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mercoledì 22 luglio 2020

Grave Circles - Tome II

#PER CHI AMA: Black/Death
Avevo già parlato dell'apertura della Les Acteurs de l'Ombre Productions a entità musicali al di fuori dei confini transalpini in occasione dell'uscita degli svizzeri Borgne. Era già successo anche con poche altre eccezioni, i baschi Numen, i cileni Decem Maleficium e i lituani Au-Dessus. Ora l'etichetta di Champtoceaux, si rifà avanti con gli ucraini Grave Circles e il loro debut su lunga distanza, 'Tome II'. Il disco, uscito in digitale sul finire del 2019, ha catturato l'attenzione della label francese grazie ad un sound misantropico e glaciale che irrompe con la ferocia incontrollata di "Both of Me", una traccia che sembra avere la stessa violenza di una grandinata in piena estate con i chicchi di grandine della dimensione di un'arancia. Questa la sensazione infatti durante l'ascolto dell'opening track che si abbatte con furia black abominevole, fatta di una tempesta di chitarre e blast-beat di batteria, con il basso a tracciare un selciato in sottofondo di un certo spessore e le harsh vocals di Baal (il batterista dei Peste Noir) a digrignare i denti, sbarrare gli occhi e urlare a squarciagola. Ecco in sommi capi delineato il profilo musicale della band originaria di Vinnytsia, che trova tuttavia il modo di piazzar dentro al brano anche intermezzi mid-tempo, un malinconico frangente in tremolo-picking e una musicalità, nei momenti più ragionati, che chiama in causa i connazionali White Ward. Obiettivo centrato almeno per il sottoscritto, a maggior ragione quando l'incipit di "Predominance" si mostra cosi evocativo, prima di esplodere in un ferale attacco black che non concede nemmeno un secondo di respiro, almeno fino a quando un altro oscuro break acustico allenta la tensione si qui a dir poco dilagante. Sul finire del brano, fa capolino anche una voce pulita ad affiancarsi a quella demoniaca del vocalist, mentre le chitarre sciorinano riff di importazione dal classico heavy metal. Un cerimoniale liturgico sembra aprire "Faith That Fades", ma non mi faccio più ingannare dalla calma apparente dei primi attimi. Mi metto il casco e mi scaglio subito dopo a tutta velocità ad affiancare il sound qui disarmonico del quartetto ucraino, che evoca un mix tra Mgła e Deathspell Omega. Immancabile anche qui l'intermezzo soft ambient, quasi la regola su cui poggia l'architettura complessa di questo 'Tome II'. "Thy Light Returneth" ha un che invece del black svedese di Unanimated e Sarcasm, con quelle linee di chitarra tanto taglienti ma allo stesso tempo assai melodiche. Anche la traccia sembra molto più riflessiva nella sua progressione rispetto ai pezzi ascoltati sin qui, soprattutto è apprezzabile il lavoro alle chitarre, qui più ispirate che mai. Il che si conferma anche nella successiva ed epica "When Birthgivers Recognize the Atrocity", che sembra darci modo di godere della band quasi da una angolazione completamente diversa, pur mantenendo intatta quella furia che contraddistingue il sound della band, ma in questo brano c'è cosi tanta carne al fuoco che si rischia di venir triturati dai repentini cambi di tempo manipolati dai nostri. "The Unspoken Curse" e "Abstract Life, Abstract Death" sono gli ultimi due pezzi di un disco alquanto interessante: il primo dall'apertura atmosferica che evolverà ben presto in una ritmica dal mood punkeggiante, ma solo per una frazione di secondi, vista l'imprevedibilità della compagine est europea. La seconda è l'ultimo atto di un disco ad alto potenziale pirotecnico: devastante quanto basta, ha ancora modo di offrire qualche residua trovata musicale (un approccio più orchestrale ad esempio nell'utilizzo degli archi) che eleverà sicuramente l'interesse dei fan per questa release a cui manca davvero poco per elevarla dalla massa di band black death che pullulano la scena. Con un pizzico di personalità (e originalità) in più, sono certo che permetterà ai Grave Circles di avere una elevata risonanza nel mondo dell'estremismo sonoro. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2020)
Voto: 74

https://ladlo.bandcamp.com/album/tome-ii

Ohhms - Close

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Pallbearer, Baroness
Gli inglesi Ohhms con il loro ultimo lavoro 'Close' si propongono come una delle band post-metal più attive e convincenti del Regno Unito, paese in cui il movimento sembra aver faticato più che altrove ad affermarsi (si ricordino le esperienze di Fall of Efrafa, Light Bearer, Bossk e Latitudes, questi ultimi gli unici in grado di dare continuità al progetto e ad ottenere una certa visibilità).

