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venerdì 17 aprile 2020

Akeldam - Domain of Two Kingdoms

#PER CHI AMA: Black Old School, primi Rotting Christ, Gehenna
Perù, lago Titicaca, la splendida località Puno si pone sulla costa occidentale dell'enorme lago montano. Qui nascono addirittura nel 2002 gli Akeldam con il moniker di Titans (durato solo un anno e poi cambiato nell'attuale). Tre album all'attivo per il trio peruviano, datati 2005, 2009 e finalmente ecco arrivare lo scorso anno, 'Domain of Two Kingdoms'. Il nuovo lavoro, complice un lungo silenzio perdurato ben dieci anni, contiene quasi 80 minuti di musica, si dovevano far perdonare qualcosa i ragazzi, eh? Dopo una lunga intro, faccio conoscenza dei nostri con "Despertar en Los Suburbios" ed un sound che mi catapulta indietro nel tempo di almeno 25 anni, grazie ad un black melodico di vecchia scuola ma comunque in linea con quanto proposto nei '90s da gente del calibro di Rotting Christ, la band che sento realmente più vicina al terzetto, anche se in certi passaggi, sono alcune reminiscenze di scuola Dimmu Borgir, ad emergere. Il thrash si coniuga perfettamente qui col black grazie a delle ritmiche, se vogliamo, un po' elementari, ad un lavoro alle tastiere che rende il tutto estremamente atmosferico, proprio in linea con le prime produzioni della band di Sakis e compagni, e penso ad album quali 'Thy Mighty Contract' o 'Non Serviam', il tutto cantato da una voce che ricorda lo screaming degli Immortal (o anche dei cechi Master's Hammer). "Siniestro" è una mitragliata in faccia stemperata solo da un bel break melodico di tastiere e chitarre; magari si avverte qualche imprecisione strumentale, ma francamente non posso che farmi ammaliare dal sound cosi retrò dell'ensemble peruano, poi volete mettere anche il fascino di un screaming distinguibile cantato in spagnolo? Si continua con la contraerea di "Gritos de Guerra", una song che fa sempre della miscela black speed e thrash il suo punto di forza, con le keys relegate in un ruolo piuttosto marginale ma alla fine di grande effetto, qui soprattutto più che in altre parti, a richiamare un certo 'Stormblåst'. In inglese e più mid-tempo oriented, la title track dell'album, anche se le stilettate nella sua prima metà rischiano di essere fatali, mentre le orchestrali sinfonie giungono in nostro aiuto per ridurre il ritmo infernale della song; peccato solo non ci sia qualche assolo a completare l'opera (lo si sentirà solo nella conclusiva "Sacramento") che a quel punto avrebbe goduto di una maggior vena creativa. Più classicheggiante l'incipit di "Abrazando las Sombras", quasi a cavallo tra heavy, power e ovviamente il black, a dispensare note maligne ma sempre dotate di una buona dose di melodia, qui quasi fin troppo eccessiva. Le trame chitarristiche di matrice black thrash (che evocano nella mia mente un altro nome della scena norvegese, i Gehenna) ad opera di Mitchell Calderón Holguín, il furente drumming assassino di Giovanni Calderón Holguín e le harsh vocals dello stesso Mitchell, si mantengono intatte fino alla fine, anche in quelle che sono le tre bonus track finali, che arrivano dal più vecchio materiale della band, ma che comunque mantengono inalterato lo spirito indomito del combo sudamericano. Niente di originale sia chiaro, ma se avete un po' di nostalgia di un passato che ormai non esiste più, perchè non dare una chance a questi Akeldam? (Francesco Scarci)

