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martedì 24 marzo 2015

Echoes and Signals - V

#PER CHI AMA: Progressive Post Rock
Accendevi lentamente una sigaretta. Se non fumate fate ardere il vostro camino. Se non avete un camino, date fuoco alle polveri della vostra coscienza. Ho bisogno del vostro ardere indistinto, per farvi viaggiare in questo album dei russi Echoes and Signals. Partiamo con una fiammella tiepida, quasi impercettibile che soffonde da “I”. Un numero romano che ci introduce alla seconda traccia. “Over the Lethe”. 6.57. I minuti ed i secondi che imprigionano il mio ascolto. Percussioni di tastiere elettriche mi ipnotizzano. Ridondanze melodiche giurano melodia. Distorsioni fanno contorcere il brano, sporcandolo di ritmicità anni '80 accuratamente occultate. Un sottofondo che cerca il metal, ma alieno dal nostro dark ambient. Versiamo l’attenzione sul secondo numero romano “II”. Un altro intercalare. Graffi gutturali, lugubri di chitarre elettrificate. Incedere. Poi nulla. Ora d’improvviso, distoglie “Caught By The Water”. Bianco nero. Nero bianco, e così via. L’intro gioca con le dita sulla tastiera. L’evoluzione sorprende con una voce pulita e fondente come cioccolato spalmato sulla pelle tiepida. Batteria e voce ancora ci portano a convulsioni nostalgiche del periodo d’oro dei Rolling Stones. Ritmo. Batteria. Chitarra. Voce. Estrosità musicalmente semantiche in chiusura in vocalizzi ripetuti che fanno della pelle, brivido. Non possiamo procedere senza un altro numero. È il momento di “IV”. Addentriamoci romantici ed anafettivi in questo intermezzo, intenso, ma sfuggevole. Meglio farci invadere da “Hadal Pelagic”. La musica di questa song è quasi commestibile, tanto è corposa ed impregnata di strumentalità un po’ ostentate, un po’ ritmiche. Il brano è metamorfico. Se foste su una gondola nel mezzo della laguna veneziana, circondati da queste sonorità, credetemi, vorreste toccare terra per tornare al sicuro. Non mi sorprende si affacci sul nostro cammino un’altra romanità. “V”. Pochi tocchi di questa cordata sonora, bastano a persuadermi. Chiudo occhi e mente. Riapro la serranda emozionale per “The Waiting Room”. Ne vale la pena. La batteria mi fa finalmente vibrare l’anima. Il climax ritmico mi graffia l’attesa. Le pause tra i battiti sonori sono enfasi al reiterare di queste musicalità, così saporite da volerle assaggiare ripetutamente. 7.07. minuti e secondi per cui vale la pena vivere di musica. Mangiate alla mia tavola. 'V' si conclude con “When the Time Has Come to Sail Away”. Mi chiedo se con questa ballata la band voglia sublimare gli stili variegati che sparge nei propri brani. Mi chiedo se in questo brano strumentale, struggente e vivo di sonorità eclettiche, vi sia la voglia ed il compendio ad un lavoro, a una esperienza, a una passione intrinseca per la musica strumentale, vocale, epocale. Ascoltate. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 70

martedì 17 marzo 2015

Captains of Sea and War - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Rock strumentale
Otto tracce otto. Mare in tempesta di Guerra. Partiamo per la traversata. Armiamoci di remi, boccaporti, rum da stiva, marinaresche intenzioni, lasciando a casa le donne e gli uomini che non ci vogliono uomini e donne di mare. L’incipit di “Call Again” è già mare in burrasca. Prepariamoci a innalzare bandiere dai teschi ben in vista. Sorvoliamo come gabbiani rabbiosi queste sonorità ripetute dallo smalto rock alternativo. Costruiamo distruggendo preconcetti, perché “Call Again” trasforma l’acqua salata in vino. Mano a mano che il brano procede muta e rapisce divenendo voce graffiata attraversata da acqua di mare e l’incipit arrogante si trasforma in un ricordo, trasferendosi in quella dimensione che dà più che prendere. Insonorizzate le vostre pareti e lanciate il volume oltremodo. Veleggiamo verso “Kunz”. Schiudete appena le vostre persiane. Sapete che la giornata è uggiosa. Abbiate poesia per le nuvole che sovrastano il mare, poiché “Kunz” vi terrà compagnia come un tè caldo corretto da mille gradi alcolici, descrivendovi il mare d’inverno. Le stagioni sono solo illusione. Rendiamo piuttosto vivo il tempo di questa “Aboard”. Troppo presto il mio parlar di tempo, perché questa song lo frena il tempo sino a renderlo glaciale. I suoni sono lenti. La batteria scandisce le pause tra tempo e chitarra. Si riprende lentamente la scansione sonora, ma solo per favorire animosità mercenarie, sublimi, ma millantatorie. Chi crede che “Aboard” accarezzi l’anima, sbaglia, rischiando di vendersi al diavolo. Assaporate con l’udito, ma non mangiate la mela. Potreste rimanere imprigionati in questo inferno di velluto apparente. Assecondiamo ora “You Need to Restart”. La prigione che vi descrivo è fatta di gabbie invisibili, in cui i tocchi sonori sono accattivanti e subdoli. Non resta che essere lascivi o morigerati. Io mi abbandono. Voi decidete se farvi coinvolgere a scatola chiusa. Io vi consiglio l’abbandono. Risalgo lentamente dalle tenebre travolgenti delle mie perdizioni sonore. Incontro “Far”. È amore a primo ascolto. Mi mescolo carnalmente a questo brano. La musica mi sostiene. Le chitarre mi seducono. La voce mi guida in un viaggio stridente, assordante, suadente. Volete pane per la vostra coscienza? Se si, venite oltre con me. Vi porto in una casa diroccata. Attenti ai calcinacci che d’improvviso cadono da questa “Zittersheim”. Iniziamo dalla fine perché questa traccia ha i suoni che ricordano titoli di coda d’un horror. La partenza poi è in quarta marcia. Un country metallico sorprende contrapponendosi all’esordio. I suoni cambiano ancora. Per divenire pirati minacciosi ad affascinanti nel bel mezzo del brano. Ascoltate questo light metal pregiato. Con la prossima traccia, non posso che scendere sotto coperta. “Five Times the Sea”. L’ascolto è da ovattare tra muri di legno in un veliero che scava le onde sfidandole. Non abbiate paura, ma nel dubbio vi auguro, buon vento. L’ultimo pezzo dell’album è cardinale, "East”. L’album termina con un ondeggiare dolce dall'impronta romanticamente metallica. Ci sono più onde che scogli in questo brano. Il sale guarisce le ferite. Il sole romanza il tramonto. La chitarra mi rende giustizia, così ritmica e leggera da lasciarmi nostalgica dell’estate. Scendiamo dal vascello. È stato un bel viaggio. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 85

