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mercoledì 6 novembre 2019

Deadly Shakes - Left Behind

#PER CHI AMA: Hard Rock
In arrivo dalla Francia un bel carico di hard rock suonato con i controcoglioni. Loro sono i Deadly Shakes e 'Left Behind' è il loro EP di debutto, dopo aver rilasciato un altro EP, questa volta col monicker The Stone Cox, nel 2015. Quattro pezzi quindi per saggiare la tonicità di questo terzetto di Mulhouse. Si parte da "Living by the River", caratterizzata da un bel giro di chitarra iniziale, vocals potenti e da un groove che mi ha evocato per certi versi quello contenuto in 'Electric' dei The Cult. Lo spunto finale poi, a livello di solismi con tanto di coda stoner-darkeggiante, impreziosisce un brano di per sè convincente. Si passa a stretto giro all'arrembante, ma soprattutto punkeggiante, "Reap What You Sow", un pezzo che ammicca a certa produzione targata Billy Idol, una scheggia divertente di rock che dura poco più di una manciata di minuti. Pronti poi per ricominciare dalla title track, una semi-ballad dall'anima blues-rock, com'erano anni che non ne sentivo, con un bel crescendo finale con tanto di assolo scaldacuori in stile Guns N' Roses. Le danze si chiudono con un altro pezzo che scomoda Axl Rose e compagni: si tratta di "Never Return", che ci mostra nuovamente il lato più tenero di questa band alsaziana, ma al contempo la capacità di muoversi all'interno di contesti non propriamente hard rock, bensì più controllati ed introspettivi, sebbene nel finale i nostri si lancino in uno splendido e accecante esempio di hard rock di scuola Led Zeppelin. Peccato solo che il lavori non superi i 17 minuti, sarebbe stato interessante capire maggiormente come la band si muova in territori, dove spingere il piede più sull'acceleratore, è più che indicato. (Francesco Scarci)

(Love Apache Records - 2019)
Voto: 69

https://deadlyshakes.bandcamp.com/releases

venerdì 1 novembre 2019

The Dues - Ghosts Of The Past

#PER CHI AMA: Psych/Blues Rock, Led Zeppelin, Radio Moscow
Per gli amanti di sonorità vintage/retrò che ci conducano indietro nel tempo di almeno 40 anni, eccovi serviti i The Dues, terzetto proveniente da Winterthur, in Svizzera. 'Ghosts of the Past' - mai titolo fu cosi azzeccato - è il terzo lavoro dei nostri, che include nove song che inglobano nel loro magico fluire, rock'n'roll, funk, psichedelia e blues rock, citando indistintamente nelle loro note, Cream, Led Zeppelin, Black Sabbath, Jimmy Hendrix e molti altri, insomma quei fantasmi del passato menzionati proprio nel titolo di questa terza fatica. E allora vai che si parte con la title track e quel giro di chitarra su cui si va a piazzare la voce di Pablo Jucker, in una song dai risvolti quasi doomish che cita sin da subito, Ozzy Osbourne e soci. "Something for my Mind" è una breve e nervosa scheggia rock che vi farà oscillare il capo e non poco. "Sails of Misery", con quel suo rullare imponente di batteria in apertura, si lancia in un impetuoso rock'n'roll, in cui a farla da padrone sono i giri di chitarra di Pablo (favoloso peraltro nella sezione solista), accompagnato puntualmente dall'ottimo basso di Stefan Huber e dal preciso drumming di Dominik Jucker. L'intro di "Under the Sea" è più pacato e oscuro, il che ci rivela anche una versione più riflessiva dei The Dues, in una song che appare però svuotata e pertanto meno efficace delle precedenti. Con "Love" mi sembra di entrare in uno di quei club dove musicisti con ampi pantaloni a zampa di elefante, si dilettano improvvisando pezzi blues rock, che mancano però di una magica spinta propulsiva. Questo per dire che l'energia emersa nelle prime tre song, sembra via via scemare: anche in "Elements of Doubt" assisto alla stessa cosa, ossia un pezzo blues rock che suona un po' troppo forzato per i miei gusti. Preferisco quell'attitudine genuina e spontanea che avevo apprezzato nel filotto iniziale e che fortunatamente sembra riapparire almeno in "La Realidad", in cui Pablo, oltre a cantare in spagnolo, adotta uno stile vocale differente. Rimane poi la conclusiva "Ley Lines", il brano più lungo e articolato (vista la forte vena psych rock che la pervade e quel suo fantastico assolo conclusivo che chiama in causa molteplici interpreti di quel periodo d'oro) di questo 'Ghosts Of The Past', e che vede i The Dues essere assai più convincenti in quei brani più ricercati e dinamici, che di certo avrebbero spopolato nei meravigliosi anni '70. (Francesco Scarci)

