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sabato 15 luglio 2023

Hex A.D. - Delightful Sharp Edges

#PER CHI AMA: Heavy Prog Rock
Se la Norvegia negli anni '90 rappresentava il luogo là dove il black metal è nato, oggi lo stesso splendido paese scandinavo è diventato sinonimo di sonorità progressive. L'ho già detto più di una volta, lo ribadisco oggi in occasione dell'uscita del sesto album degli Hex A.D., 'Delightful Sharp Edges', un disco peraltro focalizzato su un tema davvero straziante, il genocidio, dall'Olocausto degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale, al massacro dei Tutsi in Rwanda, per finire con la persecuzione e genocidio dei Rohingya in Birmania. Un tema molto pesante che viene affrontato attraverso questo concept album suddiviso in tre parti narrative, che conducono l'ascoltatore in un viaggio della memoria davvero complicato da digerire liricamente parlando. Il disco si apre con la lunghissima (quasi 13 minuti) "The Memory Division" ed una proposta che si muove tra il prog e l'heavy rock, chiamando in causa mostri sacri della storia, da Uriah Heep, Thin Lizzy e Black Sabbath, combinando un innumerevole numero di influenze, generi e stili, da un utilizzo massivo di synth e tastiere, dotate di una spinta psichedelica ad un approccio hard rock oriented. Il brano è sicuramente complesso e forse necessita di molteplici ascolti per essere assimilato e capito appieno. Molto più semplice invece l'ascolto di un brano classico come potrebbe essere "Murder in Slow Motion", che non inventando nulla di che, ci investe con il suo hard rock graffiante in pieno stile settantiano. "...By a Thread", nel suo lungo e patinato acustico d'apertura con tanto di voci effettate, rievoca poi gli ultimi Opeth. Con l'ingresso di batteria e percussioni, queste danno una bella sterzata al sound, che evolve poi nei suoni spiazzanti di quel treno che deportava gli ebrei nei campi di concentramento. Cosi inizia "Når Herren Tar Deg I Nakken", un brano dalle atmosfere sinistre, inquietanti, sorrette da una voce che sembra dare delle istruzioni ai nuovi ospiti di quel campo di concentramento, mentre la musica si muove tra riff pesanti e suoni di hammond. "Radio Terror" attacca con un flebile sound, una chitarra che sembra più un grido di dolore, mentre la voce del frontman si presenta qui più delicata rispetto ad altre parti. E poi ecco entrare in scena delle percussioni tribali a stravolgere un po' tutto con un incedere che potrebbe stare a metà strada tra Pink Floyd e Blue Öyster Cult, in quello che reputo essere il miglior pezzo del disco. Non siamo nemmeno a metà disco (la brevissima "St Francis" è giusto a metà) ma rischierei di dilungarmi esageratamente nel raccontarvi questo 'Delightful Sharp Edges'. Mi limiterò pertanto a suggerirvi un altro paio di pezzi, anche se devo ammettere che la seconda metà del disco non sembra essere altrettanto convincente quanto la prima, in quanto suona più deboluccia, complice la presenza di un paio di brevi tracce, per cosi dire, accessorie. A salvarne l'esito c'è però la splendida "The Burmese Python", in grado di emanare un feeling di grande impatto, evocando una sorta di improbabile mix tra Pink Floyd e Green Carnation. Un buon lavoro, non c'è che dire, ma che necessita di una certa attenzione e sensibilità per essere realmente apprezzato al 100%. (Francesco Scarci)

giovedì 13 luglio 2023

Howlin' Sun - Maxime

#PER CHI AMA: Rock/Blues
Qual è il male di crescere sotto le ali protettrici di un sound che ha fatto storia e indiscutibilmente è da considerare alla stregua di un credo religioso? Ecco, la band di Bergen, al secondo full length, si adagia su questa formula eterna di musica rock, per esternare le proprie idee musicali. Quel sound che rese formidabile 'Sticky Fingers' dei Rolling Stones, mischiato ad un suono frizzante e moderno di casa Jet, Rival Sons o The Black Crows, facendo proprie poi certe intuizioni della band con la linguaccia più famosa del rock di tutti i tempi. Quindi, taglienti chitarre di stampo rock blues, una sezione ritmica corposa, ed una bella e calda voce, sempre degnamente protagonista, ci portano in vetta ad un ottimo vintage sound anni '70, pieno di pathos e calore, illuminato e tutto da gustare. L'intero disco non fa una piega, e ti prende alla gola fin dal primo accordo di chitarra. Il tutto è esplosivo e poco importa se tante cose sono già state fatte e ti sembra di sapere già dove andranno a finire. "Jayne" ad esempio, con il suo caldo arrangiamento tropicale e un organetto senza tempo, sembra un brano dimenticato del repertorio del Jagger solista, mentre l'uso di cori e doppie voci rasentano la perfezione sebbene siano sulla falsariga degli Stones. Il disco è un bel disco, un ottimo disco. Anche i fiati di "Be Mine" non scherzano con i ricordi ed esercitano una forza disturbante temibile, che solo il rock di quell'epoca può veramente far emergere. Assai apprezzabile la cadenza lenta della ballata elettrica e ipnotica "Lost", anche se il vero rock blues, ritmato e cadenzato alla virgola, è proprietà di "All Night Long", che sembra tratta da un disco degli ZZ Top, con quel suono secco e diretto, con sferragliate di chitarra e una voce splendidamente sensuale, esageratamente Jagger. Sarò ripetitivo, ma a volte essere seguaci di quei pochi, ma giusti canoni, concede molte soddisfazioni, d'altra parte non tutti devono essere avangardia. La forma poi di questo modo di intendere il rock è tutt'altro che scontata e facile da rivisitare e rinvigorire. I norvegesi Howlin' Sun hanno messo da parte ambienti freddi e divinità nordiche, per nascere in piena luce, sotto il calore del retro rock più puro ed efficace. Un album piacevolissimo come il suo predecessore del resto, di ben cinque anni prima. Oggi più che mai alfieri di un ottimo rock classico, diretto, fantasioso e pieno di vitalità, autori di un disco che vi entusiasmerà già al primo ascolto. Non lasciatevi ingannare dalle possibili somiglianze o da derive soniche, andate oltre e gustatevi questo bel lavoro senza farvi traviare da un presunto plagio. I nipotini norvegesi degli Stones hanno colpito duro ancora una volta! Un album da ascoltare ad alto volume. (Bob Stoner)

