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domenica 19 novembre 2023

The Spacelords - Nectar of the Gods

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Eccomi di nuovo a recensire gli space rockers teutonici The Spacelords, quelli che prima di scrivere un nuovo disco, devono assumere un bel po' di funghetti allucinogeni (quelli in copertina tanto per capirci) accompagnati in sottofondo da una "Light My Fire" qualunque dei Doors, senza tuttavia rinunciare anche ai dettami dei Tool e forse di qualche altra combriccola del sottobosco kraut rock. Ecco, in pochi spiccioli come recensirei questa nuova fatica del trio di Reutlingen, che rispetto alle precedenti release, si affida questa volta a quattro nuove tracce, anziché le consuete tre. 'Nectar of the Gods' apre con il basso tonante della title track, in un déjà-vu di tooliana memoria per poi stordirci con melodie caleidoscopiche che potrebbero fare da colonna sonora all'Holi Festival in India, in un tripudio di colori cangianti atti a celebrare la psichedelia offerta dal terzetto. Molto più cauta e timida, "Endorphine High" si muove nei meandri di un ipnotico post rock in salsa psych progressive, tra delay chitarristici ed atmosfere dilatate ma comunque soffuse, che con un bel narghilè e sostanze proibite a portata di mano, potrebbero stimolare ampiamente i vostri sensi. Se ci mettete poi che le durate dei brani oscillano tra i nove e i 14 minuti, beh preparatevi ad affrontare uno di quei trip che vi lascia schiantati sul divano. Un trip come quello che inizia con la terza e tribale "Mindscape", tra percussioni etniche e fascinazioni oniriche, a cui fa seguito un riffing di Black Sabbath (iana) memoria, tra stoner, montagne di groove rilasciate dal rincorrersi delle chitarre, saliscendi emozionali che servono a rendere la proposta il più appetibile possibile, senza correre il rischio di sfracassarsi le palle nell'ascoltare questi pachidermici pezzi. E invece, i The Spacelords ci impongono di mantenere costantemente la guardia alta, di settarsi armonicamente con i loro viaggi atemporali, in turbinii sonici e cosmici davvero apprezzabili. Ma questo non lo scopriamo di certo oggi, visto la maturità ormai acquisita dal terzetto germanico nei quindici anni di onoratissima carriera. Carriera che oggi vanno a celebrare con l'ultima "Lost Sounds of Lemuria", una maratona di 14.14 minuti che parte cupa, pink floydiana nei suoi tratti cosi educati, tra chitarre riverberate, atmosfere sognanti di settantiana memoria, e un organo che chiama in causa il buon Ray Manzarek, in una progressione sonora che di fatto, ci indurrà fino al suo epilogo ad ascoltare in religioso silenzio. Ancora una volta, obiettivo centrato. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2023)
Voto: 75

lunedì 10 luglio 2023

The Sun or the Moon - Andromeda

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Era l'agosto del 2021 quando recensivo 'Cosmic' dei tedeschi The Sun or the Moon. A distanza di due estati, eccomi con il comeback discografico dei nostri in mano, 'Andromeda'. I nostri ci ripropongono, ancora attraverso un tema di tipo cosmico, il loro ispiratissimo connubio tra kraut rock e psichedelia, spingendoci indietro nel tempo di quasi 50 anni. Si perchè anche questo lavoro, come il precedente, affonda le proprie radici musicali, in band baluardo di quelle sonorità, Pink Floyd, Tangerine Dream, Ozric Tentacles e Hakwind, giusto per fare qualche nome qua e là a casaccio. E "Operation Mindfuck", che sembra fare il verso a 'Operation Mindcrime' dei Queensryche, in realtà si muove su fluttuanti sonorità oniriche, con tanto di sensuali percussioni che ne guidano l'ascolto interstellare, verso galassie lontane, e la voce del frontman a deliziarsi con vocalizzi puliti e delicati. Con "Psychedelik Kosmonaut", le cose cambiano drasticamente (ma sarà la sola traccia del disco a scostarsi cosi violentemente dalle altre) con una proposta più incalzante, come se i Rammstein suonassero cose dei Kraftwerk in versione più danzereccia, e con le voci in lingua madre, a sancire il senso di appartenenza a questo genere. "Planet 9" nuovamente imbocca la strada dell'opening track, tra lisergiche atmosfere rilassate, pulsioni cosmiche, suggestioni prog e aperture jazzy, con flauto e pianoforte veri punti di forza di un brano che sembra frutto di pura improvvisazione. Anche "Andromedan Speed Freaks" prosegue su binari affini, anche se a metà brano irrompe un robustissimo riff di chitarra, per poi successivamente rientrare nei ranghi di un sound cosmico, composto ed illuminato, pronto ad accompagnarci nelle esotiche contaminazioni di "The Art of Microdosing". Una song quest'ultima, che riassume nella sua interezza la proposta dei teutonici, che vede chiamare in causa anche i Cosmic Letdown in quelle parti più orientaleggianti, e che peraltro, nelle sue fosche melodie, concede il palesarsi di una ugola femminile e di un ispiratissimo sax, vera ciliegina sulla torta di questo inebriante pezzo. Si prosegue sui tocchi di piano di "Into Smithereens" ed una voce che, inequivocabilmente, chiama in causa i Pink Floyd, per un brano dotato peraltro di un'animosità splenica davvero emozionante. "Surfin' Around Saturn" (splendido questo titolo per cui è stato anche girato un video) ci fa fluttuare nel vuoto spaziale tra sonorità di doorsiana memoria e una forte vena pinkfloydiana che rappresenta probabilmente la principale influenza per i nostri. Analogamente, per la chiusura affidata all'ancor più eterea "40 Days", un pezzo che, seppur strumentale, rappresenta con il suo lungo assolo prog, il vero pamphlet dei The Sun or the Moon. Siete pronti anche voi quindi per un nuovo viaggio interalattico? (Francesco Scarci)