(Thrashirts - 2019)
Voto: 66

https://www.facebook.com/AKELDAM

lunedì 13 aprile 2020

Antipathic - Covered with Rust

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Torna la band italo-americana degli Antipathic, con un EP che include un paio di song più o meno nuove, ma anche una cover degli Obituary e una dei Cannibal Corpse, ossia quella "Covered with Rust" che dà il titolo al dischetto (mi sembra che un omaggio ai gods americani risieda anche nella cover del cd, da quel 'Butchered at Birth', dal quale la stessa title track di questo EP è estratta). “Hinexorable Hierarchy“ apre con la solita prepotenza schizoide dei nostri, ormai loro marchio di fabbrica, e il classico brutal death del duo formato da Tato e Chris (qui coadiuvati peraltro in alcune parti anche dal vocalist Bob Hodgins dei Human Repugnance) scorre come un fiume in piena tra accelerazioni al limite del grind, spaventosi intrecci sonori e rallentamenti con retromarcia incorporata, che ci fanno entrare in un maelstrom di follia, mentre le isteriche vocals di Tato, vomitano tutto il loro disprezzo per il mondo. Annichiliti dall'opening track, arriva "Reautonomous" (rilettura della vecchia “Autonomous Mechanical Extermination”) con il suo carico di veemenza in formato famiglia, sebbene la band si prodighi costantemente nella creazione di attimi di rarefazione dell'aria e conseguenti momenti di asfissia opprimente. Per fortuna è solo una scheggia di poco più di tre minuti che lascia il posto a "IDGAF" cover di quella ""Don't Care" dei maestri Obituary che figurava in 'World Demise' nel 1994. L'attitudine mid-tempo è la medesima dell'originale ma lasciatemi dire che la voce di John Tardy rimarrà per sempre inimitabile. È il turno dei Cannibal Corpse e del rifacimento di "Covered with Sores" qui cambiata appunto nel titolo, in "Covered with Rust", una song che parte lentamente ma poi divampa in quell'incendiario sound brutale degli originali. Un delizioso antipasto quindi, preludio forse di un nuovo album in arrivo? Mah, staremo a vedere. (Francesco Scarci)

Pornohelmut – Bang Lord

#PER CHI AMA: Experimental/Electro/Industrial
Ottimo il debutto del musicista texano e artista audiovisivo Neil Barrett, sotto il moniker, un po' banale se mi permettete, Pornohelmut; la musica mi ispirava infatti un nome più intellettuale, più nerd. Con questo esperimento sonoro, intitolato 'Bang Lord' (fuori per Atypeek music e Show & Tell Media), Neil si affaccia al mondo musicale con una proposta se non altro eccentrica ed abrasiva. Il lavoro è il risultato di una serie di patterns corrosivi e ritmi messi assieme con gusto e centrifugati al computer, per una manciata di brani che spingono veramente bene, tra crust punk, digital noise, techno, metal, indie, ambient noise ed elettronica sperimentale. Nel disco non c'è niente di nuovo o innovativo poichè tante di queste sonorità sono già state usate, tuttavia bisogna ammettere che una certa geniale intuizione ed una vera fiammata, di reale e sana ispirazione, abita davvero in questo lavoro. Venti minuti per un totale di sette tracce tutte al veleno, ruvide, infiammabili ed esplosive, come una molotov pronta ad essere lanciata. L'effetto in certi casi è immaginabile ed accostabile ad una catarsi musicale tra Godflesh, Prodigy, Swamp Terrorist, Pushifer, l'universo Pigface e perchè no, anche retaggi del seminale progetto denominato Scorn, con i vari paralleli di Mick Harris, tutto rigorosamente filtrato da un tocco digitale moderno e un occhio di riguardo per i suoni più di tendenza tra elettronica e dance. "Wizard Sleeve" è una chicca che sembra essere suonata dai mitici Warrior Soul, in maniera più acida e sintetica, in un futuro temporale lontanissimo dalla loro era, splendida, come l'apripista "Astroglide" e la notturna suite dalle trame techno, "Night Rider". Un disco, 'Bang Lord', stralunato e contorto ma allo stesso tempo omogeneo e straripante di idee sonore, amalgamate con vigorosa e urgente creatività. Un album velocissimo, devastante e carico di energia che per venti minuti di sana follia rock digitale, e ripeto, scrivendolo a caratteri cubitali, mostra un gusto per il crossover di generi, contrapposti tra loro, di tutto rispetto. Una visione del rock tra pixel e transistor, che può piacere a molte fasce di ascoltatori dai target musicali più variegati. Un disco decisamente interessante, da non sottovalutare assolutamente il cui ascolto è parecchio consigliato. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Show & Tell Media - 2020)
Voto: 74

https://pornohelmut.bandcamp.com/album/bang-lord

Horn - Mohngang

#FOR FANS OF: Pagan Back
The German scene is, as you probably know, one of the richest ones in terms of quantity and quality. We can find excellent classic projects, or newer ones that continue to release great stuff. Due to this, it is particularly difficult to find a band which manages to carve its own niche and maintains a bunch of loyal fans after some time. The solo project Horn, located in North Rhine´Westhaplia and founded in 2002, is one of them. The fact of being a one man project makes it more meritorious, since over time it would be logic if the project loses some of its freshness and inspiration. Fortunately, this hasn’t been the case of Horn, a project which released some impressive first efforts like ‘Jahreszeiten’ and ‘Die Kraft der Szenarien’. Anyway, Horn has continued to make interesting albums, though I must admit that its latest works like ‘Turn am Hang’ showed a project reinvigorated and with fresh ideas. Horn has played from its beginning a quite essential form of pagan metal, lacking of truly elaborated compositions, but having a so sincere, authentic essence in its music that its songs were inevitably great. The combination of simple melodies and a strong vocal performance was simply perfect and Horn´s compositions had in those old albums a truly hypnotic attraction. Later on the band evolved with some slightly darker works, while with the last records, Nerrath seems to recover some old majesty, enriched with new ideas.

