi concede un paio di minuti di tregua con un interludio acustico che ci prepara a "The Apex of Human Sorrow", il brano più brutale del disco che mostra le capacità guerrafondaie di Tiphareth al basso e di Alkurion dietro le pelli, gli ultimi entrati in casa Dalla Nebbia. Non è solo violenza quella offerta da questa song, ma come sempre ci si imbatte nei consueti break acustici, prima di venire nuovamente mitragliati dalla sezione ritmica esplosiva della band. "Shade of Memory" chiude la serranda con i suoi quasi dieci minuti di tenue atmosfere, sperimentazioni varie e accelerazioni black. Il disco non si chiude qui perchè in serbo ha la sorpresa della cover dei Windir, "Black New Age", song del 2001 contenuta in '1184' che anche nella sua rilettura, conserva intatto quel suo spirito epico e battagliero che resero la band di Valfar davvero unica. Onore ai Windir, onore ai Della Nebbia per aver creato questo splendido 'The Cusp of the Void'. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2013)
Voto: 85

https://www.facebook.com/dallanebbiamusic

domenica 29 giugno 2014

Hercyn - Magda

#PER CHI AMA: Post Black/Folk, Agalloch, Arbor, Fen
Visto che in Italia nessuno ha considerato gli statunitensi Hercyn, me ne prendo carico io e vi spiego quanto siano bravi questi quattro ragazzi (3 dei quali sembrano avere origini italiane visti i loro cognomi). La band, di stanza in New Jersey, esiste dal 2011 e 'Magda' rappresenta il loro EP di debutto, uscito sul finire del 2013 (ma contenente materiale scritto tra il 2011 e 2012) e rilasciato tra l'altro, in versione acustica nel 2014. Interessante l'esperimento dei nostri nel coniugare tutte le loro influenze in un'unica song, "Magda" appunto. Ventiquattro minuti di sonorità da brividi che in un climax ascendente emozionale, sapranno scaldarvi il cuore. Il brano inizia in modo assai ispirato, un po' come accadde una decina d'anni fa, per 'The Mantle' degli Agalloch. Atmosfere soffuse, giri di chitarra acustico/elettrici da brividi, e piano piano il suon cresce fino a quando una batteria inizia a martellare in modo forsennato e le vocals di Ernest Wawiorko emergono nel proprio stile, uno screaming al vetriolo. Il sound dei nostri si sviluppa poi in realtà su un mid-tempo ragionato, che qualcuno definisce post-black, qualcun'altro cascadian venato di influenze folk: tutte queste definizioni alla fine calzano a pennello per i nostri. La band non si tira certo indietro quando c'è da pestare sull'acceleratore (la parte centrale della song ne è un esempio), ma il tutto viene edulcorato dall'eccellente lavoro fatto dalle chitarre che dipingono decadenti paesaggi autunnali, con le loro splendide melodie. Ancora una volta ripenso a 'The Mantle' (per me il miglior disco degli Agalloch), ma anche agli inglesi Fen o agli Arbor di Portland. Tuttavia non manca una personale visione da parte degli Hercyn, band dotata di grande carisma e intelligenza, che mi sentirei di suggerire a etichette nostrane (Aural ad esempio). Interessanti poi le visioni psichedeliche, palesate dall'ensemble di Jersey City, sul finire del brano, che mostrano l'ecletticità dei 4 americani. I margini di miglioramento per la band sono assai ampi e il voto ribassato di mezzo punto, rispecchia la fiducia e l'aspettativa che conservo nel sentire un nuovo full lenght dotato di una bellezza infinita. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Hercyn