lunedì 30 gennaio 2023

Kamala - Limbo666

#PER CHI AMA: Psych Rock
A dicembre dello scorso anno usciva il nuovo disco dei Kamala, band tedesca con base a Lipsia, che avevamo lasciato con ottime credenziali ai tempi del precedente album del 2019, 'Your Sugar'. Oggi il quintetto ci grazia con un disco ancora più elegante e curato, guidato a dovere dalla bella e ispirata voce di Christian Kamper, e da un guitar style delicato e tanto efficace, dedito a raccogliere stilemi artistici di stampo jazzistico ma rivolti ad un suono frizzante, intimo, e decisamente rock, anche se in maniera molto originale e soft. La caratteristica principale che identifica questa band è il modo moderato, ricercato e sofisticato con cui si apprestano a divulgare il verbo del rock, in una veste decisamente accessibile e volutamente, passatemi il termine, intellettuale, in molti casi ai confini di tante altre derive musicali. A modo loro, i nsotri presentano un crossover sonoro diviso tra alternative rock, soul, '70s rock, psichedelia teutonica (tra echi lontani di Harmonia e La Dusseldorf), new wave, free jazz e fusion. Tutte queste idee sono però filtrate da un gusto musicale assai melodico che, come scrissi nella precedente recensione, li avvicina ad un certo modo di fare musica, simile a band di culto, dal tocco vellutato ed ipnotico, note per la loro capacità creativa; parliamo di artisti come gli Aztec Camera oppure la psichedelia dei The Dukes of Stratosphear. La cosa interessante è, che quando la band teutonica si sposta da questo terreno le cose cambiano, come in "Freudian Autocorrect", brano in cui la band, pur tenendo alto il tasso di qualità esecutiva, non riesce ad esprimere la sua magia completamente, ma la dirotta verso qualcosa di non propriamente suo, formando in questo caso, uno spartiacque tra le prime quattro tracce del disco, una più bella dell'altra (il mio brano preferito in assoluto rimane "Talking Dirty"), e le restanti quattro che chiudono il disco. Posso dire comunque, che lo spartiacque è veramente momentaneo, perchè la successiva "Yuko & Memori", rimette in carreggiata i miei sentori verso quest'opera, ripristinando l'equilibrio sperato, con un inizio quasi psychobilly, introdotto da una chitarra in lontananza che riecheggia ad un virtuosismo alla maniera di un Van Halen d'annata, per poi correre con quella verve nobile e luminosa che contraddistingue la band. Il rock scorre multicolore ed in molteplici direzioni, mai troppo rumoroso, quasi tenuto in sordina, per non offuscare con il rumore e lo strepitio di muri di distorsione, le capacità di questi ottimi musicisti (la sezione ritmica è notevole con il suo tocco pulsante ma sempre composto). "Narcissus" è una lunga ballata dai colori vividi, cari a certa neo psichedelia inglese degli anni '90, e mette in mostra le notevoli capacità vocali di Kamper, che ricorda molto da vicino il Jeff Buckley più intimista. La conclusione è affidata a "Blindspots", coronata di piccole gemme ritmiche e variazioni geniali che amplificano la bravura tecnico/compositiva di questi musicisti. 'Limbo666' è un album curato nei dettagli, compreso l'artwork di copertina, dove colori e fantasia sono uno standard fin dal loro EP d'esordio, un suono caldo e pieno tutto da gustare. Aggiungerei anche, che 'Limbo666', è la loro più completa uscita discografica, il rock che si mostra nella sua forma migliore, rinunciando a muscoli e giubbotti di pelle. Alla fine ne consiglio l'ascolto a chi ama la musica rock d'ampie vedute, suonata a dovere. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 79

https://kamalapsych.bandcamp.com/album/limbo666

giovedì 8 dicembre 2022

Solitär - Bus Driver Immigrant Mechanic

#PER CHI AMA: Psych/Dream Pop
Il polistrumentista svedese, Mikael Tuominen, già presente in formazioni del calibro di Kungens Män e Automatism, si cimenta in un primo disco solista, uscito via Tonzonen Records, carico di atmosfere dense, intrise di intimità e ispirazione. Il canto sempre quasi sommesso e schivo, si presta molto bene alla forma di psichedelia che l'autore mischia spesso a fattori folk e post rock, melodie luminescenti, spesso ipnotiche ed estatiche. Si parte con "Electric Sea", un bel brano dai tratti desertici, un'evoluzione corale e mantra doorsiani con una buona dose di ricordi, che portano alle sonorità di "Fire Walker" dei Black Rebel Motorcycle Club, uno stile che ritroviamo peraltro in molte parti dell'album. "Ship of Excitement" inizia con un sound che ricorda certe cose dei Cocteau Twins per leggerezza e utilizzo delle chitarre, mentre "Concrete Spaceship", cerca di aumentare il ritmo senza aumentare il rumore, creando un'atmosfera surreale e sospesa, con un uso del noise guitar molto intelligente. A sorpresa in una veste psych folk sommessa e sofferta, avvolta in una luce abbagliante, Solitär si cimenta in una versione originalissima di "The Price", la storica canzone dei Twisted Sister, ottenendo davvero un bel risultato. 'Bus Driver Immigrant Mechanic' evolve brano dopo brano, pur rimanendo in un contesto di musica ipnotica e statica, elettronica e minimale, shoegaze, un post rock di scuola Mùm con qualche richiamo a certa psichedelia evoluta in stile Legendary Pink Dots. Le atmosfere soffuse richiamano magma sonori notturni come la versione di "Satellite of Love" di Milla Jovovich in "Million Dollar Hotel", dotata di un umore malinconico ma sognante. "Spegel Spegel" potrebbe essere un brano dimenticato in qualche cassetto dei Crime and the City Solution, suonato dai Mercury Rev, mentre per "It Rains" potremmo scomodare Hugo Race e la sua musica lunare. La cupa "A Flash in a Glass Jar" è figlia di certa new wave di classe, e sfodera sonorità vicine agli Echo and the Bunnymen, con un lento incedere e tappeti di tastiere maestosi all'orizzonte, con una coda finale assai cinematografica. Chiude il cerchio la brevissima e acustica "Brus", l'unica traccia cantata in lingua svedese, per il resto la lingua utilizzata è quella della terra d'Albione. In definitiva, devo ammettere che 'Bus Driver Immigrant Mechanic' è un album intrigante, profondo e molto sofisticato, certo non è d'impatto e non funzionerà tra i rockers più duri e puri, ma per chi cerca buona musica introspettiva questa è proprio una valida alternativa. Un disco ragionato e ben prodotto con suoni caldi, profondi e intimi, un disco per tipi solitari a tutti gli effetti. (Bob Stoner)

mercoledì 30 novembre 2022

The Wild Century - Organic

#PER CHI AMA: Psych Rock
Con questo album, uscito per la Tonzonen Records, la band olandese osa valicare il confine che delimita l'ispirazione presa in prestito da un genere e il rischio di imitazione delle sue opere sonore, perchè per ogni nota che scorre in questo nuovo lavoro dei The Wild Century, troviamo un legame pesante per composizione, stile e sonorità con qualche brano famoso degli ultimi 50 anni della storia del rock psichedelico. Metto subito in chiaro che il combo riprende le citate sonorità talmente bene, che non si può parlare di imitazione, tanto meno di plagio, semmai di forsennata ispirazione presa a prestito, ed è un ascolto divertentissimo quello di 'Organic', un ascolto che in un qualche modo ci permette di ristabilire contatti con un mondo che magari avevamo dimenticato o, nel peggiore delle ipotesi, mai approfondito. Quest'ottimo album quindi vi fornirà un compendio di rimandi musicali talmente esaustiva da farvi esclamare a gran voce che i The Wild Century, pur non essendo innovativi o puramente originali, rimangono un'ottima, moderna, retro rock band con i fiocchi, che ricordano tante altre realtà della scena che fu ma che alla fine risultano, nel loro circolo vizioso di suoni, interessanti e belli da sentire. Straordinaria la scelta dei suoni vintage di quest'opera, che sembra provenire direttamente dai '70s e che ricalca fin troppo i beniamini di quell'epoca. Si parte con la cavalcata psych di "Lowdown Dog", che solca le orme dei Velvet Underground con un effetto vocale alla Hawkind per approdare ad "Oh Yeah", dove il wah wah della chitarra iniziale evoca spudoratamente "Woodoo Child" del grande Hendrix, con un tiro garage che si sposta tra fuzzstones e certi ritmi cari a 'Second Coming' degli Stone Roses, con un organo in primo piano da brivido. "Carry On" rallenta la spinta, e tra gli accennati deserti sonici alla "The End" dei The Doors o una vaga similitudine ad un brano di un Bob Dylan d'annata, ci culla verso lidi vicini ai Mother Superior di "Save my Soul" (da 'The Mothership Movement' del 1998) ed una lunga coda finale carica di venature progressive e psichedeliche in sintonia con i primi Deep Purple. Il sitar e tanta psichedelia ipnotica, accompagnano poi l'evoluzione cosmica di "Beautiful Queen" che sembra cantata dallo spettro di Mick Farren. "Grey Blue Eyes" è una ballata super psych che richiama le origini della band forse mostravano molta più originalità e uno stile decisamente meno derivativo, ma con un taglio meno professionale sotto certi aspetti sonori, e più underground. Gli assoli di "Mother's Grace" a metà e in chiusura del brano, sono delle chicche, anche se la song, a tratti, non nasconde affinità con il mood di "Nights in White Satin" dei The Moody Blues. Per concludere, devo spezzare una lancia a favore di quest'album tanto derivativo quanto indovinato, ben curato e ricercato, per una band che si può tranquillamente accostare ai magici e mai dimenticati On Trial, quanto ai tanti gruppi menzionati sopra, aggiungendo anche i Baby Woodrose, 13th Floor Elevators, i Kula Shaker e tutti quelli che trovano posto nell'immaginario sonoro di questo particolare secolo selvaggio. L'ascolto ne vale proprio la pena, il viaggio culturale e cosmico sono assicurati. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Soulfood Music - 2022)
Voto: 75

