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domenica 24 maggio 2020

Smokemaster - S/t

#PER CHI AMA: Psych Rock
Gli Smokemaster arrivano dalla Germania, più precisamente da Colonia, con l’evidente missione di rendere felici tutti gli amanti del rock psichedelico e delle sonorità valvolari. Diciamolo subito: la passione per questo genere sembra davvero intramontabile, malgrado sia impossibile negare che il filone, sfruttato da un’infinità di formazioni provenienti da ogni parte del globo, abbia ormai esaurito la sua capacità di offrire materiale innovativo o, quantomeno, che non guardi costantemente al passato. Questi cinque ragazzi teutonici ne sono evidentemente coscienti e hanno costruito ciò che si rivela senza mezze misure un disco per nostalgici: si passa dal pezzo strumentale in stile My Sleeping Karma (per altro connazionali) “Solar Flares”, che ci stuzzica con le sue suggestioni kraut-rock, allo stoner-blues scuola Orange Goblin di “Trippin’ Blues”, mentre la lunga “Ear of the Universe” pesca a piene mani dall’hard-rock anni settanta, con tanto di organo hammond d’ordinanza e persino un’armonica ad enfatizzare il gusto retrò. Il lato B dell’album ripercorre grosso modo l’andazzo del precedente con l’aggiunta dell’escursione country di “Sunrise in the Canyon”; a spiccare sono però “Astronaut of Love”, brano mosso dal pulsante giro di basso e genuinamente stoner-rock, e “Astral Traveller”, divertente cavalcata psichedelica dalle intriganti ritmiche di batteria, infiniti solo di chitarra e liquidi effetti elettronici che si disperdono nell’etere. 'Smokemaster' è un ascolto piacevole e un ottimo compagno tanto per eventuali trip verso l’ignoto quanto per le lunghe e non sempre facili giornate che stanno caratterizzando il periodo del suo rilascio. È però un disco che si mantiene ostinatamente nella sicura ombra di opere del passato e rivolto ad una platea ben precisa, mentre per lasciare il segno occorrerebbe qualcosa di più. (Shadowsofthesun)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 61

https://smokemaster.bandcamp.com/

VV. AA. - Solar Flare Records

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Noise
Un'altra compilation nelle mie mani questo mese, devo essere stato davvero cattivo negli ultimi tempi. Autori del misfatto questa volta i francesi della Solar Flar Records (supportata dalla Atypeek Music), che raccolgono qui 10 band del loro roster per testimoniare quanto portato avanti sin qui dall'etichetta e quanto dovrebbe prospettarsi roseo il futuro. Il cd si apre con il caustico refrain noise/post-hardcore degli statunitensi Pigs e della loro "Give It", estratta dall'album del 2012, 'You Ruin Everything'. Questo per dire che le tracce non sono proprio recentissime. I nostri torneranno più avanti con una più ritmata e convincente "The Life in Pink". Dei Sofy Major credo abbiamo abbondantemente parlato su queste stesse pagine, mentre non abbiamo mai avuto l'opportunità di saggiare il sound melmoso, schizzato e super fuzzato dei francesi Pord che, con "Staring Into Space", ci riportano al 2014: interessanti ma difficili da digerire senza un bel malox a supporto. Continuiamo col super ribassato sound dei Watertank e della loro "Pro Cooks", una combinazione di doom, noise e post-hc con voci molto (troppo) ruffiane, che mal si conciliano con i miei gusti, confermato anche dalla seconda "DCVR". Ancora chitarre sporche, voci abrasive e atmosfere psichedelicamente distorte con i Bardus, ma potete capire come sia difficile fare valutazioni sulla base di un pezzo, niente male comunque. Gli American Heritage fanno un punk hardcore inverinato che nelle due schegge a disposizione mostrano la verve abrasiva della band. I Fashion Week, per quanto fautori di un sound a tratti intrigante, alla fine non mi fanno proprio impazzire con il loro post grunge di scuola Smashing Pumpkins. Più strani i The Great Sabatini, con un punk noise hardcore all'inizio fastidioso, molto più interessante invece nelle linee più sludge della loro proposta. Ultima menzione per i Carne e "1000 Beers", estratta da 'Ville Morgue' (2013) che mette in mostra un post-hardcore dissonante che sembra ricongiungersi virtualmente al black destrutturato dei compaesani Deathspell Omega. In chiusura gli Stuntman e il loro devastante e irriverente hardcore, la forma più brutale di questo concentrato nerboruto di suoni tremendamente sporchi. (Francesco Scarci)

(Solar Flare Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: S.V.