La musica del quintetto originario della contea del Kent, giunto alla quarta release ufficiale, risulta tuttavia più trasversale, fondendo influenze della tradizione sludge\doom britannica con elementi post-rock e progressive rock, dando vita ad una creatura ibrida che negli ultimi sei anni è andata in cerca della propria identità. Con 'Close' gli Ohhms giungono alla fase della maturità artistica, confezionando un lavoro lontano dagli stereotipi e al tempo stesso piuttosto accessibile.

L’opening “Alive!” parte in sordina, immergendoci nelle atmosfere sognanti dipinte dalle chitarre arpeggiate, prima di adombrarsi e crescere di intensità come un temporale estivo, tra grandinate di percussioni, basse frequenze a pioggia e l’energia sprigionata dal cantante Paul Waller. Alle sfuriate sludge\doom di “Alive!” e “Revenge” fanno da contraltare le più elaborate progressioni di “Destroyer” e “Unplugged”, brani in cui la furia strumentale si sposa con una pronunciata vena melodica, richiamando alla memoria alcune composizioni degli ultimi The Ocean. Le atmosfere crepuscolari e quasi shoegaze di “((Flaming Youth))” e “((Strange Ways))”, intermezzi ben inseriti nel contesto dell’album, sembrano ben più che semplici cerniere tra un pezzo e l’altro, offrendo all’ascoltatore momenti di raccoglimento e riflessione.

Complice l’apprezzabile scelta di un minutaggio contenuto, gli Ohhms riescono ad amalgamare stili e spunti differenti in modo naturale ed efficace, rendendo 'Close' sufficientemente variegato da risaltare in mezzo ad una scena ormai molto affollata, mantenendo però una struttura coesa e priva di passaggi forzati. Forse non tutte le idee proposte vengono valorizzate a dovere, ma si tratta sicuramente di un deciso passo verso future uscite forse più ambiziose. (Shadowsofthesun)

(Holy Roar Records - 2020)
Voto: 75

https://ohhms.bandcamp.com/album/close

The Mills - Cerise

#PER CHI AMA: Alternative Garage Rock, The Strokes
Pronti partenza via. Tempo un annetto di rodaggio motori e i The Mills, formatisi appunto nel 2019, sono già pronti per entrare in studio di registrazione con il loro primo album, sotto l'egida della Overdub Recordings. Morris e soci non si sono lasciati scoraggiare dal lockdown e hanno dato alle stampe 'Cerise', distribuito a partire da fine aprile sulle piattaforme digitali. Sette i brani usciti dalla penna del founder e arrangiati con l’apporto di Augusto Dalle Aste (basso, contrabbasso) e Giovanni Caruso (chitarra solista). Sette tracce che hanno molto l’aspetto di un super-tributo a certi grandi nomi del passato, lampanti ispirazioni per il suond dell’attualmente-quartetto vicentino (che, senza perdere tempo, si sta già dando da fare con una serie di live). D’altro canto, il vocalist e fondatore del progetto lo afferma chiaramente, come con questo disco gli sia “servito rielaborare il passato per meglio concepire il presente”. Le influenze dei nostri sono decisamente british, dal garage al punk londinese dei The Clash, irrorati a pioggia con brit-pop e ritornelli squisitamente beatlesiani, più o meno evidenti. Già con “Invain”, il brano d’apertura, si sente attingere a piene mani da questi generi, chiamando in causa da Graham Coxon ai Blur passando dagli Oasis. Pochi orpelli di forma o struttura: le note scorrono fluenti e con ruvida decisione. E così anche in una “Camden Town”, dal titolo decisamente simbolico, ci si lascia avvinghiare da rapide schitarrate e cori d’oltreoceano, in stile The Strokes / Ramones. “I Barely Exist” invece sa molto di richiamo alla “Californication” della West Coast, con i suoi costanti fraseggi di basso, di cui Flea potrebbe essere orgoglioso, tolta la ritmica più lineare. Molti spunti che fra loro possono sembrare anche abbastanza disparati, ma che inevitabilmente ci riconducono ad una casa base. 'Cerise' sembra suonare appunto come un nostalgico capitolo, più che una reale evoluzione fondata su solide radici. Grinta e mordente che probabilmente si sposano bene con l’immediatezza ricercata dal progetto, ma si sente la mancanza di qualche spunto o idea che potrebbero essere metabolizzati in modo efficiente. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(Overdub Recordings - 2020)
Voto: 66

