Cerca nel blog

sabato 23 febbraio 2019

Marsala - S/t

#PER CHI AMA: Elettronica/Ambient, Tangerine Dream, Brian Eno
Immaginate i Tangerine Dream che fanno sesso non protetto con i 65DaysOfStatic mentre Brian Eno filma tutto: forse — dico, forse — avrete un’idea di cosa c’è nella testa di Andrea J. Marsala, qui al debutto con il suo primo lavoro solista. Con l’opening “Slipping Into Open Flesh” ci si spalanca davanti un universo strumentale di macchinari smisurati, ben raccontati dalla ritmica industrial sullo sfondo, su cui si stratificano incessanti dissonanze oscure e gorgoglianti. Si torna a respirare in “Drowning in the Void”, con un organo prima e un arpeggiator poi, a guidare i movimenti. “Wide Open Wound” ha il sapore allucinato dell’oriente etnico con i suoi strumenti misteriosi. Una voce campionata introduce “The Distrophic Dancer”, costruita su un groove di synth-bass tanto lineare quanto mesmerizzante, che lascia spazio ad una immensa cacofonia di fiati sul finale. String sintetici fanno da contraltare ad un basso sussurrato in chiave maggiore su “Streams of Light”, che prelude all’orchestrale “Sipario”: una batteria new-wave guida un’opprimente marcia militare di archi e flauti, che diventa inquietante con l’ingresso di una voce che sembra rivolgersi a divinità sconosciute. Chiude “Ultime Fatiche sulla Via del Ritorno”, lunga parentesi ambient guidata da voci campionate, pad sintetici ed echi sottomarini, in un epico crescendo di disturbi noise. Marsala conosce bene il suo mestiere: l’amalgama di musica elettronica e acustica è in perfetto equilibrio, sempre in tensione tra luce e oscurità, tra pace e inquietudine, tra digitale e analogico. Un lavoro di songwriting tutt’altro che banale, forse penalizzato da alcuni synth un po’ ridondanti e da una tracklist che sembra concentrare il lavoro a “capitoli”, anziché prediligere una sequenza dei brani più fluida ed omogenea. Piccole imperfezioni comunque, per un signor disco uscito solo pochi giorni fa (il 20 febbraio) e per cui attendo già impaziente Marsala al varco con il successivo lavoro. (Stefano Torregrossa)

(Wallace/Brigadisco/Dreamingorilla Records - 2019)
Voto: 75

https://soundcloud.com/user-716986154

Soliloquium - Contemplations

#PER CHI AMA: Death/Doom/Shoegaze, primi Katatonia
Mi spiace constatare che in Italia pochi si siano accorti degli svedesi Soliloquium, un duo originario di Stoccolma, che con 'Contemplations' taglia il traguardo del secondo album, che si va ad aggiungere ad un altro paio di EP ed una compilation. Il contenuto del disco è all'insegna di un death doom, come già il moniker della band poteva lasciar immaginare. L'album si apre con la lunga "Chains", e le sue chitarre pregne di malinconia, che ricordano un ibrido tra i Katatonia di 'Brave Murder Day' e i My Dying Bride, in un'atmosfera sospesa tra il cupo lirismo e un mood a tratti struggente, come evidenziato nel break centrale della song stessa, dove anche un che dei Saturnus sembra emergere dalle note dell'opening track, soprattutto a livello vocale, dove il growling di Stefan è per certi versi accostabile a quello del suo collega danese. Nel finale della song, laddove emergono anche delle clean vocals, le chitarre cambiano ancora e vedono avvicinare i nostri a 'Shades of God' dei Paradise Lost. Direi che il quadro è ora ben chiaro e definito, delineando a grandi tratti lo sviluppo sonoro di 'Contemplations'. "Catharsis" tuttavia va aggiungere ulteriore carne al fuoco con un accostamento acustico e vocale con i norvegesi Oberon, almeno nella prima parte della song. Nella seconda metà infatti, i nostri tornano a pestare sull'acceleratore, ma il brano si rivela mutevole e quanto mai interessante, mostrando alla fine l'ecletticità sonora di cui è dotato il combo scandinavo. "Streetlights" è un inedito pezzo strumentale, dotato di un carattere un po' dissonante, quasi jazzato, assai oscuro e quanto mai originale. Con "22" sembra che i due svedesi si vadano a rifugiare in un qualcosa di 'The Silent Enigma' degli Anathema, anche se qui la ritmica è più spinta con furiate death (blast beat inclusi) che si alternano con arpeggiati estremamente malinconici, e contestualmente fanno le vocals, con growl, pulito e scream ad avvicendarsi in una progressione davvero varia ed entusiasmante. Diciamo chiaramente che tutto il contenuto di 'Contemplations' ha dei livelli qualitativi medio alti, anche e soprattutto in fatto di originalità. Se ascoltate la lamentosa "Unfulfilling Prophecy" potrete capire di cosa stia parlando, una canzone dai tratti shoegaze/post-rock che sembra rappresentare una sorta di pausa virtuale nell'ascolto del disco, uno spartiacque con gli ultimi pezzi del cd, che include ancora "For the Accursed", "In Affect" e "Wanderlust". La prima apre con un'altra parte acustica di chitarra, che si trasmuterà in una splendida melodia che guiderà una song dal sapore semi-strumentale (la voce è fondamentalmente relegata a poche strofe finali), che ancora una volta prende le distanze dal death doom classico per lanciarsi in eteree partiture shoegaze. "In Affect" prosegue almeno inizialmente su questa scia, anche se tornerà forte la voglia dei nostri di muoversi in quel death doom melodico di scuola Katatonia, che poi è stato ripreso da gente come Rapture o Enshine. Il risultato è assai buono e apre a potenziali nuovi scenari per un genere che mi sembra da un po' di tempo chiuso in schemi un po' troppo prestabiliti, stantii e poco originali. "Wanderlust" è l'ultimo atto di questo inatteso 'Contemplations', un'altra lunga track di quasi nove minuti che ci consegna ritmiche un po' più tese e drammatiche, ma sempre e comunque estremamente melodiche che vanno a chiudersi in un lungo assolo conclusivo che sostiene l'eccelsa qualità di quest'opera consigliatissima. (Francesco Scarci)