https://www.facebook.com/solarflarerecords

venerdì 22 maggio 2020

Meanwhile Project Ltd - Marseille

#PER CHI AMA: Alternative/Indie Rock
Sono passati alcuni anni dal precedente album del duo tedesco, molti live set ed esperienze umane che hanno portato i Meanwhile Project Ltd ad una maturazione più che compiuta, una sorta di rinascita artistica con numerosi spunti musicali presi in prestito da molteplici fonti sonore, tante idee per composizioni creative e colorate. Tanta è la qualità espressa in questa manciata di canzoni dai mille volti, raccolte assieme da un unico comune denominatore, l'indie rock in tutte le sue forme. A dire il vero, dentro questa scatola musicale ci troviamo di tutto, dall'alt country di "Marseille", che dona il titolo anche all'album, all'indie rock alla Deus del singolo "Selina", sorretto da atmosfere acide e luccicanti, e un sound imprevedibile e suggestivo, ai confini temporali con gli anni '70, capitanato da una malinconica marcetta di memoria doorsiana, e ancora che dire della splendida "Idols Shaking Hands". Lo spettacolo continua con "Insect Boy" che rincorre le romantiche e tempestose teorie canore del miglior Neil Young mixate ad una vena psichedelica astratta in puro stile Mercury Rev (incredibile la somiglianza vocale con Donahue e Young in questo brano). "Lost on Demand" ed "Emigrant" toccano il lato sentimentale ove sale in cattedra una certa ammirazione per il folk, complesso e raffinato, del miglior Nick Drake, con quell'arrangiamento fiabesco che esalta il lavoro in sottofondo fatto dagli ospiti/amici della Subway Jazz Orchestra che da questo punto del disco diventano veramente indispensabili al sound dei nostri. Il sax sospeso di "Tired Boy" e l'ombra del dark jazz di "Golden Sunrise" esaltano il suono e lo espandono in profondità ed espressività portandolo fuori dal tempo, costruendo una forma canzone originalissima e poco accostabile ad altre realtà. "Seventyheight" è un cortocircuito notturno che con le sue arie, ricorda le atmosfere rarefatte, delle composizioni dei Fleet Foxes, mentre la conclusiva "Ghost With a Toy" ci avvia alla fine del viaggio, rimarcando quel tocco di malinconia eterea che avvolge l'intero album. La premiata ditta Marcus Adam & Marcell Birreck ha sfornato un gioiellino tutto da ascoltare, valorizzato da un suono avvolgente, raffinato, un disco ragionato e ispirato, suonato, cantato e composto con grande maestria. Un grande disco di indie rock e finalmente, possiamo dire che il pop è diventato adulto. Ottimo lavoro! (Bob Stoner)

Daven - Frontiers

#PER CHI AMA: Prog Death
Premesso che è meglio sorvolare sulla banalità di un artwork di questo tipo, vi confermo che è molto meglio concentrarsi sulla musica della one-man-band statunitense. 'Frontiers' è il titolo dell'ultimo arrivato in casa Daven, un'artista che può vantare nella sua discografia ben sette EP, tra cui quello di oggi. Il genere proposto dal mastermind di Columbia in Missouri, è un colorito e particolare black death che si apre sulle note soffuse dei synth di "Hostile Life" che fungono un po' da intro apripista ad una traccia ben più complessa e strutturata, che ha il merito di svelarsi in modo sinistro. Dopo i synth d'apertura, ecco infatti un riff compatto e marziale, sul cui sfondo si alternano differenti spoken words che sembrano preparare il terreno all'arrivo di un sound che si rivelerà ben calibrato e ritmato, ove il cantato mostri finalmente la sua anima growl. Il pezzo si muove poi su un mid-tempo costruito da un rifferama di scuola meshuggahiana con in background leggiadre keys che costruiscono interessanti trame atmosferiche. Il risultato è alla fine piacevole, ma non ne dubitavo da uno che suonare in band (tra ex e attuali, ne vanta ben 12) ne fa verosimilmente lo scopo di vita. La seconda "Ship of Destiny"si muove invece tra un viking black e il death, non mostrando chissà quale grande inventiva ma suonando in realtà in modo semplice e pulito, con una buona vena melodica che dal break acustico di metà brano in poi, e pur mettendo in luce i punti deboli del musicista americano, ne evidenzia anche i punti di forza. "RD/RN" sembra un brano uscito da una qualche band prog rock anni '70, il che mi lascia alquanto spiazzato visto che sembra completamente scollegato da quanto ascoltato sin qui. Anche a livello vocale si assiste ad una vera trasmutazione del vocalist che qui canta un po' stile Alice Cooper. E arriviamo alla title track, una song che esibisce le influenze folk rock dello stato da cui proviene Mr. Daven, e in cui il duetto chitarra acustica e pianoforte, hanno un forte impatto strumentale. Poi il chitarrone elettrico, scuola Devin Townsend, viene in supporto, tessendo una buona trama chitarristica progressive, il tutto rigorosamente in chiave strumentale che non mi svela alla fine granchè di questo artista nord americano, avendomi mostrato in quattro tracce, quattro anime quasi del tutto differenti. Da tenere comunque monitorato, per capire dove Daven andrà a parare nell'immediato futuro. (Francesco Scarci)