https://www.facebook.com/The_Mills-357560558192782/

Sadist - Above the Light

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Prog Death, Atheist, Cynic
Uno dei dischi fondamentali della scena metal italiana, in grado di aver tracciato un sentiero per la musica estrema del futuro. I Sadist hanno rappresentato per l'Italia (e per l'Europa insieme ai Pestilence) ciò che per gli USA sono stati Cynic e Atheist, grazie al loro sound originalissimo, di grande qualità e tecnica sopraffina. 'Above the Light' è un lavoro contraddistinto dalle stratosferiche atmosfere create dal chitarrista/tastierista Tommy (un supereroe anche dal vivo). Il disco poi, è un alternarsi di sfuriate death, frammenti malinconici (splendida a tal proposito "Breathin' Cancer"), stacchi acustici da brividi ("Enslaver of Lies"), cambi di tempo da urlo, monumentali e ultratecnici riffs di chitarra, spettacolari keys (la strumentale "Sadist") e vocals corrosive, a cura del buon vecchio Andy. Questo è un lavoro senza tempo, anche per quei suoi forti richiami alle atmosfere da film horror, anni ’70, con due pezzi poi, "Sometimes They Can Back" e "Desert Divinities", davvero da DIECI. Eterno! (Francesco Scarci)

domenica 19 luglio 2020

Sombre Héritage - Alpha Ursae Minoris

#FOR FANS OF: Black Metal
Once again, we are returning to the astonishingly prolific metal scene of the Canadian province of Quebec. This time with a quite novel trio called Sombre Héritage, a project which was born only one year ago by Exu, the founder member, with the collaboration of Silencer and Molag-Veen. All of them have previous experience in other bands of the local extreme metal scene, which seems to have been quite helpful as they have managed to compose and record a full-length album in less than a year. Quite impressive.

Unsurprisingly, ‘Alpha Ursae Minoris’, which is the title of the debut effort of Sombre Héritage, is firmly rooted in the black metal genre. It seems that Quebec has very strong ties with this genre, as a great amount of bands find their way to express their inspiration in this genre. Contrary to another recent projects like Serment, for example, this album is clearly focused on the guitars, though it does not lack completely the trademark atmosphere of the bands who belong to this scene. Anyway, ‘Alpha Ursae Minoris’ offers us six songs in its almost 37 minutes of length, where the guitars reign indisputably. The album has a pretty solid production, which remarks the aggressiveness of the compositions, where fortunately there is plenty of room to introduce variations in the pace and degree of fierceness. The album oscillates between songs with a clearly faster pace and other compositions, where there is more space for mid-tempo sections. For example, the first track "Polaris" could be included in the second group, as it serves as an introduction of the album. The composition has a growing intensity and it is never remarkably fast. Instead of this,the song has a quite addictive pace, which makes us headbang a little bit in its second half. On the other hand, the following song "Sombe Héritage", is a firm declaration of how fast this band can play, with certainly speedy and aggressive sections. Nevertheless, this song, as it happens also in the rest of the album, has the ability of fluctuating between the fast parts and certain specific calmers sections, which are tastefully included where the song requires it. Although the album is not particularly rich in the arrangements, as the song´s structures are practically restricted to the classic shrieks-guitar riffs-rhythmic section structure, the band tries to add some variety in the vocals. For example, in some songs like "Sombre Héritage" and "Déchéance", Sombre Héritage introduces some clean vocals in the form of echoing and mysterious voices, which give an atmospheric touch to the songs. I find especially interesting when the band combines these sorts of vocals with more somber riffs, being able to create especially dark and evocative parts. These incorporations enrich the songs and consequently the album itself.