(Transcending Records - 2018)
Voto: 85

https://soliloquium.bandcamp.com/

venerdì 22 febbraio 2019

Crocell - Relics

#PER CHI AMA: Black/Death/Sludge
Poco meno di un anno fa, usciva per la Longlife Records il quinto album dei danesi Crocell, band che francamente ignoravo fino ad oggi, ma per cui ora ho tutto il tempo per recuperare la loro discografia. 'Relics' arriva a tre anni di distanza dal precedente 'Prophet's Breath' e ha a disposizione un armamentario di nove ulceranti brani per dissipare tutta la tumultuosa energia del quintetto di Aarhus, e vi assicuro che ce n'è parecchia. I nostri iniziano infatti a picchiare come forsennati già dall'iniziale "Black Death Redemption"; senza pensarci troppo sopra infatti, si lanciano in un'offensiva armata con un concentrato micidiale di black/death melodico (non troppo sia chiaro) che talvolta rallenta nel suo impetuoso incedere, assestandosi su un più melmoso mid-tempo, per poi ripartire più forte che mai, con un fare più ammiccante al punk-hardcore. Smaciullati dall'opening track, si passa a "Once Called Slaves", brano da cui è stato peraltro estratto il video promozionale del cd: qui l'aura è decisamente più oscura e pesante, ma ben presto i ritmi si faranno più dritti e incalzanti, con la voce di Asbjörn Steffensen che si pone a metà strada tra growl e scream. Più controllata, ma solo per una manciata di secondi iniziali, "Conqueror’s Tyranny", visto che poi si fanno largo violentissimi riffoni di chitarra sparati a tutta velocità tra hyper blast beat e brevi strappi solistici che interrompono quella furia che ci accompagnerà, come la più classica tempesta perfetta, fino al termine del brano. Onestamente non vedo grossi cedimenti nell'impenetrabile muro ritmico innalzato dai cinque danesi. Anche con "Tombworld" infatti, i nostri spaccano che è un piacere, profondendo violenza e dedizione tecnica come se non ci fosse un domani. Qui la melodia è riposta decisamente in soffitta e ben poco spazio è riservato anche alla possibilità di fischiettare una qualunque melodia sotto la doccia. Annichilito da cotanta rabbia, proseguo nell'ascolto di "Plague Altar" e qui, se qualcuno se lo stesse chiedendo, l'impressione è quella che il suono diventi ancor più ruvido. Non fosse altro per uno strano break sonoro che interrompe le intemperanze dell'ensemble danese, avrei alzato bandiera bianca già dopo 90 secondi. Non c'è stato tempo fino ad ora di prendere una boccata d'ossigeno e riposare il cervello dalla carneficina messa in atto dai Crocell: finalmente con "Last Dawn Duet", gli animi si placano un pochino e il sound si fa plumbeo e minaccioso, sprofondando quasi in una sorta di sludge death che ci mostra una versione inedita della band. Ma non pensiate che i cinque virgulti nordici stiano qui a coccollarvi, perchè le mazzate riprenderanno a breve. Se vi mancava la dose di melodia quotidiana, eccovi accontentati con "Mammon Rise", una sorta di tributo ai Dark Tranquillity. Sebbene la matrice chitarristica richiami talvolta anche il black scandinavo, il brano è cosi vario che nel finale riesce addirittura a rallentare paurosamente e mettere in scena un ottimo assolo, seppur sempre di breve durata. Ah, braccino corto. Con "Liar's Labyrinth", l'ensemble ha ancora tempo per dire la propria in fatto di violenza, lanciandosi in un ultimo assalto all'arma bianca prima della conclusiva e strumentale "World at Its End", l'ultimo atto di quiete semi-acustica volta a placare gli animi istigati alla più brutale delle violenze. 'Relics' è un disco ruvido, che certamente poco spazio lascia alla melodia e tanto meno alla sperimentazione. Tuttavia ha la grande capacità di condurci dall'inizio alla fine attraverso un turbolento percorso musicale che non lascia alcun scampo. (Francesco Scarci)