Dead Prophet - Sounds of Enlightenment

#PER CHI AMA: Death/Grind
Ep di debutto per questa non troppo giovane band: formatisi infatti nel 2011 a Nowy Sącz in Polonia, dopo tre anni di attività, i Dead Prophet si prendono una pausa di altri 36 mesi fino al 2017, quando il trio ritorna in sella e si mette a registrare questo 'Sounds of Enlightenment'. Cinque pezzi di una ferocia inaudita che confermano come la terra di Behemoth, Vader e Antigama, sia luogo ideale dove sprigionare la furia di un terremoto. Fatta eccezione per l'intro, il lavoro è infatti uno schizofrenico dipinto di suoni techno death/grind che s'innescano da "Unexpected Suffering" e arrivano alla conclusiva "Mutilated Waltz", danzando sull'ubriancante vortice di un brutal death senza compromessi, con chitarre sparate alla velocità della luce e una voce caustica dietro al microfono. I nostri non solo divampano la loro energia con sfuriate death grind, ma si confermano abili giocolieri quando tirano il freno a mano per il classico testa coda e il rallentamento è li, dietro l'angolo, pronto subitamente a ripartire. Interessante la terza "Renunciacion of God" che a livello atmosferico (ridotto al lumicino sia chiaro) mi ha evocato i Nocturnus di 'Thresholds', mentre le ritmiche successivamente fanno l'occhiolino ai Morbid Angel più incazzati. E la gragnola di colpi prosegue anche sotto il martellare senza tregua di "Flakka", a confermare le qualità disumane del drummer polacco. Insomma 'Sounds of Enlightenment' è un biglietto da visita interessante per chi ama vedere il proprio naso grondare dai pugni ficcanti di band extreme death. (Francesco Scarci)



domenica 17 maggio 2020

Sole Perfundi - Car ils Seront Comme de la Cendre

#PER CHI AMA: Black, Burzum
La scena estrema francese continua a fare incetta di nuove promesse. Gli ultimi arrivati sono i Sole Perfundi, one-man-band di Tolosa, capitanata però da quel M.S che qui nel Pozzo si è già fatto vedere con l'altra sua creatura, gli Heir. La proposta della band di quest'oggi è all'insegna di un black caustico dai comunque forti connotati atmosferici, forti di un utilizzo spettrale delle tastiere in sottofondo. La voce del frontman, che pare provenire dalle viscere dell'Inferno, completano il quadro di una song che fa di un unico riff glaciale il suo punto di forza. Questa ridondanza ritmica finisce per stordire, quasi terrorizzare l'ascoltatore, soprattutto laddove il sound rallenta quasi a fermarsi in un enigmatico, rarefatto e dilatato momento di delirio corale, in cui oltre a stralunati arpeggi di chitarra, si presentano salmodianti cori esoterici. Questa era "Sol Justitiæ", l'opening track, mentre la seconda "Sole Perfundi" riprende con un black mid-tempo dalle tinte burzumiane, periodo 'Hvis Lyset Tar Oss'. Ancora un unico riff, su cui si agganciano semplici ma efficacissimi tocchi di tastiera, ed uno screaming crudo che si colloca alla perfezione in questo paesaggio di sconfinata desolazione, dove potersi perdere con la propria anima condannata alla dannazione eterna. L'ultimo scroscio post-punk sigilla alla grande un lavoro ancora interlocutorio, ma che se sviluppato intelligentemente, potrà regalare interessanti prospettive future. (Francesco Scarci)