All in all, ‘Alpha Ursae Minoris‘is a quite competent debut by Sombre Héritage. The band has managed to create a debut album with six very good tracks, where the balance between straightforward aggressiveness, powerful riffs and variety, is achieved in a very inspired way. This debut album will appeal every fan of the black metal genre and it should be the starting point of a very interesting career. (Alain González Artola)


(Sepulchral Productions - 2020)
Score: 76

https://sombreheritage.bandcamp.com/releases

The Opium Cartel - Valor

#PER CHI AMA: Dream Synth Pop/New Wave/Alternative
Devo ammettere che mi ha incuriosito molto vedere nella autodescrizione del gruppo, citazioni musicali che includevano nomi illustri come Japan e Prefab Sprout, considerando che l'attuale gusto sonoro di massa, neanche li ricorda più o ancor peggio, se qualcuno rivanga il passato degli '80s, è solo per le banalità e per le band più scontate dell'epoca. Il collettivo norvegese The Opium Cartel, con a capo una stupenda voce femminile, ha la grande virtù di conoscere la formula per far rinascere le atmosfere che hanno resi indimenticabili, album usciti in quell'era da sogno. Così, brano dopo brano, rimescolando le carte, ci si addentra in un viaggio retrò da pelle d'oca, in un sofisticato gioco di rimandi continui, rielaborati in maniera intelligente e con l'aggiunta di un'ottica di svolgimento progressiva, direi degna di alcune prove superbe del miglior The Alan Parson's Project. A turno i brani spaziano in variegati ambienti sonori, dalle tastiere di cristallo dal sapore orientale di Sylvian e soci, fino ad emulare il suono del basso del compianto e irraggiungibile Mick Karn, rievocandolo anche in alcuni suoni di synth d'annata di scuola Dalis Car. Passiamo per i Cocteau Twins più leggeri e pop di 'Milk and Kisses' che risultano un'ispirazione costante assieme a certi suoni gommosi e batterie riverberate di memoria Berlin, che con i citati Prefab Sprout si contendono la gara dei ricordi con i Missing Persons ed evoluzioni inaspettate di leggero progressive rock molto controllato, d'atmosfera tipica di certo prog plastico degli anni '80. "Nightwings" è un brano pop dalla forte propensione radiofonica, che con classe ingloba i suoni pop degli ultimi The Cure con evoluzioni moderne alla Florence and the Machine. L'inizio di "Fairground Sunday" potrebbe essere un out take di 'MBV' dei My Bloody Valentine, se il proseguo fosse stato in un mare di feedback e shoegaze, ma il risveglio non avviene in questa realtà e ci si culla fino alla fine in una morbida psichedelia cristallina. Per restare in tema eighties, spunta in chiusura a sorpresa, la cover della band hard rock californiana Ratt, "What's it Gonna Be" (unico brano cantato da voce maschile), elaborato e sintetizzato in un contesto ritmico alla Big Country che non perde assolutamente smalto nei confronti dell'originale. Un nuovo album questo 'Valor', moderno ma dal sapore retrò. Un disco ben confezionato, ben prodotto, da ascoltare in profondità per capire tutte le influenze che hanno ispirato la band in questo gustoso ed anche (a suo modo) originale impasto sonoro. Una band che da tempo lavora sulla revisione di queste sonorità, toccando con questa nuova uscita, una vetta di qualità molto alta. Consigliato l'ascolto ad amanti ed estimatori del genere, musica per menti aperte sul panorama dream pop più raffinato, ricercato e d'alta gamma. (Bob Stoner)

(Apollon Record AS - 2020)
Voto: 73

https://theopiumcartel.bandcamp.com/album/valor

Mors Principium Est - Inhumanity

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Melo Death, Children of Bodom, Insomnium
Quando uscì questo 'Inhumanity' nel 2003, devo ammettere che mi piacque parecchio, per quelle sue linee melodiche, quella sua freschezza di fondo, gli ottimi assoli e la sua grinta propositiva che mi spinsero ad elogiare a più riprese la proposta di questi sei ragazzi finlandesi. Il disco per quel suo successo nell'underground, venne riproposto nel 2006, ma mettiamo subito in chiaro le cose a proposito di questa ristampa: i contenuti non variano granché rispetto all’originale e non so quanto valga la pena per chi possiede già il disco, ricercarne la seconda edizione, in quanto rispetto alla prima, in aggiunta vi è una versione più space/techno oriented della sesta traccia, “The Lust Called Knowledge” e due brani dal vivo, oltre ad una nuova cover artwork, comunque poco per giustificarne l’acquisto. Comunque sia, per chi non conoscesse la band, ne consiglio vivamente l’ascolto, suggerimento indirizzato a chi è stanco dei Children of Bodom, ma anche per chi ama il death metal melodico in ogni sua forma. Il sound proposto dal sestetto finnico va oltre a quello dei “Figli di Bodom”, amalgamando nel proprio stile anche qualche reminiscenza di scuola In Flames e Dark Tranquillity. Brani come “Another Creations”, “Eternity’s Child” o la stessa title track, hanno saputo conquistarmi fin da subito, con la loro estrema dinamicità e per quel forte desiderio di volersi staccare di dosso l’etichetta di gruppo clone dei Bodom. I Mors Principium Est sono bravissimi nel generare melodie di facile presa, nonostante le montagne di riff aggressivi e le ritmiche serrate profuse, però grazie al fantastico lavoro delle tastiere e alla fine cesellatura delle chitarre, la band risulta essere estremamente accattivante e originale. Se siete amanti di queste sonorità andate a ripescarvi assolutamente questo lavoro. (Francesco Scarci)