(Sixteentimes Music/Czar of Crickets Prod. - 2019)
Voto: 69

https://thedues.bandcamp.com/album/ghosts-of-the-past 

lunedì 29 luglio 2019

Alice Tambourine Lover - Down Below

#PER CHI AMA: Psych Alternative Rock
Ottima nuova uscita per il duo bolognese degli Alice Tambourine Lover che, con un'apparente semplicità musicale, espressa attraverso chitarre cristalline e liquide, piccoli rintocchi ritmici ed una splendida voce femminile, vellutata, delicata e sognante, sfornano una perla sonora degna di lode. In una giornata strana, in attesa del temporale, mi appresto ad ascoltare questo 'Down Below', disco dalla copertina intrigante, dai colori vividi e psichedelici. Una psichedelia intima, vissuta, polverosa, sabbiosa, una calda estate ed un tramonto introspettivo che chiudono il giorno con un pizzico di nostalgia costruttiva. Ecco, questa è la giusta visione con cui inquadrare un disco completo, potrei dire quasi perfetto, carico di emotività ed esistenza liquida, un viaggio lisergico tra le note acustiche ed una manciata di soffici riff che colpiscono dritti al cuore. Senza dimenticare l'ambientazione Paisley Underground del contesto, il tocco alt country a stelle e strisce ed il rustico ruggito solitario alla Mark Lanegan, reso ancor più intenso dal bel duetto con il noto cantante, musicista e produttore, Dandy Brown (Hermano, Orquesta del Desierto, John Garcia) nella magnifica "Dance Away". Una registrazione ed un missaggio con i fiocchi a cura di Luca Tacconi ai Sotto il Mare Recording Studios, che rende omaggio all'America desertica e solitaria, attraverso un ampio set di strumenti, foot tambourine, armonica, resonator, dobro, percussioni varie, chitarre acustiche ed elettriche, in una sospensione eterea senza tempo che permette di viaggiare indisturbati tra un brano e l'altro, coi capelli al vento a bordo di una vecchia cabriolet yankee anni '50 per le polverose distese di campi americani. Otto brani ammalianti che toccano l'apice artistico del duo formato da Alice Albertazzi e Gianfranco Romanelli, senza mai scadere nella ripetitività e ricreando anzi una magia cristallina brano dopo brano. Complice l'ipnotica, delicata, suadente e spettrale voce di Alice, quanto poteva esserla quella di Kendra Smith in 'Empty Box Blues' dei mitici Opal qualche decennio fa, ci lasciamo trascinare dalle canzoni dei nostri in un vortice allucinogeno di grazia, libertà e sofisticato misticismo rock (ascoltatevi i capolavori "Follow" e "Into the Maze"), tutte composizioni dotate di un sound complesso, rarefatto e magico. Il grado di orecchiabilità dei brani è altissimo e mostra uno spessore artistico di tutto rispetto, una conoscenza del genere assai avanzata ed una padronanza della propria arte da far impallidire band molto più in voga nel panorama internazionale. Un disco bellissimo, un'opera che riempie l'anima, una nobile band da seguire ad occhi chiusi. (Bob Stoner)

mercoledì 26 giugno 2019

Inez – Now

#PER CHI AMA: Mystic Americana Desert Pop, Mark Lanegan
Secondo album per Inez, al secolo Ines Brodbeck, cantautrice basilese di origini cubane classe '81, che si muove con grazia e un piglio piuttosto sicuro in territori roots con influenze latine piú o meno marcate, nel solco tracciato da artisti quali Calexico o i Giant Sand di 'Chore of Enchantment', senza però disdegnare incursioni in scenari più contemporanei, richiamando le suggestioni cinematografiche della collaborazione tra Danger Mouse e Daniele Luppi. Sapientemente prodotto dal musicista di Tucson, Gabriel Sullivan, già membro dei Giant Sand e fondatore degli XIXA, il disco si snoda fra dieci tracce che sono quadretti dai colori intensi e i contorni sfumati, passando dal cuban blues di Guajiro Negro e Verano, ai Calexico apocrifi di 'Buchblatter', anche se i momenti migliori sono forse quelli in cui si cerca una voce piú personale, ibridando l’incedere desertico dei brani con un linguaggio meno legato ai modelli di partenza, come i chiaroscuri sporcati di synth di "Rising Sun", la sinuosa "Man from War" (che vede proprio “Mr. Calexico” Craig Shumacher come special guest), che vira verso atmosfere Coheniane, o la tenebrosa "Prophet", cantata con Sullivan, la cui voce è talmente simile a quella di Mark Lanegan da richiamare i celebri duetti dell’ex Screaming Trees con Isobel Campbell. Manca forse il guizzo decisivo o un pezzo che spicchi in maniera particolare, ma la qualità media della scrittura è evidente e il risultato finale piuttosto intrigante. Da seguire. (Mauro Catena)

(Czar of Crickets Productions - 2019)
Voto: 70

http://inez-music.com/

lunedì 10 giugno 2019

Satori Junk - The Golden Dwarf

#PER CHI AMA: Doom/Stoner, Electric Wizard, primi Black Sabbath, Cathedral
Uscito originariamente nel 2017, ristampato nel 2018 e finalmente recensito nel 2019, compare sulle pagine del Pozzo dei Dannati, la recensione di 'The Golden Dwarf', opera seconda dei milanesi Satori Junk. Un disco di sette tracce (di cui l'ultima è la cover dei The Doors "Light My Fire") che confermano quanto già precedentemente apprezzato nel debut album dei nostri. La proposta del quartetto italico ci porta dalle parti di uno stoner blues rock doom di stampo settantiano che ammicca per forza di cose, agli Electric Wizard, ma che prova in un qualche modo ad offrire anche una propria originalità, frutto della cospicua personalità in seno alla band, intuibile peraltro già dalla coloratissima cover del disco. Quindi non stupitevi, ascoltando "All Gods Die" di rimanere impressionati di fronte alla bravura dei quattro sapienti musicisti lombardi nello sciorinare un muro di chitarre ultra stratificato. Non sono certo degli sprovveduti e la musica imbastita ne è certamente testimone, soprattutto nella fumosa "Cosmic Prison", in cui si scomodano facilissimi paragoni con i primi Black Sabbath, vera fonte d'ispirazione dei nostri, in compagnia di Cathedral ma anche dei Baroness, due realtà che già comunque traevano ispirazione dai maestri di sempre. La componente synth-effettistica impreziosisce di molto la proposta dei Satori Junk, e li avvicina per certi versi agli psych stoner veronesi Kayleth. Per ciò che concerne i vocalizzi poi, siamo dalle parti di una voce pulita, un po' effettata ma certamente convincente. Andiamo avanti nell'ascolto e per godere del roboante rifferama della brevissima, si fa per dire, “Blood Red Shine”: oltre cinque minuti, un lampo se confrontata con la successiva "Death Dog", dove sono invece più di quindici giri di lancette a dettare legge, in una melmosa sezione ritmica formata da basso e chitarra, due primizie, soprattutto la sei corde e le sue mirabolanti aperture solistiche, da applausi. La voce invece rimane un po' più nelle retrovie, concedendo maggior spazio all'apporto strumentale dei nostri, in cui a mettersi in evidenza c'è ancora un ispiratissimo synth. Tra lugubri rallentamenti, parti robuste più ritmate ed altre decisamente più atmosferiche, un finale ambientale, i quindici minuti sembrano scivolare anche abbastanza velocemente andandosi a collegare direttamente con la song che dà il titolo all'album per un altro sfiancante giro di dieci minuti secchi, in una traccia dal chiaro sapore sabbattiano, quello del primissimo Ozzy per intenderci. L'incedere è dapprima lentissimo, affidato alla voce del frontman, alle keys e ad un drumming ossessivo, poi ecco a subentrare chitarra e basso, in un pezzo ammorbante, ansiogeno e orrorifico. E passiamo alla cover dei The Doors, ultimo atto del cd: che dire, se non che sia praticamente irriconoscibile. Nemmeno nell'introduttivo giro di chitarra si riesce a riconoscere la famosissima melodia di Jim Morrison e soci; direi che l'unico punto di contatto con l'originale rimane il chorus centrale, visto che la voce di Luke Von Fuzz non ricorda nemmeno vagamente quella del suo ben più famoso collega e la parte solistica prende una piega tutta sua con i nostri a dar vita ad una versione funeral stoner di una delle canzoni più famose della storia del rock. Esperimento comunque riuscito e che ancora una volta, sottolinea la spiccata personalità del quartetto milanese. Con qualche correttivo, auspico che il terzo album sia molto meno derivativo di questo 'The Golden Dwarf' dando modo ai Satori Junk di essere ben più originali. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2018)
Voto: 74

