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sabato 27 gennaio 2018

Eneferens - In the Hours Beneath

#FOR FANS OF: Cascadian Black, Agalloch
Eneferens is a one man atmospheric black metal project, created at the beginning of 2016 by Jori Apedaile. Initially, he lived in Montana, where he took part in another atmospheric black metal band called Arkheon Thodol. Later, he moved to Minnesota leaving the initial project and deciding to create a new band, Eneferens. Since its inception, this new project has been pretty active, releasing two albums and one EP in only two years. Now it’s time to review his second effort entitled 'In the Hours Beneath', which was initially an independent release. Anyway, his work gained some interest and thanks to the excellent label Nordvis Produktion, decided to re-release it in 2017. From the very beginning you take a look to the album´s front cover, you realize what kind of music you are going to listen to. Eneferens moves undoubtedly in the realms of atmospheric black metal, but always trying to build a distinctive sound which makes the music very interesting. First of all, Jori uses profound death metal-esque vocals, instead of the typical black metal shrieks. I must say that his vocals are pretty consistent and they fit the music, although they are not the most usual ones in this genre. Moreover, he has no fear to add some clean and quite melancholic vocals, like in the opening track, “Ascension”. For some reasons, those parts remind me Agalloch (but also Italians Novembre/ndr), though I wouldn´t say that they are very similar bands. Those vocals plus the acoustic sections, give this release a quite melancholic feeling, which confirms what the aforementioned album cover promises. Another good example of it, is represented by the third track, “Morning”, which is one of the calmest tracks of the whole cd, with a slow pace, some acoustic sections and delicate clean vocals. 'In the Hours Beneath' is in general a not very fast work, as Eneferens prefers to create mid-tempo tracks with some very slow and heavy moments ("Chrysantheum", which suddenly includes unexpected fast sections). Another good example is provided by “Refuge”, which flows quite naturally between mid-tempo, slow and fast parts in a very well-done way. The guitars are indeed a true highlight of this work, playing a major role and being quite varied and very well executed. I couldn’t define them citing only one genre, I can feel influences from (obviously) black metal, but some parts can even remind death or post black metal influences. The slow nature of this work has also a slight touch of doom metal, mainly due to paused and deep sections always accompanied by Jori’s growls. His vocals are, as already mentioned, very well-done in both styles, being the clean ones the most original ones. Those vocals can disappoint the listener who wants a rawer and more classic stuff, but if you listen to them with an open mind, I sincerely think that they are fine and fit perfectly well the music. All in all, Eneferens second effort is a very solid release. Jori has tried to create a very personal album, which initially can be described as an atmospheric metal album, although it has some influences and twists which make it a distinctive work with an intense melancholic touch. Excellent stuff. (Alain González Artola)