Having this in mind, I was excited to check what Horn was going to offer this time with the new release ‘Mohngang’. Since the very first listen, we can appreciate that Horn´s core sound is still there in its entirety. The production, as occurred in the latest works, has improved through time and now it sounds reasonable polished and clean, but with a healthy balance between this cleanness and the necessary rudeness that the band requires. Stylistically, the new tracks have the expected pagan black metal sound with a strong epic touch. The initial track "Satt Scheint Der Sud Der Tat" has all the elements we love from this band. Nerrath’s vocals sounds as strong as ever, with his traditional aggressive tone, tastefully mixed with cleaner vocals gifted of an intense epic approach. The drums have a martial sound at times, yet sound varied and well executed. Pace wise, the song flows naturally between faster and slower sections, making a very varied and entertaining track. The album has an impressive start with the opener and the following two or three songs, which sound quite powerful and have a slightly faster pace at times. "Det Star Her Som Sletta" is another punch in your face, with its battling tone. The guitars shine in this song and in general in the whole album, with very well executed riffs, with a distinctive melodic and triumphal tone. The track is enriched with some acoustic guitars and epic arrangements, aimed at increasing the vigorous tone of this excellent song. Horn doesn’t overcharge its compositions with tons of arrangements or details, as they are moderately, yet tastefully, introduced when it’s required, in order to enrich the composition and give it a different and distinguishable touch. After the beautiful and folk interlude of "Dulcimerstück", the album reaches its end with two quite different tracks, showing the two sides of Horn. "Vom Tribock Hohl Geschossen" sounds as powerful and epic as the rest of the album, with this vibrant pace and tone, while "Ødegård Und Pendelschlag" has a slightly more somber tone, like a soundtrack after the battle. This song could serve as the sonic representation of the devastation depicted in the album cover. It’s not maybe my preferred track from this work, but it serves as a very appropriate end for the album, leaving aside the cello version of the track "Die Mit Dem Bogen Auf Dem Kreuz" which comes later. This version of the song is a beautiful and dramatic closure of the new album, even if it could be considered as a bonus track.

'Mohhgang' is definitively a worthy listen if you like Horn and pagan metal in general. It’s difficult to place this album in such a great discography but, it is undoubtedly an excellent release full of great tracks, brisk melodies, majesty and strength. (Alain González Artola)

(Iron Bonehead Productions - 2020)
Score: 82

sabato 11 aprile 2020

Ayyur - Balkarnin

#PER CHI AMA: Black, primi Burzum
Non è la prima volta che veniamo a contatto con una band tunisina dal momento che abbiamo già recensito su queste pagine i Persona. Da Sousse, ecco arrivare gli Ayyur, band dedita ad un black metal che in questo EP raccoglie un paio di nuove canzoni oltre a quattro tracce mai rilasciate, risalenti al periodo 2008/2013, però ahimè sola esclusiva dell'edizione limitata in cassetta di questa release, quindi non nelle mie mani. Diamo allora un ascolto a "I" e "II", le due song di 'Balkarnin', le sole a disposizione sul sito bandcamp degli Ayyr. La prima è un black mid-tempo assai oscuro, la cui particolarità è quella di avere un intermezzo liturgico a metà brano, ove sembra configurarsi un paesaggio sonoro desolato, da cui ripartire poi con un riffing ipnotico e ridondante, di chiara matrice burzumiana. La seconda traccia proposta dal misterioso trio tunisino (che consta peraltro di ex membri di Deathspell Omega e Lord Ahnman) non si discosta poi di tanto, con le chitarra zanzarosa di Angra Mainyu a tessere un'oscura melodia in sottofondo mentre il cantato di Shaxul sembra evocare quello primordiale di Mancan dei nostrani Ecnephias. Insomma, per ora 'Balkarnin' non ci offre ancora nulla di particolarmente originale, ma questo si era già evinto dalle precedenti release. Il consiglio che mi sentirei di dare alla band è quello di provare ad approfondire le melodie etniche berbere e cercare di coniugarle col black metal, al fine di trovare una proposta realmente accattivante. Per ora, nulla di nuovo sotto il sole cocente della Tunisia. (Francesco Scarci)