giovedì 19 febbraio 2015

People are Mechanisms - VII

#PER CHI AMA: Doom/Rock Depressive
Quest'album è un viaggio in cui la meta passa in secondo piano. Armatevi di torce, bussole e fuoco. Vi serviranno quando vi troverete sperduti in quelle terre dimenticate dalla coscienza, abitate solo dai fantasmi della vostra anima. “Envy”, questo il brano d’esordio in cui la materialità della terra diviene avulsa allo spirito, in favore della risacca del vento. Turbina la musica, sprigionando abbracci immaginati, in cui il tepore è solo un’illusione. Mentre ascolto questa strumentalità, apparentemente asettica, sento che in essa vi è il potere di alienare freddo e solitudine. Questa essenza in musica, ha l’arroganza e la forza di smemorizzare il cuore, rendendolo un guerriero che vincerà, dopo aver pagato l’obolo del contrappasso. La velocità del nostro viaggio cambia con “Gluttony”. La batteria marcia incalzando gli spazi tiepidi che aveva scavato “Envy”, per poi mescolarsi a corde metalliche di chitarre sprezzanti, quanto definite in un evolvere metal che fa togliere cappello e vestiti, tanto è il calore che si solleva dalla carne in un ballo ipnotizzante descritto da quest’altra song strumentale. Se vi sono sembrata predata romanticamente dal dark, con “Lust”, stravolgerò le vostre percezioni. Vi invito a stringere tra i denti il vostro pensiero più ossessivo. Trattenetelo, perché nel mettere a volume questa traccia potrebbe confortarvi. Ci addentriamo con “Lust”, in verbalizzazioni squisitamente metalliche in cui si avvicendano ottoni violentati, bassi sguaiati, rimembranze sensualmente spinte in accordi graffiati. Un orgasmo sonoro dall’anima nera. Ben fatto. Straziante. Coinvolgente. Riprendetevi in fretta. Perché “Sloth” non vi lascia respirare. Bissiamo “Lust” in un tutt'uno di batteria, gesti secchi sulle corde di chitarre elettriche dallo stomaco ben carburato. Questi due brani sono appendice, l’uno dell’altro. Ora prendete le vostre torce, le vostre bussole ed i vostri fuochi. Spegnete. Buttate. Soffiate. Questa “Proud” ce la assaporiamo avvolti dal buio pesto che non filtra né speranza, né salvezza, né possibilità. Chiudiamo con un catenaccio ferroso la porta dell’anima. Lasciamo che “Proud” ci guidi nei sentieri bui delle paure. Lasciamo all'udito il beneficio del dubbio che questa band russa, possa farci non solo perdere, ma trovare. Lascio il passo al vostro riascolto. Consiglio agli astanti questo viaggio, ma lasciando a casa l’armatura. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 75

mercoledì 11 febbraio 2015

Shabda - Tummo

#PER CHI AMA: Drone/Ambient 
In attesa di ascoltare il loro nuovo lavoro schedulato per il 2015, entrate con me in un’alcova in cui si dipanano tensioni sonore diffratte, difficili da riprodurre. Signori, ecco gli Shabda, side project dei T/M/K e il loro ultimo lavoro, 'Tummo'. Inoltriamoci quindi nell'ascolto della prima song, “Kamakhyra”, che semina petali metallici nell'esordio strumentale. Seguiamoli e prepariamoci a venire involti nell'intermittenza di sonorità fatte di acciaio e acuti melodici contorti, lunatici, mescolati a suadenze musicali che presto vengono trafitte da nuovi aculei ruggenti, vendicativi, sino a trasformare il brano in un tripudio dantesco, in cui le bolge dei dannati sarebbero balsamo alle distorsioni che aggrediscono anima e timpani. Il prologo di questo brano rinnega l’epilogo. Di certo questi artisti abbisognano di sublimare rabbia e bipolarità inconsapevoli. Veniamo a “619-626 kz”. Lasciatemi fuggire da questo esordio diabolico, in cui le voci infernali si mescolano ad un sussurrare inquietante e l’attesa fa chiudere porte a chiave, senza poter sfuggire alla falce del destino. Vorrei assecondare il descrivere la musica, ma il terrore vince la cinetica dell’ispirazione ed ancora il respiro vien spinto indietro e l’ossigeno sa di rarefazione. Il brano improvvisamente assume connotazioni di rock metallico e le atmosfere, da lugubri, trasudano post rock strumentale che gocciola di tinnuoli orientali. Niente male l’epilogo che fa risorgere l’anima dalle mere grotte infernali. Le sonorità ripetute divengono graffi incostanti per timpani che abbisognano di un viatico chimico ad una serata uggiosa. La densità strumentale risulta stucchevole ed ostentata. Non mi resta che progredire alla prossima song. Come un naufrago sperduto, tra musiche che confondono pensieri e coscienza, approdo sugli scogli di “Aurora Consurgens”. Impongo il silenzio ai sensi. Assegno al solo udito il compito di portare ai neuroni il percepito. Sento ululare anime indomite in cerca di domatori. Sento un vento che polarizza i pensieri. Le cariche elettriche sguaiate si disperdono tra i neuroni. I virtuosismi elettronici divengono apicali. I suoni distorti, sfidano le melodie. Il vortice delle vibrazioni, fa tremare la carne. Riemergo da questo ascolto. Sopita. Alienata. Ebbra di distorsioni. Senza parole. Vi lascio un consiglio. Ascoltate gli Shabda solo se siete prossimi alla felicità o sul baratro che non contempla il passo indietro. (Silvia Comencini)