(Listenable Records - 2006)
Voto: 77

http://www.morsprincipiumest.com/

She Said Destroy - Time Like Vines

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death
Ad aprile 2006 uscivano come un fulmine a ciel sereno questi She Said Destroy. Senza uno straccio di biografia, nemmeno il titolo di una canzone nel promo a mia disposizione, oltre alla difficoltà a recuperare informazioni via internet, capii che la formazione era al debutto assoluto (fatto salvo un paio di demo), e proveniva da Oslo. La proposta della band all'insegna invece di un techno death brutale sporcato da influenze vicine ai Meshuggah, ma non solo: suoni ripetitivi, riff disarmonici, (qualche) intermezzo acustico, ritmiche sincopate, cambi di tempo, breaks melodici (pochi), stop’n go e sfuriate grind. Possono bastare? Eh si, devo ammetterlo ragazzi, se da un primo ascolto, quest’album mi sembrava il solito lavoro scopiazzato qua e là, dopo svariati (ma svariati) ascolti, ho potuto apprezzare la capacità del quartetto scandinavo, guidato da Ugmod e Snorre, nel saper trasmettere delle emozioni malsane e alquanto incazzate. Non eravamo di fronte a chissà quale miracolo in ambito musicale, non c’era nulla di nuovo nei solchi di 'Time Like Vines', però, la proposta del combo norvegese risultava comunque accattivante, nonostante la difficile opera di digestione, dovuta proprio ad una proposta di non così facile presa. Il death dei She Said Destroy si poneva come un attacco frontale, un attentato ai nostri emisferi cerebrali, fatto di ritmiche violente, talvolta viaggianti su mid tempos, ma sempre belle massicce e rabbiose; le growling vocals si alternano qui allo screaming tipico del black. Altri influssi di scuola old-black, thrash, noise, convergono poi all’interno di questo disco, che in definitiva, risultava essere di difficile assimilazione. Con un’ulteriore sgrezzata, i She Said Destroy potevano dire anche la loro, riproponendosi in futuro con il brillante 'This City Speaks in Tongues', prima di scomparire dalle per lungo tempo. (Francesco Scarci)

domenica 12 luglio 2020

Ewigkeit - Conspiritus

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Space Rock, Hawkwind
Un clacson che suona in mezzo ad una strada affollata, un telefono che squilla e una voce di un uomo che parla. Così si apre il quinto capitolo della saga Ewigkeit, one man band capitanata da James Fogarty (alias Mr. Fog) che nel corso degli anni ha saputo evolversi enormemente, passando dagli isterismi black dell’esordio Battles Furies' a questo 'Conspiritus' uscito nel 2005, a distanza di un anno dal già validissimo 'Radio Ixtlan'. Il genere proposto dal combo britannico è di difficile definizione, così come è stato arduo collocare dei nomi di riferimento per darvi un’idea di ciò che offre la band. Le influenze che convogliano in questo nuovo e innovativo lavoro sono infatti molteplici: il suono è una amalgama di malinconici riffs heavy metal con tastiere dal flavour prettamente seventies; suoni cibernetici vengono soppiantati da momenti psichedelici di intensa emozione, tanto che alcuni pezzi (ascoltatevi “Transcend the Senses” per esempio) potrebbero portarvi alla mente bands come Pink Floyd o Queensryche (periodo 'Operation Mindcrime'). È riduttivo parlare degli Ewigkeit di una band heavy metal, tali e tante sono le influenze; le emozioni che sprigiona un album come 'Conspiritus' sono infatti così profonde che si radicano nell’anima di chi li ascolta. Come non menzionare l'influsso esercita da altre splendide realtà che si conciliano in questo fantastico lavoro: Ministry, Prodigy, Massive Attack, Paradise Lost, la gothic wave anni ’80 e molto altro sono solo esempi di ciò che è realmente 'Conspiritus'. Gli Ewigkeit vi prendono per mano e vi accompagnano in un viaggio fantastico attraverso il loro corpo, nelle loro viscere, nelle loro menti, vi mostreranno i loro muscoli e vi faranno toccare la loro anima. È un crescendo di emozioni che vi porteranno ad un ecstasy spirituale, culminante nella acustica conclusiva title track. La musica è curata in ogni suo dettaglio, la produzione è ottima a cura di John Fryer (Depeche Mode, HIM, Paradise Lost), le clean vocals (c’è anche una voce cibernetica stile Fear Factory), rappresentano forse il vero punto debole di Mr. Fog, mancando di quella forza, di quella prepotenza che aveva contraddistinto i passati lavori. Anche la scelta di sistemare “How to Conquer the World”, un pezzo live collocato nel bel mezzo del percorso mistico intrapreso, non è proprio azzeccata. Un peccato perchè, il brano, assai gustoso di per sè e che pare poi partorito da una band anni ’70, l’avrei magari collocato alla fine come bonus track. Un’ultima segnalazione la voglio fare per “Theoreality”, song in cui fa capolino anche la vena folk della band. Vibranti. (Francesco Scarci)