https://thewildcentury.bandcamp.com/album/organic-2

venerdì 21 ottobre 2022

Anderes Holz - Continuo

#PER CHI AMA: Alternative/Kraut Rock
Il nuovo album del trio teutonico è un agglomerato di stili che sconvolge e appassiona al tempo stesso. Uscito via Tonzonen Records, 'Continuo' si presenta a meraviglia, con uno splendido artwork curato dall'artista kazako, Anton Semenov, ed al suo interno, come in uno scrigno magico, troviamo sonorità che gravitano attorno al mondo dell'avantgarde, dell'art rock e del progressive. Basta guardare il video di "Morgenwelt" per capire quanto gli Anderes Holz spingano il confine delle loro creazioni sonore sempre più in là, utilizzando i canoni della fantasia più sfrenata per orchestrare brani inconsueti, ipnotici, frenetici e folli. L'uso di voci femminili e maschili, una cetra elettrificata prende il posto della chitarra elettrica, il theremin, il gong a vento giapponese, registrazioni e rumori in ambiente, un basso pulsante e percussioni di scuola kraut-rock, le arie provenienti dall'irraggiungibile galassia degli Amon Duul deformano lo stile rock di questo stravagante trio. Tre musicisti eccentrici che riescono a coniugare spinte di classico metal (globus) e certa cultura hippy, con il folk, il german prog ed il prog d'avanguardia, e ancora con il futurismo di Nina Hagen e qualche attitudine punk vicine al Kalashnikov Collective, che in "Şıfr" arriva ad emulare un jingle che troviamo in "Walls (Fun in the Oven)", un brano nientepopodimeno che dei mitici Crass. Senza dimenticare poi gli istinti folk metallizzati dei Subway to Sally in sottofondo, il tutto poi riletto in salsa psichedelica ed ipercolorata, come i loro video frenetici che li ritraggono in rete. La sensazione è alla fine di essere davanti a dei menestrelli impazziti, dalle tinte raggianti ma anche dall'umore dark, che adorano l'estro camaleontico di Peter Gabriel e il classicismo esuberante di Ian Anderson, e che costruiscono, usando esclusivamente la loro lingua madre, un miscuglio musicale simile ai pezzi più moderati dei Die Apokalyptischen Reiter (epoca "Samurai") concepiti in una veste più acida, trasversale e ritmicamente fuori contesto, come nel caso di "Schwan", che in un riff dal taglio metal primordiale, si vede infiltrare una specie di rumba che lo annienta e lo smembra ritmicamente. La psichedelia drammatica di "Buto" è un vortice oscuro inaspettato ma alla fine tutto l'album lo troverete pieno di sorprese. L'alto tasso di teatralità mi rimanda a gruppi altamente allucinogeni e misteriosi, impossibili da categorizzare, come i Gong, anche se qui il free jazz è poco presente a discapito del concetto progressivo che risulta una costante compositiva. Comunque, ci troviamo di fronte ad un potenziale esplosivo di art/punk/rock progressivo e moderno, sicuramente circondato da nostalgie retrò, ma che si mostra perfettamente al passo con i tempi e che, senza pietà, arriva a spiazzare l'ascoltatore nota dopo nota. Un insieme di brani curati e ottimamente prodotti da Matt Korr, un suono pulsante e pieno, con numerose sfaccettature che lo accomunano a tante altre band di varie epoche ma che in realtà rendono l'identità della band tedesca inconfondibile e assai personale. Un disco da ascoltare più volte e a volume alto, per apprezzarne tutti i colori e i mille volti di una band che dire istrionica è dir poco. Ascolto fortemente consigliato. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 82

https://anderesholz.bandcamp.com/album/continuo-2

venerdì 30 settembre 2022

Brennensthul – No

#PER CHI AMA: Jazz/Kraut Rock
Esce via Tonzonen Records/ Headape Records il nuovo album dei Brennensthul, ed è intitolato semplicemente 'No'. In realtà questo titolo si attiene molto al corso musicale del disco, poiché individuare con esattezza quale genere stia suonando il quartetto tedesco, è cosa assai ardua, e a chi li vorrebbe più sulla sponda acid jazz o più sul versante sperimentale del kraut rock, la risposta sarebbe appunto in sintonia con il titolo, un secco "No", per uno stile come per l'altro. La giusta definizione li comprenderebbe infatti contemporaneamente all'interno delle due scene musicali e non solo. La musica di questo quartetto di Amburgo è sofisticata come il jazz, contiene una grossa ma mai pesante componente sperimentale vicina al kraut rock, un piglio funk, una buona dose di psichedelia e sfumature pop, che la rendono accessibile anche a chi non è abitudinario delle esplorazioni musicali più libere e stravaganti. Vi si trova anche della soul music, come nel singolo "Xpress Yourself", ed il collegamento con l'acid jazz, come nel primo omonimo album, è meno marcato che in passato. La componente sperimentale è più evidente, portando notevole qualità in più alle composizioni, che risultano sempre sofisticate e molto variegate. A volte il suono delle chitarre è acido, ruvido, e risulta un po' strano per lo stile in questione, ma nelle parti più in evidenza dona un tocco caldo e molto free rock ai brani. Nota importante è per la bella voce di Eva Welz, che con il canto ed il suono del suo magico sax, trascina la band nei territori più variegati, dalle atmosfere jazz più classiche all'avanguardia, come in "Turtledrive", oppure nella eterea psichedelia della strumentale "Common Slider". Questo disco ha un altro fattore che gioca a proprio vantaggio in maniera strategica, ovvero che la stupenda voce in questione canta in lingua madre quasi tutti i brani, unendo la sua grazia vocale all'aspra pronuncia del tedesco, e devo ammettere che è proprio un bel connubio, che trovo più originale dei pochi brani cantati in inglese. L'intro psichedelico ed il brano "Ja Ja", valgono da soli il disco, mentre la title track s'illumina di un fascino proprio. Non possiamo dimenticare poi come una ritmica profonda e suoni molto intensi e caldi riescano a mettere in evidenza anche un lato sperimentale della band, che trova il suo punto di partenza dai pochi secondi del minimale crescendo rumoroso di "Urknall", passando per la splendida coda finale, progressiva e psicotica di scuola Zorn, di "Machine Gun Mammut", un brano che nei suoi sette minuti circa, racchiude tutti gli stili compositivi della band. Il disco si chiude con "Drei", che inaspettatamente s'immerge in un clima da balera folk all'interno di una festa popolare di paese, mostrando un lato alquanto eclettico del quartetto, naturale e marcato. Decisamente questo nuovo disco dei Brennensthul unisce ed evolve le anime espresse dalla band nei suoi precedenti lavori, un netto salto in avanti, un album di carattere, un'opera matura. Da ascoltare con molto interesse verso i particolari e alle sue evoluzioni sonore. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Headape Records - 2022)
Voto: 82