(Argonauta Records - 2014)
Voto: 65

martedì 13 gennaio 2015

Release The Long Ships - Wilderness

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze Strumentale
Dall'Ungheria ecco arrivare il progetto Release The Long Ships, misteriosa one man band dedita a un post rock strumentale. Il disco si apre con “Mist Pillars”. Song magnetica, ingorda di attenzione. Abusa di chitarre che distorcono le melodie, facendole diventare ballerine ubriache dalle ritmicità distoniche. L’intercalare sussurrato, è solo una proiezione anterograda all’epilogo metal. “Snow”: per chi non è mai stato in Giappone, si tolga i vestiti e indossi un chimono e sandali di legno, preparandosi ad inchini beffardi d’innanzi a tocchi sonori che presto sconvolgono le atmosfere che profumano di pesco, per diventare belve inferocite, il cui pasto sono solo timpani vergini a tortuosità impreviste. Sotto al chimono, spero abbiate tenuto i vostri abiti dark che odorano di borchie e di pelle nera. Vi faranno sentire a casa. “So Murmured the Wide Seas”. Seguo questa traccia che è senza inizio e senza fine. Nessuno può trovare questa via, a meno che, non se ne voglia scoprire la mappa, tra rovine oceaniche e maledizioni così ben descritte dal fondale offuscato che dipana rumori, poi suoni, poi velleità, sino a tracciare con le ultime sonorità un manto che oltraggia il senso e l’equilibrio. Questo brano termina scostante, così come è iniziato. Trovarne il senso, sarebbe renderlo contro natura. Lo abbandono. “Aether” è estasi metallica, oscillante. I suoni divengono cavi d’acciaio vibrante, il sottofondo mescola un reiterare ritmicamente orientale. L’uscita di scena dei suoni è prematura, nostalgica. Viene da allungare le braccia per trattenere il più a lungo possibile questa essenza in musica. “I Am the Sun”. Non posso che ammansire le palpebre. Chiudere gli occhi. Cercare la provenienza dei suoni. Inutile. Le sonorità sono talmente eclettiche, da creare una dimensione sonora multipla, per poi, scemare. D’improvviso gongola la musica. Per un attimo ancora, romanza su se stessa la musica. Poi il gongolio e il romanticismo si fondono in destreggi metallari che ne salvano l’anima dark senza nessuna pietà per i pregressi. Colpi inflitti e mortali annientano ogni intenzione aliena dal metal. “The Heart of Mountain”. Questo brano è un baccanale di note che sembra calare come nebbia densa su terra arata. Scava la musica. Rimangono in superficie i pensieri. Si fondono i pensieri alla terra, come un ossimoro improbabile, che sublima come foschia in un cimitero di anime erranti. Chiude “I Have Never Seen the Light”. La premessa è di un requiem metallico, sospinto da eclissi sonore sospiranti. Respiri corti. Suspance come suoni. Attese contratte e poi destate da rivoli animosi mascherati in suoni suadenti. Contrazioni. Gorgheggi strumentali. Mescolanze afrodisiache. Nulla ora mi impedisce di perdermi e vorrei che il brano non finisse. Il compendio è silenzioso. I brani sono strumentali e troppo brevi. Bellissimi. Fossi in voi li aggiungerei nella playlist del Black Friday. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 80