(Earache Records - 2005)
Voto: 82

https://www.facebook.com/ewigkeitofficial

sabato 11 luglio 2020

Ossario - S/t

#PER CHI AMA: Black Old School, Darkthrone
Il trio degli Ossario si è formato solo quest'anno e in un brevissimo lasso di tempo, ha già fatto uscire un primo EP omonimo. Certo, i nostri non sono dei pivellini, viste le precedenti esperienze in Malauriu, Anamnesi, Progenie Terrestre Pura e Simulacro, giusto per citarne solo alcune. Quattro pezzi quindi per saggiare le qualità del trio siciliano e capire di che pasta siano fatti. Si parte con "We're All Born To Die" e quello che amo definire un back in time, ossia un salto indietro di quasi 30 anni nella storia del black metal, quello sporcato di venature thrash e che chiama in causa giganti quali Mayhem o Darkthrone, giusto per dare anche una connotazione geografica alla scuola di appartenenza della band nostrana. Dicevo quindi di sonorità di stampo nineties che si manifestano con ferali galoppate, harsh vocals e liriche votate alla morte. Il rifferama è quello classico votato ad un attacco all'arma bianca, con chitarre taglienti come rasoi e vocals al vetriolo. Tale schema è affidato un po' a tutti i pezzi, dalla seconda perversa ed irrequieta "Millenial Fears", in cui le vocals sembrano rievocare i primi Celtic Frost, quelli più oscuri e mefistofelici, fino alle successive "Torment Sweet Torment" e "Rigor Mortis Boner (Necromance)". La prima molto punk oriented che di nuovo riconduce agli esordi della fiamma nera con quel suo mood old school, mentre la seconda è votata definitivamente ad un black thrash senza compromessi, soprattutto nel suono glaciale della sua batteria e ad una produzione in generale fredda e minimalista che incarna alla perfezione i principi cardine del black metal. Nulla di nuovo sotto il sole se non un bell'esempio di black metal d'altri tempi che meriterebbe un voto adeguato, 666. (Francesco Scarci)