Jake Howsam Lowe - Oh Earth

#PER CHI AMA: Math/Djent strumentale
Dura ahimè solo una quindicina di minuti l'EP dell'australiano Jake Howsam Lowe, chitarrista dei The Helix Nebula e live-session dei Plini. Il musicista di Sydney è un funambolo della chitarra e la title track di questo 'Oh Earth', posta in apertura, me lo conferma, soprattutto perchè per una volta tanto riesco a concentrarmi molto di più sulla musica che sull'assenza di un vocalist. E quindi mi lascio trasportare dai giochi matematici diretti dalla magica chitarra di Jake che si lancia anche in furiose ritmiche che guardiano sia a Between the Buried and Me che ai Fallujah. Il gioco prosegue anche nella seconda brevissima "Breath", in cui il mastermind incanala tutta la sua energia in un caleidoscopico e ubriacante lavoro ritmico, lanciato davvero a tutta velocità, non una velocità fine a se stessa, nemmeno uno sterile esercizio di stile, ma con un tentativo volto a trasmettere delle emozioni attraverso un flusso quasi isterico di note che trova pace nella quiete solitaria del basso fluttuante (opera del jazzista australiano Callum Eggins) di "Another World". Una pausa per tornare più roboanti e isterici che mai in "Caverns", dove fa la sua comparsa un altro ospite alla chitarra, Stephen Taranto dei The Helix Nebula. E allora immaginate quanto ascoltato sinora sia sdoppiato in un duplice gioco di chitarre, una sorta di guardia e ladri tra due eroi dell'ascia, tra salite e ripide discese che sfociano nell'ultima "Refuge". Qui la terza e la quarta ospitata, carramba, con I Built The Sky
 responsabile del primo assolo e Jake Willson del secondo inebriante solo che chiude con eleganza un lavoro che funge da invitante antipasto per una release più lunga e strutturata. (Francesco Scarci)

Forelunar - Sonorous Colours of Dolour

#PER CHI AMA: Post-Black
Che rabbia quando gli album interessanti rimangono relegati a semplice disco digitale, l'impressione è che scivolino nel dimenticatoio assai più velocemente. Questo è quanto accade a 'Sonorous Colours of Dolour', disco di debutto della one-man-band iraniana Forelunar, il cui mastermind è anche mente di altri progetti altrettanto interessanti del sottobosco, quali Erancnoir, Etheraldine ed Forestionist, tanto per citare i principali. La proposta dei Forelunar è per il sottoscritto un toccasana quando sento la necessità di immergermi in sonorità decadenti, malinconiche ma che comunque mantengono intatto lo spirito battagliero del post-black senza rinunciare però alla poesia e al romanticismo che un genere cosi estremo avrebbe comunque da offrire. A dir poco splendide le melodie dell'iniziale "Epicede" che si muove tra accelerazioni black e un molto più ampio e variegato paesaggio atmosferico, quasi dilaniante da un punto di vista emotivo per le sue melodie cosi fortemente autunnali. Questo album lo vorrei in un formato fisico, lo vorrei toccare, annusare, stringerlo nei momenti di difficoltà, captare quali siano i messaggi che il bravo Harpag Karnik vuole trasmetterci attraverso ogni sua singola nota, come quelle elegiache poste nell'incipit di "Ardour" giust'appunto prima che divampi quel tornado ritmico che sembra spazzare via tutte le nubi che offuscano la mente. Lo screaming indecifrabile dà voce solo alla nostre coscienze narrando tutto quello che si muove dentro a noi stessi e che emerge e si infrange nelle note di questa song favolosa, presagio di un altro uragano all'orizzonte, "Dolour". Qui il fragore irrompe fin da subito con quella ritmica che ha le sembianze di una nuvolaglia che avanza veloce insieme al vento, chitarre, blast beat e soffici tastiere che ne ammortizzano il vigore fino ad un improvviso break di pianoforte che, diavolo, trovo inebriante nella sua semplicità espressiva e ci sorregge fino alla conclusiva "Sanguine". L'incipit questa volta affidato allo scroscio dell'acqua, sa molto di quiete dopo la tempesta, ma alla fine mi rendo conto che quest'ultimo pezzo ha un flavour burzumiano, quello della recente èra ambient, che porta a chiudere questo brillante 'Sonorous Colours of Dolour', che auspico sia in grado di trovare chi possa produrlo in formato fisico al più presto. Sarebbe un delitto infatti lasciar cadere nell'oblio un simile gioiello. (Francesco Scarci)