(Apollon Record AS - 2023)
Voto: 80

https://howlinsun.bandcamp.com/album/maxime

mercoledì 10 maggio 2023

Major Parkinson - Valesa – Chapter I: Velvet Prison

#PER CHI AMA: Pop Rock
Non è stato per nulla semplice recensire questo monolitico lavoro dei norvegesi Major Parkinson, non tanto per la lunghezza dell'opera a dire il vero, ma per i suoi contenuti. La band era portavoce di un certo progressive rock, almeno nelle vecchie release; in questo 'Valesa – Chapter I: Velvet Prison ' mi sembra che le sonorità si siano ulteriormente ammorbidite, mettendo in scena una proposta che puzza piuttosto di pop (in taluni frangenti rock) assai commerciale. Ecco, un qualcosa che avrei voluto recensire, a dirvi in tutta franchezza, viste anche le 17 song che i nostri hanno buttato in questo lavoro, dico 17!! Che palle. E se le prime tracce sono un buon modo per avvicinarsi alla band e scoprirne le peculiarità, ad esempio un uso importante dei synth e di ambientazioni stile colonna sonora da commedia romantica ("Behind the Next Door", che peraltro mi sembra in una versione live, come tanti altri brani in questo disco, vedi la "springsteeniana" "Sadlands"), piuttosto che di un uso spropositato del pianoforte (la strumentale "Ride in the Whirlwind") che arriva a farmi sbadigliare, potrei citarvi un altro bel po' di pezzi per cui non posso dirmi un grande sostenitore della band scandinava. "Live Forever" sembra trascinarmi agli anni '80 con quel suo sound che chiama in causa ancora il Boss, che rimane tuttavia altra cosa. Come cigliegina sulla torta, i nostri ci piazzano poi una bella vocina di una dolce fanciulla e il gioco è fatto. O forse no, almeno non per il sottoscritto, che preferisce passare avanti e magari lasciarsi persuadere dal criptico gospel di "Jonah", forse la song che ha toccato maggiormente le mie corde. Altri pezzi da segnalare? La noiosissima (almeno nella prima metà) "Irina Margareta", che fortunatamente si ripiglierà nella seconda parte. La sintetica e stralunata, almeno per i canoni di questo disco, "The House". Forse la punkeggiante "MOMA", ma anche questa alla fine non mi convince granchè. Non so poi se "The Room" volutamente faccia il verso a "Time After Time" di Cindy Lauper, cosi come pure a Madonna, ai Queen (nel synth iniziale di "Fantasia Me Now!") o altri mille artisti degli anni '80, ma per me è ormai già troppo da digerire. I Major Parkinson rimangono sicuramente ottimi musicisti con una vera e propria orchestra di violini, violoncelli, arpe, tenori, soprani, trombe al seguito, che tuttavia poco, anzi per niente, si sposano con i miei gusti musicali. Mi spiace, ma per me è un no grande quanto una casa, almeno sulle pagine del Pozzo dei Dannati. (Francesco Scarci)