(Longlife Records - 2018)
Voto: 75

https://crocelldk.bandcamp.com/album/relics

giovedì 21 febbraio 2019

Kvalvaag - Seid

#PER CHI AMA: Symph Black, primi Dimmu Borgir
Dalla Norvegia con furore. Eccolo il comeback discografico, il terzo, dei blacksters Kvalvaag, intitolato 'Seid'. Fuori per la nostrana Dusktone Records, i due scafati musicisti di Oslo (sono infatti anche membri di Troll, Astaroth e Dødsfall) ci propinano un black metal dalle tinte orchestrali, sulla scia dei primi Dimmu Borgir. Sette i pezzi per quasi 40 minuti di musica che si materializzano con l'opener "Mare" e le sue spettrali tastiere introduttive che ci lasciano intuire la proposta del duo scandinavo. Presto detto e si scatenano le ritmiche selvagge su cui s'innesta lo screaming arcigno di Kvalvaag e le sue diaboliche keys che guideranno l'evolversi del brano in un vortice di blast beat che ci riporta in mente i suoni degli anni '90 (penso ai Bal Sagoth), edulcorati però da epici cori. Non male, anche se mi verrebbe da dire che siamo fuori tempo massimo, ma nell'ultimo periodo stiamo assistendo a questa rinascita (o riesumazione, chiamatela come vi pare) del black sinfonico, quindi godiamoci quanto di buono compare sul mercato. "Nattegrøde" potrebbe evocare un che di 'For All Tid' dei Dimmu Borgir: il sound è crudo e secco, cosi come la voce del frontman norvegese, ma le tastierine in sottofondo hanno sempre un certo effetto catalizzante. Non aspettatevi però grandi invenzioni, questi sono stati ormai proposti già 25 anni fa. "Volvesang Om Undergang" è devastante, il classico treno impazzito, deragliato e spinto a tutta forza fuori dai binari, che trova un break centrale dal forte sapore folklorico che ha un che dei primi Einherjer. Con "Bergtatt" non si cambia granchè registro, lasciando sempre ampio spazio all'irruenza delle ritmiche e all'effetto old school delle tastiere; l'unica cosa su cui sarebbe da soffermarsi è l'efficace lirismo del chorus che si va ad inserire nel pomposo sound dei nostri. La quinta song vede invece i Kvalvaag coverizzare più che egregiamente, i Gehenna e la loro “Vinterriket”, estratta da 'Seen Through The Veils Of Darkness', in un esperimento già visto fare in passato dalla band quando ripropose Mysticum e Troll. Se la breve title track sembra provenire da una B-side di 'Kveldssanger' degli Ulver, vista la sua veste acustic folk, in chiusura, la band si affida ancora a suoni dirompenti, quelli di “I Dyrets Tegn”, feroce e old school, ancor malefica nei suoi tratti oscuri che avvolgono e stritolano l'ascoltatore nelle sue spire del male, in quella che forse risulterà essere la mia song preferita di questo 'Seid', lavoro onesto, ma che nulla di nuovo aggiunge alla scena. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2018)
Voto: 65

https://dusktone.bandcamp.com/album/seid

martedì 19 febbraio 2019

L'Avversario - Lo Specchio

#PER CHI AMA: Electro-pop
Un disco palindromo, uno specchio che riflette se stesso, un uroboro musicale che si ritorce su se stesso. 'Lo Specchio' è un disco contorsionista, l’idea non è facile da rendere, tantomeno da concepire, tuttavia, seppur molto efficace nella comunicazione, questa sua caratteristica “a specchio” non è quella che salta alle orecchie come la principale particolarità della musica de L'Avversario. I testi e l’intenzione electro-pop, vicina quasi al trip hop, mi coinvolgono più del mirroring; ci sono canzoni struggenti, emozioni intense e scorci di quotidianità pregni di emozioni. Un esempio è il brano "20 Anni", che nel suo robotico incedere, descrive com’è la sensazione di guardarsi indietro, del sentire lo scandire del tempo che avanza inesorabile ma anche del riconoscere la bellezza pura e immortale di una nonna che si prende cura della sua famiglia. Il pezzo è contrapposto alla psichedelia di "Canzone Celiaca", con i suoi immaginari impossibili di meduse impazzite e radiazioni solari. Se si ascoltano una dietro l’altra, le due canzoni hanno un che di familiare, ovviamente se non lo sapessi non riuscirei a notare la natura palindroma delle due, seppur l’ascolto delle due mi lasci una strana sensazione di vertigine non meglio definita. Il pezzo di raccordo de 'Lo Specchio' è "Bucarest": qui la voce di Andrea sembra cercare la sua umanità perduta attraverso un abbraccio o la vicinanza di qualcuno. A metà del brano il disco si rigira su se stesso, non si nota subito ma verso i tre minuti si capisce che si sta ascoltando qualcosa di altamente inusuale, per via di un incantesimo maligno che sembra pervadere il brano, un incantesimo che rimane in testa e non se ne va. L’ascolto de 'Lo Specchio' è un’esperienza mistica, qualcosa che va al di là dei soliti ascolti; nonostante la sua natura palindroma non sia così evidente, al contrario invece della sua spiccata originalità a livello di songwriting e poetica, l’esperimento si può considerare pienamente riuscito. Attendo con curiosità la prossima prova de L’Avversario, chissà cosa s'inventerà la prossima volta il buon Andrea Manenti, mente di questo progetto? Un disco senza consonanti? Un disco con formule matematiche al posto delle parole? Un disco normale ma registrato ed eseguito a testa in giù? Staremo a vedere, nel frattempo godiamoci 'Lo Specchio'. (Matteo Baldi)