(Dead Red Queen Records/Bad Moon Rising - 2020)
Voto: 60

https://ayyur.bandcamp.com/album/balkarnin

The Ruins of Beverast/Mourning Beloveth - Don't Walk On The Mass Graves

#PER CHI AMA: Black/Doom
In attesa di ingannare il tempo affinchè i rispettivi nuovi lavori vedano la luce, ecco che i The Ruins of Beverast e i Mourning Beloveth, si ritrovano in uno split EP rilasciato in formato 10" per regalarci venti minuti in compagnia di due realtà davvero interessanti dell'etichetta tedesca Vàn Records. Ad aprire le danze di questo 'Don't Walk On The Mass Graves', ci pensa la chitarra acustica degli irlandesi Mourning Beloveth con "I Saw a Dying Child in Your Arms", quasi dieci minuti di sonorità evocative che chiamano immediatamente ed inequivocabilmente in causa i Candlemass con quel cantato dominante e pulito del frontman Frank Brennan, che offre la sua splendida voce ad un delicato supporto ritmico in quella che sembra a tutti gli effetti una ballad. Il tremolo picking a metà brano, oltre a donare una forte componente malinconica, sembra quasi prepararci ad un cambio di registro nella seconda metà del pezzo. La song sembra crescere in intensità ed elettricità, non fosse altro che fa la sua comparsa anche il growling di Darren Moore nonostante la componente emotiva si mantenga comunque in quell'ambito di malessere e depressione tanto caro al quintetto di Athy. A seguire ecco i teutonici The Ruins of Beverast con il pezzo "Silhouettes Of Death's Grace" e la loro consueta amalgama di suoni spettrali che da sempre contraddistinguono la one-man-band capitanata da Alexander Von Meilenwald. La song è lenta e avvolta da un'insana ed angosciante atmosfera (forte anche di sovraincisioni di voci e dialoghi), acuita poi dallo screaming malefico del mastermind, e che vede cambiare registro solamente a 3/4 di brano, in una discordanza sonora che riuscirà a prendere il sopravvento prima dell'epilogo affidato ad una disturbante melodia che evoca un che dei Blut Aus Nord più ispirati, il tutto perennemente in combinazione con il suicidal black doom degli svedesi Shining. Insomma, che ne dite della proposta delle due band? A me piace parecchio. (Francesco Scarci)

Licantropy - Extrabiliante

#PER CHI AMA: Surf Rock'n' Roll
Storie di lupi e di lune, di metamorfosi e delirio, di fantasie e demoni squisitamente antropomorfi. Scritte e cantate dal diabolic-trio più diabolic del Triveneto, i Licantropy. Incise ad arte su un compact-disc e confezionate da un’iconica copertina, decisamente evocativa (devo ammettere che mi ha fatto sorridere a prima vista). Se pensate che un tale abstract, non possa riassumere un album simile rendendogli giustizia, beh avete certamente ragione. Non è compito facile raccontarvi con esattezza cosa si può trovare dentro questo disco. Niente paura, non vi ho per niente rovinato la sorpresa, anzi: quelle non mancano. Sempre in agguato dietro l’angolo, brano dopo brano. Dopo una ispanica intro ("Hispanic Wolf") a dipingere il background notturno in cui ci trasportiamo, veniamo investiti dall’impetuoso surf-rock’n’roll sanguigno e affamato dei Licantropy. Aggiungiamoci un pizzico d’influenza punk e una buona dose di psichedelia ammaestrata dagli organi e dai synths di Mr. “Royal Albert Wolf”. Ed eccoci servito. Due brani diretti e sparati come "Big Bad Affaire" e la licantropica "Pale Moon Light", ottimamente impiegabile come colonna sonora per una surfata al chiaro di luna, con i suoi notevoli fraseggi affidati all'Hammond guitar. E ancora, dopo le cavalcate a ritmo di rock della title-track (che contiene addirittura una sezione di scratching), arriviamo persino ad incontrare elementi progressivi: ad esempio in "Bite Me Wolf", con la sua struttura ritmica in continua evoluzione, seppur poco evidente ad un primo ascolto, o nella conclusiva "Coyote", perfetto brano da applausi finali. Dall’incalzante energia iniziale giungiamo, oso dire, ad una dilatazione in chiave stoner. Complessità strutturale, arrangiamenti da manuale ed un’altra abbondante dose di scratch per questo vero e proprio viaggio, verso la fine dell’incubo a luna piena, iniziato una decina di canzoni prima. La visione interpretativa personale di un rock’n’roll più oscuro e notturno, mi ha ricordato un’altra underground-band nostrana a cui sono piuttosto affezionato, gli Slick Steve & The Gangsters, seppur, sia chiaro, ci troviamo su due strade stilistiche abbastanza diverse. 'Extrabiliante' vede la luce come secondo album in studio dei Licantropy, che avevano esordito nel 2017 con 'We Were Wolves', un disco dalle sonorità molto più ruvide e scatenate. Il ritorno del trio composto da Tom Wolf (chitarra & voce), Luke Sky Wolfer (batteria & voce) e Royal Albert Wolf (organo & voce), vede un lavoro di canalizzazione di quella stessa energia in arrangiamenti molto ben studiati. Molta attenzione ai numerosi e ricercati dettagli, che emergono ascolto dopo ascolto: come dicevo, ricco di sorprese che non si raccontano, ma si devono ascoltare. Avvertenze: 'Extrabiliante' può causare irrefrenabile voglia di muovere la testa e battere i piedi a ritmo frenetico. Voluto omaggio al west di Costner 'Dances with Wolves'? (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