https://brennenstuhl.bandcamp.com/album/no

sabato 24 settembre 2022

Dead Man's Eyes - III

#PER CHI AMA: Indie/Pop Rock
In fondo, il terzo album dei Dead Man's Eyes, intitolato semplicemente 'III', risulterà come il resoconto di un cammino artistico che si alimenta di pop, indie, country e rock fin dagli albori, quindi, non sarà difficile farlo entrare nelle grazie dei loro fedeli fans più accaniti. Una copertina ultra psichedelica ci fa intuire fin da subito l'attitudine della band teutonica che apre le danze con un brano dal sapore molto country/folk, molto americano, con un'armonica ben in evidenza e una cadenza festosa ("High on Information"). Il disco è ben prodotto ed è uscito via Tonzonen Records, ha suoni caldi e profondi e la band si presenta compatta e determinata, verso una meta che fa dell'orecchiabilità, un fattore di qualità ("I'll Stay Around"), senza pensare nemmeno per un istante che ad essere pop si perda il gusto per la composizione raffinata e ben strutturata. A volte potrebbero rientrare anche nella scena musicale Paisley Underground alla The Dream Syndicate per intenderci, ed è il loro lato che preferisco, ma un'attitudine stilistica troppo mainstream, tradisce le loro ambizioni di mettersi in mostra veramente, presentando brani come "In My Fishbowl" o "Take Off Soon", che andrebbero anche bene per uno split con i Gorillaz. Però i Dead Man's Eyes sono astuti, e si ritagliano anche uno spazio tra i cuori degli amanti dell'indie pop rock più ortodossi, con pezzi dal forte umore alternativo e di buon impatto come "Into the Madness", "Never Grow Up" e "Nobody at All", tra le atmosfere dei Lindisfarne rivisitate, un blues rimodernato di scuola Canned Heat e la psichedelia morbida di Alan Hull (epoca 'Squire 1975'), e una vena rock che si muove sulle vie polverose dei Polvo. Il traguardo del terzo capitolo sonoro è una meta importante e la band tedesca non delude affatto, anzi affila le sue armi per apparire sempre più accessibile, anche se nel sottobosco sonoro, si avverte una cura quasi maniacale per i particolari e una ricerca di suoni di beatlesiana memoria. Nota di riguardo per "Time and Space", brano che risulta atipico per le sue movenze easy listening, brano strumentale dal taglio seventies, una linea melodica in mid-tempo, vellutata quel tanto che basta per creare un ottimo e confortevole stacco a metà dell'opera. Un disco questo da ascoltare attentamente e ripetutamente, per superare il suo facile approccio pop per poi scoprire tutta la bellezza delle sue sofisticate sfaccettature sonore. Consigliato! (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 74

https://deadmanseyes.bandcamp.com/

venerdì 29 luglio 2022

Sound of New Soma – Musique Bizarre

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
L'ultima opera di questo duo tedesco, composto da Alex Djelassi e Dirk Raupach, è un parto cospicuo di 12 brani (ovvero un doppio album) messi insieme con parti scritte e donate da altri musicisti della Tonzonen Records. Compagni di scuderia (tra cui membri di The Spacelord, Vespero, etc), che hanno partecipato attivamente con le loro idee, alla realizzazione di questo undicesimo disco targato Sounds of New Soma. L'ambiente sonoro di 'Musique Bizarre' si muove attorno al regno della psichedelia più tenace e multiforme (guardatevi i video nel loro canale youtube per farvi un'idea), ipnotica e orientata verso forme di German rock, con un gusto per un certo immobilismo sonoro che induce verso l'estasi sensoriale, profuso in tutti i brani, anche se per ognuno di loro si può descrivere un universo interiore diverso dall'altro. Il mondo psych, da 'Timewind' di Klaus Shulze ai Tangerine Dream, incontra l'elettronica moderna con l'intento di riorganizzare la forma più robotica del kraut rock degli esordi, ed in sostanza tra queste tracce, si riconfermano i sentori cosmici del disco precedente, anche se qui la sezione ritmica gioca un ruolo fondamentale nel dirigere il viaggio cosmico. "Berlin Marrakesch" è una lunga suite che come preannuncia il titolo, farà la gioia dei psyconauti più vicini alle escursioni esotiche nel ricordo degli Aktuala dell'omonimo album del 1973, tra ambient sintetico, elettronica vintage e rintocchi dal sapore etnico, che riportano ad un Magreb futurista e proiettato in un deserto di qualche altra sconosciuta galassia. "Waidmann" si alterna a sapori post industriali e classicismo, con una tromba inaspettata che squarcia l'atmosfera di scuola Vangelis, che l'avvolge e ne stravolge il verso iniziale, mentre per "Klausz" (il titolo è fuorviante) credo sia indubbia la ricerca di una composizione per rendere omaggio all'infinito musicale del maestro Sakamoto, autore di brani simili, come "Hibari". In questo disco appaiono molte composizioni di lunga durata, tra le tante "Gökotta", che mi ha colpito più di altre per la sua locazione industrial/kosmische musik, mentre "Balkenspirale", è un altro brano di lunga durata ispirato e alimentato dalla mano sapiente (in fatto di rock psichedelico) degli The Spacelord, e sviluppato secondo i canoni ipnotici degli Ozric Tentacles ed anche dei Porcupine Tree di un tempo. In definitiva i Sounds of New Soma riconfermano il loro amore per certa ambient psichedelica ben strutturata e raffinata, ispirata dai grandi maestri del passato e con l'aspirazione massima di ripercorrerne le orme e rinverdirne le idee, con il rischio concreto che l'originalità non sia sempre una prerogativa. Comunque, dopo questa ennesima buona prova, per il duo tedesco l'appellativo migliore è quello di nipotini talentuosi dei Tangerine Dream, provenienti direttamente dalla costellazione di Alpha Centauri. (Bob Stoner)

domenica 17 luglio 2022

Svin - Introducing Svin

#PER CHI AMA: Experimental Sounds
La scena danese sta crescendo che è un piacere, anche grazie ad entità come gli Svin, che con questo 'Introducing Svin', giungono al settimo capitolo della loro ultradecennale carriera. Sebbene un titolo ingannevole, quasi atto ad introdurci per la prima volta al mondo del trio avantgarde di Copenaghen, i nostri ci prendono per mano per condurci nel loro visionario cosmo musicale, fatto di rock sperimentale proposto davvero ad alti livelli. E lo confermano immediatamente i suoni cinematici dell'introduttiva "Obelisk", che sciorinano landscape sonici davvero suggestivi, complice verosimilmente l'utilizzo del sax (a cura di Henrik Pultz Melbye) e di un uso fantasioso di chitarra e batterista, grazie alle performance di Lars Bech Pilgaard e Thomas Eiler. Non sarà il mio genere, ma il primo brano mi ha steso per intensità emotiva, coinvolgimento, durezza e per quell'uso stralunato delle voci campionate. Con "From Within" si entra invece in una sorta di incubo a occhi aperti, con sonorità minimal al limite del glaciale nella prima metà, e paranoico-jazzistiche nella seconda parte. Questo evidenzia come 'Introducing Svin' non sia un disco semplice da affrontare, ma sicuramente ha un certo spessore tecnico, confermato dalla terza "Bøn", dove appare la voce di Thorbjørn Radisch Bredkjær, in una song dai tratti obliqui che non ho realmente ben capito e per questo ho apprezzato enormemente per le sue storture musicali. Storture che proseguiranno nel resto del lavoro, dalla jazzata e psicotica "Snake" passando per la dronica "Herbalism", fino ad arrivare all'imprevedibile "Årring", che vede Kasper Tranbjerg dilettarsi egregiamente alla tromba (il quale tornerà anche nella schizoide e John "zorniana" "Punklort"). "Deadweight" è un lungo brano di oltre nove minuti di angoscianti sonorità drone, mentre la conclusiva "Dødsenangst" è un esempio di scomposti suoni elettronici contaminati dal noise, che vedono alla voce la robotica ugola di Marie Eline Hansen, a completare un disco che dire sperimentale potrebbe apparire addirittura eufemistico. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 75