sabato 16 maggio 2020

VV. AA. - 2003-2020

#PER CHI AMA: Garage Rock/Punk
Lo dichiaro immediatamente, non amo le compilation dove sono inserite più band, uno strumento utile solo per le etichette per fare propaganda al proprio roster, noioso per chi come il sottoscritto, deve ascoltare alla rinfusa brani scelti a rappresentare in modo totalmente casuale e poco approfondito, le varie band incluse. Fatte la dovuta premesse, dirò anche che non è assolutamente mia intenzione fare un track by track, non ne avrebbe alcun senso considerato poi che molte delle 28 band incluse in questa carrellata infinita, sono già state recensite su queste stesse pagine con i rispettivi album. La Go Down Records per celebrare i 17 anni di vita (non poteva aspettare i 20, mi domando) ha pensato bene di rilasciare questo lavoro, che si apre col blues rock mellifluo degli Alice Tambourine Lover e con la delicata ugola della sua frontwoman. Poi a ruota, il garage rock degli Ananda Mida con un estratto da 'Cathodnatius', il surf rock dei Diplomatics e il desert rock dei Fatso Jetson. Il comun denominatore lo vedete pure voi, è solo uno, il rock appunto, in ogni sua forma e manifestazione, un genere di cui la Go Down Records ne è assoluta alfiere. E allora nella giostra di questa raccolta non potevano mancare le divagazioni prog jazz de Glincolti o il più robusto stoner degli Humulus. C'è un quantitativo esagerato di musica, tutti pezzi assai brevi per un'ideale abbuffata di musica di facile presa, rock'n roll, di che altro stiamo parlando altrimenti. E allora ecco l'acid rock dei Mother Island, freschi di un nuovo album in uscita (cosi come l'hard rock dei Beesus), il punk-rock dei The Morlocks, per divertirsi in leggerezza in poco meno di tre minuti, la psichedelia dei Vibravoid, o lo sludge dei Jahbulong e ancora, per identificare un mio pezzo preferito, "Raul" dei Maya Mountains, probabilmente la band, più delle altre, in grado di differenziarsi dal marasma sonoro qui contenuto, per un ascolto però alla fine, comunque distratto. Inutile dare un voto ad un simile prodotto, ne avrebbe francamente molto poco senso. Non posso far altro che augurarvi un buon ascolto. (Francesco Scarci)

Hyena/Mandrágora - Bite of Steel

#PER CHI AMA: Heavy Metal, primi Iron Maiden
Con questo split album facciamo conoscenza di altre due realtà della scena peruviana: gli Hyena sono un quintetto originario di Cajamarca, i Mandrágora invece arrivano da Nuevo Chimbote. 'Bite of Steel' l'occasione per vedere da vicino le due band, accomunate dal desiderio comune di dar voce all'heavy metal. Niente estremismi sonori quindi, il che si evince quando "Ready to Explote" dei Hyena fa la sua comparsa nel mio stereo con le sue cavalcate helloweeniane e i suoi chorus che sembrano invece chiamare in causa gli Over Kill. Poi è solo una tempesta di chitarre, le vocals di Miss Diana Cabanillas tirate all'acuto più acuto che c'è, quasi da spaccare i bicchieri. E poi tanto divertimento che non provavo dagli anni '80. Con "Rise Your Fist" addirittura rivivo il mio periodo Motley Crue di metà anni '80, periodo 'Shout at the Devil'. Ecco per chi non avesse bene in mente le date, il balzo indietro nel tempo è di ben 37 anni, non so se è chiaro. Questo per dire che la proposta degli Hyena, per quanto divertente possa essere (figo peraltro l'assolo della seconda traccia), non è proprio freschissima, il pesce comprato al mercato una settimana fa, tenuto fuori dal frezeer, puzzerebbe di meno, giusto per chiarirci le idee. Il che è dimostrato anche dalla successiva "Keep It True", il cui riff di chitarra potrebbe essere preso in prestito dagli Iron Maiden degli esordi, e a quel punto andremo indietro di oltre 40 anni. E con la quarta "It's Shout Rock n' Roll", i nostri sudamericani rischiano addirittura di impantanarsi nelle sabbie del rock heavy di anni '70 ricordando anche un che dei Saxon. Vediamo allora di verificare se i Mandrágora seguono le stesse orme dei loro compagni di viaggio o se la loro assai più lunga esperienza, li ha maturati un pochino. Sempre quattro le tracce a disposizione, dalle durate mediamente più lunghe. La lunga "Bitterness" è il biglietto da visita e l'ombra di Bruce Dickinson e compagni è li ad aleggiare, almeno fino a quando un'altra gentil donzella, alias María Orythia, fa la sua comparsa dietro al microfono a provare solo lontanamente ad emulare il suo esimio collega britannico con un risultato lontano anni luce dall'originale. Il sound poi strizza l'occhiolino al periodo "Powerslave" della Vergine di Ferro, i cui punti di contatto non si limitano al solo rifferama ma anche spudoratamente al basso che ha reso famoso nel mondo il sublime Steve Harris. Buona la porzione solistica, ma sottolineare qualcosa di originale in queste note è impresa ardua. Con "Death to the Witch" posso confermare per lo meno l'omogeneità di fondo del quintetto, a differenza della performance dei colleghi Hyena. Quindi qui il problema rimane semmai quale album degli Iron rievocare, in questa song ci sento un che di 'Piece of Mind' ad esempio, anche se la voce della frontwoman rischia di essere un supplizio per le mie orecchie. Più retrò invece il sound di "Lies" che, per quanto ricca di groove, mi indispone non poco e pertanto preferisco skippare all'ultima più moderna e d'acciaio "Never Surrender", quasi a palesare un differente periodo di stesura dei pezzi, ma anche a sancire la fine di uno split album che rischia di fare la gioia solo di pochi nostalgici del vecchio NWOTHM, presente escluso che continuerà ad amare solo ed esclusivamente gli originali. (Francesco Scarci)