sabato 1 aprile 2023

Dobbeltgjenger – The Twins

#PER CHI AMA: Indie Rock/Alternative
Bisogna ammettere che la terza prova sulla lunga distanza del quintetto di Bergen, è da considerarsi la migliore realizzazione nella recente discografia dei Dobbeltgjenger. Musicalmente parlando, si nota fin da subito come una registrazione ed una produzione molto in linea con le mode dell'indie pop attuale, abbiano permesso il salto di qualità a lungo ricercato dalla band, negli album precedenti. Il quintetto ha saputo quindi focalizzare le proprie idee fino a renderle assai credibili, e in ambito pop, possono tranquillamente aspirare ad una visibilità su vasta scala. Il fatto che il pop sia predominante non crea nessun disagio alla proposta sonora offerta nel nuovo album. I suoni di 'The Twins' sono filtrati in una maniera molto moderna, e ricalcano certe vie intraprese da St. Vincent nell'omonimo album del 2014, e si mescolano ad una sana dose di funk e spunti rock, che ricordano certe cose degli Incubus più orecchiabili. Una sezione ritmica con un bassista virtuoso è nascosta nella ossessiva rincorsa al pezzo più cool, e a volte, ci si chiede persino perchè non abbiano optato per una soluzione più hard rock per questo album, ma la loro attitudine è più vicina ad album come 'The Chair in the Doorway' dei Living Colour, piuttosto che per qualcosa di più duro. La differenza è anche da ricercare in una raffinata sensualità, perfettamente in linea con alcune intuizioni pop degli INXS d'epoca e immagino che, se la band del compianto Michael Hutchinson fosse ancora tra noi, suonerebbe più o meno come questo nuovo lavoro della band norvegese. Basta sentire il finale di "Purplegreenish", oppure la stessa "Pink" per intuire che ingenuamente o volutamente, il riff di chitarra è pericolosamente ispirato dalla famosa "Suicide Blonde" o "I Need You Tonight", hit della band australiana, e questo mi piace parecchio, visto che nonostante tutto, le tracce riescono a mantenere un loro stile originale. Sono degli ottimi musicisti questi norvegesi, con un cantante bravo e padrone della scena e, al netto del taglio pop, i virtuosismi chitarristici e ritmici si sentono eccome. Certo, li avrei preferiti più rock ma forse questo è il loro contesto migliore e lo hanno voluto rimarcare con suoni ricercati, distorti ma di tendenza e ultra moderni, anche perchè, ditemi voi come si può stare fermi di fronte al giro funk di basso di "Genghis Khan", e alla sua esplosiva evoluzione. Un brano come "Shoot" potrebbe essere un out take dei Muse più dance oriented, mentre "Like Crocodile" e "Toughen Up" mostrano un lato più elettronico dai richiami dance e synth wave, dimenticando per un po' le chitarre. "When You Said That You Were Fine", vive di un basso frizzante per un free rock molto fresco e intelligente, e dimostra come l'esplorazione sia una prerogativa in tutte le tracce di questo buon disco che chiude degnamente con "Done", un esperimento di tre minuti tra space music ipnotica e un'apertura inaspettata ai confini cosmici del progressive rock in stile seventies che conferma la fantasia e l'abilità di questa interessantissima band. 'The Twins' è un album tutto da scoprire, per cui sono peraltro consigliati ripetuti ascolti anche in cuffia. Disco da non perdere. (Bob Stoner)

domenica 11 dicembre 2022

Nix & the Nothings - Here Goes Nothing

#PER CHI AMA: Punk/Garage
Norvegia, Bergen, la patria del black metal, ma non solo. Da qui arrivano infatti i Nix & the Nothings con il loro album di debutto, "Here Goes Nothing", uno sporco esempio di punk garage rock dalle tinte oscure. Si, perchè l'atmosfera che si respira nella traccia d'apertura, "Caveyard", ha un sound sporco, tetro e cattivo che potrebbe evocare i The Kinks ma anche i Misfits, sebbene quell'hammond in sottofondo possa semmai chiamare in causa i The Doors, ma lo stile è decisamente incazzato, vuoi forse per un cantato che sembra sotto gli effluvii dell'alcol. Dalla successiva "Why", la band non sembra più prendersi sul serio e sembra lanciarsi invece in un surf rock anni '60, con il solo difetto che la registrazione sembra essere avvenuta in cantina e per di più con l'aratro. Buona la componente vocale che dona quel giusto grado di ruvidezza al disco, cosi come pure l'assolo che chiude il brano. Si prosegue con "Good for Nothing" e lo schema non cambia, con quel concentrato di garage rock irriverente, a tratti nostalgico, sciorinato in ogni singola traccia, che alla fine rischiano di risultare forse troppo prevedibili per un disco, che sembra essere un tributo alla musica di oltre mezzo secolo fa. "All Night Long" offre un approccio "fake" live in un pezzo meno scanzonato e più mid-tempo, mentre con "Too Many Bugs" si torna a ballare nel fango. Con la successiva "Mushroom Baby" i nostri sembrano ritornare alle reminiscenze surf in un brano avvincente (fantastico il basso) ma penalizzato un po' troppo da quella "sporcizia" di fondo a livello produttivo, qui più evidente che da altre parti. "No Ghost", la song per cui è stato anche girato un video, è un pezzo acid blues rock che ahimè non mi prende per niente e non fa altro che spingermi a skippare alla successiva "Movin On", che come anticipato dal titolo, ha un carattere più movimentato e punk rock, con tanto di coro ruffiano, azzeccatissimo. In chiusura, la traccia più lunga del lotto, "Here Goes", quella però dall'attacco più mellifluo, con tanto di duetto vocale uomo donna che la fanno apparire come la classica ballad del disco o se volete, la degna conclusione di un lavoro che soffre di un'altalenanza umorale ancora da rivedere. (Francesco Scarci)