https://satorijunk.bandcamp.com/

venerdì 7 giugno 2019

Sons Of Morpheus - The Wooden House Session

#PER CHI AMA: Psych Stoner Rock/Blues, primi Queens of the Stone Age
Se c’è una cosa che la musica insegna, è a rompere i pregiudizi: lo stereotipo che vuole gli Svizzeri freddi e (mi si passi il termine) poco rock, crolla miseramente di fronte a 'The Wooden House Session', secondo full-length dei Sons Of Morpheus dopo l’ottimo 'Nemesis' del 2017 ed uno split con i Samavayo dello scorso anno. Il trio, dopo un lungo tour di spalla ai Karma To Burn, si chiude in un locale e registra sei tracce a metà tra live e studio, che trasudano stoner rock e sludge, Queens of the Stone Age e Black Sabbath, New Orleans e film western (c’è un cowboy in copertina!), Jimi Hendrix e i Pride&Glory. Scordatevi il sound metallico dei Kyuss o (dio ce ne scampi!) la deriva pop degli ultimi lavori di Josh Homme e soci: in 'The Wooden House Session' i piatti sono lunghi e riverberati, le chitarre ruvide e rumorosissime, il basso grezzo, la voce sa di blues, whiskey e sigarette. Quintali di fuzz colano fuori dagli amplificatori, ed un sottile gusto lo-fi nella produzione rende tutto ancora più credibile, caldo, paludoso. I cori qua e là (“Sphere”, “Loner”) ricordano i primi lavori dei Queens of the Stone Age; ma c’è spazio per jam gonfie di psichedelia (“Paranoid Reptiloid”), colonne sonore alla Sergio Leone (“Doomed Cowboy”), rock grezzo e senza fronzoli (“Nowhere To Go”), fino alla lunghissima “Slave” (oltre 13 minuti, laddove le altre tracce raramente superano i 4.30) che si erge almeno una spanna sopra il resto: una lunga cavalcata rock blues costruita su un riff che fischietterete per giorni interi, che accelera e rallenta, si ferma e riparte, apre a soli in slide e lunghissime parti strumentali eteree e trasognanti — vi sfido a non muovere la testa per l’intero pezzo. Sellate il cavallo, indossate gli stivali migliori, si parte. (Stefano Torregrossa)

lunedì 20 maggio 2019

Orsak:Oslo - S/t

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock, Mogwai
Il post rock è un genere ormai inflazionato e vanta una produzione di band e dischi vicina alla saturazione. Tuttavia fa sempre piacere sentire una band che interpreta il genere in modo personale e originale, come nel caso di questo disco dei Orsak:Oslo, una lavoro che ricorda gli Earth ma anche gli Alcest e i Mogwai con una tendenza all’oscurità e alla meditazione. Sono paesaggi i pezzi di questo disco che si susseguono come in un lento viaggio percorso a piedi, con calma, senza la fretta di arrivare da qualche parte ma solo con la volontà di viaggiare e di scoprire nuovi luoghi. I pezzi scorrono con intensità tracciando scenari fiabeschi a tratti, e a tratti inesorabili e maestosi. Seppur il disco sia strumentale, la soddisfazione delle nostre orecchie così come l’attenzione mentale, è completamente catturata dai sentieri lunghi e impervi che questi ragazzi hanno costruito per noi. Si percepisce distintamente che non si tratta di una prima prova e che tra i musicisti ci sia un’alchimia particolare, un equilibrio unico in cui ognuno riesce a dare esattamente il contributo che serve alla musica, nulla di più, nulla di meno. Tra tutte le tracce spicca la cadenzata "Sleepwalker", decisamente la mia preferita del disco, che con i suoi gravi tonfi di chitarra e la sua ritmica mi fa sentire come se stessi partecipando ad una seduta di meditazione profonda, in mezzo ad incensi e candele, al cospetto dell’immagine del divino così severa nella suo palesarsi a chi l’ha invocata, e così piena allo stesso tempo di risposte e di domande, una contemplazione intensa e purificatrice. La seguente "Crying For Sleep" invece presenta degli spunti più trionfali, quasi celebrativi con i suoi ambienti rarefatti e i suoi arpeggi sbilenchi sembrano delle foglie di una foresta infinita che si muovono all’unisono sui rami di alberi millenari che mai saranno toccati da mano umana. Orsak:Oslo è un bell’intreccio d'improvvisazione e di composizione con degli sprazzi di psichedelia e blues ben amalgamati tra loro con grande maestria e con forte personalità. Davvero un ottimo disco, consigliato a tutti gli amanti del post rock e in generale a tutti quelli a cui piace perdersi nei pensieri, fissare il tramonto o guardare le nuvole che sornione passano e continuamente cambiano forma. (Matteo Baldi)