(Nordvis Produktions - 2017)
Score: 85

Bereft of Light - Hoinar

#PER CHI AMA: Black Doom, Wolves in the Throne Room
Quello delle one-man-band è un fenomeno assai diffuso sbarcato ora anche in Romania. Ad esserne affetto è questa volta, Daniel Neagoe, mastermind dei Bereft of Light, interessante progetto black/death doom, prodotto dalla Loud Rage Music. Forte della sua esperienza in band quali Shape of Despair e Pantheis, giusto intanto a metter li due nomi forti del panorama funeral mondiale, il bravo artista rumeno si lancia con 'Hoinar', in una commistione di afflitte sonorità decadenti unite all'asprezza del black metal a stelle e strisce di stampo cascadiano. "Uitare" è una lunga intro strumentale dal forte sapore nostalgico, una di quelle melodie da gustare alla finestra mentre una piovosa giornata di novembre volge al termine. La pioggia battente prosegue anche nella lunghissima "Legamant", quasi tredici minuti di asperità black, spettacolari parti acustiche, cavalcate roboanti in stile Wolves in the Throne Room, rallentamenti doom, disperate harsh vocals e soprattutto splendide fughe melodiche che si manifestando sovrane nella seconda disarmante metà del brano, in un crescendo emozionale da brividi. Con "Pustiu" ci prendiamo una più lunga pausa strumentale all'insegna dell'ambient, guidato da una struggente chitarra acustica e da intimistiche melodie da brividi. "Freamăt" e la conclusiva "Târziu", ci riportano alle sonorità assai care al buon Daniel, sempre in bilico tra un death doom atmosferico ed un più ferale cascadian black. Nella prima però, la novità risiede nella proposizione di epiche vocals pulite (in stile vecchi In the Woods o Primordial) che fanno da contraltare allo screaming feroce del polistrumentista rumeno, ottenendo cosi un effetto a dir poco esaltante. I frammenti di chitarra acustica nella seconda metà del brano che accompagnano poi il cantato evocativo di Daniel, sembrano indurre volutamente uno stato distensivo nella proposta del talentuoso musicista, che vanta tra le sue collaborazioni, anche Eye of Solitude, Ennui e God Eat God (ma il numero di band in cui Mr. Neagoe milita è ben maggiore). Chiudiamo con "Târziu", forse la song più lenta e sofferente del lotto, che esibisce uno splendido (l'ennesimo) break acustico centrale, dai cui drappeggi, s'innalzano le tormentate voci di Daniel che decretano l'eccezionalità di questo album da applausi. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2017)
Voto: 85

venerdì 26 gennaio 2018

Kassad - Faces Turn Away

#PER CHI AMA: Black, Windir
I Kassad sono una one-man-band dedita ad un black metal abrasivo e sinistro. Fuori per la canadese Hypnotic Dirge Records, ma proveniente da Londra, l'artista che sta dietro ai Kassad mi ha impressionato non poco per la glacialità mista a melodia, della sua proposta, il cui risultato si riflette nelle sette tracce di questo 'Faces Turn Away'. Si parte fortissimo con il sound tormentato e spinoso di "Shame", selvaggio come pochi nella prima parte (e nell'ultima, con la riproposizione del refrain iniziale), notturna, raffinata ed oscura nell'estesa componente acustica della sua parte centrale, che traccia le coordinate stilistiche, all'insegna di un'ostentata ricerca di originalità da parte del mastermind inglese. La furia belluina continua nelle arcigne distorsioni sia ritmiche che vocali di "Pariah", una cavalcata epica, fredda, spettrale, stracolma però di un pathos avvincente e trascinante. Un'altra chitarra acustica ed è tempo di "Void", splendida nella sua evoluzione malinconica, a tratti tribale, sempre assai melodica, e con quella sua minimalista componente vocale narrativa posta su di un tappeto di riffs in tremolo picking. Tre soli minuti a disposizione di "Madness" per mostrare ancora l'epica ferocia, in stile Windir, di cui è dotato il misterioso musicista della city londinese. E poi ancora un turbillon di chitarre acuminate, il cui suono potrebbe essere paragonabile a tanti piccoli frammenti di vetro conficcati nella carne e alle grida di dolore che ne deriverebbero a toglierli. Il suono di un temporale, dei synth e siamo approdati a "Broken", dove la voce acida del frontman domina su di una ritmica pacata, atmosferica, pronta ad infuocare l'aria, che pare saturarsi di gas pronta ad esplodere; invece rimane bloccata in un magnetico incedere che ci accompagna senza paura ad affrontare la tenebrosa title track. Inquieta ed ansiogena, per quel suo immobilismo musicale intrappolato in un flusso nebuloso di suoni e harsh vocals. Ecco l'enigmatica "Face Turn Away" che idealmente chiude un album che ha ancora nell'ultima "Pulse", oltre nove minuti di suoni ambient che potrebbero rappresentare l'ideale colonna sonora per un film che francamente adoro, "K-pax" restituendo finalmente un po' di pace interiore dopo un assalto sonoro perpetrato per 45 minuti. (Francesco Scarci)