Lightpole - Dusk

#PER CHI AMA: Alternative Psych Rock
Non c’è che dire, i Lightpole, ambizioso quartetto di Macerata attivo dal 2015, hanno le idee chiare: sfruttare al massimo le possibilità sonore offerte dall’elettronica applicandole ad una solida base rock, per confezionare una miscela in grado di far scuotere le teste ed emozionare i cuori. Missione che senza dubbio risulta riuscita con questo 'Dusk', un lavoro che esprime appieno tutte le qualità tecniche del gruppo, alla prima prova su long playing, e che evidenzia una cura maniacale per i dettagli, oltre che l’abilità nel combinare elementi musicali orecchiabili a tematiche impegnate e atmosfere piuttosto cupe. Ci troviamo di fronte a nove tracce dalle influenze variegate: art-rock in stile Muse, schitarrate schiacciasassi degne dei pezzi più malati dei Queens of the Stone Age e l’elettronica malinconica che ricorda i Depeche Mode di 'Sounds of the Universe', in un continuo alternarsi di ritmiche infiammate a momenti in cui i Lightpole lasciano spazio a melodie più intime e riflessive. A dominare sono i colori del crepuscolo, che ispirano il titolo e l’artwork dell’album, forse un monito per l’ascoltatore nei confronti di un futuro probabilmente ritenuto (non a torto) dalla band poco roseo, benché i contenuti dei testi non siano immediati e manchino riferimenti evidenti. Memorabile è la traccia di apertura “The Hucksters' Meal”, caratterizzata da inquietanti effetti ambient di sottofondo, da ritmiche tribali di batteria e soprattutto da profondissimi bassi che supportano gli isterismi della chitarra ed un cantato molto effettato, mentre colpisce per eleganza e modernità “What You Leave Back”, brano dalle coordinate nettamente rock, ma alleggerito da armonie di tastiera e dall’apporto degli archi. In “The Founding Father” viene dato libero sfogo alla dinamica scatenata delle percussioni e alla componente chitarristica, mentre nelle successive “Collapse”, “Saṃsāra” ed “Euphelia”, guadagnano maggior spazio delicati effetti elettronici ed intricate strutture di synth, decisamente più adatte allo scopo di ricreare atmosfere oniriche e meditative. Troviamo però un limite in questa apparente perfezione: se da un lato ogni impalcatura sonora è ben calibrata, ogni strumento esegue il suo compito alla perfezione e ogni elemento s'incastra magistralmente nella trama generale, dall’altro ci accorgiamo di una certa ostinazione nello sviluppare i brani esclusivamente in orizzontale, reiterando le medesime soluzioni senza smarcarsi troppo dal canovaccio iniziale e lasciando alla sola batteria il compito di muoverne la dinamica. Questo diventa evidente nei pezzi più lunghi e lenti (“Wakes” e l’outro “Shadows”), che alla lunga generano una sensazione di monotonia, o in “The Same Old Glory”, che avrebbe meritato uno sviluppo migliore. Critica che ad ogni modo non va ad intaccare la freschezza della proposta nel suo complesso né il gran lavoro dei Lightpole, di cui attendiamo con interesse, sviluppi futuri. (Shadowsofthesun)

(Overdub Recordings - 2018)
Voto: 70

https://lightpoleofficial.bandcamp.com/album/dusk

lunedì 18 febbraio 2019

Space Aliens From Outer Space - Nebulosity

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Progressive
Un astrofisico statunitense nel 1961 formulò un’equazione per determinare il numero di civiltà extraterrestri presenti nella Via Lattea in grado di comunicare, poco più di un simpatico esercizio matematico che non tiene conto di una considerazione fondamentale: è molto difficile che degli alieni avvertano il bisogno di parlarci, a meno che non vogliano tentare la masochistica impresa di salvarci dall’autodistruzione. 

A Torino, vertice di geometrie esoteriche e infrastrutturali, l’improbabile si è trasformato in realtà quando dei missionari cosmici, gli Space Aliens From Outer Space, hanno deciso di atterrarvi per portare il loro“messaggio di luce” alla nostra triste umanità, un tentativo di primo contatto che giunge al suo quarto stadio con 'Nebulosity', album firmato dall’etichetta nostrana Escape From Today e dalla belga Cheap Satanism. 

Il progetto è un mix di rock psichedelico, progressive rock ed elettronica, a metà strada tra la synth-wave e le colonne sonore di John Carpenter, il tutto efficacemente accompagnato da un’estetica sci-fi che trasforma Paul Beauchamp (Almagest!, Blind Cave Salamander, Coypu), Daniele Pagliero (Lo Dev Alm, Frammenti, All Scars Orchestra), Francesco Mulassano e la nuova arrivata dietro le pelli, Maria Mallol Moya (Gianni Giublena Rosacroce, Lame, Natura Morta) in una vera e propria delegazione proveniente dalle stelle, pronta a sconvolgere gli arretrati terrestri con abiti argentati, attrezzature futuristiche ed un sound fuori dal comune. 

L’opera si configura come il racconto di un viaggio tra gli spazi siderali che ha inizio con le maestose melodie di sintetizzatore di “Asterism”, che si snodano tra percussioni lisergiche e il pervasivo uso del vocoder di Paul, da sempre marchio di fabbrica del gruppo. La navigazione si fa decisamente più turbolenta in “Trajectory”, brano appesantito da decisi colpi di batteria e caratterizzato dagli avvolgenti tappeti di tastiera che sembrano farsi largo tra asteroidi in collisione ed esplosioni di supernove, per poi stabilizzarsi con “Entanglement”, in cui le varie componenti elettroniche della band si inseguono lungo orbite fantascientifiche, richiamando Kraftwerk e Tangerine Dream, per poi ricompattarsi nella ritmica magnetica di “Propulsion”, durante la quale i nostri quattro esploratori sembrano voler aumentare la potenza dei motori per lanciarsi nella seconda parte dell’album. 