Space Traffic - Numbness

#PER CHI AMA: Psych Rock
L'ho sudata (e fatta sudare) questa recensione, vuoi perchè ad un certo punto mi sono trovato dall'altra parte del mondo con la band che giustamente mi sollecitava alla sua pubblicazione sul sito, vuoi perchè, chi originariamente doveva scrivere queste righe, è scomparso. Alla fine è toccato a me descrivere le sensazioni emanate da questo primo capitolo dei valdostani Space Traffic intitolato 'Numbness'. Un salto indietro nel tempo che mi ha riportato ai vecchi e sempre più rispolverati ultimamente - penso ai The Mighties - anni '60. Lo si evince dall'opener "Numbness", la title track, ma in successione anche dalle varie "U Say U Love Me", "Power and Pride" e "Fire from the Depth". Inizio col raccontarvi di quanto sia suggestivo il motivo del moniker della band, legato a quel momento d'interruzione delle comunicazioni tra la navicella Apollo 10, in orbita nel 1969 sul lato oscuro della Luna, e la Nasa, e la comparsa contestuale a bordo della capsula di una strana musica che venne attibuita poi al traffico degli oggetti spaziali in collisione col campo magnetico della Luna stessa. Ma volgiamo lo sguardo verso il cielo e torniamo a parlare di musica e a quel suo sound parecchio vintage rock che scomoda facili paragoni con grupponi anni '60. Con "Time Machine" penso ad un ibrido tra blues/hard rock, psichedelia nelle sue note iniziali e quella spruzzatina di stoner che non guasta mai. Toni decisamente più pacati con la già citata "Power and Pride", la classica ballata strazzamutande dei vecchi dischi primi anni '70, la song che si metteva alle feste per il classico ballo lento, quello del tête-à-tête con la ragazza dei sogni, in una song che potrebbe richiamare Beatles e Pink Floyd allo stesso tempo. Non male, anche se devo ammettere di aver apprezzato maggiormente il basso, a braccetto con la chitarra solista, di "Hails of Love", un altro pezzo che per certi versi mi ha evocato i Floyd più rock oriented e meno sperimentali. "Mirror Game" tiene invece un ritmo più tirato con la voce del frontman qui più convincente che in altre parti nel cd. Si ritorna a suoni più compassati con "Blue Moon", almeno nella prima parte, cosi delicata e malinconica anche nel cantato di Marco Pica, prima di un finale che si lancia in un chitarrismo sfrontato di scuola zeppeliana (ripresa poi dal bravo Slash) che me la fa optare come mio brano preferito di questo 'Numbness'. C'è ancora tempo per un altro paio di brani, l'intimista "Tear it Down", dove largo spazio è riservato alla chitarra ispirata di Fabio Baldassarri e "Fire from the Depth" che menzionavo all'inizio come classico pezzo di rock'n roll sessantiano. Rimane un'ultima song, "The Dream", qui in versione live, per undici minuti di inossidabile psych rock di scuola floydiana che esalta le qualità del terzetto di Aosta in questa loro prima fatica. Sprazzi di luce, ma anche qualche ombra su cui lavorare (penso ad un perfezionamento a livello vocale ad esempio), ma la strada su cui si sono incanalati gli Space Traffic sembra promettere bene. (Francesco Scarci)

mercoledì 24 aprile 2019

The Shadow Lizzards - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Groove Rock, Led Zeppelin
Un chitarrismo apertamente 1969/hendrixiano ("Power On" e tante al.) o jimmypage/esco ("Overhaul" e le restanti al.), a tratti eminentemente strumentale (cfr. la lunga coda psych di "Breathtaker", le divagazioni bluesy stile Gov't Mule di "Sea of Curls" e "Go Down"), una voce (non sufficientemente) rauca d'ordinanza, una batteria non sempre mixata a dovere ("Rip Me Off"), qualche timida testardaggine stoner (la paranoid-sabbatiana e successivamente iper-spacey "Warzone") e, splat, giù tonnellate di quella specie di gelatina hammond ("Go Down", "Power", "Rarity" e tutte le al.) color profondo purple utilizzata da qualche anno a questa parte dagli ingegneri del sound più astuti come principio attivo antichizzante: il frondosissimo album d'esordio delle Luccertole (sic) ombreggiate di Norimberga si colloca con monolitica intenzionalità nella prima periferia del popolosissimo empireo zeppelin-centrico, notoriamente pullulante di reggiseni sventolanti e ipertricotici beati in stato sempiterna rock-fattanza, ad osare là dove osano (si fa per dire) autori del calibro di Mountain ("Top of the Mountain", ovviamente), "Rival Sons" e soprattutto "Graveyard". Una manna sonora alla psilocibina per il vostro unico, rugginoso ganglio uditivo rimasto. (Alberto Calorosi)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://theshadowlizzards.bandcamp.com/