Beesus - 3eesus

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
Le vie dello stoner sono infinite. Almeno così pare, osservando la prolifica scena underground del belpaese, in costante fermento ultimamente per quanto riguarda le ruvide sonorità fuzzate e le frequenze ultrabasse. La trasposizione del copione poi, può risultare anche altamente personalizzata, nel caso intervenga una sapiente lungimiranza dell’interprete. Ne sono un esempio i Beesus, gruppo laziale attivo da una decina di anni, che pubblica quest’anno il terzo LP. Dopo qualche burrascoso cambio di line-up occorso negli ultimi anni, la formazione si assesta sull’attuale essenziale power-trio. Non si può dire però che '3eesus' sia altrettanto essenziale. Abituata a sperimentare incessantemente per dare forma alle varie visioni allucinogene, la band capitolina riconferma la propria tendenza ad assimilare elementi delle più disparate provenienze, dal doom allo psych, fermandosi talvolta ad un “lo-fi-pit-stop”. Quello che forse traspare da quest’ultimo lavoro rispetto alle due precedenti uscite, è probabilmente il raggiungimento di una maggior compattezza e organizzazione sonora, per quanto possibile. Ci si scrolla di dosso qualche sporcatura punk da 'Sgt. Beesus… And The Lonely Ass Gangbang!' (2018), senza però perderne l’attitudine. Il primo impatto con “Reproach” è un vero pugno nello stomaco, con riff annichilenti da far tremare le interiora. Energia catalizzata in ritmo e potenza. Compaiono anche i primi cori ed intrecci a tre voci, come novità. Se pensate poi che non sia possibile sentire Melvins e The Doors in uno stesso brano, vi invito ad ascoltare “Sand for Lunch”. Uno dei più emblematici del disco sicuramente, dal titolo già di per sé evocativo. Ci troviamo inizialmente immersi in una tipica allucinazione morrisoniana, a sorvolare distese aride e desolate, per poi riscoprire nella seconda parte della track, le antiche tracce dei pionieri, quelli del già più riconoscibile Palm Desert. Se è vero che i Kyuss hanno interrato un seme estremamente vigoroso, è altrettanto vero che i germogli che crescono assumono le forme e le dimensioni più varie in assoluto. “Flags of the Sun” rappresenta un’altra dimostrazione di come il trio romano abbia concepito la propria impronta sonora per questo disco. Oltre alla viscerale sintesi dello stoner, qui si scorge qualche ispirato fraseggio dalle intenzioni blueseggianti. Le atmosfere psych sempre a fare da cornice, anche nella lisergica “Gondwana”. Forte anche di un’ottima produzione, più pulita e diretta, '3eesus' vanta l’interessante privilegio di essere stato registrato in presa diretta dal vivo. Pootchie (Guitars/Vocals), Johnny (Bass/Vocals) e Mudd (Drums/Vocals) hanno infatti avuto l’occasione di eseguirlo niente meno che al Monk Club, famoso locale da concerti della capitale. Questo grazie anche alla disponibilità di Giacomo Serri che ha reso possibile la realizzazione di questo notevole lavoro. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(More Fuzz Records/GoDown Records/New Sonic Records - 2020)
Voto: 77