venerdì 10 aprile 2020

Golden Ashes - The Golden Path of Death Acceptance

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Credo che Maurice de Jong sia membro/leader grosso modo di una ventina di band (tra le quali vi ricordo Gnaw Their Tongues, Cloak of Altering e De Magia Veterum) ed ex di un'altra buona decina. Giusto per non stare con le mani in mano, eccolo tornare con un nuovo progetto, i Golden Ashes, per cui il factotum olandese ha già rilasciato lo scorso anno il debut 'Gold Are the Ashes of the Restorer'. Visto che la vena ispiratrice del musicista non si è ancora assopita e parrebbe che un nuovo album sia in uscita in questo 2020, ecco che Maurice ha pensato bene di deliziarci con un piccolo antipasto in cassetta, 'The Golden Path of Death Acceptance'. Un EP di quattro pezzi che si apre con l'ambient dronico-desolante della title track, che lascia ben presto posto a "The Light's Rebirth Unfolding", in cui emerge l'attitudine terrostico-sonora del mastermind di Smallingerland. Le ritmiche sono infatti furiose e sulla belligerante matrice musicale black, si inerpica lo screaming ferale dell'artista originario del Suriname e di supporto, anche una serie di atmosfere davvero interessanti che ne minimizzano la ferocia, arrivando il sottoscritto, quasi a fischiettare il motivetto di sottofondo. Incredibile. "The Golden Path" è un altro assalto all'arma bianca, tra dirompenti sciabolate estremiste e spaventose vocals, in un calderone sonoro che ha un suo fascino evocativo. Si arriva velocemente a "To Travel Unknown Spiritual Winds", la song più cupa del lotto ma anche quella apparentemente più controllata grazie ad una ritmica decisamente meno frenetica, un'effettistica più ingombrante e i soliti aspri vocalizzi del buon Maurice a condurre i giochi. Insomma, dopo aver rilasciato un centinaio di release con le sue molteplici creature, Maurice conferma ancora una volta di essere dotato di una sofisticata ed estrema vena creativa. (Francesco Scarci)