martedì 28 agosto 2018

Motorpsycho - The California EP

#PER CHI AMA: Psych Rock
Dipanati sulle quattro facciate giallocanarino di questo ruffianissimo tarallucio discografico, un rocchettino dritto-al-punto collocabile tra certo flower-rock fine '60 e i Motorpsycho del periodo flower-rock-fine '60 vale a dire quelli inizio '00 di 'Barracuda' e 'Phanerothyme' ("Quick Fix" vs. "High Times"), una specie di surf-blues lo-fi early '70 apparentemente fuoriuscito dai "Frammenti Motorpnakotici" ("Granny Takes a Trip" vs. "One Way or Another") seppur blandamente tower/izzato (il flauto...), e una confortevole indie-ballad mid-90 con un tocco (più che un tocco, uno spintone direi) apertamente cali-sixites ("California, I'am [sic] So Cold", per l'appunto). "Alain / The Messenger" è soltanto l'embrione di un'idea semplicemente troppo scarsa per meritare di essere sviluppata, e una facciata intera è decisamente troppo, anche se si tratta di una facciata seven inches a quarantacinque di un tour EP. Come 'Here Be Monsters Vol. 2' integrava minuziosamente l'esplorazione musicale del precedente 'H-B-M', addirittura spostando avanti di qualche misura l'asticella dell'ambizione, così questo 'The California' EP ritrae programmaticamente, e persino meglio di quanto accada su 'The Tower', il soleggiato mood jam-ottimismo-birretta-serale delle registrazioni. Ma se là, la caratura appariva almeno paragonabile, questa qui è una di quelle cose che uno come Mr. Sæther riesce a escogitare nell'esatto tempo che intercorre dall'istante in cui strappa uno strappino di carta igienica dal rotolo all'istante il cui lo strappino sporco di cacca tocca l'acqua del water. (Alberto Calorosi)

(Motorpsycho Archives - 2017)
Voto: 60

https://www.facebook.com/motorpsycho.official/

lunedì 18 giugno 2018

Sons of Alpha Centauri - Continuum

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
A chi pensava che la band fosse definitivamente scomparsa dalle scene, ecco che i Sons of Alpha Centauri spiazzano tutti e tornano alla ribalta ad oltre dieci anni di distanza dal precedente lavoro. 'Continuum' è il titolo del nuovo album della band inglese, contenente otto song strumentali, aperte dalla spettrale "Into the Abyss", una breve song dal piglio post-rock affidata interamente ad un giro di sola chitarra. Poi, ecco "Jupiter", una traccia che sembra muoversi tra blues rock, post e progressive, in una melliflua song che si muove timidamente tra chiaroscuri elettrici. Decisamente più aggressiva "Solar Storm" che, al pari di una tempesta solare, si lancia in una roboante cavalcata stoner/post metal che trova nel suo corso un break atmosferico in stile Riverside, capace di mitigare la veemenza del quartetto britannico. Con "Io" le cose tornano ad adombrarsi, affidandosi ad una ritmica compassata in cui il problema principale è, come spesso accade, la mancanza di un vocalist in grado di conferire maggiore dinamicità ad una proposta che rischia alla lunga ahimè di annoiare. E cosi, questo brano non decolla realmente mai e procede stancamente fino a "Surfacing for Air", un intermezzo di quasi due minuti che introduce a "Interstellar", un pezzo notturno, che parte in sordina e fatica ad emergere almeno fino a due terzi quando i toni si fanno finalmente più aspri. Sebbene abbia una durata minore rispetto alle precedenti, non arrivando nemmeno ai tre minuti, "Orbiting Jupiter" è una song interamente suonata al pianoforte, sicuramente piacevole ma non poi cosi coinvolgente. Si arriva ai minuti conclusivi di "Return Voyage" che ci consegnano gli undici minuti finali di questo 'Continuum', in una traccia che tra parti atmosferiche e squarci elettrici, ha modo di rievocare lampi dei Pink Floyd, con la sola differenza che la band più famosa del mondo, poteva contare anche sulla performance di un cantante dietro al microfono. Qui c'è ancora parecchio da lavorare per togliersi di dosso scomodi paragoni con i maestri del psych/space rock ma anche e soprattutto con l'alternative dei Tool. Peccato, dopo dieci anni mi sarei aspettato qualcosa di decisamente superiore. Per ora è solo un album carino come ce ne sono tanti in giro. (Francesco Scarci)

(H42 Records/Electric Valley Records/Robustfellow - 2018)
Voto: 65

https://sonsofalphacentauri.bandcamp.com/album/continuum

domenica 25 marzo 2018

Etruschi from Lakota - Giù la Testa

#PER CHI AMA: Blues Rock, Rainbow
Il secondo indiavolato album degli Etruschi from Lakota propone un cozmik-folk rutilante e pireticamente imbevuto di danza barra militanza. Nel calumet, una devota e circostanziata attenzione nei confronti del rock italiano, tutto il rock italiano, eppure permeata da (mica tanto) sparute, stuzzicose velleità citazionistiche (Jimi Hendrix innanzitutto, "Hey Joe" nell'incipit di "Super", oltre alla dovecazzutamente devota "Jimi", ma anche i Rainbow di "Still I'm Sad" in "Stivale", o i Led Zeppelin di "Moby Dick" in "Super" e... beh, divertitevi a individuare le altre). Le canzoni si trovano all'intersezione di traiettorie musicali sovente diametrali, penzolanti e pericolosamente libere. Se vi aggrada, il gioco degli abbinamenti si fa mano a mano più ardimentoso. Beck vs. Pan del Diavolo ("Eurocirco"). Rainbow vs. Skiantos ("Stivale"). Dr. John vs. Lucio Dalla ("Giù la Testa"). Beck vs. Rino Gaetano ("Bidibi Bodibi Bu"), Portishead vs. Afterhours ("Quando Vedo Te"), Jimi Hendrix vs. Biglietto per l'Inferno (la super-lativa "Super"). C'è tanto altro nel disco. Ma svelare tutto qui sarebbe un vero peccato. (Alberto Calorosi)