sabato 13 dicembre 2014

Handwrist - A Vibe to the Perplexed

#PER CHI AMA: Post Rock/blues strumentale
Torna la one man band portoghese capitanata da Rui Botelho Rodrigues, con un album, 'A Vibe to the Perplexed', che costituisce il settimo sigillo in poco più di due anni. Glassa accartocciata su se stessa dalla musicalità dolce e ripetitiva. "Evolve" apre l'album con fare suadente, orientaleggiante, assistito da creazioni sonore tintinnanti, sostenute da una traccia di sottofondo graffiante, corposa, quasi isterica, non fosse per le distorsioni intercalate ad arte nel brano. Se vi siete lasciati andare con "Evolve", tornate tra noi, ma solo per uno switch che volge a delle note disinibite, in cui la chitarra elettrica fa da padrone e la masticazione metal trova pane per i suoi denti. Tutto vero sino alla chiusura del pezzo, che offre un soffuso ambient jazz lungo, molto lungo, forse un po' spinto, ma assolutamente apprezzabile. Smarrite ogni pensiero e col tocco d'un dito fate partire "Ripple". So che vi piacerà tenere il tempo col pensiero, lasciando che la giornata si annichilisca, a favore di ritmiche pregiate, in cui non sentirete che carezze e scosse sonore modulate come un rally in cui guidate solo voi. Forse debbo destarvi dal visibilio per portarvi in "Perplexed". Indodossate abiti comodi, portatevi un cocktail d'alta scuola e seguitemi, come fossi il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. Si. Perché questo brano mi parla pur essendo strumentale. Perché la traccia ruggisce di gemiti che sguinzagliano suoni improbabili. Perché l'epilogo è ottundimento puro. Fatemi tornare umana. Qualche plettrata e dalla tana del Bianconiglio, ci troviamo proiettati negli anni ottanta. Lasciatemi dire che "Rootkit" è una bella rivisitazione delle nostalgiche suonate, che, che se ne dica sono sempre attuali. Ora un intermezzo. "Sleep". Suoni e voce sembrano amalgamare l'ecletticità passata e futura. Oh sì! Nuova linfa e siamo sempre nello stesso album! "At the Gloomy Carnival". Cambiamo ancora. Lasciamo che questa marcia tamburelli nella mente e costruisca un motivo tortuosamente accattivante. Ripetitività incalzanti smorzate da poche soste ben congegnate, costruiscono un brano originale e così alieno dai precedenti, come ogni brano precedente per ogni brano precedente. Conclusione? Mi sento proiettata per un attimo nelle danze indiane. Sto amando questo album per la sua poliedria. Cosa chiedere ancora a questa band? Credetemi possiamo chiedere! L'album prosegue con "The God of the Machine". Suoni lenti, uno sfiorare corde più animose che metalliche. Un viatico in cui i 9.33 minuti vi faranno rilassare ed al contempo percorrere i sentieri di ognuno dei pensieri che avete lasciato in sospeso. Veniamo ad "Enthropy". Ascoltate. Lo so. Vi sembrerà di stare addentro a una colonna sonora di un film ad alto costo. I suoni vi moduleranno stati d'animo e umore. Proprio così. Stiamo ascoltando un'ottima musica, che senza immagini ne provoca di istantanee. Senza accorgermene e non vi nascondo, con rammarico, giungo a descrivere l'ultimo pezzo. Come potrei, io che vivo di immagini e suoni e sensazioni, non innamorarmi di quest'ultimo brano? Sapete, iniziare una canzone con un temporale cosparso di pioggia è una vittoria facile, ma corollarlo con una batteria lenta, pennellata appena, una voce così decisa eppure effimera, con un volto strumentale che scompare, rende l'essenza del sentire una matrice incorruttibile, che si fa immagine impensata, vivace, personale. Concludo, lasciandovi a questo ascolto che traccia dopo traccia si materializzerà sulla vostra pelle come un tatuaggio indelebile, lasciando i vostri timpani pregni di bramosia che chiede solo il replay. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 85

giovedì 16 ottobre 2014

Antethic - Origin

#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient/Drone
Prima di leggere il titolo del brano, picchetto col piede un ritmo incalzante. Aspetto un tempo indefinito affinché i suoni trasducano in musica. Ma mi sembra che la mia attesa possa propagare i propri tempi all'infinito. "Time Forward" è un buon preludio ritmico, ma asettico. Non rimane che aspettare che passino questi sette minuti tra un rumore ed una ripetizione dai timbri noiosi. Unghie che graffiano pavimenti invisibili, che lasciano tracce organiche sui ciotoli di questa "Cheliuskin". Avanti due passi. Indietro tre passi. Sensazione confermata e riconfermata da queste sonoritá degne di un horror a basso costo. "Old Maui Girls". Distorsioni elettroniche graffiano una melodia mielosa, compenetrandola. Non sono certa che vi piacerá convertire il black ambient in un catrame travestito da tinnuoli ripetuti sino alla nausea. A sorpresa, quando avevo abbandonato le speranze di ascoltare, soggiacendo al subire quest'album, parte "This Game Has No Name". Finalmemte si respira. Le ripetizioni sono ormai una certezza, ma cambiano i suoni, le pause, i sofismi distorti e troppo artefatti, in favore di un pezzo che fa lievitare sensazioni e piacere in un ascolto psichicamente accattivante. Incredibile! La seconda parte dell'album, sembra scindersi dalla prima. "Morning Glory". Ora è ascendente il suono. La corrente dei rumori confusi, è controbilanciata da musica vitale appieno, meno distorta, tecnicamente strumentale. Concludo l'ascolto di quest'album con "White Whale", che definire ghiaccio bollente, sarebbe il piú riduttivo tra gli ossimori. Vi lascio con qualche immagine. Ferro che batte su ferro. Ghiaccio che s'infrange su ghiaccio. Correte veloci a perdifiato lungo una strada che non porta a nulla, se non all'inizio del labirinto della vostra coscienza. Ecco fatto. Avete tra le mani 'Origin'. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Antethic