(Southern Hell Records/Warhemic Productions - 2020)
Voto: 66

https://ossario.bandcamp.com/album/ossario-2

Maiastra - Nurt

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge
Quest'album mi è piaciuto quasi da subito per quel suo feeling mellifluo emanato dalle note iniziale di "W Mróz". Il neo che ho semmai trovato in quest'opera prima dei Maiastra, è l'utilizzo del polacco nelle sue liriche che limitano l'approccio alle tematiche ai fan più attenti anche ai testi ma anche per una certa armonia tra musica e voce. 'Nurt' infatti è interamente cantato nella lingua madre dall'ensemble originario di Szczecin, un errore veniale che si può anche perdonare, soprattutto a fronte di una proposta musicale piuttosto convincente. Si perchè quanto viene offerto dai nostri è uno sludge/post metal, che può rimandare a Neurosis o Cult of Luna, qui riproposti in toni più minimalistici e a tratti post-rock oriented. Lo si comprende dal timido esordio della seconda traccia, "W Ciszy", affidato ad un riffing che nei suoi primi 100 secondi, appare quasi sussurrato e che poi esplode nelle sembianze tipiche del genere, coadiuvato da un bel lavoro dietro le pelli e dalla voce sporca quanto basta del suo frontman. Interessanti, lo ribadisco, specialmente nel saper offrire tutti gli ingredienti nel genere in pochi giri di orologio (tre e mezzo per essere precisi) e lasciar il posto a "W Nurt". L'inizio del brano è affidato ad un giro di chitarra acustico che se ne va a braccetto quasi di nascosto con la batteria fino alla classica detonazione che comporta l'ingresso della grugnolesca voce e del basso, a tracciare buone linee melodiche, dotate di certe venature malinconiche grazie al lavoro del tremolo picking alla sei corde. Il risultato ancora una volta centra il bersaglio, ma c'è ancora un discreto spazio di miglioramento. Tuttavia, i nostri conoscono le loro potenzialità e con "Bez Barw" sembrano metterle maggiormente in mostra: l'intro è sempre tiepido, ma ci sta se poi l'intensità va accrescendosi di pari passo con il growling caustico del frontman ed una furibonda ritmica al limite del post black. "Bez Tchu" è un altro pezzo che si apre in modo soffuso, ma il copione sembra essere sempre lo stesso, ossia garantire un inizio gentile a cui cedere presto il passo ad una ritmica di matrice post, che qui tarda però ad arrivare, essendo relegata ai soli 45 secondi conclusivi del brano. L'ultima "Bez Szans" è contraddistinta da un discreto duetto tra chitarra, in versione tremolante, e dai rintocchi di basso, entrambi a poggiare su una batteria qui elementare e con le urla sporadiche del cantante a supporto, quasi a costituire una sorta di outro semistrumentale di questo compatto 'Nurt'. Il lavoro va ampiamente oltre la sufficienza, ora starà ai nostri cercare quelle migliorie tecnico-compositive che permettano alla compagine polacca di uscire dal mazzo. (Francesco Scarci)

Fordomth - Is, Qui Mortem Audit

#PER CHI AMA: Black/Doom
Solo quattro brani per sancire la rabbia accumulata dal quartetto siculo dei Fordomth nei due anni intercorsi dall'uscita di quel 'I.N.D.N.S.L.E.', che cosi positivamente avevamo recensito su queste stesse pagine e codesto 'Is, Qui Mortem Audit'. La band catanese, allegeritasi di un paio di elementi, è andata contestualmente virando anche la propria proposta musicale, passando da quel black funeral doom degli esordi ad un sound decisamente più ferale, pur mantenendo più o meno intatte le proprie inflessioni doomish. Lo testimonia l'infernale opening track "Esse", che tra sciabolate black, accelerazioni spaventose, urticanti scream vocals e momenti più atmosferici, mostra appunto come questa transizione tra il passato e il presente dei Fordomth sia ancora in corso, vista peraltro la dipartita del cantante dopo la realizzazione di quest'album. L'ascolto si fa ancor più convincente con la seconda "Audere", che mantiente uno stato di cupezza interiore coniugato alla perfezione con un deflagrante black metal che ricorda per certi versi quanto prodotto dai Mgła in Polonia. Notevole l'impatto ritmico dato dalla batteria in quell'incedere tempestoso che contraddistingue quella che sarà la mia song preferita del disco, cosi violenta e cosi in grado di sprigionare un elevato grado di malignità. La spinta mefitica prosegue abnorme nella terrificante terza canzone, "Scire", un pezzo che mostra similitudini con i brani precedenti ma che a livello chitarristico mi ha evocato qualcosa di 'Clandestine', capolavoro assoluto dei primi Entombed. La song si muove nella sua seconda parte in un mid-tempo controllato quasi a seguire un canovaccio che contraddistingue un po' tutti i brani qui contenuti, violenza-atmosfera-violenza-finale lento ed inquietante (qui permeato da quel senso di dannazione in stile Void of Silence che già avevo sottolineato nella precedente recensione). Non si discosta dalle regole del gioco sin qui tracciate neppure questa terza traccia, e questo segna un punto a sfavore della band in fatto di imprevedibilità, bilanciata tuttavia da un lavoro quadrato, potente e ben suonato. Con "Mors" l'ensemble siculo pare voler ancor più pestare sull'acceleratore con un inizio alquanto arrembante, frenato nuovamente da un break mid-tempo che sembra fungere da punto di ricarica per quella che sarà la grandinata finale prossima a pioverci sulle teste (ed ecco di nuovo quel neo che forse andrà aggiustato in futuro, la ripetitività). Fatto sta che dopo la sassaiola, si piomba negli abissi della perdizione e di un silenzio che ci accompagnerà per una cinquantina di secondi fino alla chiusura del cd, laddove ad attenderci ci sarà una sorpresa. Si, avete letto bene, perchè nel finale troverete la classica ghost track, senza titolo, che rappresenta una sorta di cerimoniale esoterico dai richiami orientaleggianti, che ci mostra finalmente un lato più sperimentale dei nostri, che andrebbe meglio esplorato in futuro. Per ora applaudiamo al come back discografico dei Fordomth, in attesa di vedere cosa il futuro ha ancora da offrirci. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 luglio 2020