(Phonarchia Dischi - 2017)
Voto: 80

https://www.facebook.com/EtruschiFL/

sabato 20 gennaio 2018

Backtrack Lane – In Fine

#PER CHI AMA: Indie Rock, Incubus
Devo ammettere che preferivo l'aria più seriosa di 'Black Truth & White Lies', il precedente album dei parigini Backtrack Lane che si ripresentano in pista con un nuovo EP supportato dalla Dooweet Agency. Le doti vocali di Raphael Gatti sono indiscutibili e riconducibili allo stile di cantanti spettacolari come Chris Cornell e Glenn Hughs, e musicalmente la band poteva essere accostata tranquillamente al suono dei più recenti Soundgarden ma in questa loro ultima fatica, i quattro transalpini hanno optato, a mio parere forzatamente, verso una linea orecchiabile e radiofonica che ricorda le cadute dei Queen of the Stone Age nella loro ostinata e non sempre riuscita ricetta/ricerca pop rock. E così, dall'iniziale ottima apertura di "Fifteen Minutes" che fa da ponte perfetto tra i due stili adottati dalla band, ci si avvia verso un frizzante rock venato di blues e pop, ma demotivato e scarico della vecchia adrenalina. Intendiamoci però, mi manca la tensione e l'aggressività di un tempo ma la qualità è tutt'ora alta anche se rivolta ad una forma più sbarazzina di energico rock che fa il verso agli Incubus più trendy quanto ai bravi Kasabian, che loda i coretti dei Blur d'un tempo, trasformado il quartetto della capitale francese in una sorta di brit pop band dalle marcate venature hard blues ("Breaking the Rules"). Il disco è buono ed ascoltabile (fate partire "Underground" e capirete), ben fatto ed equilibrato, piacevole, senza pecche e se staccato dal precedente, risulterebbe proprio un bell'album. Idee nuove ce ne sono ma difficilmente riuscirò a mandar giù quella sottile aria ironica e scanzonata che invade tutto il lavoro, infatuato come sono del loro precedente cd. Questo è il mio modesto giudizio ma ciò non toglie che l'invito ad ascoltare questa release sia sempre valido e ne vale sicuramente la pena, soprattutto a chi cerca una buona dose di energia positiva e scoppiettante in salsa rock da ascoltare lanciato in macchina, magari un sabato sera. Aggiungo inoltre, che se questo EP è un primo passo per rivendicare il nuovo sound di una band che cerca un posto al sole nella musica indie internazionale, non posso far altro che costatarne il valore, dire che è un salto nella giusta direzione e augurare a questi ragazzi che il loro sogno si realizzi. (Bob Stoner)

martedì 19 dicembre 2017

Gut Scrapers – Getting Through

#PER CHI AMA: Hard Rock
Devo ammettere che questi Gut Scrapers mi piacciano molto nonostante ci abbia messo un bel po' ad inquadrarli. Con buona soddisfazione, dico che è stato divertente scoprirli nei particolari e capire quanta passione ci sia dietro questa loro proposta. Partiamo subito col dire che se vi aspettate qualcosa di nuovo, avete sbagliato cd, ma pensare alla solita zuppa riscaldata devota ad un banale rock'n roll, alla fine è ancor più sbagliato. La band di Nimes rispolvera in grande stile il culto vero del rock in varie salse, dall'hard'n roll al blues fino allo sleeze con un tocco di grunge e di roccioso metal style da classifica, facendolo in grande stile e con una propria personale, piacevole interpretazione. Il gruppo suona molto bene, si esprime come se gli Screaming Trees volessero imitare Slash, come se Alice Cooper giocasse con i brani storici dello street metal o degli Aerosmith ed è oltremodo interessante vedere come tra gli ispiratori della band ci siano anche i gloriosi Tesla. Così, l'assemblamento da guerra è pronto e pesca in tutti i settori del rock d'annata e in quello moderno, con il tiro sonoro che strizza l'occhio all'ultimo Ozzy e vede riaffiorire splendide chitarre vintage a stelle e strisce rieccheggianti il riff capolavoro di 'Wanted Dead or Alive' del buon vecchio Bon Jovi nelle tracce più melodiche, mentre assoli incandescenti e coretti alla Motley Crue aiutano a sostenere l'alto tasso adrenalinico dei brani cantati da un Thierry Pitarch in splendida forma, che fa il verso ad Alice Cooper, quanto all'oscuro crooner rock, Mark Lanegan. Il tutto condito con quella verve elettrica alla Dogs d'Amour o ai The Quireboys, rockers consumati, di strada, vissuti, che respirano polvere e trasudano energia senza mai dimenticare il concetto di libertà interiore nei confronti di una società decadente, concetti ben espressi nei testi di questo secondo lavoro della band transalpina uscito per Brennus Music e lanciato dalla Dooweet Agency. Esperienza, passione, qualità, una bomba pronta ad esplodere ed essere contagiosa, ottima nella sua proposta musicale quanto nel suo fumettistico artwork di copertina. Un album coinvolgente con brani decisamente trascinanti. Ascoltatevi "Thankful", "Ahead", "Ride" e provate a dire il contrario! Consigliato! (Bob Stoner)

(Brennus Music/Dooweet Agency - 2017)
Voto: 75

https://gutscrapers.bandcamp.com/album/getting-through

lunedì 11 dicembre 2017

One Horse Band - Let's Gallop!