Con “Into The Nebula” affrontiamo un brusco cambio di rotta che ci porta attraverso territori meno idilliaci, ma ogni timore viene spazzato via quando Maria Mallol inizia a maltrattare piatti e pelli in un crescendo di dinamica, operazione che si ripete anche in “The Outer Realms”, brano estremamente ritmato e ricco di variazioni in cui la nuova batterista offre una grande prova. In “Particle Horizon” l’elettronica eterea ci lascia galleggiare come particelle neutre in precario equilibrio tra forze gravitazionali contrastanti, una sorta di quiete prima della tempesta sonora di “Starchaser”, brano ispirato all’omonimo film di animazione del 1985 e quasi stoner per potenza, perfetta colonna sonora della furiosa battaglia spaziale che si consuma tra le armate dell’ennesimo tiranno planetario e le infine vittoriose forze in lotta per la libertà. 

Gli Space Aliens From Outer Space rappresentano senza dubbio un’anomalia nel panorama musicale underground, forti di coordinate musicali inusuali e di una grande cura dei dettagli, tuttavia 'Nebulosity', se da un lato valorizza il percorso sperimentale della band, dall’altro si mostra più concreto e (paradossalmente) più umano, probabilmente grazie alla scelta di contenere la durata dei pezzi senza indugiare eccessivamente in esplorazioni sonore e all’aggiunta di una batterista in carne ed ossa, in grado di ricondurre le astrazioni elettroniche a strutture e ritmiche più definite. L’ascolto risulta pertanto piacevole per tutti i quarantacinque minuti di durata e l’unica pecca potrebbe essere nell’assenza di un vero e proprio fulcro, un pezzo in grado di catalizzare l’attenzione e magari anche di strizzare l’occhio a chi non è avvezzo a queste sonorità. 

Viene quindi da chiedersi se con questo album il messaggio di Paul e compagni sia un mero invito a contemplare l’immensità del cosmo e ad omaggiare gli artisti che da questa si sono lasciati affascinare, oppure un‘esortazione ad uscire dal nostro piccolo mondo ed esplorare nuove possibilità (musicali e non), cosa non facile in un contesto storico in cui coloro che mostrano curiosità e apertura al diverso sono visti con sospetto, proprio come “alieni provenienti da un altro spazio”. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Cheap Satanism - 2018)
Voto: 75

sabato 16 febbraio 2019

Doom:Vs - Dead Words Speak

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Avevo recensito il primo e il terzo capitolo degli svedesi Doom:Vs, perchè non sfruttare quindi l'opportunità della ristampa da parte della Solitude Productions, del secondo 'Dead Words Speak', per dare lustro ad un album davvero interessante per la scena death doom? Vi ricordo che i Doom:Vs non sono altro che il progetto parallelo di Johan Ericson dei Draconian, ma questo dovrebbe ormai uscirvi dalle orecchie, per quante volte è stato ripetuto. Il bravo musicista svedese con la sua creatura si lancia nella sua personale rivisitazione del genere, sempre carico di una certa emotività di fondo che potrebbe accostare per certi versi questo progetto alla band madre, sebbene la compattezza di un riffing parecchio monolitico a tratti ridondante. La prima robusta "Half Light" dimostra la pesantezza ma anche la vicininanza dei Doom:Vs ai Draconian, grazie a quelle sue toccanti melodie di fondo o dall'utilizzo delle clean vocals da parte di Johan. Poi è un tuffo nella malinconia più disperata, quella che in cui il vocione growl di Johan ci accompagnerà in un viaggio all'insegna di tematiche legate alla tristezza e alla depressione. Pesante l'atmosfera solenne della title track, davvero dolorosa nel suo incedere, ma fantastica quando il buon Johan si adopera con i suoi splendidi vocalizzi puliti o nell'esecuzione di un assolo strappamutande da applausi. Un po' più ruvido l'attacco di "The Lachymal Sleep", ma anche qui il copione si ripete con un sound che abbina il death doom (non parlerei qui di funeral, non ci sono gli estremi) con parti goticheggianti o comunque pregne di una suggestiva atmosfera decadente che va a suggellare una prova che conferma le capacità esecutive del chitarrista dei Draconian. Se proprio vogliamo trovare dei momenti più oscuri nell'album, beh inevitabilmente vi citerei la cupissima "Upon the Cataract" e la decadente "Threnode", peraltro il brano più lungo del disco, due gemme di un doom più oscuro che chiamano in causa i primissimi My Dying Bride e gli Evoken. Insomma, se non conoscete ancora i Doom:Vs, questo è il momento giusto per fare incetta delle ristampe della Solitude Productions e apprezzare la disperazione effusa dal bravissimo Johan Ericson. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2008/2018)
Voto: 75