lunedì 19 settembre 2022

Anders Buaas – The Edinburgh Suite

#PER CHI AMA: Prog Rock
I dischi strumentali dei chitarristi di estrazione hard-prog non sono esattamente la mia tazza di tè, per cui mi sono approcciato a questo lavoro con una dose di diffidenza giustificata solo dai miei pregiudizi, anche se titolo e foto di copertina mi facevano comunque sperare in qualcosa di interessante (ho una mia teoria sulle copertine dei dischi, secondo la quale dischi belli possono avere copertine orribili ma non ho ancora trovato dischi orribili con belle copertine). Comunque sia, il norvegese Anders Buaas non è esattamente un ragazzino, e sa il fatto suo, tanto come chitarrista quanto come compositore e arrangiatore. Dopo una vita da turnista in band norvegesi e dopo aver accompaganto in tour gente del calibro di Paul Di Anno, da qualche anno ha intrapreso una carriera solista di cui questo rappresenta il sesto capitolo. Dopo un lavoro in tre parti sulla caccia alle streghe del sedicesimo e diciassettesimo secolo, uno di improvvisazioni chitarristiche e uno dedicato alle carte dei tarocchi, 'The Edinburgh Suite' è una lunga suite, appunto, divisa in due parti di circa venti minuti ciascuna. Accompagnato da una band di assoluto valore (basso, batteria, tastiere, percussioni e vibrafono), Mr. Buaas, che si rivela chitarrista di rango e dal bellissimo suono, ci regala un album davvero godibile ed estremamente curato in ogni passaggio e ogni particolare, riuscendo a passare con grande naturalezza da atmosfere acustiche e sognanti al folk britannico, al jazz, al prog metal, senza farsi mancare passaggi più tipicamente prog dominati dai synth. E riesce a farlo senza indulgere in eccessivi “sbrodolamenti” (il primo vero assolo di chitarra elettrica arriva dopo circa 10 minuti) e, cosa ancora più importante, riuscendo a tenere le varie parti della suite insieme con invidiabile coerenza e senso della misura. Davvero notevole poi la sua attitudine per le melodie “catchy”, epiche ma non fastidiose, quasi da colonna sonora. In definitiva, questa 'The Edinburgh Suite' è il primo disco del genere al quale riesco ad arrivare in fondo senza un malcelato senso di fastidio, da molto tempo a questa parte. Ottima sorpresa. (Mauro Catena)

domenica 8 maggio 2022

Strange Horizon - Beyond the Strange Horizon

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Saint Vitus
Gli Strange Horizon devono il loro moniker ad un brano dei Reverend Bizarre incluso nell'EP del 2003, 'Harbinger of Metal'. Questo riferimento vi deve sin da subito portare a riflettere quale genere possa offrire il trio norvegese di quest'oggi, che con 'Beyond the Strange Horizon', arriva al tanto agognato debutto. "Tower of Stone" apre le danze con un riffone doomish che ingloba nel suo sound anche una buona dose di stoner, psichedelia e proto-hard rock, che vi catapulterà indietro nel tempo di oltre 40 anni. Penso infatti a gente del calibro di Pentagram, Count Raven e ovviamente gli immancabili Black Sabbath. Certo, a differenza di quest'ultimi, la band di oggi prova ad azzardare un filo di più, inserendo sul classico robusto rifferama, anche una voce femminile. Più paranoica e originale, almeno da un punto di vista vocale, la successiva "Fake Templar", con un incedere lento e lisergico che chiama in causa i Saint Vitus, mentre uno straordinario assolo si mette in mostra a metà del brano, punto da cui ripartirà poi un riffone super fuzzato. Decisamente più ordinaria "The Final Vision", un pezzo che non aggiunge granchè al sound proposto, fatto salvo un bell'assolo bluesy nel finale. Attacco doomish per "Divine Fear", e al suo ampio spazio introduttivo concesso alle chitarre su cui si inseriranno le vocals di Qvillio, qui non particolarmente convincenti nelle parti più acute. Rullata di tamburi ed è tempo di "They Never Knew", un brano di cui ho apprezzato maggiormente il lavoro al basso di Lindesteg, con le parti strumentali che si confermano sempre di buon livello, anche se in certi casi risultano non troppo ispirate. È il caso della successiva "Chains of Society", song un po' troppo impastata e ancora un po' carente a livello vocale. Per sentire qualcosa di convincente, dobbiamo arrivare alla conclusiva "Death in Ice Valley": doom di scuola britannica per quello che è il pezzo più lungo del lavoro (oltre nove minuti), eteree voci femminili, ampi spazzi concessi al basso e un po' tutte le cose migliori degli Strange Horizon (assoli inclusi) che confluiscono in quest'ultimo brano che evidenzia pregi e difetti della band originaria di Bergen. Un ascolto è quanto meno dovuto se il doom rientra tra le vostre passioni. (Francesco Scarci)