Unearthly Trance - The Trident

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Sludge, Neurosis
Dopo aver fatto uscire due buoni album con la Rise Above Records di Lee Dorrian, gli Unearthly Trance hanno debuttato su Relapse Records con questo psichedelico 'The Trident'. Il trio statunitense da sempre è portavoce di una personale visione dell’apocalisse attraverso un doom ipnotico che contraddistingue il sound dei tre newyorchesi. Visioni lisergiche, suoni asfittici, atmosfere claustrofobiche e un incedere quasi barcollante, rendono la proposta musicale dell'ensemble statunitense certamente di non facile presa. Gli Unearthly Trance possono rappresentare il collegamento mancante tra Neurosis e Winter: la musica dei nostri viaggia all’interno di torbide e rarefatte atmosfere che rappresentano gli incubi dello sconosciuto subconscio umano. È un viaggio in un abisso pervaso di mistero, fatto di momenti di malsana follia, insana oppressione e caos musicale. Screaming vocals sussurrano il dolore dilaniante che pervade questi tre loschi individui su ritmiche ripetitive e soffocanti, che trascinano l’ascoltatore in un baratro senza fondo. Ascoltare 'The Trident' è come catapultarsi in un pozzo senza fine, in un tunnel senza via d’uscita, in un giorno senza luce. La disperazione che trasuda dalle note di “Scarlet”, l’angoscia che pervade “The Air Exits, The Sea Accepts Me” o la rabbia di “Wake Up and Smell The Corpses”, rendono questo terzo lavoro dell’act nord americano, un inno profondo alla misantropia. Amanti di Neurosis, Sunn0)) e High On Fire hanno di sicuro amato questo lavoro, colonna sonora dei sogni più spaventosi. Brava come sempre la Relapse all'epoca, nello scovare nell’underground realtà interessanti da inserire nel proprio rooster e ancora una volta, la politica oculata della label americana, ha fatto centro. Ipnotici, oscuri, tetri, ragazzi eccoli gli Unearthly Trance. (Francesco Scarci)

Shadowsreign - Bloodcity

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Thrash, Death SS
Non è mai bello stroncare un album, tanto meno, quando si tratta di una band italiana e soprattutto quando il frontman è stato il fondatore/cantante dei mitici Theatres Des Vampires. Sto parlando di Lord Vampyr, che dopo il debutto solista del 2005 è tornato con una creatura nuova di zecca, gli Shadowsreign. 'Bloodcity' doveva essere il primo capitolo di un progetto, suddiviso in due parti, intitolato 'The Forgotten Memories', Part 1 e Part 2, che aveva come concept di fondo una comunità di vampiri che popolano un’ipotetica città del futuro che versa in gravi condizioni atmosferiche e il cui cibo prediletto sono gli umani. A parte le visioni “succhia sangue” di Lord Vampyr, la musica del quintetto italico, rappresenta l’imperfetto punto di incontro tra il passato di Lord Vampyr nei T.D.V. (e quindi un black/dark melodico) e un sound orientato verso influenze thrash old school. Il tutto finisce però per disorientare l’ascoltatore che rimane stupito di fronte alla eterogeneità di alcuni brani, che spaziano da sonorità gothic a parti thrash, con tanto di riff anni ’80, ma anche con qualche richiamo al thrash/death di matrice svedese, e ancora cenni ai già citati Theatres Des Vampires. Non mi ha poi entusiasmato la performance vocale di Lord Vampyr, che si trova costretto a barcamenarsi tra tanti generi senza, alla fine, incidere più di tanto.'Bloodcity' suona come un album incompiuto, a cui manca quel quid per farlo decollare veramente: un vero peccato, perchè alcuni episodi nel disco sono davvero meritevoli di attenzione. Speravo che Lord Vampyr e soci potessero rifarsi col successivo lavoro, in realtà il progetto è stato abbandonato per dar voce ad altre manifestazioni sonore del mastermind capitolino. (Francesco Scarci)