https://doomvs.bandcamp.com/album/dead-words-speak

Deitus - Via Dolorosa

#PER CHI AMA: Black Doom, Nihili Locus
Ha sicuramente una crescita lenta ma efficace il secondo album dei misteriosi inglesi Deitus, fuori per la nostrana I, Voidhanger Records. 'Via Dolorosa' segue a distanza di due anni il debutto su lunga distanza di 'Acta Non Verba' e si presenta, almeno inizialmente, come un putrido e corrosivo concentrato di black old school. "Hallowed Terror" infatti esplode dritta nel mio stereo con quel riffing serrato che tanto andava di modo negli anni '90, accompagnato dalle classiche screaming vocals, e poc'altro, ma... si c'è un ma, perchè il trio londinese ha una certa dimestichezza con i propri strumenti e si può permettere di lanciarsi anche in una ricerca di solismi di un certo livello, che alla fine rappresenteranno l'elemento distintivo della loro proposta. "Malaise" è un pezzo che si muove tra un mid-tempo ed improvvise furibonde accelerazioni, non disdegnando un cantato che mi ha evocato i nostri Nihili Locus al tempo di '...Ad Nihilum Recidunt Omnia'; ancora una volta quello che solletica il mio palato è quella ricerca di melodia negli assoli finali, davvero convincente. Cosi come convincente risulta la title track, ove sembra esserci uno stacco dalle precedenti due tracce: assai più ricercata a livello melodico, molto più moderna nei suoni, che sembrano tuttavia ammiccare anzichè all'ambito estremo, all'heavy metal classico. Infine, il comparto solista si rivela sempre estremamente azzeccata, cosa assai rara nel black. Dicevo a inizio recensione che il disco va crescendo, lo certifica la quarta song, "Salvifici Doloris", che ci consegna una band totalmente rigenerata che si muove tra estremismi black punk e una forte architettura classic, non disdegnando qualche facile paragone con i polacchi Mgła, in una lunga e sporca cavalcata dinamitarda. L'ultima "Atonement" ci trascina nelle viscere della terra in un maestoso e deprimente pezzo black doom, forte di rallentamenti da paura, chitarre sghembe, vocals ferine e accelerazioni post black, che la eleggono di diritto mio brano preferito di questa 'Via Dolorosa'. Un disco che nella sua rapida progressione, ha eliminato le ruggini ereditate dal più lacerante debut album lanciandosi alla grande in un black moderno dalle tinte progressive. Sarà interessante seguirli per capire come evolverà il loro sound in un prossimo lavoro. Un plauso alla fine all'ottima attività di scouting della I, Voidhanger, sempre sul pezzo nello scovare nell'underground ottime band. (Francesco Scarci)

(I, Voidhanger Records - 2018)
Voto: 75

https://deitus.bandcamp.com/album/via-dolorosa

Pure Wrath - Sempiternal Wisdom

#PER CHI AMA: Symph Black
È la prima volta che mi trovo a recensire una band indonesiana e francamente mi aspettavo la classica proposta brutal gore, tipica del sud est asiatico. Che piacere essermi sbagliato cosi alla grande, dal momento che la one man band proveniente da Giava, propone invece un black atmosferico dalle tinte sinfoniche. 'Sempiternal Wisdom' è il secondo lavoro di Ryo, il factotum che sta dietro al moniker Pure Wrath, un disco che si apre con le suadenti note di piano di "Homeland", con i suoi dieci minuti, che mettono in mostra tutte le potenzialità del musicista di Bekasi, dall'irruenza in cui evolve il sound dell'opening track alla magia folk-eterea della stessa a metà brano, passando attraverso un sound sempre melodico ed ispirato, con spettacolari chorus epici che evocano i Bathory di 'Hammerheart'. Sublimi, anche quando il post black converge nelle ritmiche esplosive di "Warrior's Path", un brano evocativo, furente, solenne che ammicca agli scozzesi Saor e lascia intravedere, soprattutto a livello di arrangiamenti, grandi prospettive per il futuro. Probabilmente la grande sforuna di Ryo è provenire dall'Indonesia, ma sono certo che sotto la guida della Pest Productions, si potrà togliere grosse soddisfazioni. Il lavoro prosegue brillantemente su questa scia, riservandoci altre chicche, dalle tenui orchestrazioni della struggente "Grief of Our Father", alla devastante "Lautan Darah", cosi svedese nel suo rifferama tagliente, ma anche cascadiana nella sua parte centrale. Ancora splendide sonorità sinfoniche con la debordante "Elegy to Solitude" un pezzo che ha smosso in me un'emotività simile a quella che provai ascoltando la bellissima "Mistress Tears" dei Dismal Euphony, senza contare che da qui alla fine verranno fuori anche delle splendide linee di chitarra in tremolo picking. L'ultima "Departure" chiude con violenza e grande classe, un album su cui francamente non avrei puntato un nichelino. (Francesco Scarci)

Fordomth - I.N.D.N.S.L.E.