#PER CHI AMA: Southern Blues Rock
Nello scalciante esordio discografico della one man band milanese, il punkabilly infervorato proposto dalla programmatica "Declaration of Intent" disarciona immediatamente l'ascoltatore con l'unico scopo di scaraventarlo al centro esatto di un polveroso rodeo sonoro, in cui fervono accelerazioni cowpunk ("Mama I Think I'm Drunk"), energia, galoppanti heavy blues ("Wild Lovin' Woman"), alcool sovente ingerito in eccesso, irraggiungibili figure femminili, echi early-70-stoniani ("Howlin' at Your Door"), a tratti marcatamente southern/folk ("Uh hu hu Yeah!" agguanta al lazo gaglioffi del calibro di Zz Top e Bob Seger; "Venus", un'indovinata cover della hit che portò tanta gloria e pochi soldi agli olandesi Shocking Blue nel lontanissimo sessantanove), ammiccamenti glam ("Bad Love Blues"), Jon Spencer (la summenzionata "Declaration..."), incornate e tantissimo slide (per es. nella vol-3-zeppeliniana "Altare", in chiusura). Un album che potreste ascoltarvi con leggerezza in esclusiva compagnia di cinque litri di Bud e di una T-bone di bisonte da un chilo e mezzo. (Alberto Calorosi)

venerdì 1 dicembre 2017

Tornado Kid – Hateful 10

#PER CHI AMA: Southern Rock
Le dieci cose che più odi, messe in musica dall'ensemble di San Pietroburgo o come affermato dalla band stessa, le tue dieci canzoni che ti vanno in disgrazia dopo una gestazione in studio di due anni. Questo è l'album dei Tornado Kid, inizialmente chiamato 'Cowboys from the North', presumo per la loro ostentata voglia di essere un po' yankee tra le gelide terre del nord, poi sfumato in chiave più violenta. Al contrario di quanto sembri, questo disco è un mix perfetto di southern rock, hard rock, metal pesante e un'attitudine hardcore, come se gli Alabama Thunder Pussy giocassero a fare i Sick of it All o i Misfits in un'atmosfera tutta pistole, whisky, donne, scazzottate e saloon distrutti. La qualità è ineccepibile, cominciando dal tipo di sonorità, ultramoderne e compattissime, passando per tutti i dieci brani, velocissimi e rapidi, suonati, registrati e prodotti a dovere e sempre votati alla massima carica esplosiva. Tanta adrenalina in appena 32 minuti di durata totale. Dicevamo che la qualità è enorme, anche esagerata a volte, poiché il disco risulta tanto perfetto che sembra quasi irreale, patinato nel suo essere esplosivo, dinamico e perfetto. Al primo ascolto ci si rende subito conto di quanto tempo e passione ci abbiano messo a farlo, quanto sudore e quanta dedizione ai particolari, cominciando dalla copertina fumettistica veramente azzeccata. Brani come l'iniziale "Whiskey Beer Anthem", "Killer Song", "Hunger" e "Old World Blues" ti prendono veramente per i connotati e ti trascinano verso un mondo di selvaggia, ruvida e polverosa libertà. Un'ottima colonna sonora per un raduno di bikers, con fiumi di birra e caos, attraverso un disco di moderno rock /metal pesante, fatto per scatenarsi e lasciarsi alle spalle tutti i problemi. Dopo tre EP, finalmente uno splendido esordio sulla lunga distanza, 'Hateful 10', un vero e proprio tornado di adrenalina pura! Seguiteli ne vale la pena! (Bob Stoner)

venerdì 15 settembre 2017

Mad Dogs - Ass Shakin' Dirty Rollers

#PER CHI AMA: Hard Rock
Dopo qualche tempo torniamo a parlare della GoDown Records, etichetta granitica nata quasi quindici anni fa e che ha sempre mantenuto un elevato livello nelle sue produzione stoner/garage/psychedelic rock. L'etichetta ci presenta oggi i Mad Dogs e il loro ultimo album ' Ass Shakin' Dirty Rollers' (il terzo) uscito quest'anno ad aprile. Il quartetto nasce a Macerata nel 2009 e dopo due lavori abbandonano la lingua italiana e si buttano a capofitto nel garage/blues rock con ancora parecchio da dire. Le tracce sono dodici, veloci ed intense come ci si aspetta dal genere, vedi "Make it Tonight" che strizza l'occhio ai vecchi Guns N' Roses grazie al ritornello facile e i gran riff e assoli di chitarra. Addentrandoci sempre più a fondo nel mondo di questi cani pazzi, si rimane sempre più colpiti dal groove dei brani, come in"It's not Over", un perfetto blues adrenalinico misto ad hard rock anni '70 che entra facilmente in circolo e convince senza tanti complimenti. Piacevoli, seppur semplici, gli interventi di tastiera/organo che completano il tutto, rendendo il sound rotondo e per certi versi raffinato. Il brano più scanzonato è sicuramente "Surf Ride", una ballata veloce e sentita più volte, ma che cattura sempre, soprattutto durante un live con un pubblico che ha voglia di divertirsi e non aspetta altro per potersi scatenare. Nel complesso la qualità audio dell'album è in linea con il genere, quindi niente di ricercato, tutto si basa sulla musica, quindi il resto è relativo. Ma dove c'è luce c'è anche oscurità, ed ecco quindi "Psychedelic Earthquake" che chiude questa release, una sorta di 'The Dark Side of the Moon' dove i fumi di oppio aleggiano pesanti intorno a noi. Nel frattempo la musica cresce a ritmo di un battito cardiaco ancestrale, tutto rotea sempre più veloce fino all'esplosione finale dove la sezione ritmica prende il sopravvento insieme all'hammond e all'immancabile assolo di chitarra. Un brano di per sè semplice, ma ben eseguito e con grande impatto emotivo. Che sia questo il sound giusto per la band maceratese? Forse si, ma lasciamo a loro decidere cosa fare da grandi. (Michele Montanari)

domenica 16 luglio 2017

Quick & Dirty - Falling Down

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Nel saltellante esordio à-la-Madness 'Falling Down', sospinto da un terribile videoclip fluo-finto-live scimmiottante "Numb" degli U2, sono riassunti, se non i suoni, perlomeno gli intenti fart-glam contenuti nel primo EP della band francese il cui nome allude all'approccio squisitamente parigino al concetto di doccia. Venendo ai suoni, invece, il testavuota-glam finisce per prevalere nella Ki(a)ss-sosa "Would You Like to Dance?" in chiusura, dotata invero di un chitarrismo piùccherobusto. Scorribande extraurbane social-distorte nella gradevole "I Was Born"; in "East West", invece, un riff rock-blues di matrice stoniana introduce ad un cantato collocabile all'incrocio tra Iggy Pop Alley e Jon Spencer Avenue, però opportunamente condito da gradevoli guitar-crudité zeppeliniane. Alchimie consolidate, produzione adeguata e, ovunque, una energia genuina e irriverente, senz'altro ampiamente replicata in quella dimensione live di cui il booklet dell'album intende evidentemente farsi testimonianza. Ascoltatelo a tutto volume durante una doccia clandestina con la vostra baby-sitter. (Alberto Calorosi)