https://svin.bandcamp.com/album/introducing-svin

martedì 5 luglio 2022

Grombira - Lunar Dunes

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Se una volta la Germania era identificata come la patria di wurster, crauti, birra e thrash metal, ora mi verrebbe da dire che la scena abbia virato drasticamente verso sonorità progressive, psichedelico-sperimentali. Non ultimi questi Grombira che tornano con un nuovo album, 'Lunar Dunes', ed un concentrato assai interessante di ipnotiche sonorità mediorientali che mi riconducono immediatamente ad un altro lavoro recensito su queste stesse pagine, ossia 'In the Caves' dei russi Cosmic Letdown che fece sobbalzare il sottoscritto e soci, per quei suoi contenuti fuori dall'ordinario, cosi mistici e avvolgenti. Si presentano in modo altrettanto simile i quattro musicisti di Würzburg che con l'opening track "Saraswati Supercluster" e i suoi oltre 15 minuti, ci catapultano nel loro mondo fatto d'improvvisazione, la classica jam session dove dar voce a tutte le idee che pullulano le menti dei nostri, da sonorità orientaleggianti appunto, allo space rock, passando attraverso psichedelia, kraut rock, jazz e chi più ne ha più ne metta, il tutto ovviamente proposto in chiave quasi interamente strumentale, fatto salvo per alcuni cori che impreziosiscono la lunghissima ed avvolgente traccia, che ha ancora modo di mettere in luce nel finale una splendida linea di basso e una spettacolare porzione percussiva. Con "Civilization One" le cose non cambiano poi di molto, soprattutto a livello di durata, con altri 13 stravanganti minuti ad attenderci. L'inizio della song mette in luce una componente elettronica in background (quasi una voce robotica generata però da uno degli strani strumenti suonati dalla band) che va a collidere con la classica e immancabile parte mediorientale. La traccia ha però modo di evolvere in modo imprevedibile, con dei sample femminili, registrati peraltro a Essaouira (Marocco) dal polistrumentista sheyk rAleph, una delle menti della band, durante le sessioni di registrazione. Comunque, il pezzo è evocativo, per quella sua miscela di rock e musica etnica. L'inizio di "Dune Tune" mi ha ricordato un pezzo dei Bowland, una band iraniana che si mise in mostra qualche anno fa a X Factor: partendo da suoni della tradizione locale ma poi lavorando in modo raffinato sul proprio sound, quello che mi rimane in testa è un che evocante usi e costumi mediterranei (Grecia in modo particolare). Gradevole, ma prende le distanze da quello space rock che avevo apprezzato nelle prime due tracce, sfociando qui in un world fusion che si è completamente perso per strada la componente rock. Lo stesso dicasi per la successiva "Mad Mullahs", in cui confluiscono suoni, colori e profumi del nord Africa con la strumentazione classica che si unisce ad una serie infinita di strumenti etnici in una danza tribale che si completerà con la conclusiva danzereccia e vorticosa "Moonface Kumneitodis". Bravi sicuramente, ma indicati per un pubblico decisamente dai gusti raffinati e ricercati. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 75

https://grombira.bandcamp.com/

mercoledì 4 maggio 2022

Einseinseins - Zwei

#PER CHI AMA: Post Punk/Kraut Rock
Prendete un contesto strettamente post punk/elettronico/new wave dotato di un fascino retrò, come può essere la musica della band californiana Nass//Zuruck, munitelo di un equipaggiamento da combattimento che varia tra il glam di stampo Bowie, epoca 'Yassassin', (magari nell'ottima versione reinterpretata nel lontano 1984 dai Litfiba), e ritmiche di basso e batteria al vetriolo, molto familiari ai New Model Army della prima era ('Vengeance'), alleggeritene la verve underground, aumentatene la parte progressiva, ed incollate ad una vena compositiva brillante ed efficace; forse in questo modo vi farete un'idea, anche se solo parziale, di quest'ottima band tedesca. Cosi ho trovato i berlinesi Einsenseins, annoverati tra le fila di progarchives tra riferimenti al krautrock e ai Vangelis, con cui mi trovo peraltro d'accordo, decisamente mi trovo di dissentire sugli Hawkind o i Can. A mio avviso l'accento new wave che compare in questo terzo album intitolato 'Zwei', aumenta una certa distanza nei confronti delle uscite precedenti, inanzitutto bisogna dire che è squisitamente orecchiabile fin dall'iniziale "Graf Zahl", che sembra evocare lo spettro del Bowie di "Heroes". Come seconda traccia, con un riff alla Placebo ed un'ossessiva voglia di vocals robotiche di casa "Galactica" dei Rockets, si presenta "Plastikliebe", bella e piena di fascino tecnologico vintage (compreso il suono dei vecchi modem per l'ingresso in rete). La formula più orecchiabile che supporta questo ottimo album è alquanto funzionale e presente in maniera continua su tutte le composizioni, e dona una continuità d'ascolto notevole per l'intero album. "Regit Etarak" s'insinua in quel labile confine che separa appunto le intuizioni di Vangelis e Kraftwerk e la synthwave/new wave, che agli inizi degli '80 portò molte band al successo, notevole quanto inaspettato il rimando ai The Cure del suo riff principale ed il finale ancorato nel post punk più duro. Ecco il momento del mio pezzo preferito, "Gasetagenheizung", con una splendida sezione ritmica ossessiva, pulsante e decisamente coinvolgente che potrebbe essere stata, proprio come detto prima, patrimonio dei New Model Army. Inoltre il brano è condito da rasoiate di chitarra in puro stile The Sound, con voci sparse qua e là provenienti da un lontano cosmo oscuro che riempiono di mistero e tenebrosità quest'ipnotica traccia. "Nachtigall" insieme a "Nur Fuchs" sono le due tracce più lunghe del trio berlinese. La prima più atmosferica e magnetica, basata sul suono dei synth e dotata di una certa vena più progressiva, la seconda, che risulta essere l'altra mia traccia preferita di questo disco, costruita con i suoni tipici dei primi New Order, quelli di "ICB", o tra le note stonate e malinconiche del capolavoro 'Always Now', dei Section 25. Tirando le somme, 'Zwei', è un gran bel disco, sicuramente con dei canoni stilistici preimpostati ma sempre e comunque, in tutte le sue parti, ben confezionato e carico di stile che eleva il trio tedesco ad uno standard creativo e qualitativo molto più alto se paragonato alle loro precedenti uscite. Un'opera assai interessante per un album composto con l'urgenza creativa di un tempo, note che devono uscire a tutti i costi ed essere ascoltate da qualcuno per forza. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 80