https://beesus.bandcamp.com/album/3eesus

sabato 9 maggio 2020

Baume - Un Calme Entre les Tempêtes

#PER CHI AMA: Drone/Electro/Ambient
Juif Gaetan è il classico polistrumentista con un piede in più scarpe. L'abbiamo apprezzato nelle sue versioni black nei Cepheide e negli Scaphandre, ora abbiamo modo di godere delle sue gesta anche in questi stralunati Baume, senza contare poi che il mastermind parigino presta i suoi servigi anche ai Rance e ai Basilique. 'Un Calme Entre les Tempêtes' è il terzo EP in tre anni per la one-man-band transalpina, dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal debut 'Les Années Décapitées' e dal successivo 'L'Odeur de la Lumière'. Tre i pezzi proposti da Juif, per un lavoro che sembra prendere drasticamente le distanze dal passato post-black dell'artista, proponendo infatti già dall'opener "Rien ne Dure", un ambient oscuro, per una song che si affida esclusivamente ad un beat elettronico che prosegue in un loop per 12 minuti, richiamando in un qualche modo la colonna sonora del film 'Inception'. Solo nel finale, la song sembra acquisire una forma di canzone con l'aggiunta di una flebile linea di chitarra, il tutto rigorosate in forma strumentale. La title track prosegue con questo mood trance electro-beat, con in aggiunta una voce spettrale che ricorda quella dei Decoryah, mentre in sottofondo si srotolano ancestrali melodie. Devo ammettere che non è di certo facile affrontare un mattone del genere se non si è degli amanti di simili sonorità droniche, soprattutto poi se il sottoscritto si aspettava di affrontare un nuovo episodio post-black. Nel frattempo si arriva alla terza song, "Octobre", una traccia che per lo meno sfoggia, almeno in apertura, una chitarra vera e propria, coadiuvata poi da una serie di synth e amenità varie che in poco meno di due minuti ne stritolano la portanza, quasi a farla sparire. Ma la linea di chitarra, come la propagazione di un'onda sonora sinusoidale, si muove attraverso picchi e valli, nascondendosi e palesandosi nell'ennesimo loop ipnotico di questo strampalato lavoro, che mi sento di consigliare a soli pochi eletti, dotati del proverbiale terzo occhio. (Francesco Scarci)

Kayleth - Back to the Earth

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner
Dopo aver viaggiato in lungo e in largo nello spazio interstellare, ecco che i Kayleth fanno ritorno a casa. La band veronese torna infatti col terzo full length intitolato 'Back to the Earth', continuando con quella loro bella abitudine di trattare tematiche filosofico/spiritual/sci-fi a livello lirico. Il disco include dieci song e la prima cosa che avverto all'ascolto dell'opening track "Corrupted", è un forte ancoraggio dei nostri ai classici del passato, pur non rinunciando alle caratteristiche space rock che ne hanno contraddistinto le loro ultime release. Ma quello del quintetto veneto, più che un ritorno sulla Terra, mi pare piuttosto un ritorno alle origini, là dove tutto è cominciato. Black Sabbath e Kyuss tornano ad essere le preponderanti influenze di questa nuova fatica. La song pertanto mette in mostra un bel riffone di matrice sabbatthiana, con la voce di Enrico Gastaldo però che rimane quasi strozzata in sottofondo, mentre le keys di Michele Montanari assurgono sempre quel ruolo di arrangiamento che va a riempire a tutto tondo il sound dei nostri. Il brano va comunque in levare, con una bella base ritmica che accelera anche grazie alle martellate sulle pelli erogate dal sempre puntuale Daniele Pedrollo. "Concrete" è violenta e abrasiva sin da subito, una cavalcata desertica che trova il proprio ristoro in un litanico break centrale ove dar sfogo a tutte le visioni lisergiche dettate dalla Psilocibina contenuta nei funghi di quei luoghi cosi desolati. I giri di chitarra e basso, a cura del duo formato da Massimo Della Valle e Alessandro Zanetti, ci conducono ancora indietro nel tempo, anni '70 per l'esattezza; quello che non mi torna invece è ancora la voce del buon Enri sommersa da una produzione probabilmente troppo ovattata. Con "Lost in the Canyons", i nostri proseguono sulla medesima pista desertica, guardando questa volta agli Hawkwind, percependo anche un che dei System of a Down in una qualche nota di chitarra, e sottolineando poi come l'ipnotico incedere ritmico venga costellato dai pregevoli synth di Mick che qui assumono quasi la fisionomia del frinire dei grilli nella notte. Se non mi sono poi bevuto del tutto il cervello, mi pare di udire in questa traccia anche il verso di quello che sembra essere un sax ad arricchire i nebulosi arrangiamenti dei nostri. "The Dawn of Resurrection" è un'altra bell'esempio della roboante proposta dei nostri, guidata qui dal basso stentoreo di Ale che, a braccetto col rutilante drumming di Dany, mette a ferro e fuoco un'aria già di per sè incendiata. Qui l'influenza degli Electric Wizard torna a riaffacciarsi, cosi come quella dei Queens of the Stone Age, il cui fantasma aleggia un po' ovunque nel disco. Con "Delta Pavonis", i Kayleth vogliono ricordare parte del loro viaggio intergalattico quando si affacciarono alla costellazione del Pavone, a quasi 20 anni luce dal nostro sistema solare. I suoni da queste parti appaiono più freddi e rarefatti, anche se le melodie delle keys cercano di riscaldarli guidando poi un inebriante giro rock'n roll a base di chitarra e basso. È poi ancora una ritmica pesante quella contro cui sbattiamo il muso nell'incipit di "By Your Side". Mentre le tastiere fanno il diavolo a quattro, la voce di Enri prosegue nel suo evocare il vecchio Ozzy. Quello che preferisco della song è però quel finale etereo tra chitarre e keys che ne rendono davvero giustizia. "Electron" è un pezzo magnetico d'altro canto con un titolo del genere che cosa vi aspettavate? Carico grondante di groove fin dalle note iniziali, il brano scivola che è un piacere in bilico tra uno stoner rock mid-tempo, un post-grunge e una darkwave di fine anni '80, senza troppi fronzoli e trovate, il che ci mostra un lato ancora nascosto del quintetto italico. La sua essenza è tanto perfetta quanto imprevedibile, ideale per un po' di meditazione alla ricerca del proprio IO supremo, l'autocoscienza, prima che nel finale i nostri riaccendano i motori della propria astronave e decidano di riprendere il volo. "The Avalanche", come una valanga, ci investe in modo forse volutamente un po' disomogeneo, mentre "Sirens" ha un che di decisamente magico ed esoterico nei suoi solchi, forse la traccia più strana ed originale del disco, anche se dobbiamo ancora commentare "Cosmic Thunder", la song che furbescamente (e maliziosamente) chiude il disco. Si tratta di una track dall'incedere disco dance anni '70/80 che ci mostra come, in perfetta simbiosi col rock rude dei Kayleth, ci sia ancora molto da scoprire in questa parte non del tutto esplorata di mondo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2020)
Voto: 75