domenica 9 aprile 2017

Netra - Ingrats

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Burzum, Ulver, Massive Attack
Netra potrebbe essere il nome di un locale in cui trovare parecchie sale dove assaporare aromi esotici ed ascoltare musiche diverse. In "Gimme a Break" potrete immaginare ad esempio, di trovarvi nella lounge room del locale, con un tizio che suona il pianoforte ed un altro che abbraccia il contrabbasso, in una scena sicuramente tinta di bianco e nero. In quella sala, chi è più attento, potrà scorgere nascosta una scala che porta dritta nei meandri dell'inferno, dove la sulfurea colonna sonora è rappresentata dal black ferale di "Everything's Fine". Qui lo screaming straziante del mastermind viene smorzato da un break avanguardista anche se il ronzio delle chitarre prosegue come se uno sciame di vespe ci stesse investendo. Se vi piace la musica di Bristol di Massive Attack e Portishead, ecco che la terza sala è quella che fa per voi, per soffermarvi ad ascoltare il trip hop caldo ed onirico di "Underneath my Words, The Ruins of Yours". L'elettro dub sullo stile degli Ulver di 'Perdition City' (anche a livello vocale) lo potete ritrovare in "Live With it", una traccia imprevedibile e dall'arrembante finale EBM. Imprevedibilità, ecco il segreto del mastermind transalpino. Ci mancava la jazz room, eccomi accontentato con "Don't Keep me Waiting" dove la follia dei fiati, da li a poco, si scontrerà con ritmiche infernali nere impestate, in un tripudio di suoni apocalittici che sanciscono l'insanità di quest'imperdibile lavoro. Continuiamo a girovagare nel locale Netra ed ecco palesarsi la darkwave di "A Genuinely Benevolent Man" che nelle sue circonvoluzioni soniche, trova modo di fondere la musica trance col black in stile Burzum, con le urla disumane del factotum francese (ora trasferitosi in Norvegia) sorrette dall'elettronica. Un po' di noise a complicare il tutto di certo non guasta e anzi cade a fagiolo con la lisergica "Paris or Me". "Could’ve, Should’ve, Would’ve" vale una menzione quasi esclusivamente per il titolo azzeccatissimo, perché per quanto riguarda la musica, la sensazione è quella di stare ad ascoltare i Depeche Mode. Sconcertati? Io no anzi, a dir poco esaltato. Le danze si chiudono col blues jazz black funambolico e sperimentale di "Jusqu’au-boutiste", ultimo esempio di lucida follia che esalta la performance incredibile di questo fantastico artista. 'Ingrats' è un album a dir poco spettacolare, chi ha orecchie da intendere... (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 90

Autisti (Louis Jucker & Emilie Zoé) - Autisti

#PER CHI AMA: Psych/Indie Rock, Dinosaur Jr. 
Autisti (Louis Jucker & Emilie Zoé) è un progetto indie ambizioso, che profuma di low-fi a partire già dalla copertina. Ambizioso perché nella visione del suo autore, lo svizzero Louis Jucker, il prodotto finale consisterà in 5 LPs o CDs per un totale di 40 canzoni, che confluiranno in un cofanetto-booklet intitolato 'L’Altro Mondo, Music with Lovers and Friends'. Quello che ci accingiamo ad ascoltare oggi è il volume 2 di 5 dal titolo omonimo, in uscita questo mese di aprile. Con Jucker, voce e chitarra, sono della partita Emilie Zoé (voce, chitarra e organo) e Steven Doutaz (batteria). Il disco si apre con "The Dower", qualche secondo di attesa con le corde delle chitarre che prendono tempo prima della botta di batteria e quando il brano parte, le voci di Louis ed Emilie sono armonizzate e catchy al punto giusto. Un bel pezzo per farsi conoscere e conquistare immediatamente l’ascoltatore. A seguire "Peaches for Planes", costruita su un riff di chitarra sferragliante e di matrice blues con una voce filtrata che potrebbe ricordare Dan Auerbach dei Black Keys. Il disco si spinge verso sonorità ipnotiche con "No Anchor" ove i ritmi si fanno più lenti e un organo fa da tappeto alle voci, mentre proseguendo nell’ascolto la musica s'incupisce ancor di più con la successiva "L’Altro Mondo", caratterizzata da un finale decisamente noise. La velocità e lo spirito punk contraddistinguono "You Felons!", meno di tre minuti intensi e rabbiosi. "Trundle Beds", più riflessiva nella sua esecuzione, ha nel suo impianto una voce telefonica e le interferenze tipiche di una comunicazione difficile. Al sottoscritto ricorda molto lo stile di Jim White ma potrebbe anche essere una personale suggestione. Il disco giunge al termine con l’ottava traccia dal titolo "Down to the Minimum" dove il trio satura per bene gli ampli facendo staccare dalla parete il poster dei Dinosaur Jr. Il progetto Autisti, restando nell’ambito dell’alternative rock si dimostra vario nelle sue espressioni e di sicuro rispecchia la curiosità negli ascolti del suo autore. Sarà interessante poter valutare anche le prossime uscite. Ancora una volta, dalla vicina Svizzera ci giungono produzioni decisamente meritevoli di ascolto. (Massimiliano Paganini)

(Hummus Records/Czar of Revelations/SK Records - 2017)
Voto: 75