giovedì 25 settembre 2014

Burzum - The Ways of Yore

#PER CHI AMA: Ambient
Burzum, 'The Ways of Yore'. Tremate. Abbandonate definitivamente le tendenze black metal, cosi come pure le velleità di commettere atti terroristici, il Conte torna dandoci in pasto al suo concentrato ambient. Assecondate i suoni accattivanti, vibrati, accostati a nuvole di fumo psichedelico ed ascoltate. "God from the Machine". "The Portal". Dimensioni oniriche, prismi dai cangianti velati, ostacoli duttili, ripetizioni reiterate per alienazioni lugubri, in cui la chitarra sfregia i pensieri ed il tempo involve in collisioni improbabili. "Ek Feller (I Am Falling)". Ora abbiate paura. Questo brano è sordo, lascivo, sospeso tra un cantato mortuale e pochi cenni strumentali che peggiorano un mood impossibilitato alla felicità. Se la serata vi ha lasciato con l'amaro in bocca, questo ascolto, potrebbe illuminare il vostro inferno. "Hall of the Fallen". Cristalli che si abbattono a terra. Incedere di voce ed elettricità dal pallido sentore musicale. Terrore. Ghiaccio ancora. Ossa spezzate dentro un turbine di sensazioni dall'incedere spettrale, invisibile, minaccioso. Lasciandovi trasportare, credetemi, rischiereste di venire a patti con l'anima. A vostro rischio. "Emptiness". Voluttà ripetute. Tortuosità appianate. Un basso che distoglie dal ritmo soffuso. Soffiate sull'orizzonte, ma sappiate che non se ne andrà il grigiore, malinconico, assente pensiero che questo album evoca con individualità allargate alla coscienza comune. Nel buio di questo metallo, emerge almeno un rincorrersi di suoni estatici e carnali, sino all'epilogo orientaleggiante. "Lady in the Lake". Perché non strofinarsi su pareti di ferro ruvido, lasciando che la pelle sanguini e l'anima segua strade sconosciute? Perché non alimentare la follia, prima che vincerla, lasciando che il tempo e la ragione diventino virtù d'altri? Perché non digrignare i denti e corroborare lo stupore con la piú nichilista tra le benzine alcoliche? Perdizione. Rabbia. Museo degli orrori. Benvenuti nel tripudio del black ambient. "Hell Odin". 3 minuti ed 11 secondi. Pensateci bene se percorrerli. Suoni ripetuti si fondono con la stessa improbabile frase che il titolo del brano rappresenta. Virtuosismi modulati calano il carico presto ed il brano è buono solo per un rave di bassa lega. "The Reckoning of Man". Suoni dalle metamorfosi metalliche. Voce dai toni pretenziosi. Virtù narrative corrugate dal volo raso terra della musica narrante e del testo ipotimico. "The Hel and Back Again". Mi chiedo perché Burzum cerchi di ripulirsi la coscienza con musiche zen. Mi chiedo perché una scia di rumori di fondo imprigioni quella coscienza riportandola nelle segrete della prigionia malsana. Mi chiedo, ma so che in questo album, nulla è come ce lo si aspetta... "Heil Freyia". Danze circolari. Movimenti psichici piú che corporei. Impossibile entrare in questo rituale. C'è un obolo troppo costoso da pagare. Accompagno un velo sugli altri brani. Lascio alla notte ed alle vostre inquietudini la scelta per continuare questo album, che mi ha lasciata sfatta di luce e sottesa al buio. Buon ascolto. Tremate. (Silvia Comencini)

(Byelobog Production - 2014)
Voto: 70

lunedì 1 settembre 2014

Anathema - Distant Satellites

#PER CHI AMA: Rock Elettronica, Radiohead
Gli Anathema come mai prima. Forse rinnovamento, forse cambiamento. Io direi che in questo album gli Anathema hanno il vello della fenice che rinasce dalle proprie ceneri. "The Lost Song, Pt 1". Abbandono. Essenza. Trovare e perdere. Ascolto rapita. Sonoritá sensibili a tratti sensuali, che trasudano sessualitá struggenti come se la voce divenisse carnalitá corporea. Incredibile la continuità che il primo brano trova nel secondo "The Lost Song, Pt. 2". Ora a farmi perdere non è piú una voce maschile, ma una donna dalla voce complementare al cantante del primo pezzo, così in tinta alla musica della band, da farmi sentire un tutt'uno con cielo e terra. Spezziamo questa alchimia per qualche minuto con "Dusk". Perdura la musicalità elettronica, convergono suoni vocali sussurrati e poi iperbolici, ma in "Dusk", a sorpresa si fondono le voci dei primi due pezzi. Se non è sensuale questo, ditemelo voi cosa lo è! Ho guardato il mare in tempesta. Ho sentito il sapore della terra bruciata dal sole. Ho fatto un tuffo in mare di notte. Ho visto chi guarda e chi non sa di essere guardato. Ho subito il tempo e poi con rabbia l'ho vissuto sino all'ultimo istante il tempo. Ecco "Ariel", che sussurra, a due voci, che racconta, che accarezza, induce, si allontana con la stessa dolcezza con cui è iniziato. Come un ballo alcolico in cui la mente è leggera ed il corpo si abbandona, ascolto "The Lost Song, Pt 3". Potete muovervi in un limbo che circoscrive bisogni ed alienazione. Ascoltate con gli occhi chiusi, ballando con la lentezza descritta da un mantra. "Anathema". Si. Si. Si. Si. Si. Ecco l'intro suonato, accattivante, ripetuto, che mescolato alla voce, ipnotizza, trascina, rende la volontá schiava di questo ibrido sonoro e vocale, come fosse un unico corpo misantropo, carismatico, invisibile, ombra alle luci della luna piena. La magia si spezza. Torno alla realtá con "You're not Alone". Brano alienante rispetto ai precedenti. Pretenzioso. Una confusione di suoni. Forse ci vuole per una pausa! Era solo un momento estroso, perché con "Firelight" gli Anathema, tornano a far danzare lentamente i fiori nel deserto. Ancora una volta i suoni sono puliti, armoniosi, metafisici, cosí delicati da far entrare piacevolmente in questo connubio di ritmiche seghettate in cui si intercala la solita voce dal testosterone avvolto di miele. Se prima ho abbassato le luci, ora le ho spente, per fare spazio al buio ed a questa "Take Shelter". Lenta. Carezzevole. Scorsa da effetti elettronici, piacevoli come una scossa al rallentatore, che si propaga sulla pelle. Sospiri. Improvvisi cambi di ritmo che continuano nella melodia. Scosse ancora. Un album che dovreste ascoltare in una notte di luna piena a picco sul mare o di fronte ad un camino mentre la neve frusta la vostra terra. (Silvia Comencini)