giovedì 25 gennaio 2018

Samadhi Sitaram - KaliYuga Babalon

#PER CHI AMA: Death/Math/Djent, Dillinger Escape Plan, Meshuggah
I Samadhi Sitaram sono un terzetto proveniente da Mosca, approdati da poco alla corte della Sliptrick Records. L'intro di questo 'KaliYuga Babalon' è piuttosto fuorviante, complice una forte influenza della musica classica nel suo incedere, che mi porterebbe a pensare ad una proposta all'insegna di un melodeath di stampo svedese. La mattonata invece che mi arriva con "Kali-Yuga" mi pesa invece sulla faccia come un gancio tirato sulle ganasce dal buon Mike Tyson. L'attacco è isterico con le ritmiche che si muovono tra mathcore, djent e death, un po' come se sparaste alla velocita dei Dillinger Escape Plan, i Meshuggah. Chiaro il concetto? Se cosi non fosse, pensate che il finale infernale della song potrebbe ricordare il caos sovrano che regna in "Raining Blood", pezzo conclusivo del mitico 'Reign in Blood' degli Slayer. Passo oltre, smaciullato dalla potenza sonora di questi pirati del metallo: "The Death of a Stone" ha il riffone portante che chiama palesemente i Meshuggah, ma la porzione electro-cibernetica che popola il brano, permette al trio russo di prendere le distanze dai gods svedesi. Le convincenti growling vocals di IOFavn mi hanno ricordato invece lo stile del vocalist dei nostrani Alligator. Nel frattempo il cd non ha tempo da perdere e si lancia con "Apotheosis" in un'altra fuga roboante di ritmiche martellanti, sparate alla velocità della luce tra paurosi stop'n go e improvvise accelerazioni death. Interessante sottolineare il concept lirico che si cela dietro a 'KaliYuga Babalon', che tratta uno dei testi sacri della tradizione induista, ossia il dodicesimo canto del Śrīmad Bhāgavatam che anticipa l'avvento dell'età del Kali yuga e la futura distruzione dell'universo materiale da parte di Kalki, un discendente del dio Visnù, a causa del decadimento morale e spirituale in cui è sprofondata l'era attuale. Insomma, un messaggio alquanto tranquillizzante, eufemisticamente parlando. Detto questo, la devastazione prosegue anche con l'ipnotico preludio a "...Qliphoth", una song che tra melodie della tradizione indiana, riffoni dotati di uno spettacolare groove, la identificano come una delle mie preferite (insieme alla conclusiva, ancor più completa e "meshugghiana", "SHANGRI LA") nel lotto delle tracce qui incluse. Dopo parecchi pezzi di durata "normale" (tra i 3 e i 4 minuti), ecco un mostro di oltre 16 minuti ("Orgy - Ritual BABALON") che affida a delle sparatorie e ad urla disumane, i suoi primi due minuti. Poi, nelle sue note c'è un po' di tutto: deathcore, progressive, arrangiamenti da urlo, suoni cinematici, e un'infinita porzione di spoken words in russo che probabilmente si dilunga un po' troppo per i miei gusti. Un buon lavoro di certo, penalizzato però dall'inconcludente lungaggine di "Orgy - Ritual BABALON". (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/samadhisitaram/