domenica 11 maggio 2014

Paramnesia - IV-V

#PER CHI AMA: Post Black
Non tutte le ciambelle escono con il buco. Questa breve sentenza per certificare che le uscite Ladlo Productions (che ha appena rilasciato il meraviglioso come back discografico dei The Great Old Ones) non rispecchiano necessariamente standard qualitativi eccelsi. Oggi è il turno dei francesi Paramnesia, che con questo 'IV-V' debuttano ufficialmente su lunga distanza, dopo un EP e uno split con gli Unru. Ebbene, la one man band di Strasburgo, capitanata da Pierre Perichaud (stranamente un batterista), ci offre due lunghe tracce (appunto "IV" e "V" per 40 minuti di musica) di ignorante cascadian black metal. Siamo ahimè lontani dagli standard americani di act quali Wolves in the Throne Room, Panopticon o Deafheaven. La proposta del musicista transalpino infatti si pone come un impasto sonoro che tributa la sua sofferente offerta al caos primordiale, sebbene un tranquillo inizio acustico. Poi è l'inferno a palesarsi con sferzate ritmiche di violenza estrema, flebili urla atroci, blast beat irrefrenabili e un sound cosi rozzo che in taluni casi è addirittura complicato decifrare quello che fuoriesce dalle casse. Il feeling malinconico caratteristico del genere è ben presente nelle linee di chitarra del factotum alsaziano, soprattutto in quei momenti in cui il vento gelido del nord smette di soffiare e oscuri e rarefatti momenti di quiete trovano modo di placare la tempestosa inquietudine di Pierre. Mettiamoci una registrazione non proprio limpidissima e potrete intuire quanto sia poco digeribile l'ascolto di questa release. La seconda "V" apre lenta e disarmonica, con le chitarre che sembrano voler imitare una delle stralunate band norvegesi (a me sono venuti in mente i Ved Buens Ende). Un paio minuti di calma apparente e poi ecco riesplodere un groviglio fatto di allucinate chitarre marcescenti e un martellare intrepido dietro le pelli, con un aura melmosa e nefasta che ne avvolge l'intera composizione. Il sottoscritto è un fan del black metal cascadiano, di quello dalle ritmiche serrate ma corredato da melodie coinvolgenti di sottofondo; qui c'è ben poco di tutto questo se non una infernale matassa di suoni, che si sbrogliano tra galoppate black, atmosfere minimal/suicidal e frangenti al limite del funeral doom. Difficile pertanto affermare che il prodotto che ho tra le mani sia un qualcosa di cui ci ricorderemo a lungo, se non per quel suo meraviglioso digipack, che abbina parti opache ad altre lucide a creare un effetto tridimensionale, davvero affascinante. Poca roba però per un onesto album black. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 60

http://paramnesiaxpa.bandcamp.com/

venerdì 9 maggio 2014

Woman is the Earth - Depths

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
Che sia il fenomeno musicale del momento è sotto gli occhi di tutti; il post-black, che va ormai a braccetto con il cascadian sound, ha raggiunto grandi vette di popolarità grazie ad act quali Deafheaven, Wolves in the Throne Room, Altar of Plagues e recentemente ai, da poco recensiti, The Great Old Ones. Calcando l'onda del successo del genere, ritornano i Woman is the Earth, che già avevamo potuto apprezzare in occasione del loro secondo lavoro, 'This Place that Contains my Spirit', pochi mesi fa. Il come back discografico è affidato ad un nuovo ma breve lp di tre pezzi, 'Depths', che esce per la Init Records e che mette in luce una progressione musicale assai interessante per il combo del South Dakota. Il trittico di song si apre con "Crown & Bone/Dreamer", lungo e malinconico brano di oltre 10 minuti, in cui il trio di Rapid City, torna a graffiare con un muro sonoro lo-fi, in cui a battagliare sono furibonde epiche cavalcate con apocalittiche atmosfere, corredate da mortifere screaming vocals e qualche raro momento acustico. Attenzione però che qualcosa si muove a livello musicale, con una vena progressiva che sembra materializzarsi timidamente a livello solistico. Lo preannunciavo nella precedente recensione che ne avremo sentite delle belle, se solo le idee fossero incanalate in modo migliore e i nostri sembrano essere in effetti sulla strada giusta. Soprattutto quando è la strumentale "Lifted" a materializzarsi nelle mie orecchie, che offre una sezione ritmica, affidata alle sei corde di Andy e Jarrod, alquanto imprevedibile: caldi intrecci di chitarre deliziano infatti i miei timpani in una song elegante e dal piglio post-rock. Una lunga apertura corale ci introduce a "Child of Sky" che poi ci prende per mano con il suo riffing furioso intriso di disperazione, accompagnato dall'incessante martellare di Jon alle pelli e dalle viscerali vocals di Jarrod. Ahimè il cd termina qui, lasciandomi un po' con l'amaro in bocca, perchè sinceramente avrei gradito almeno un altro paio di song a soddisfare la mia sete infinita di suoni cascadiani. Buon passo in avanti per l'ensemble statunitense, ma solo mezzo punto in più rispetto al precedente lavoro, semplicemente per le poche song proposte. Attendo fiducioso per un imminente futuro. (Francesco Scarci)