https://kaylethstoner.bandcamp.com/

venerdì 8 maggio 2020

Mnemocide - Feeding the Vultures

#PER CHI AMA: Death, primi Amon Amarth
Passati completamente inosservati dalla critica italica in occasione del loro EP di debutto intitolato 'Debris', gli svizzeri Mnemocide ci riprovano, rilasciando questa volta il full length d'esordio, 'Feeding the Vultures'. Sostenuti dalla sempre intraprendente Czar of Crickets Productions, il quintetto di Basilea si lancia a spron battuto con 12 nuove tracce e un concentrato di death melodico assai nerboruto. Si perchè di questo si tratta fondamentalmente, death metal avete capito bene, ricco di groove ma pur sempre un death metal bello compatto. Questo almeno quanto svelato da "Crash & Burn", che segue a stretto giro l'intro "Manifest". Ebbene, ritmica possente e mai troppo veloce, growling vocals da manuale, un discreto assolo e poco altro. Mmm, qualcosa mi sfugge nella scelta della label elvetica, da sempre attenta ad avere realtà assai particolari nel proprio rooster, nel 90% dei casi accomunate peraltro dalla loro origine comune, la Svizzera appunto. Ora, non sono qui a dire che la proposta del quintetto basilese sia di bassa qualità, giammai, piuttosto mi verrebbe da dire che non ha assolutamente nulla di originale, e proprio qui risiede il problema. "To the Nameless" è un brano diretto, il classico pugno nello stomaco di scuola Bolt Thrower, con quei suoi chitarroni che macinano riff a profusione, e su cui si staglia il vocione incazzato del bravo Matthias, ma siamo però sicuri che questo è quello di cui abbiamo bisogno? Voglio dire, di album del genere ne è pieno il mondo e i Mnemocide non fanno altro che accodarsi a questo carrozzone senza di certo stravolgere la scena. Mi spiace sembrare cosi tranchant nel commentare la fatica costata ai Mnemocide, usando parole piuttosto dure, ma francamente la musica dei nostri non mi trasmette nulla. Quel che è certo è che i cinque musicisti elvetici siano ottimi mestieranti, insomma la perizia tecnica è buona, pezzi come "In Pain" o "Like Ghost" (dove finalmente un ottimo assolo riesce a mettersi in luce) scivolano via piacevolmente, ma mi duole ammettere che arrivato alla conclusiva "Revolution Required", nulla di quanto ascoltato mi sia rimasto impresso nella testa, il che mi costringe a rimettermi all'ascolto di un lavoro che rischia di scadere nell'anonimato in un brevissimo lasso di tempo e che peraltro non mi invoglia a successivi ascolti. Non mancano i buoni pezzi lo scrivevo già poco più sopra, "Again" è uno di quelli, con uno stile che mi potrebbe chiamare in causa gli Amon Amarth, ma ancora una volta mi ritrovo in una posizione non troppo comoda nell'affermare quanto la proposta dell'ensemble sia assai derivativa e nulla di più. D'altro lato, una song come "Let Me Feed You" la trovo di una scontatezza disarmante. E quindi molto meglio ascoltarsi un pezzo oscuro, ottimamente ritmato qual è "Fear Me", la decima song dell'album, per rappresentare degnamente la proposta dei nostri. Un po' pochino ahimè per portare poco più di una risicata sufficienza, serve ben altro per solleticare il mio palato sempre più sofisticato. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets Productions - 2020)
Voto: 60

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