giovedì 14 aprile 2022

The Flying Norwegians – New Day

#PER CHI AMA: Country Prog Rock
Qualche mese fa abbiamo parlato della ristampa del fortunato secondo album, intitolato 'Wounded Bird', del 1976, di questa band scandinava, che come si può immaginare dal loro moniker, è norvegese di nome e di fatto, ma che musicalmente amava definirsi semplicemente come americani di Norvegia. Oggi parliamo invece del loro disco di debutto del 1974, ristampato e rimasterizzato sempre nel 2021, e che farà la felicità degli estimatori della musica folk e country americana, molto popolare nel periodo che oscilla tra i tardi anni '60 e i primi '70. Come detto nella precedente recensione, il gruppo guidato dal chitarrista Rune Walle e dal batterista Gunnar Bergstrøm si affaccia al mercato di fine anni '70, con un ottimo debutto discografico, anche se per il sottoscritto 'Wounded Bird', rimane il mio preferito di sempre. In questo album si fondono come al solito i vari sentori e suoni di riferimento che hanno influenzato il combo norvegese. Il country degli immancabili the Flying Burrito Brothers, gli Eagles, Crosby, Still & Nash, che si alternano con brani, come l'apripista "Young Man", che mostra una sezione ritmica molto spiccata in salsa molto funk, e nella conclusiva "It Ain't Just Another Blow", dove la band di Bergen, si muove agevolmente con melodie allegre da polveroso saloon del vecchio West. In mezzo, un'infinità di chitarre, banjo, pedal steel, wah wah ed evoluzioni sofisticate, proprio come le creazioni dei coloratissimi The Flying Burrito Brothers, lontani anni luce da chi intende il country un genere poco ricercato e piatto. Composizioni ricche e dinamiche, che non disdegnano la presenza di qualche intromissione anche nel soul, nel blues e nel progressive rock, magari nelle sue forme espressive più soft, ma comunque intelligentemente strutturato. Il sound padrone, rimane quello delle grandi praterie americane, ballate solari e libertà, con escursioni anche nella psichedelia, come nell'intermezzo di "Those Were the Days", dove da classica country song si trasforma in una specie di evoluzione ritmica dai tratti caraibici e funge quasi da precursore alle strade percorse più tardi dal geniale David Byrne. La riedizione del disco gode di un'ottima sonorità, fedele all'originale, con suoni caldi e pieni, ma che, allo stesso tempo, suona nuova come se l'album fosse stato registrato ai giorni nostri. L'intera atmosfera del disco è molto rilassante, ed il gusto di starsene sdraiati in poltrona ad ascoltare le molteplici peripezie chitarristiche sparse qua e la, un po' in tutti i brani, sarà la gioia di molti amanti del suono equilibrato e ad alta fedeltà. Come ho detto in precedenza, li preferirirò nel disco successivo, ma non posso dire che anche questo intenso, lungo primo lavoro, non sia un grande disco e che, fin dal primo ascolto, per un vero intenditore di musica, sia un'opera che veramente vale la pena di ascoltarla tutta d'un fiato e ad alto volume! (Bob Stoner)

martedì 22 marzo 2022

Kryptograf – The Eldorado Spell

#PER CHI AMA: Stoner/Psichedelia
Bisogna ammettere che ascoltando il nuovo disco dei Kryptograf, si ha proprio l'impressione di tornare indietro nel tempo, perchè il vintage rock, imbevuto negli anni settanta di questi giovani musicisti indipendenti norvegesi, ha tutte le caratteristiche e la vitalità per rinverdire i suoni e gli eroi di un'epoca che mai sarà dimenticata dagli amanti del rock. Il quartetto di Bergen si destreggia egregiamente in un groviglio di spunti acidi, freschi, credibili e moderni, giocando con lo stoner, esaltandone i toni 70's e psichedelici, riuscendo nella difficile opera di presentare un lavoro che risulti contemporaneamente, derivativo, originale ed attuale. L'attualità la offre una più che valida produzione, che permette a tutti i suoni di entrare in circolo nel modo migliore. L'originalità invece la dona la loro visione personale dello stoner, assai ritmico e legato a suoni compressi, dilatati quel tanto che basta per dare quella giusta dinamica retrò, per cui non si ha mai la sensazione che la band si spinga veramente verso qualcosa di heavy anzi, prevale un mood quasi primordiale volto a rispolverare i fantasmi sonori dei Black Sabbath di 'Technical Ecstasy', senza spingere mai sui bassi, o senza imitare i Kyuss e gli Electric Wizard. Le chitarre suonano riff ricercati che in più circostanze ricordano le particolari atmosfere create dal mitico Martin Barre (Lucifer's Hand) e in generale, si trovano a proprio agio tra le coordinate più elaborate del suono (prendete ad esempio gli effetti usati per le voci) come fossero una restaurazione moderna di quel folgorante debutto che fu l'omonimo album di Captain Beyond del 1972. Nel comporre posso dire che i nostri sono dei virtuosi (ascoltate il brano "Aphodel") con un grande talento nel mescolare e rianimare quei suoni lontani nel tempo, e dotati di una forte personalità che li porta a proporre una canzone come"The Eldorado Spell" dove la batteria sembra uscita da una canzone dimenticata per decenni in un cassetto nella scrivania dei The Doors con quelle sue atmosfere acide, psichedeliche ma con risvolti al limite del progressivo. Quando la band calca la mano sulla vena stoner, come accade in "The Spiral", la magia di questo genere si riaccende ed sebbene preferisca la band in un contesto più progressivo e curato, la musica si apre a visioni allucinogene nello stile dei Frozen Planet...1969 o dei mai dimenticati Core di 'Revival', i Kal-El o le visioni acide dei Kadavar, gli Sheavy o gli Half Man. Per gustarvi la band e verificare con i vostri occhi ma soprattutto con le vostre orecchie le capacità di questo giovane quartetto, cercate su youtube la loro performance live "OrangeJams w/ Jam in the Van", avrete modo di apprezzare ancora di più la band ed il loro nuovo imperdibile album. (Bob Stoner)