(Kscope Music - 2014)
Voto: 80

giovedì 9 gennaio 2014

*Shels - Laurentian's Atoll

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Post Rock
Ripeschiamo un vecchio album degli *Shels e diamogli un bell'ascolto: si parte con "Atoll". Un intro dalla voce graffiata a cappella, svincolato dalle sonorità che ascolteremo. Fate piuttosto partire a volume abnorme “Water”. Adesso sì che iniziamo a ragionare. Chitarra elettrica marciante, voce piacevolmente spartita tra acuti e ritmica di quel ritmo che lascia i neuroni convulsi. Un bel vortice a mezz’aria tra il pop ed il rock. Lasciate che vi stupisca prima di passare al prossimo brano. A metà canzone se volete sorprendere chi avete di fronte, mimate l’onda che il braccio fa, nell’invito ad un lento. Poi fatemi sapere com’è finita! Tintinnare metallico ripetuto. Batteria. Chitarra. Ridondanze sfumatamente accattivanti. Silenzio. Ripresa che è solo preludio al proseguo di questo “Ghost Writer” che mano a mano che scorre, osa. Urla. Satura l’aria di impasti dark estremamente stridenti con il preludio. Che dire di “City of the Swan”? Dico che questo ascolto sembra muoversi come pennellate lamentose melodrammatiche su muri invisibili che si rifiutano di riflettere il suono. Dico ancora che se in “Water” il dualismo tra lento e saturo di suoni, mi aveva convinto, qui aspetto che il brano finisca. Ma pare che all’alternaza non ci sia fine. Accendiamo la luce. Passiamo a “Lights in the Laurentian”. Chiunque di voi almeno una volta avrà ascoltato musiche zen fatte per assecondare il silenzio e godersi una sessione di massaggi aromatici. Ragion per cui se vi è piaciuto il genere, vi consiglio questo brano. Tranquilli questo pezzo è monocorda, inizia e finisce allo stesso modo. Niente paura! L’album prosegue, ma senza sorprese. “Fireflystarrs” e”Wing for Their Smiles” sembrano un ibrido tra i due brani precedenti. Veniamo all’epilogo di questo “Atoll”. Dulcis in fundo. “M”. Se vi è piaciuto questo album, abbassate le luci, condite l’atmosfera con candele ed un rum d’oltreoceano, perché quest’ultimo brano vi da suoni e tempo per meditare. Consigliato l’ascolto a chi si sente un giano bifronte. (Silvia Comencini)

giovedì 27 giugno 2013

Ancients - Constellation

#PER CHI AMA: Post Rock, *Shels
Vestitevi la pelle di luce. Spogliatevi la pelle al buio. Camminate con me, lentamente, tra questi suoni che possono essere ambivalenti. Essere ricercato sottofondo ad una vostra serata, una di quelle serate con "la musica giusta". Oppure, se ascoltati in solitudine, essere una compagnia accattivante ed inaspettata. "Constellation". Vi invito a fissare la copertina dell'album prima dell'ascolto. Vedrete una galassia immobile percorsa da miriadi di stelle. Ora liberate la musica. Incontrerete suoni mastodontici e poi frammentati, e capillari, e luccicanti, e profumati, infine rilucenti come diamanti grezzi trafitti dal sole, eppure al contempo ripetuti come ombre sovrapposte nella notte. Al primo brano ne segue solamente un secondo scomposto, "Stella Nova", che ci offre due versioni, entrambe da ascoltare. Rimaniamo nell'etere astronomico, che dipana i propri suoni come sospiri alla fine d'una battaglia che rende salvi. Aspettatevi sonoritá modulate sulla luce di un'alba che consola una notte nostalgica di passione che non tornerá. Il mio invito per questo brano, é l'ascolto nella versione acustica. Gli Ancient con questo album ci servono su un piatto argenteo la congiunzione tra cielo e terra, luce e buio, pace e nostalgia. Armatevi di un buon impianto stereo e se siete alla ricerca della quint'essenza dell'anima, respirate lentamente ed ascoltate. (Silvia Comencini)