3 South & Banana - S/t

#PER CHI AMA: Psych Pop
È un album di svolazzante psichedelia cristallina, leggera e pop quello della one-man-band berlinese 3 South & Banana, un lavoro dal carattere indie e da una curata rilettura di alcune sonorità dei '60s, grazie alla voce del mastermind Aurèlien Bernard a coordinare poi tutto il resto (una voce che ricorda peraltro quella dei Mercury Rev). I ritmi del disco sono soffusi, a volte esotici e le composizioni cariche di suggestioni e richiami solari con la psych a materializzarsi alla maniera di Fruit Bats e altri artisti simili accasatisi sulle rive dell'odierna e inimitabile Sub pop. L'album sfodera una certa dimensione alternativa, con affinità bossanova/new wave stile Nouvelle vague con la raffinata eleganza e l'attitudine da moderno menestrello cosmico. La sognante "KittyKatKatHappyBadSad", si colloca a metà strada tra un vecchio sound freak e il mondo incantato degli Eels di 'The Decostruction', (la canzone più bella del disco secondo me) mentre il trittico, "Intermission" (breve strumentale dal sapore cinematografico anni '60), "Avec le Coeur" e "Bâtons Mêlés" (altra bellissima canzone), tradiscono le origini francesi dell'autore, sfornando un suono ai confini con il pop, tanti suoni sintetici di vecchia scuola bubblegum music e la musica d'autore francese (penso a Marie Laforêt), senza scordare la new wave immortalata dalle ottime release uscite anni or sono, dalla Le Disque du Crepuscules, tipo Anna Domino nell'album 'East and West' del 1984, o il raffinato suono dei Durutti Column di primi anni '80 ('LC'). Il disco quindi si srotola in un'atmosfera surreale (guardatevi il bel video dai contorni naif di "55 Million Light Years Away" per farvi un'idea di quest'artista), sospesa e cosi dotata di una verve pacata e allucinata, come se il pop dalle tinte soft e il jazz, fossero immersi nell'LSD ("I Will Not Stop Loving You") forgiando cosi un suono coloratissimo, caldo ed esotico, come nella beatlesiana "Roof Top Trees". La chiusura è affidata ad una ballata cristallina ("Wings"), una song dalla cadenza ipnotica quasi in assenza di ritmo, per un finale poi dal moto ascensionale, pieno di magia, che ci permette quasi di fluttuare nell'aria. L'album è stato concepito nel ricordo della visione in technicolor che i Broadcast avevano della musica e il mito di 'The Soft Bulletin' dei The Flaming Lips nell'anima, ma qui con radici pop ben ancorate nel cuore. (Bob Stoner)

Darkseed - Ultimate Darkness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Crematory
Era il 2005 e i tedeschi Darkseed arrivavano al mirabolante traguardo del sesto album, il loro secondo per la Massacre Records, proseguendo un percorso evolutivo molto simile a quello intrapreso dai connazionali Crematory. Ricominciando là da dove avevano lasciato 2 anni prima con 'Astral Adventures', i nostri proseguono sulla stessa scia con questo 'Ultimate Darkness' continuando a proporre un genere che già all'epoca aveva ormai ben poco da dire. Non voglio stroncare tuttavia la proposta musicale del sestetto Monaco poiché, per quanto riguarda esecuzione e melodia, si attesta su livelli medi, quello che emerge semmai dalle note di questo album è superato. I cliché del genere ci sono tutti: chitarre cupe super infarcite di tastiere goticheggianti con richiami più o meno imbarazzanti ai vari Rammstein, o agli album 'Host' e 'Believe in Nothing' dei Paradise Lost. Come dicevo, le chitarre sono qui assai oscure e pesanti, però a farla da padrone sono decisamente le tastiere, sopra le quali si staglia la voce di Stefan Hertrich che spazia tra vocals pulite e altre un po’ più roche. In alcuni frangenti la proposta musicale dei nostri mi ha riportato alla mente gli Evereve, forse per i coretti tanto accattivanti quanto mai noiosi alla lunga; in “The Fall” ho sentito un riff preso in prestito da 'Symbol of Life' ancora dei Paradise Lost. Insomma tutto questo per dire che forse questo album potrebbe anche piacervi se i suddetti gruppi rientrano tra le vostre preferenze in quanto 'Ultimate Darkness' riesce comunque a coniugare un po’ tutti questi generi: gothic, elettronica, dark wave e piacevoli ritornelli. Il problema è che non crdo di riuscire ad andare oltre al terzo ascolto, poiché la band è priva di quella verve che la contraddistingueva agli esordi di cui ora rimane poco di entusiasmante e coinvolgente. Per i fan dell'ensemble teutonico, vorrei segnalare che in giro esiste anche un'edizione che comprende un secondo cd contenente 13 unreleased tracks della discografia dei nostri. (Francesco Scarci)