https://einseinseins.bandcamp.com/

domenica 24 aprile 2022

Noorvik - Hamartia

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
La scena post rock/metal tedesca è in costante fermento. Dopo aver pubblicato la recensione degli Ok Wait, ecco arrivare anche il terzo disco dei Noorvik, band di Colonia che avevamo recensito nel 2019 in occasione del precedente 'Omission'. La proposta all'insegna di un post-core strumentale, mostrava segni di un certo magnetismo latente nelle corde dei nostri. Quel magnetismo si riscontra anche nelle note iniziali di 'Hamartia' (un disco che ci racconta metaforicamente come l'avidità e l'arroganza dell'uomo lo conducano alla sua caduta) in "Tantalos", song che parte quasi in sordina per poi iniziare ad agitarsi con le sue robuste chitarre che vanno ad ingrossarsi sempre di più, quasi a sfociare in territori più estremi con un voluttuoso riffing capace di schiacciarci come un macigno. E qui, sarebbe servito un bel growling a dirla tutta, ma a questo punto non staremo parlando di post metal ma forse di death metal. "Hybris" torna ad incantarci con lunghi arpeggi post rock, mentre le percussioni si dilatano progressivamente e il basso tuona in sottofondo laddove una chitarra grida vendetta attraverso lo stridore delle sue corde. Il sound dei Noorvik rimane qualcosa di ostico da digerire, soprattutto dove compaiono tentativi di brutali accelerazioni che scemano tuttavia nel giro di una manciata di secondi, per ritornare a quello stato carezzevole iniziale che ci condurrà ad "Omonoia", un ridondante intermezzo ipnotico assai inquietante. E "Ambrosia" continua su quelle stesse note nei suoi primi 20 secondi per poi iniziare a muoversi attraverso un gioco di luci ed ombre, delicato, raffinato ma che sembra pronto a soggiogarsi a ritmiche più pesanti. E il mio presentimento viene confermato da un rifferama distorto e lacerante che lascerà presto spazio ad un incunearsi di tenue melodie disturbanti che troveranno nuovamente sfogo nel finale del brano. Bravi i Noorvik a spiazzare l'ascoltatore con una continua ricerca di suoni e trovate varie, come l'inizio stralunato dell'infinita "The Feast", oltre 15 minuti in cui la band teutonica sembra offrire tutto il meglio del proprio repertorio, dalle aperture progressive dei primi cinque minuti alle cavalcate che da lì ne deriveranno e che coprono fino verso all'ottavo minuto, dove uno stop alle ostilità sembra dar inizio ad una nuova storia, con nuovi personaggi e nuove sonorità che ci raccontano comunque altro dei Noorvik. Dopo questo torrenziale pioggia di suoni, arrivano le più delicate melodie di "Aeons", quasi delle carezze dopo i ceffoni presi in precedenza. Altri ceffoni arrivano invece con "Atreides" e un riffing sincopato da groove metal band, ma il solito cambio ritmico è dietro l'angolo, e i quattro musicisti sono sempre pronti a stupirci con i loro cambi umorali. "Tartaros" è l'ultima tappa di questo viaggio, quella che ci conduce negli abissi, nell'inferno dantesco. Ma mentre mi sarei aspettato un sound ruvido ad accoglierci, ecco in realtà palesarsi un luogo d'incanto, ma non illudetevi, la mutevolezza dei Noorvik vi colpirà ancora una volta, perchè qui mai nulla è scontato. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records/Soulfood Music - 2022)
Voto: 76

https://noorvik.bandcamp.com/album/hamartia

sabato 23 aprile 2022

Gong Wah - A Second

#PER CHI AMA: Psych/Post Punk/Indie
Li abbiamo apprezzati un anno e mezzo fa quando i nostri uscivano con il loro album omonimo. Tornano oggi i tedeschi Gong Wah, forti di un nuovo lavoro all'insegna di quelle sonorità kraut rock, elettronica e fuzzwave che avevamo avuto modo di apprezzare nel debut. 'A Second' segna il passo del secondo capitolo per la band di Colonia che vede ancora l'evocativa voce di Inga Nelke dominare il palco. E la proposta dei Gong Wah la si apprezza sin dall'opener, cosi gonfia, cosi melodica e trascinante. "Heartache Jean" corre che è un piacere e noi con la fantasia proviamo a starle dietro. "The Well" nel suo incedere pop rock ci porta nel mondo fatato dei Gong Wah, dove il basso magnetico di Giso Simon si unisce al fare seducente di Inga. Le percussioni darkeggianti di Nima Davari aprono "Consolation", una danza ipnotica che non potrà non coinvolgervi nel suo mood non troppo distante pure dallo shoegaze, in un brano che ha una progressione splendida e violenta, che la identificherà alla fine di questo viaggio, tra i miei brani preferiti del lotto. Sofferenza pura per la minimalista "Baby, Won't You Come Along", tiepida e inconsistente però nelle sue zaffate droniche. Più votata al post punk con venature elettroniche invece "Paint My Soul", ancora una volta coinvolgente nelle sue note quasi danzerecce, con la voce di Inga qui sopra gli scudi. E si arriva al momento del pezzo più lungo e strutturato del disco, "One Fine Day", otto minuti di commistioni sonore tra elettronica minimalistica, IDM, kraut rock e qualche ulteriore sfumatura che solo ripetuti ascolti potrebbero palesare. Ma questo è un altro pezzo favoloso di questo 'A Second', un disco in grado di celare ancora piccole perle tipo l'irruenta e sbarazzina "The Violet Room Track". Più ritmata invece "This Life", ed è in questo genere di brani che vedo più "normalità" nella proposta dei nostri, anche se, ancora una volta la voce suadente di Inga, ravviva un po' il tutto. In chiusura la ninna nanna affidata a "A Head Is Not A Home", una ballata che chiude questo stimolante e sperimentale lavoro dei Gong Wah. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 76

https://gongwah.bandcamp.com/album/a-second

lunedì 18 aprile 2022

Glasgow Coma Scale - Sirens

#PER CHI AMA: Kraut/Post Rock
Terzo lavoro per i Glasgow Coma Scale, band originaria di Francoforte con un nome dal moniker alquanto strano, poiché il suo significato lo possiamo trovare nel fatto che, la scala di Glasgow, sia una scala di valutazione neurologica utilizzata dai medici per tenere traccia dell'evoluzione clinica dello stato di un paziente in coma. All'ascolto della loro musica direi che si percepisce bene il perchè di tale nome, visto che per certi aspetti il loro sound avvolge completamente l'ascoltatore e come buon album di musica postrock strumentale predilige l'uso di parti emozionali, composizioni colme di atmosfere cristalline, magiche,ed introspettive. Giocato su continui intrecci chitarristici che caratterizzano oggi più che mai il suono della band tedesca, di fronte ad una struttura compositiva consolidata, che tende ad evolversi verso i lidi cosmici di certe creazioni dei 35007, l'intero album è omologato su di una costante lunghezza d'onda, in modo da sostenere un perfetto filo conduttore musicale e permettere così a chi ascolta di addentrarsi in lunghi viaggi sonori pieni di luci e colori, ma anche di melodie più cupe e talvolta, esplosioni di natura quasi prog metal ("Magik"). Il disco è complesso, a volte mi sembra quasi di sentire una versione più soft dei The Fine Costant, con meno ossessione verso il virtuosismo. Qui il suono così preciso e puntiglioso mi rimanda al progetto di Sarah Longfield, ma anche agli Airbag, se solo fossero un combo strumentale. Le canzoni sono tutte piuttosto lunghe come del resto l'intero album, la produzione è molto buona e l'ascolto è, come di consuetudine per la band teutonica, piacevole, fluido e sempre interessante. Rock indipendente prevalentemente d'atmosfera quindi, con puntate nel prog di casa Marillion unite a certe intuizioni musicali dei Laura, come l'intro di "Underskin", che con l'aiuto di tastiere e programmazione (bello il trucchetto del togli corrente al brano con ripresa al minuto 2:13), che assieme alla strumentazione classica del mondo del rock, permettono di ottenere un mood complessivo d'impatto emotivo costante, omogeneo e coinvolgente. "Underskin" è forse la traccia più rappresentativa della loro visione artistica che tende a non essere mai pesante, anzi, si evolve in soluzioni di continua espansione, e questo richiede un ascolto molto certosino, per cogliere tutti gli aspetti di forma e cura che stanno dietro a questo ottimo progetto nato nel 2014. Ottimo il finale affidato alla title track che coglie un bel rimando a certe cose dei Pink Floyd più recenti. In un mondo, quello del post rock, dove è sempre più difficile ritagliarsi uno spazio di vera originalità, i Glasgow Coma Scale riescono a trovare una propria vena identificativa, lavorando molto bene su di una formula che da tempo sperimentano, fatta di fine equilibrio tra gli strumenti e gli spostamenti sonori continui che si snodano in forma naturale in elaborate composizioni, ricche e piene di pathos che si fanno subito apprezzare. Disco intenso, da ascoltare con attenzione e tranquillità. (Bob Stoner)