sabato 22 giugno 2013

Ulver - Shadows of the Sun

#PER CHI AMA: Ambient
Ombre, ombre che esistono solo perché esiste il sole. Preparatevi a questo album come ci si prepara al sentore di più dimensioni spazio temporali, che fanno convergere e spaccare il senso dell’esistere. Gli Ulver non ci lasciano a digiuno del loro essere musica e del loro essere anima, ma non pensate a questo album come ad un sottofondo che vi asseconda nelle vostre riflessioni più recondite, piuttosto fate rimboccare le maniche alla vostra coscienza e corazzate la vostra anima perché questo viaggio vi porterà allo stremo delle sensazioni. Partiamo con lo stesso random in cui l’ascolto trova il suo turbine vivo di arterie pulsanti e timpani tesi. "Let the Children Go" è un soffio tra le foglie d’autunno nostalgico e ripetuto. Voci dal coro che soggiacciono alle ritmiche imperanti. Convergono voci e suoni. Caos calmo. La voce in un acuto richiama senza indurre. Tinnuoli che si trasformano in effetti ritmici. La voce tace. Il brano chiude, ma non termina ancora. La vocalità si fa cavernosa e gli Ulver, con il loro magnetismo vi rapiscono per farvi ritrovare nel loro universo dualistico di luce e di buio sino al tocco finale di questo brano, che stride con il prologo delicato. "Solitude". Si. Solitudine. Si. Sangue e respiri lenti. Si. Perdere e trovare. Trovare empatie ataviche. Perdere il senno. Si lasciarsi condurre sino alle soglie della follia. Se vi sentite malinconici, ascoltate, ma a vostro rischio. Consolazione è l’empatia lenta come una tortuta che cammina tra le pendici scoscese delle vostre paure. "Funebrae" ossia scosse torbide sferzano le pareti del ghiaccio che imprigiona i pensieri. Lenta la musica. Più lenta della musica la voce, eppure il cantato incide scritte indelebili nelle note strumentali. Abbiate coraggio. "Funebrae" vi iptonizzerà. In "What happened?" non fermatevi all’intro che vi spiazzerà. Le distorsioni strumentali si confondono con la voce cavernosa e volutamente inquitante. Forse infernale. Passate oltre. Vi aspetta il purgatorio. Per un attimo "Eos", vi fa tornare il sereno. Ecco il vostro purgatorio. Non mi chiedete il paradiso. Gli Ulver non si muovono mai con tratti angelici. Mentre ascoltate abbassate le palpebre. Godetevi questo brano nelle sue sfumature che odorano di nebbia notturna, d’asfalto bagnato, di pensieri dimenticati, di vento. "All the Love": avvicinatevi. Ci faremo guidare dallo scampanellio che distingue il tempo del brano. La ritmica ci porta al di fuori delle tracce precedenti. Eppure anche questo brano è figlio di padre certo poiché scandisce il tempo con cui il cuore batte e rammenta al sangue la sua appartenenza. "Like Music" celebra il pianoforte, come a sottrarsi dalle precedenti ritmiche strumentali. La voce invece non si sottrae e richiama a gran voce sussurrata volontà e bisogni sino a sfumare sino a cambiare registro sino a chiedersi essa stessa “perché strido perché non mi ascolti perché non ti perdi tra i miei inganni sonori?” "Vigil". Polvere di ferro. Mettevi occhiali protettivi e già che ci siete copritevi bene la pelle perché questo brano è glaciale. I sussurri della voce si confondono con le onde sonore. Poco importano gli strumenti che suonano. L’effetto è acuto e distorto. L’impatto è vertiginoso e stridente. Chiudiamo con il brano che da il nome all’album. E chi se lo aspettava? Nemmeno io che gli Ulver li ascolto come si ascolta un suono che parla più delle parole. Questo brano si discosta e riassume lo stile Ulver. Eppure fa pensare al mare al tramonto. A pareti bianche ribattute dal sole all’alba. A sensazioni che dentro una caverna buia non possono esistere. Ecco come si chiude il cerchio del dualismo di cui vi ho anticipato. Un percorso. Un epilogo. (Silvia Comencini)

(Jester Records)
Voto: 80

http://ulver.bandcamp.com/

domenica 28 aprile 2013

Ulver - Svidd Neger

#PER CHI AMA: Ambient
“Preface”, ”Surface” Venite con me. Versatevi qualcosa di forte e sedetevi in un comodo abbandono. Vi guiderò io tra le sonorità cupe di questo Svidd Neger in cui gli Ulver richiamano passioni dark sopite e perpetrano il loro stile inconfondibile tra tastiere, accordi circolari, effetti sfumati, malinconici, sensuali ed ipnotici. Soffia un vento lento che scopre le tracce di piedi nudi coperte dalle sabbie del pensiero. Il pensiero diviene fisso e suddito, preso, imprigionato, deviato dalla sua realtà fino a perdersi tra i cambi di strumenti e di ritmo. “Preface”, “Surface” sono solo l'assaggio al come gli Ulver possono cambiare la vostra dimensione, il vostro tempo, le vostre certezze sonore. Venite con me è solo l'inizio… 3. “Somnam” …l'inizio di un viaggio da ascoltare in cuffia. Non vi nego che dovete essere preparati a questo ascolto. Potreste subire danni alle corde dell'anima, forse dovrete riaccordare il vostro strumento. Rumori, suoni sottesi all'inconscio si avvicendano, vi esplorano, percuotono la vostra coscienza. Si interrompe la musica, ma è un risveglio apparente…andiamo a…”Widcat”. Rimanete fermi. Rimanete immobili. Forse sarete scossi. Vi dico che reagiscono gli occhi a questi lamenti, che questi lamenti parlano come contrazioni del viso di fronte a chi guarda. Poi la musica accarezza l'angoscia…da provare… È la volta di “Rock Massif” e “Poltermagda” Mi ridesto dal torpore. Scuoto il capo e poi seguo le percussioni nell'intro aggressivo di questo brano che mi fa abbassare ed alzare la testa ripetutamente. Il piatto della batteria sembra una tortura che frusta i timpani, ma ancora una volta gli Ulver non lasciano nulla al caso ed è solo un graffio all'anima…il sangue che sgorga cola su “Poltermagda” che sa di intermezzo futile e funzionale a chi s'è perso nelle caverne buie degli Ulver…si prosegue con… “Mummy”, “Burn the Bitch” e “Sick Solliloquy”: tenetevi saldi a qualsiasi cosa abbiate a portata. Chiudete gli occhi. Lasciatevi disintegrare. Durano poco questi tre brani, ma sono efficaci. L'uno horror. L'altro elettronico. “Sick Solliloquy” inquietante, parlato. Torniamo a noi. Una ritmica da ballo. Degli intercalari inaspettati. Dei suoni quasi caldi muscolari accentuati. Piacevolmente sorpresa mi alzo e danzo tra le note di questo brano che spezzano il gotico senza lasciarlo mai. È “Waltz of King Karl” che sembra continuarsi in “Sadface”, ma d'improvviso percussioni impreviste spezzano il ritmo, si mescolano al ritmo, poi si addensano, infine divengono ossessive sino all'epilogo di “Fuck Fast”, che chiede senza diritto di replica. Ci involiamo verso la conclusione con il trittico “Wheel of Conclusion”, “Camedown” e “Ante Andante”. State comodi. Le ultime note di questo album vi accompagnano ovunque vogliate andare, cullano i vostri desideri, guidano i vostri pensieri, vi scortano con arte fuori dall'antro degli Ulver che vi aspetta non appena vi vada di perdervi di nuovo. (Silvia Comencini)