(Init Records - 2014)
Voto: 70

giovedì 1 maggio 2014

The Great Old Ones - Tekeli-li

#PER CHI AMA: Post Black, Altar of Plagues, Blut Aus Nord, Deafheaven
Ne avevo ricevuto un breve assaggio sul sito web della band e già stavo pregustando l'ascolto del full length. Finalmente ho fra le mani 'Tekeli-li', secondo atto dei francesi The Great Old Ones (TGOO) che tanto successo hanno riscosso, nei meandri dell'underground, col precedente 'Al Azif', tanto da creare una profonda attesa per il loro come back discografico. Non so se sia per il recente scioglimento degli Altar of Plagues o cos'altro, ma spasmodica è la ricerca di una band degna di questo nome che possa collocarsi nei cuori dei fan, per sostituire il mostruoso act irlandese, ormai andato. E questa volta la nostra ricerca pare essere andata a buon fine. I TGOO hanno colpito nel segno con uno splendido lavoro di sei pezzi, già di per sé magistralmente confezionato (bello il digipack, ancor di più il doppio Lp). Ma veniamo al roboante incedere dei brani che dopo la delicata intro, si materializzano in musica con "Antarctica", minacciosa song che delinea immediatamente il ruvido approccio post black del quintetto di Bordeaux, il cui concept si rifà ancora una volta al buon vecchio H.P. Lovecraft e al lamento, appunto il 'Tekeli-li', dei suoi mostri immaginari, gli Shoggoth (per ulteriori dettagli però, vi rimando alla lettura de 'Alle Montagne della Follia'). L'attacco è pesante e limaccioso, un effluvio di dolore perpetrato con lentezza disarmante, che ci prepara al fragoroso attacco che sarà inferto da li a poco, con le chitarre malate che sembrano fuoriuscire dalle viscere dell'inferno, confermando le già eccellenti (e malefiche) sensazioni che avevo avuto dall'ascolto del precedente album. Il vento soffia timido in "The Elder Things", song che mostra un lato più riflessivo dei TGOO, segnato da linee melodiche a cavallo tra il depressive e il black cascadiano, in un vortice sonoro che assume i connotati della doppia elica del DNA e cresce cresce, mutando in cancerogeniche cellule che conducono alla formazione di un mostruoso essere, lo Shoggoth, creatura amorfa dal catramoso aspetto esterno. Cosi come quel venefico ameba, la musica dei TGOO si plasma portando terrore e oppressione, complice anche le tenebrose ambientazioni e le orrorifiche vocals di Jeff Grimal, che nella successiva "Awakening" blatera qualcosa in francese, mentre la musica si propaga funerea come un blob assassino. Mancava una componente funeral nella matrice musicale del 5-piece dell'Aquitania e direi che qui calza a pennello, contribuendo ad alimentare quell'innato senso d'angoscia che l'ascolto di 'Tekeli-li' genera fin dalle sue note iniziali. Assai convincente però è l'evoluzione di questo brano che tra sfuriate black, rallentamenti parossistici, intermezzi psichedelici, harsh e clean vocals, forse si presenta come la traccia più varia della release, che sicuramente farà la gioia di chi ama Blut Aus Nord, Wolves in the Throne Room e Deathspell Omega, nomi di un certo spessore che decretano il raggiungimento di una invidiabile maturità artistica anche da parte dei TGOO, sebbene i soli 2 album all'attivo. Mentre sono qui a elaborare sensati pensieri, esplode la funambolica e strumentale "The Ascend", un aggressione sonora all'arma bianca, selvaggia e quanto mai avvincente, che dopo essersi scaricata, trova un po' di pace nei suoi 90 secondi finali. Pronti per la maratona conclusiva? Mancano infatti i quasi 18 minuti di "Behind The Mountains", ultimo monolitico atto che a fronte di un acustico prologo, trova ben presto modo di sfociare in violente scorribande black, in grado di alternarsi a squilibrati e schizoidi cambi ritmici, intimistici e malinconici break arpeggiati sorretti da urla ferali, dando dimostrazione di classe ed eleganza. Ebbene, non saprei che altro aggiungere se non che i The Great Old Ones possono essere dei predestinati. Mostruosi. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 85

http://www.thegreatoldonesband.com/