venerdì 29 ottobre 2021

Flying Norwegians – Wounded Bird

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Psych/Country Rock
La cittadina di Bergen non significa solo Burzum, Borknagar, black metal o avantgarde metal, molto tempo prima del periodo metal infatti, la musica nell'abitato norvegese, aveva forgiato altri eroi e altri generi musicali. Alla fine degli anni '60, il chitarrista Rune Walle e il batterista Gunnar Bergstrøm, erano degli emergenti e giovani musicisti molto abili, che vennero presto reclutati nella rock band Saft, e parteciparono all'incisione del terzo, fortunato album, dal titolo 'Stev, Sull, Rock 'n Roll'. L'ambizione dei due però ardeva forte per una svolta musicale più country, eguagliando le vette di Eagles e Flying Burrito Brothers, così nel gennaio del 1974, i nostri decisero di formare una propria band dal nome, Flying Norwegians. La breve introduzione storica, serviva a presentare questa ultima ristampa (disponibile anche in cd, vinile e formato digitale), del loro fortunatissimo secondo album, intitolato 'Wounded Bird', del 1976, che li rese assai celebri in patria e che portò Walle a suonare anche con gli Ozark Mountain Daredevil in America, a seguito di celebri band come the Doobie Brothers, Jeff Beck, The Beach Boys. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, tra album buoni e sperimentazioni meno significative, tour, separazioni e reunion, fino ad arrivare a questa fedele ristampa che mantiene il sound caldo e profondo della band direttamente dal mastertapes originale, senza stravolgerne gli equilibri, mantenendone le caratteristiche originali. Qui tutto il calore del loro sound viene trasferito con perizia e gusto in digitale, per assaporare al meglio le atmosfere della steel guitar e quegli ambienti d'estrazione a stelle e strisce che, in quel periodo, permisero alla band scandinava di essere soprannominata col giusto onore, Eagles di Norvegia. Il resto lo dice l'ascolto del disco, con le sue atmosfere sognanti, in pieno spirito psichedelico d'epoca 60's, con innesti di rock alla The Byrds e quel classico country sempre in perfetto equilibrio. Composizioni multicolori contornate anche di escursioni musicali virtuose, il canto solare, il banjo e l'immancabile folk di matrice americana, la presenza costante di una forte e caratteristica connotazione europea, in stile Runrig (periodo 'Play Gaelic'), che mantiene costantemente i brani lontani da qualsiasi tentazione di plagio. Inutile fare l'elenco dei brani migliori, l'opera va riscoperta nella sua totalità, canzone dopo canzone, nota dopo nota, per essere assaporata a dovere. Un ottimo lavoro di ristampa che non mancherà d' essere ben apprezzato anche da chi non ha potuto ascoltarlo alla sua prima realizzazione, sicuramente apprezzabile anche da un pubblico più giovane, appassionato di riscoperte storiche. (Bob Stoner)

lunedì 13 settembre 2021

De Press – Block to Block / Product



#PER CHI AMA: Punk/New Wave
Parlare di una band che in un solo anno di attività ha lasciato il segno nella storia del post punk europeo non è compito facile. I detrattori potrebbero dire che non era tutta farina del loro sacco, che dentro alla loro musica, in un periodo temporale a cavallo tra la fine del punk e la nascente scena post punk/new wave di primi anni '80, c'erano mille richiami stilistici di altri gruppi ben più noti e le correnti che attraversavano le composizioni di Andrej Nebb (Andrzej Dziubek) e compagni si cullavano tra riferimenti punk alla The Blood, tensione esistenziale alla Warsaw, punk oi!, ska, dark rock, art punk berlinese emiliano alla CCCP, new wave alla Theatre of Hate e per l'appunto, tutto il nascente fenomeno post punk. La musica dei De Press del primo album, 'Block to Block', era evidentemente debitrice di tutte queste band ma con una particolarità stilistica che li rendeva padroni di una formula musicale unica di quel periodo, ossia un'attitudine naturale e una singolare capacità di inglobare in ogni loro composizione, tutti assieme i dogmi e i modi di fare più consoni, di tutte le altre band appartenenti a questo genere musicale tanto trasversale al tempo e tanto diverso da quello che oggi viene chiamato erroneamente post punk. I primi due dischi della loro sterminata discografia, sono stati ristampati e rimasterizzati con cura e ottima qualità, anche in formato vinile, dalla Apollon records. Per festeggiare il quarantesimo anniversario di 'Block to Block' ed il secondo 'Product', del 1982, registrato con la band ormai già sciolta e che vedeva il trio spostare il suo sound verso lidi new wave ancor più convincenti e vicini alla musica di The Sound e Joy Division, vengono oggi riportati alla luce nella loro totale bellezza, due album che sono entrati nella leggenda e che rendono il giusto omaggio ad un gruppo imperiale. Nato e cresciuto nel panorama sotterraneo norvegese, la band ha lasciato un segno indelebile nella storia musicale dell'epoca, in Norvegia e Polonia ma anche nel resto d'Europa. La band resa famosa anche dal canto inusuale in lingua pseudo inglese/polacco/norvegese, dal bassista e vocalist, musicista e rifugiato politico dalla Polonia in Norvegia, con 'Block to Block' ha ottenuto, in terra scandinava, il riconoscimento di miglior album rock del XX secolo. Due dischi fondamentali, colmi di rabbia, immediatezza stilistica, impegno sociale, politico e tanta ribellione, che non possono mancare negli scaffali di un estimatore del post punk tout court, alla pari di 'Hymns of Faith' dei Crisis, 'Always Now' dei Section 25 oppure 'Westworld' dei Theatre of Hate. La prima incarnazione dei De Press chiude la propria discografia con l'ottimo epitaffio discografico live, del 1983, dal titolo 'On the Other Side', che depone le armi del trio e ne affossa definitivamente l'attività artistica di quel periodo. L'attività musicale riprenderà solo un decennio più tardi, per continuare fino ai giorni nostri senza interruzioni, con una nuova formazione capitanata sempre dall'instancabile Andrej Nebb, che nel 1991 fa rinascere la band sotto una nuova veste musicale a metà strada tra musica folk della tradizione polacca, reminiscenze rock e protesta sonora alla The Fall, confezionando ad oggi un'infinità di opere musicali. Ma questa è un'altra facciata della storia dei De Press su cui poter ancora scrivere diverse pagine. Una band che è stata un culto dell'underground, un fenomeno venuto dal grande nord che pochi ricorderanno, ma che vale la pena rispolverare e ammirare ancora una volta. (Bob Stoner)