mercoledì 6 aprile 2022

Taumel - Now We Stay Forever Lost in Space Together

#PER CHI AMA: Dark/Jazz
Il buon Bob si era divertito a recensire il debut album dei teutonici Taumel, sempre in bilico tra doom, dark e psych jazz. E cosi ero curioso anch'io di mettermi alla prova con la stravagante creatura di Jakob Diehl, lo "Sconosciuto" della serie Dark, che torna con la seconda parte del ciclo musicale chiamato 'TRAUM'. Questo secondo capitolo, dal breve titolo 'Now We Stay Forever Lost in Space Together', racchiude cinque nuove oscure e psichedeliche visioni del poliedrico artista tedesco. L'album si apre con "Now" che nei suoi suggestivi giochi di chitarra mi evoca immediatamente i Pink Floyd. Le analogie con la band inglese e tutto il seguito che si è portato dietro nel tempo, sono tangibili nei chiaroscuri del quartetto di Rheda Wiedenbrück, con sonorità che potrebbero essere accostabili anche alle colonne sonore prodotte dagli Ulver, quelle di 'Lyckantropen Themes' e 'Svidd Neger', tanto per capirci, anche se quanto composto dai Taumel suona decisamente più pensato ed articolato nella sua stravagante forma musicale. "We Stay", la seconda song, ha un piglio decisamente più improvvisato anche se la sua prima parte potrebbe essere usata come colonna sonora per il mio funerale. Dal terzo minuto in poi, le atmosfere si fanno più stralunate, e quanto messo in scena sembra più frutto di una jam session che altro, un incontro tra artisti jazz, kraut, doom, blues, psych e chi più ne ha più ne metta, visto che non sarà cosi semplice accostarsi a tali sonorità. E non importa che il tutto sia esclusivamente strumentale, i vari strumenti esplicano qui il ruolo di mille voci differenti. Con "Forever", l'atmosfera si fa ancora più noir: mi immagino uno di quei locali fumosi anni '60, con un sassofonista che suona minimaliste melodie di un altro tempo, mentre la gente attorno non si accorge di quell'omuncolo che in realtà è un artista fenomenale che ahimè nessuno comprende. E quel senso di vuoto che risiede nella sua anima si manifesta attraverso suoni glaciali e al contempo caldi, difficile da spiegare, ancor di più da capire. È con "Lost in Space" che si parte invece per galassie lontane, dove il propellente è rappresentato da strambe melodie aliene espletate da inaspettati strumenti musicali in mondi surreali che sembrano dipinti da Salvador Dalí, De Chirico o più recentemente da Willem den Broeder. Il disco chiude con "Together", l'ultima stravagante espressione musicale di 'Now We Stay Forever Lost in Space Together' (l'avevate notato vero che il titolo del disco non sono altro che i titoli dei brani?), in un viatico triste e deprimente di sonorità surrealistiche tra il suono di una tromba ed effetti vari che sanciscono la genialità di un ensemble quasi unico nel suo genere. (Francesco Scarci)

martedì 8 marzo 2022

Sound of Smoke - Tales

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
Ancora una volta mi piange il cuore nel sentire un buon lavoro che non mette in risalto tutte le sue reali possibilità, per un missaggio svolto in maniera poco incisiva, con poco mordente e non sempre efficace. Non è mia consuetudine criticare il difficile lavoro di chi sta dietro al suono di un disco, ma stavolta rimango allibito come una bella chitarra sia stata da più parti emarginata nel contesto musicale. Al suo secondo album (il primo aveva un suono già più hard!), i Sound of Smoke, esnemble originario di Friburgo, cercano una dimensione più fumosa e cupa, sfoderando un buon stile blues dal passo pesante e compatto. Hanno le carte in regola per suonare anche un ottimo rock dalle tinte vintage, anni '70 a tutto tondo, supportati dalla preziosa e splendida voce di Isabelle Bapté (che mi ricorda Emma Ruth Rundle in una veste più soul e più allucinogena), da una massiccia sezione ritmica e, come accennato in precedenza, da una chitarra bassa di volume, che a volte sarebbe bello sentire uscire dalle casse dello stereo, mentre la sua apparizione, è sempre inspiegabilmente tenuta in sordina. La band gira bene e mostra un buon feeling tra i musicisti e tralasciando qualche rischio di plagio (vedi "Witch Boogie" verso gli ZZ Top), si nota subito che la musica dei Sound of Smoke scorre che è un piacere. Il quartetto teutonico crea dalle ceneri degli inni di settantiana memoria, cimentandosi nella ricerca di originalità e riuscendoci in brani come "Indian Summer", dal fascino di scuola The Doors, cadenza ipnotica e ritmica profonda, cembalo, polvere, deserto e una gran prova vocale. In "Dreamin'" e "Devils Voice", i nostri potrebbero gareggiare con i Lucifer o Jess and the Ancient Ones, ma le chitarre sono miti e non sempre decollano, sopra una ritmica che suona trascinante come quella dei brani più orecchiabili degli ultimi the Jesus and the Mary Chain. In questi ultimi brani, effettivamente, le chitarre si prendono un po' più di spazio ed il sound risulta già più cosmico, e nella lunga suite finale, una canzone di oltre 10 minuti, si sente il potenziale stoner che in teoria dovrebbe accompagnare l'intero disco. Presumo che il tipo di equilibrio scelto tra i volumi degli strumenti sia stato voluto per aumentare l'effetto psichedelico del disco ma a mio modesto parere, devo dire che ha funzionato solo nelle parti più soft, rimanendo carente in quelle più heavy. Il disco ha una bella grafica di copertina e i Sound of Smoke hanno delle buone idee, anche se alle volte un po' abusate, la conclusiva "Human Salvation" mi ha molto colpito e la continuo ad immaginare con un pizzico di distorsione in più per deliziare le mie orecchie desertiche. Una band che ha del potenziale, una band che se focalizzerà al meglio la propria direzione sonora, potrà togliersi parecchie soddisfazioni in ambito psichedelico e vintage rock. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 73