(Jester Records)
Voto: 85

http://ulver.bandcamp.com/

martedì 14 giugno 2011

Ulver - Wars of the Roses

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ambient
Tornano gli Ulver con un prodotto nuovo di zecca, con una casa discografica nuova di zecca, la Kscope music, e l’ennesimo album in grado di stravolgere ogni regola in casa di Kristoffer Rygg (alias Garm) e soci. Si parte con “February”. Le sue ridondanze pulsanti richiamano il sangue dalle vene. Cuori adrenalinici, ipersaguigni, fibrillanti, si scagliano sulle casse dai volumi esagerati per farsi violare i timpani da questo primo brano. È un esordio audace, con un Garm in grande spolvero, non sufficiente però a compensare il trapasso a sonorità vagamente anni ’80, che fanno perdere il potere alla tribalità elettronica dell’inizio. Passo a “Norwegian Gothic” e mi ritrovo catapultata in mezzo agli alberi sul fare della sera. Cammino tra i fuochi che si spengono intorno a case abbandonate. Il senso di inquietudine mi avvolge per amplificarsi in quelle che credo siano urla segregate tra mura di castelli medievali. La voce si conferma di grande spessore, vorticosa e ritmata, mentre vertigini strumentali pregnano l’ascolto di questo secondo pezzo, a cui non si può negare d’essere assai evocativo. È la volta di “Providence” dove accanto alla calda tonalità del vocalist compare l’eterea voce di Siri Stranger, in una cavalcata emotiva in cui trovano posto improbabili violini, un infausto clarinetto e Attila Csihar come guest star nella parte vocale. Parte la musica di “September IV”. L’ascolto. Mi fermo. Controllo che il brano sia del cd che sto ascoltando. Le sonorità sono diverse dalle altre tracce. La voce morbida e penetrante, gli stacchi più sensuali e decisi, con il sound che richiama una danza rituale, una promessa, un grido. Coinvolgente. Ecco “England” e l’atmosfera fattasi più rarefatta, mi spinge alla spasmodica ricerca di ossigeno. L’aria è frustata da onde sonore imperfette. Il cantato di Garm si fa dominante, rabbioso, ripetitivo, quasi robotico, con le parole aggrovigliate su se stesse, imprigionate tra distorsioni e percosse a casse inermi. Il brano si rivela antidoto ideale per pulsante rabbia repressa. Le melodie suadenti e disturbanti emergono forti in “Island”, song che fa riaffiorare il passato ambient della band norvegese, prima della lunga conclusiva “Stone Angel”. L’inizio del brano mi proietta davanti ad uno specchio al buio, mentre attendo che la luce di una candela possa presto illuminare la stanza. Il prologo di suoni, lo specchio, si interseca ad un parlato, quello di Daniel O’Sullivan che interpreta un testo del poeta americano Keith Waldrop. Gli occhi continuano a puntare lo specchio nella tragica inevitabilità di guardare se stessi. Risultante, un ipnotico viaggio al centro delle proprie paure. Finisce qui il nuovo album targato Ulver, ora a voi il compito di ascoltarlo e descriverne le suggestioni che vi affioreranno. Da ascoltare ad occhi chiusi. (Silvia Comencini)

(Kscope)

domenica 3 ottobre 2010

Re123+ - Magi


Immaginate di trovarvi in una sbiadita stazione ferroviaria del secolo scorso. Siete soli. Il silenzio che vi avvolge minaccia di far esplodere la vostra mente. Sentite finalmente un rumore. E’ un incedere lento di ferraglia che mai esce dalla nebbia. Ecco descritto il primo brano, che martella per fagocitarvi tra le ritmiche incessanti, ritmiche mal definite, che affannose tentano di vincere, senza riuscirvi, la ruggine strumentale. Ascolto ideale se volete dedicarvi alle arti evocative in cui è necessario alienare il pensiero cosciente dall’inconscio. Procediamo con la seconda traccia: la meta questa volta è una alcova dai colori esotici. Le sonorità evocano le geometrie descritte da una danzatrice del ventre in una ascesa sensoriale con il brano che si conclude con un tragico risveglio in cui piombano chitarre ululanti contrapposte agli esordi morbidi dei tamburi. Consigliato l’ascolto a personalità scisse alla dottor Jekyll e mister Hyde. La terza ed ultima traccia chiude l’album con evocazioni gitane, dalla melodia circolare, ridondante, che come un mantra, ipnotizza se ascoltata in cuffia e tedia in diffusione. Consigliato l’ascolto a chi vuole compiere un viaggio psichico a basso costo. La musica di questa band biellorussa Re123+ si rivela come un profondo atto di meditazione, intelligentemente accompagnato dalle citazioni de “L’Isola del Giorno Prima” di Umberto Eco. Suggestivi! (Silvia Comencini)

(BadMoodMan Music)
voto: 70