(Massacre Records - 2005)
Voto: 60

https://www.facebook.com/DARKSEED-46103123056/

Eluveitie - Slania

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Pagan/Death, Cruachan, Korpiklaani
Andiamo a ripescare quello che è stato il secondo lavoro degli svizzeri Eluveitie, ossia 'Slania' del 2008 (riproposto peraltro in occasione del decennale nel 2018 con una cover rinnovata e alcune bonus track, le demo version delle song incluse nell'album). La band elvetica torna con quel sound rude, ma atmosferico, caratterizzato dall'utilizzo di strumenti tipici della tradizione celtica (l'hurdy gurdy e la fisarmonica per esempio), tradizione alla quale si rifà la band alpina ma non solo, vista la presenza anche di altri strumenti tipici svizzeri come lo zugerörgeli (una specie di accordion) e il bodhràn. Più vicini alle sonorità di Korpiklaani e Asmegin, accomunati più per ideologia agli irlandesi Cruachan, l'act d'oltralpe (composto da ben otto elementi!) rilasciò questo interessante e suggestivo lavoro, addirittura per la Nuclear Blast e il risultato non fu affatto male. Il death metal dalle tinte folkish dell'act di Zurigo mantiene la rudezza del genere, ma grazie a preziosi e ariosi arrangiamenti, è capace di spingerci a ritroso nel tempo di mille anni, dove i riti pagani si consumavano quotidianamente. A me questo lavoro piace senza ombra di dubbio, anche se rimango stupito di fronte all'incedere super indiavolato di un pezzo come “Bloodstained Ground” che di folk ha ben poco, se non il finale. Sorprendente è l'aggettivo che si deve dare a un disco di simile fattura, perchè in grado di rievocare con estrema efficacia, le tipiche melodie popolari irlandesi, pur mantenendo intatto l'approccio feroce del death metal: riffing veloci, nervosi e ritmiche sostenute delineano il sound di fondo di 'Slania'; tocca poi al magico suono delle fisarmoniche e dei violini donare quel quid in più ad un lavoro in grado di spingere la band verso quello che sarà il meritato successo. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2008)
Voto: 75

https://www.facebook.com/eluveitie

Blissful Stream - When The Wolves Start To Circle

#PER CHI AMA: Black'n'Roll/Doom, Venom
Qualcosa di magico alberga nel nuovo full length della one-man-band svedese Blissful Stream, dove Equimanthorn si prende l'onere e l'onore, di essere unico musicista e compositore delle affascinanti otto tracce che formano il disco. Dopo alcuni Ep, dove già si poteva intuire lo stile originalissimo del progetto, si arriva a questo rude, gioiellino underground, pregno di oscurità e fondamenta metal, orgogliose e pure. In realtà dietro a 'When The Wolves Start To Circle' c'è un vero e proprio esempio di conoscenza del genere sotterraneo, dal doom alla psichedelia, passando per rock'n'roll e gothic rock. Calcolando inoltre la militanza dell'artista tra le fila di una black metal band di culto, come i Pest (quelli svedesi), non possiamo che avvicinarci a questo album con interesse particolare. Prendete il concetto cantautoriale blues di stampo apocalittico dei The Devil's Trade ed accostatelo al maligno cataclisma sonoro dei Venom, unitelo alla profondità dei capolavori creati da band magiche come gli In the Woods e per finire avvicinatelo ad un panorama, simile per attitudine, agli intrecci chitarristici carichi di allucinazione, dei mitici 13th Floor Elevators. Solo così potremmo essere preparati ad ascoltare un'esplosiva e pericolosa miscela di black'n'roll dalle tinte fosche e drammatiche, che trafiggono il lato più dark dell'ascoltatore. Un magma sonoro oscuro e travolgente, che in meno di mezz'ora di musica ci proietta in una dimensione parallela nerissima, dall'umore tetro ma sempre carico di un'adrenalina hard rock/metal impensabile. Le danze si aprono con la bordata di "We See the Light" con il ricordo di Cronos e compagni ancora vivido; di seguito la spettacolare title track, con un riff portante di chitarra che fa terra bruciata intorno ed una interpretazione vocale da brividi. La lenta cadenza di "Sow the Seeds of Discontent" con il suo canto pulito ed un magnifico ritornello evocativo, non fa prigionieri nella sua semplicità devastante e gotica, che porta alla memoria (e non chiedetemi il perchè di questa mia impressione) certi primi lavori dei Joy Divison. Ci si inoltra sempre di più nella scaletta di un album pressochè perfetto, nella psichedelia sgraziata di "Covenant of Decay" e via verso altri quattro brani micidiali. Quando si parla di rock'n'roll dalle chitarre sonanti, dal timbro oscuro e violento, fatto con ispirazione e carico di emotività, di vera ribellione, di gotica genuinità con un certo indimenticabile sound stile batcave e un solenne, strascicato, passo pieno di enfasi, verso la musica del destino (DOOM), da oggi non potrete non ricordare questo magnifico disco. 'When The Wolves Start To Circle' è un album davvero degno di nota, il cui ascolto è a dir poco obbligato. (Bob Stoner)