#PER CHI AMA: Black/Doom
Dopo Solitude Produtions e sub-labels varie, anche l'altrettanto russa Endless Winter sta salendo in cattedra per ciò che concerne le uscite in ambito funeral doom. Addirittura questa volta la label della cittadina di Taganrog, ha messo sotto contratto i nostrani Fordomth, formazione sicula a ben sei elementi. 'I.N.D.N.S.L.E.', acronimo che starebbe per 'In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi', è l'album d'esordio del sestetto di Catania, un lavoro che sebbene registrato nel 2015, è uscito solamente sul finire del 2018. Il genere? Un funeral doom dalle tinte più black che death, che va a dipanarsi lungo quattro estenuanti song (più una breve intro) per ben 55 minuti di musica. E di questi 55 minuti, balzano all'occhio i 24 asfissianti minuti di "Chapter III – Eternal Damnation" ma andiamo con ordine, perché vanno affrontati prima i quasi 12 iniziali di "Chapter II – Abyss of Hell", una song decisamente obliqua nel suo lentissimo e cupo avanzare. Quello che mi colpisce è un riffing, le cui due linee di chitarra, sembrano muoversi sui dettami dei primissimi Anathema la prima, e su quella dei primissimi Cathedral la seconda, intersecandosi pericolosamente in un abissale magma sonoro, da cui emergono i vocalizzi dei due cantanti, uno da orco cattivo a cura di Gabriele Catania e l'altro epico e sofferente ma pulito, di Federico Indelicato (che peraltro vede più di un'analogia con i vari frontmen passati per i Void of Silence), in una proposta alla fine dal mood quanto meno disperato e straziante, in quell'invocante incedere che somiglia più alla colonna sonora del peggiore dei nostri incubi. Evocante, insana, terrificante, sono solo alcune delle splendide sensazioni che pulsano dalla terza destabilizzante traccia, una maratona sonora che nel suo flusso angosciante, ha modo di regalare altre terrificanti emozioni da film dell'orrore, incanalandosi in plumbei pertugi ambient, che nuovamente mi hanno smosso nell'animo un che degli Evoken ma anche dei teutonici Traumatic Voyage dello splendido lavoro 'Traumatic...'. Piacevolmente colpito dalla malsana proposta della compagine sicula, mi lancio con somma curiosità all'ascolto di "Chapter IV - Interlude", giusto per capire come si possa intrattenere il pubblico con un interludio di quasi nove minuti. Presto detto, è sufficiente affidare il tutto ad uno straziante duetto formato dal violino di Federica Catania e da uno spettrale pianoforte, socchiudere gli occhi e provare a non disperarsi di fronte alla drammatica forza emotiva di questa band. "Chapter IV - Interlude" è la song che chiude il disco in un sordido death doom stile Anathema (periodo 'Pentecost III') in formato blackish, non tanto per i gorgheggi profondi (ma anche in screaming) del cantante ma per quell'aura mefistofelica che avvolge l'intero brano e che rende il tutto cosi tremendamente affascinante per il sottoscritto. Sebbene qualche ingenuità, legata ad una stesura ormai vecchia di quasi cinque anni, per me 'I.N.D.N.S.L.E.' è un intenso ed importante biglietto da visita per la band per spiccare verso lidi più lontani. (Francesco Scarci)

martedì 12 febbraio 2019

Winter Dust - Sense by Erosion

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Post Metal, Cult of Luna
Di band post rock ne è pieno il mondo, ma sono poche quelle che sanno davvero trasmettere qualcosa e i Winter Dust figurano esattamente tra queste. La carica emotiva dei pezzi contenuti in 'Sense by Erosion' è infatti davvero potente e riesce a smuovere anche quegli animi impietriti dalla routine e dalle ore passate davanti al pc. Una vera cura per l’anima quindi. Le chitarre stratificate in mille layer psichedelici tessono a volte una trama di seta ed in altri casi strati di ferro, come una cotta di maglia impenetrabile. Complice la proficua vena post-hardcore, caratteristica fondante della band, che s'insinua nelle soavi linee melodiche come acido muriatico, la struttura, gli arrangiamenti, nonché la resa su disco della musica dei nostri, risultano sempre brillantemente bilanciate grazie all'opera dietro alla consolle di un egregio Enrico Baraldi. Una fusione tra Sigur Ros e Russian Circle, tra Cult of Luna e Mogwai con violente esplosioni vocali, laceranti grida disperate che rompono la magia degli eterei affreschi allucinogeni per innalzare lo stato mentale ad un’altra dimensione e per allargare violentemente la percezione. Notevole e mio preferito il brano "Duration of Gloom", che nei suoi nove minuti di durata passa per tutti gli ambienti che i Winter Dust riescono a dipingere, divenendo cosi il brano più rappresentativo del disco. Una menzione d’onore anche alla chiusura affidata a "Stay" con i suoi soffici ambienti di pianoforte che ci cullano fino alla fine del disco. Ascoltare i Winter Dust è come starsene stesi sull'erba, con il viso proiettato a guardare le stelle di notte e avere la netta sensazione di vedere i movimenti degli astri, di capire come si sfiorano nella loro eterna danza e di sapere che in fondo, non siamo altro che degli ammassi di cellule su una roccia lanciata nello spazio a centomila km/h. (Matteo Baldi)

(Dischi Sotterranei - 2018)
Voto: 80

lunedì 11 febbraio 2019

Flying Disk - Urgency

#PER CHI AMA: Noise Rock
Il trio volante, dopo quattro anni dal fortunato 'Circling Further Down', torna con il nuovo album 'Urgency', prodotto e distribuito da Brigante Records, Scatti Vorticosi e Edison Box. Dal lontano 2010 la band ha fatto parecchia strada, suonando in tutta Italia e affacciandosi oltre confine per brevi ed irruenti incursioni noise punk rock/post-hardcore. La band piemontese ha scelto otto brani per raccontare chi sono oggi i Flying Disk e cos'è successo in questi quattro anni frenetici. "One Way To Forget" inizia in maniera dirompente con un gran riff scaccia noia, la chitarra elettrica si destreggia con un sapiente uso delle corde, distorsore e influenze anni novanta che fanno sorridere noi vecchie rocce, ma che fortunatamente ammaliano ancora. Il nervosismo della sezione ritmica non è li per fare solo presenza, si prende la responsabilità di spingere e far sentire la botta del buon rock. Tre minuti che fanno da ottimo biglietto da visita per l'ensemble cuneese che dimostra subito di aver fatto i compiti senza diventare però il classico secchione anticipatico della scuola. Poi arriva "Straight", che attacca come i vecchi Verdena con quell'attitudine che vien voglia di ondeggiare la nostra estremità superiore per godere al meglio di un brano che andrebbe ascoltato davanti ad un palco improvvisato in mezzo al pubblico; qui la band pesta come una forsennata e noi saltiamo a tempo in un tripudio di sudore e polvere. In "Hammer" anche il basso si prende il suo spazio fin dal riff iniziale, pesante e distorto fino a quando il brano non sfocia in un break che ricorda "Sabotage" dei Beastie Boys. Non è ancora finita perché il pezzo evolve e si lancia in un finale da ballad che abbassa la tensione fino alla sua chiusura. Devo dire che l'elemento che contraddistingue il trio piemontese è il cantato, una ventata di freschezza che se ne frega dei tecnicismi e si butta a capofitto negli arrangiamenti strumentali con un'inclinazione che ricorda il college rock oltre oceano. Il volo pindarico di 'Urgency' si chiude con "100 Days" che non perde un colpo e viaggia come una scheggia impazzita che si è staccata da un modulo lunare, prendendo il largo verso l'infinito. La canzone rallenta con i suoi suoni dilatati, la batteria riduce i bpm e il cantato quasi sussurra le ultime strofe. Cala il sipario. Non accendete ancora le luci, vogliamo guastarci ancora 'Urgency' finchè le note riecheggiano nei nostri neuroni. (Michele Montanari)