https://soundofsmoke.bandcamp.com/

sabato 8 gennaio 2022

The Spacelords - Unknown Species

#PER CHI AMA: Psych Rock Strumentale
Devono averlo per vizio i tedeschi The Spacelords di pubblicare tre brani per volta. L'avevano fatto in occasione di quello 'Spaceflowers' che ricordo aver recensito durante il primo lockdown, lo rifanno oggi con questo nuovo capitolo intitolato 'Unknown Species'. Tre brani dicevo che si aprono con le psichedeliche melodie di "F.K.B.D.F" (chissà poi per cosa sta quest'acronimo), un pezzo nemmeno cosi lungo ("solo" otto minuti) che in tutta franchezza, non sento nemmeno cosi originale e catalizzante. Si rimane in territori strumentali votati ad un psych rock magnetico, a tratti lisergico, ma che in questa traccia d'apertura, non mi rapisce sguardo e mente. Ci riprovano con la successiva song, la title track, che ci trastullerà per poco meno di un quarto d'ora: partenza tiepida in cui a calamitare l'attenzione c'è un bel basso di pink floydiana memoria in sottofondo, mentre una chitarra dal sapore kraut rock, danza in prima fila come una ballerina indiana. L'effetto è sicuramente di grande impatto emotivo, un viaggio a luci spente in cui è sufficiente chiudere gli occhi e immaginare, un viaggio, un paesaggio, una persona, una scena, quello che volete, quello che la musica vi induce sotto pelle, fino a penetrarvi nel torrente circolatorio e da lì raggiungere il cervello come una sostanza psicotropa pronta ad alienare i vostri sensi, quasi quanto i colori sgargianti che contraddistinguono la cover artwork del disco. E iniziato questo trip mentale, non vi è nemmeno permesso scendere dal treno, che prosegue dritto con la terza e ultima "Time Tunnel" che vi porterà al mare nelle sue note iniziale. Si perchè i suoni che si sentono nei primi secondi, quando la chitarra acustica apre il pezzo, sono quelli delle onde del mare che sfiora la battigia. Ma l'immaginazione corre lontano, a falò sulla spiaggia, spinelli scambiati, pensieri sfuocati e tanta leggerezza, come giusto ci servirebbe in questi giorni di schizofrenia. Il sound monta piano tra echi orientaleggianti e fughe tra psichedelia, hard rock e stoner, ma intanto sale, sale ingrossandosi e crescendo di intensità attraverso ciclici e roboanti giri di chitarra in una sorta di infinita scala a chiocciola dove non riuscire a raggiungere la cima, tanto meno poi a scendere. Non so se realmente se sono riuscito a spiegarvi che diavolo ho sentito durante l'ascolto di questo disco, rileggendomi non ci ho capito granchè nemmeno io, ma queste sono le immagini un po' sbiadite che si sono autogenerate nella mia mente mentre il sound cosmico degli Spacelords mi assorbiva tra le sue spire. E le vostre, quali sono state? Godetevi 'Unknown Species' e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

martedì 26 ottobre 2021

Glasgow Coma Scale - Sirens

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
La scena teutonica per cosi dire alternativa, sta crescendo ormai da un paio d'anni a vista d'occhio, sfornando band a destra e a manca. Gli ultimi di cui faccio conoscenza, ma non sono certo pivelli avendo quasi dieci anni di attività alle spalle, sono questi Glasgow Coma Scale, combo originario di Francoforte che con questo 'Sirens' mostra il proprio suggestivo mix di post rock e stoner. Peccato solo che si tratti di una proposta strumentale perchè le carte in regola per fare benissimo, c'erano tutte. Lo dimostrano le intimistiche sonorità dell'opener "Orion", che ammiccano nei suoi quasi otto minuti, ad uno space rock che potrebbe chiamare in causa un che degli Hawkwind, senza dimenticarsi di quelle partiture psichedeliche nel finale che ci conducono nei pressi di un sound di kyussiana memoria. Niente male, davvero. Peccato solo che il comparto vocale sia coperto da pochi secondi di spoken words. "Magik" parte in sordina, con un prog rock astrale seducente ma che necessita di quel quid per farla esplodere e renderla più coinvolgente. Arriverà verso il terzo minuto con il brano che aumenta i giri del motore per 60 secondi prima di un break atmosferico di scuola Porcupine Tree che fa da preambolo ad un finale a dir poco infuocato. Ci siamo, ci siamo quasi, bisogna lavorare esclusivamente sui dettagli. Quelli che verosimilmente vengono maggiormente sottolineati in "Underskin", un delicato ed etereo brano post rock, niente di particolarmente originale, ma dotato sicuramente di un certo appeal, soprattutto là dove i nostri schiacciano con più veemenza sull'acceleratore dando delle bordate elettriche su di un tappeto ritmico post metal malinconicamente ondivago. Però diavolo, se ci fosse stata una voce, non sarebbe forse stato meglio? La title track prova a venire fuori con un sound ancor più accattivante ma niente, quello che manca è un urlaccio che faccia sentire tutte le emozioni che stanno in seno alla band. "Day 366" prosegue sulla scia di un emozionale post rock d'annata, fluido, melodico, sicuramente interessante ma che tuttavia manca di un pizzico di originalità in più, cosa che magari poteva essere prodotta da una voce, chissà. Si lo so, risulto provocatorio addirittura noioso, ma non mi stancherò mai di ribadire la necessità di un vocalist che blateri qualcosa anche solo per pochi secondi. Tutto sarebbe risultato molto più figo, anche per quel che concerne la conclusiva "One Must Fall", ultimo fragoroso atto all'insegna di oscuri suoni lisergici guidati da una poderosa ritmica che rendono questo 'Sirens' un disco da consigliare però ai soli amanti del genere. (Francesco Scarci)

giovedì 14 ottobre 2021

Bend the Future - Without Notice

#PER CHI AMA: Psych Prog Rock
Rock progressivo dalla Francia. Ecco, mi sa tanto che i nostri cugini galletti se la cavano non solo in ambito estremo ma anche in sonorità ben più tenui, come quelle proposte dai Bend the Future, sestetto originario di Grenoble. La partenza di 'Without Notice' denota sin da subito le grandi capacità tecniche dell'ensemble, che con l'opener "Lost in Time" ci regalano suoni davvero entusiasmanti tra prog rock di stampo settantiano, aperture post rock, allunghi psichedelici e sprazzi jazzistici, che sottolineano l'imprevedibilità di quanto ascolteremo da qui alla fine nel corso del lavoro. Il primo brano è pazzesco, forse la cosa più debole sono le vocals (colpa mia che sono abituato ad un ben altro tipo di corde vocali), ma poi da un punto di vista strumentale, i nostri sono spaventosi, tra lunghi giri di chitarra, splendide melodie e cambi di tempo da applausi. Bomba! Chissà se le altre song sapranno confermare quanto di buono ascoltato sin qui? Un pianoforte apre la strumentale "As We Parry" e l'atmosfera somiglia a quella lounge da pianobar con un duetto di sassofoni che deliziano per come ben si amalgamano nella matrice musicale. "Merely" ha un impatto un po' più irrequieto, sebbene qui ritorni la voce del frontman a smorzare quell'animata ritmica che in taluni passaggi potrebbe evocare un che dei Riverside in salsa math, prima di un super spiazzante break atmosferico in grado di condurci improvvisamente indietro di oltre 40 anni nel cuore della musica settantiana. Da nostalgica lacrimuccia vintage. "We Aim Higher" è un pezzo di puro sperimentalismo sonoro, dal tratto saturnino che azzarda con trovate interessanti a livello di batteria e chitarra, e che vede peraltro la comparsa al microfono di un gentil donzella. Il brano è complicato, data anche una durata che supera gli otto minuti, ma alla fine davvero efficace tra fughe semistrumentali, stridori jazz e speziati aromi psych prog rock dal vago sapore mediorientale. Una delle hit del disco in assoluto. Non dimentichiamoci però della breve ma ficcante "Miniature", quasi un passaggio di collegamento con le restanti "Muş", più timida nel suo incedere comunque raffinato, e la title track, che chiude in scioltezza e alla stregua dei pezzi che l'hanno preceduta, un lavoro complesso, elegante e da approfondire ad ogni costo. (Francesco Scarci)