lunedì 16 novembre 2020

Brudini - From Darkness, Light

#PER CHI AMA: Psych/Indie Rock
'From Darkness, Light' mette in musica fatti ed esperienze di vita del giovane musicista thailandese/norvegese (e ora trasferitosi a Londra) Erik Brudvik, in arte Brudini, in una sorta di speciale diario di bordo autobiografico, scritto con una predilizione verso l'estetica della poesia in musica. I dodici brani sono tutti brevi o brevissimi e si cimentano in un susseguirsi di istantanee che alternano sentimenti come la malinconia, la speranza o la sconfitta, seguendo un filo logico nel raccontare storie di vita vissute dell'autore. Colpisce la peculiarità nella scelta dei suoni ed il legame che si instaura tra i pezzi, assai simile ad un concept album di stampo, passatemi il termine, progressivo. Non che la musica si snodi in termini di rock progressivo ma l'attitudine narrativa ricorda molto gli stilemi della composizione libera di certa musica estrosa, anche se qui tutto è indirizzato verso l'interpretazione minimale del sound. Così, brano dopo brano ci si imbatte in piccole suite di jazz psichedelico, come nella splendida "Emotional Outlaw", oppure ci si lascia corrompere dalla malinconica gioia di "Pale Gold" e dalla sua incalzante marcetta dal gusto sudamericano, un motivo molto divertente che non scade mai nel banale. La poesia si intervalla alle canzoni fin dall'inizio, con gli intermezzi recitati da Brudvick su testi poetici dello scrittore californiano Chip Martin, che nella costruzione ricordano, con toni più moderati e sommessi, l'esperimento "The Valley of Unrest", del grande Lou Reed, nel concept album dedicato alle poesie ed ai racconti di E. A. Poe, 'The Raven'. Il disco scorre veloce tra chitarre acustiche e batterie indie, la voce di Brudini è solenne, narrante e farà felice i fans degli statunitensi Death Cab for Cutie, o gli amanti delle atmosfere dell'ultimo Plans, che si porta appresso sempre una buona dose di malinconia, in un miscuglio tra un Dylan d'annata e le evocative tonalità di Antoine Mermet dei Saint Sadrill, che in alcuni brani dal tocco più solare, penso a "Radiant Man", riesce a creare un perfetto equilibrio tra luci ed ombre che si eleva a vette assai alte di bellezza. "Everything is Movement" è un brano intimo, giocato su rintocchi di piano, rumori e percussioni dal forte sapore di jazz notturno e disperato, atmosfere offuscate nella prima metà per poi sorprendere con un'apertura pop/soul sognante ed ariosa, con archi e tastiere che liberano dallo stato di visione grigia disseminato ovunque nell'album. Non dimentichiamoci poi quella sottile vena psichedelica presente nei brani, che sparsa qua e là, dona un tocco naif al disco, trovando il suo apice, nella canzone conclusiva, "Boulevards", meravigliosamente delicata, cosmica ed ipnotica. Un album riflessivo, per certi aspetti stravagante, che usa tante idee pur mantenendo un profilo minimale per il sound ed un profilo altamente espressivo nel canto, un disco che vale la pena ascoltare. (Bob Stoner)