domenica 5 aprile 2020

Allhelluja - Pain is the Game

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death’n’Roll, Xysma, Spiritual Beggars
Avevo particolarmente amato 'Inferno Museum', full length di debutto datato 2004 della super band italica Allhelluja. Dopo 15 mesi, i nostri tornano in pista di nuovo pronti a sconquassare il mondo con quell’incredibile mix di suoni seventies, stoner e death’n roll. Dopo gli ottimi responsi ricevuti e le gig di supporto a nomi del calibro di Down, Raging Speedhorn, Gluecifer e Black Sabbath, la band rilascia il secondo 'Pain is the Game'. Undici brani per 39 minuti di musica sono sufficienti a spazzar via ogni dubbio che l’eccellente qualità dell’album di debutto non è stato, dopo tutto, un caso. La band di Stefano Longhi, sempre coadiuvata alla voce dal vocalist degli Hatesphere, Jacob Bredahl (sempre meno in versione growl, molto più rock’n’roll), è più incazzata che mai: la prova che sfoderano i nostri è quanto mai di classe, grazie anche al supporto di Tue Madsen (The Haunted, Sick of it All) alla consolle. Il sound di questo lavoro del combo italo-danese, in linea di massima non si discosta più di tanto dai suoni grezzi e ruvidi del debut cd: le ritmiche sono più rabbiose e sostenute, il che è forse andato a scapito di quelle influenze più ipnotiche e psichedeliche che contraddistinsero l’esordio dei nostri. Tecnicamente la band si discute, così come il gusto per la melodia; ottima dicevo la produzione, sempre attenta a porre in risalto il basso, vero protagonista di questo 'Pain is the Game'. Se avete amano il debut della band, non potrete fare a meno neppure di questo secondo gioiellino e della miscela esplosiva d’insano rock’n’roll; se non li conoscete e amate questo genere di musica, acquistatelo a scatola chiusa, tranquilli garantisco io per loro. (Francesco Scarci)

Chromb! - Le Livre des Merveilles

#PER CHI AMA: Jazz/Avantgarde Sperimentale/Prog
I Chromb! non hanno bisogno di presentazioni nè di spiegazioni per poter definire la loro musica, che altro non è che libertà espressiva a pieno titolo. Il quarto album della loro carriera, 'Le Livre des Merveilles', è un parto ostico ma alquanto geniale, un salto in una musica cerebrale tout court, senza limiti di sperimentazione o creatività. Una linea creativa che unisce la voglia di ambienti sonori molto vicini alle colonne sonore per film, con il jazz d'avanguardia, le escursioni uniche dei belgi Univers Zero e il canto a più voci progressivo dei Gentle Giant, una ventata di neo prog sempre in evoluzione, proiettato magicamente verso un sound moderno e dinamico. Sicuramente un'interpretazione originale del concetto più ampio di opera, dalla musica neo classica allo sperimentale senza tempo di casa Art Zoyd. Nulla passa inosservato e intentato in casa Chromb!, un impegnativo viaggio di scoperta per pochi esclusivi viaggiatori verso l'ignoto musicale, verso gli scritti di un libro del medioevo che raccoglie soggetti ed azioni da tutta l'Europa medioevale. Così come tra volti di santi, battaglie di scarabei, erbe magiche, pietre lunari, acque che non bollono, fantasmi a cavallo, foreste incantate, monti infuocati, donne barbute, sirene, streghe, chimere, morti viventi, licantropi e quanto altro vide nella sua vita il chierico e cavaliere Gervasio di Tilbury, il suono dell'ensemble francese evolve in un contesto maturo, intimo e serioso, lontano da frenesie e piroette stilistiche (ma non senza follie musicali), un aspetto colto, oserei dire accademico. Un collage di quattro brani, tra cui, due lunghe suite centrali e una miriade di suoni ad effetto scenico e cinematografico, riescono ad evocare tutte le visioni di quest'opera letteraria. Sicuramente uno sforzo da elogiare, un gesto compositivo coraggioso perfettamente riuscito, che solo una band nella piena coscienza della propria forza espressiva, poteva immergersi in questo intento. Un album che sarà certamente di nicchia e che per molti ascoltatori non consoni, si mostrerà come un tabù, lontano anni luce dalle mondanità del pop o del rock. In un universo tutto suo e sempre più vicino alla galassia della musica d'avanguardia più intellettuale, quest'opera eleva la band di Lione ad un grado assai alto nella scala musicale dei musicisti più rispettabili in ambito internazionale. (Bob Stoner)