(Brigante Records/Scatti Vorticosi/Edison Box - 2018)
Voto: 75

https://flyingdisk.bandcamp.com/album/urgency

sabato 9 febbraio 2019

Lunae Ortus - White-Night-Wropt

#PER CHI AMA: Symph Black, Carach Angren, Cradle of Filth
Sembra che il black sinfonico stia tornando in auge come un tempo, interessante però vedere come la nuova ondata di band non provenga da quella che una volta era considerata la Mecca della musica estrema, ossia la Scandinavia, ma la new wave è ora principalmente di estrazione mittle-europea o di origine russo/ucraino. I Lunae Ortus arrivano appunto dalla Russia e, pur essendosi formati nel 2005, approdano solo nel 2018 con il loro album di debutto, il qui presente 'White-Night-Wropt', proponendo un black sinfonico come i grandi del passato hanno saputo fare, e penso a Dimmu Borgir e Cradle of Filth. Nove i pezzi a disposizione del terzetto di San Pietroburgo, che vede tra le proprie fila membri, ex e turnisti di Grailight, Skylord e Arcanorum Astrum. Infilandosi sulla scia dei nostrani Fleshgod Apocalypse, sebbene quest'ultimi più inclini ad una vena death sinfonica, meglio ancora degli olandesi Carach Angren, i Lunae Ortus hanno modo di offrire la loro personale visione del metallo sinfonico, affrontando in questo lavoro, l'assedio di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale che durò 2 anni e 5 mesi e rappresentò una delle più cocenti sconfitte nella guerra lampo di Adolf Hitler. A corredo di questo tema arriva il sound dei nostri, ribattezzato per l'occasione "Imperial Symphonic Black Metal", termine che ci sta alla grande per delineare la struttura imponente di cui è intriso il sound della band, caratterizzato da un'importante matrice sinfonica sorretta da splendide tastiere. E cosi nascono le song di questo disco, l'opener "The Woesome Famine", ove tra ritmiche mid-tempo e tenui screaming vocals, trovano spazio le maestose orchestrazioni di Sergey Bakhvalov. Le atmosfere orrorifiche di "Poltavian Battle" ricordano per certi versi le cose più gotiche di Dani Filth e compagni, con quelle notevoli galoppate che evocano fantasmi lontani e che scomodano altri paragoni con i nostrani Theatres des Vampires per feeling evocato, anche se i più importanti punti di contatto ci dicono che i tre russi devono aver amato alla follia 'Enthrone Darkness Triumphant" dei Dimmu Borgir, chi del resto non l'ha fatto? E allora meglio lasciarsi assorbire dalle funamboliche ritmiche di "Bronze Horseman", sempre cariche di melodie e di frequenti cambi di tempo. Più ritmata invece "Toward the Dawn", con quelle orchestrazioni cosi sature da richiamare un altro disco dei Dimmu Borgir, 'Puritanical Euphoric Misanthropia'; qui semmai da sottolineare è la presenza della più classica delle cantanti liriche, per un pezzo che sembra ammiccare anche a Therion e Arcturus, soprattutto per il lavoro al piano. Non sono certo degli sprovveduti i Lunae Ortis, ma questo era chiaro vista la lunga militanza nell'underground, comunque resta apprezzabile il lavoro dal mood electro-cibernetico di "Unquiet Souls Under Water", quasi a voler offrire variazioni ad un tema che rischierebbe di divenire troppo scontato. La song scivola via tra portentose accelerazioni di scuola Children of Bodom e melodie ruffiane, non un male. La cosa prosegue sulla falsariga anche nelle successive song (da sottolineare però la presenza di clean vocals in "New World of Light"), fino all'ottava, "Charlatan's Dance", ove accanto al classico sound dei nostri, va in scena un inusuale fuori programma dalle tinte humppa-folk (di scuola Finntroll). A chiudere il disco in modo egregio, arriva anche "Forests of Rebirth", forse la mia traccia preferita, quella che sicuramente è più vicina al metal classico e sembra essersi scrollata del tutto l'approccio, talvolta fin troppo pomposo, del symph black dei Lunae Ortus. In definitiva, 'White-Night-Wropt' è un album più che discreto, che se fosse uscito vent'anni fa, avrebbe sicuramente riscosso il successo che oggi faticherà maggiormente ad ottenere. (Francesco Scarci)

(Soundage Productions - 2018)
Voto: 75

https://lunaeortus.bandcamp.com/album/white-night-wropt