(Apollon Records - 2020)
Voto: 73

http://www.brudini.com/

venerdì 16 ottobre 2020

Slomosa - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Punk, Offspring
Quello dei norvegesi Slomosa è senza dubbio un buon disco di debutto, suonato bene, con giuste sonorità, tanto tipiche se non un po' scontate dello stoner rock. Un genere che annovera tra i più famosi e storici rappresentanti, i Queens of the Stone Age, creatori e divulgatori di un suono che ha fatto storia e che ha influenzato migliaia di band, rischiando di generare una vera e propria dinastia di cloni che però ha impedito allo stoner di evolversi in maniera libera come fu per il primo periodo negli anni '90/2000. Da perfetti estimatori della band di Joshua Homme, il quartetto di Bergen si è impegnato a ricreare conosciute atmosfere e scorribande rock che spingono molto sull'acceleratore, mostrando muscoli e sudore assieme ad una lieve propensione space rock, lodevole caratteristica che nei primi tre brani funziona assai bene, poi va un po' perdendosi. "Horses", "Kevin" e "There is Nothing New Under the Sun", accompagnati da un cantato che stranamente ricorda molto l'effetto epico del positive punk (tra Theatre of Hate e The Offspring), suonano splendidamente carichi di energia, creando quel coinvolgimento nell'ascoltatore, cosa che non si può dire della seguente "In My Mind's Desert", con l'inizio che anima un drammatico presagio, ovvero il ricordo di band mollicce come Lit o Sugar Ray degli anni '90, sfatato solo in parte da un suono ruvido e pesante. Fortunatamente a seguire, parte il giro in puro stile Kyuss di "Scavengers", giusto in tempo per rianimare le mie aspirazioni desertiche e ristabilire i canoni sonori per una band che quando esce dal seminato stoner non riesce ad essere convincente ed interessante fino in fondo. Quello che esce poi da questo disco, per i tre brani conclusivi, risulta essere un susseguirsi di richiami statici verso un rock mascherato di stoner, con suoni e riff, triti e ritriti, volti verso una assidua ricerca dell'orecchiabilità perfetta, della simbiosi musicale verso i maestri, come la conclusiva "One and Beyond" dove i chiaroscuri del brano riescono solo in parte, visti i soliti richiami al genere. A mio modesto avviso gli Slomosa avrebbero doti e capacità per aprirsi verso sonorità più grunge e underground della prima ora, oppure spostarsi verso un sound molto più europeo, liquido, acido e pesante alla 7Zuma7. Lavoro con otto brani altalenanti nel carattere, band con una personalità ancora acerba e un sound troppo derivativo. (Bob Stoner)

(Apollon Records AS - 2020)
Voto: 63

https://slomosa1.bandcamp.com/album/slomosa

domenica 19 luglio 2020

The Opium Cartel - Valor

#PER CHI AMA: Dream Synth Pop/New Wave/Alternative
Devo ammettere che mi ha incuriosito molto vedere nella autodescrizione del gruppo, citazioni musicali che includevano nomi illustri come Japan e Prefab Sprout, considerando che l'attuale gusto sonoro di massa, neanche li ricorda più o ancor peggio, se qualcuno rivanga il passato degli '80s, è solo per le banalità e per le band più scontate dell'epoca. Il collettivo norvegese The Opium Cartel, con a capo una stupenda voce femminile, ha la grande virtù di conoscere la formula per far rinascere le atmosfere che hanno resi indimenticabili, album usciti in quell'era da sogno. Così, brano dopo brano, rimescolando le carte, ci si addentra in un viaggio retrò da pelle d'oca, in un sofisticato gioco di rimandi continui, rielaborati in maniera intelligente e con l'aggiunta di un'ottica di svolgimento progressiva, direi degna di alcune prove superbe del miglior The Alan Parson's Project. A turno i brani spaziano in variegati ambienti sonori, dalle tastiere di cristallo dal sapore orientale di Sylvian e soci, fino ad emulare il suono del basso del compianto e irraggiungibile Mick Karn, rievocandolo anche in alcuni suoni di synth d'annata di scuola Dalis Car. Passiamo per i Cocteau Twins più leggeri e pop di 'Milk and Kisses' che risultano un'ispirazione costante assieme a certi suoni gommosi e batterie riverberate di memoria Berlin, che con i citati Prefab Sprout si contendono la gara dei ricordi con i Missing Persons ed evoluzioni inaspettate di leggero progressive rock molto controllato, d'atmosfera tipica di certo prog plastico degli anni '80. "Nightwings" è un brano pop dalla forte propensione radiofonica, che con classe ingloba i suoni pop degli ultimi The Cure con evoluzioni moderne alla Florence and the Machine. L'inizio di "Fairground Sunday" potrebbe essere un out take di 'MBV' dei My Bloody Valentine, se il proseguo fosse stato in un mare di feedback e shoegaze, ma il risveglio non avviene in questa realtà e ci si culla fino alla fine in una morbida psichedelia cristallina. Per restare in tema eighties, spunta in chiusura a sorpresa, la cover della band hard rock californiana Ratt, "What's it Gonna Be" (unico brano cantato da voce maschile), elaborato e sintetizzato in un contesto ritmico alla Big Country che non perde assolutamente smalto nei confronti dell'originale. Un nuovo album questo 'Valor', moderno ma dal sapore retrò. Un disco ben confezionato, ben prodotto, da ascoltare in profondità per capire tutte le influenze che hanno ispirato la band in questo gustoso ed anche (a suo modo) originale impasto sonoro. Una band che da tempo lavora sulla revisione di queste sonorità, toccando con questa nuova uscita, una vetta di qualità molto alta. Consigliato l'ascolto ad amanti ed estimatori del genere, musica per menti aperte sul panorama dream pop più raffinato, ricercato e d'alta gamma. (Bob Stoner)

(Apollon Record AS - 2020)
Voto: 73

https://theopiumcartel.bandcamp.com/album/valor