One Last Shot - Even Cowboys Have Sundays

#PER CHI AMA: Southern/Alternative Rock, Motorhead
Circa un paio di anni fa scrivevo su queste pagine circa l'esordio dei One Last Shot, l'EP 'First Gear'. Possiamo dire che la band ha mantenuto la promessa di continuare il loro percorso e oggi abbiamo per le mani il nuovo full-length 'Even Cowboys Have Sundays'. La versione per il mercato si presenta in un digipack a due ante con booklet da otto pagine, mentre per gli addetti ai lavori la versione è più semplice, ma mantiene lo stesso artwork caratterizzato da una bella moto custom in copertina e una foto che ritrae la band in un momento goliardico di relax come retro. Il quintetto parigino presenta un sound in bilico tra southern e alternative rock contaminato da thrash e punk, un mix energico e di grande impatto che cattura l'ascoltatore dopo pochi riff con "The Gambler", la prima traccia del cd. L'intro strizza l'occhio a "Paradise City" dei G'N'R, ma le somiglianze si fermano qui e il brano prende forma e sostanza con power cord ed accelerazioni incalzanti. Il vocalist entra subito di petto e aggiunge pathos ad un brano che scorre bene, grazie anche alla sezione ritmica che non si risparmia, tuttavia un brano semplice e che sai già dove ti porterà dalle prime battute. "Hell Mariachi" cambia le carte in tavola e mescola sonorità e ritmiche dell'America centrale, del Messico appunto. I fraseggi di chitarra classica che accompagnano le strofe in spagnole ci scaraventano immediatamente in un bar dove ben presto gli animi si scalderanno per colpa della Tequila e dove cominceranno a volare bicchieri e ceffoni alla Bud Spencer e Terence Hill. Una canzone che allenta la tensione dell'album e mette in luce l'animo goliardico ma professionale del quintetto parigino. Dopo questo break, la band torna alle sue sonorità e sciorina "Live Fast And Die Young", un brano molto veloce, praticamente i Motorhead con suoni un po' più moderni, uniti a cori e progressioni a dismisura. Si chiude con un rallentamento per riprendere il tema iniziale prima di lasciare lo spazio al classico assolo di chitarra. Altri brani si avvicendano proponendo uno schema ripetitivo che porta l'ascoltatore a distrarsi, rischiando di perdersi una chicca come "We Don't Call 911". Dopo l'inizio lieve con arpeggi di chitarra, s'inserisce la sezione ritmica e il brano si gonfia contestualmente all'entrata della distorsione, per regalarci una traccia ad alto numero di bpm che pompa fiotti di adrenalina . "Thou Shall Be Drunk" cerca di essere una ballad romantica e malinconica, ma dopo poche battute, l'energia travolgente della band si fa strada e regala un'altra song ben fatta e piena di groove, come tutto questo 'Even Cowboys Have Sundays', del resto. Decisamente un album ben fatto che farà contenti tutti gli amanti del genere, da abbinare ad una bella birra ghiacciata mentre si lucida la moto, in attesa della bella stagione! (Michele Montanari)

martedì 23 gennaio 2018

Kval - S/t

#PER CHI AMA: Black Old School, Burzum
I Kval sono una nuova one man band finlandese, anzi no: il mastermind che sta dietro a tale monicker infatti, non è altro che colui che fino al 2015 guidava i Khaossos e questo album omonimo è, a dire il vero, la riproposizione di quel 'Kuolonkuu' che su queste stesse pagine abbiamo recensito, con la durata delle song leggermente più elevata. Difficile pertanto aggiungere qualche informazione addizionale ad un disco che, se fosse uscito nei primi anni '90, avrebbe dato filo da torcere a Burzum e compagnia bella, grazie, e riprendo le parole di quella recensione, ad una spettrale overture, e a brani successivi che si affidano ad un incedere ossessivo, tagliente e minimalista. Penso a "Sokeus", una traccia, che nei suoi oltre dieci minuti, mai accenna ad una accelerazione o ad una sfuriata che ne modifichi la sua desolante dinamica esistenziale. Un lavoro spoglio e tormentato che ha modo di mostrare dei tratti folklorici (ad esempio in "Harhainen") ma anche forti accenni di un disperato suicidal black (ascoltate "Kuolonkuu") che lo renderanno ai più un album ostico a cui avvicinarsi. Io, a distanza di quasi tre anni, mi confermo coerente con il voto che diedi alla primordiale forma di questo album dei Kval. Sofferenza allo stato puro. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 70

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/kval

domenica 21 gennaio 2018

Omega - Eve

#PER CHI AMA: Black Siderale, Darkspace
Ci hanno impegato quasi cinque anni gli Omega a far uscire la loro prima fatica, tuttavia mi domando che bisogno ci fosse che tre dei quattro membri dei Deadly Carnage rilasciassero questo lavoro sotto mentite spoglie? Non poteva essere un nuovo lavoro dei Deadly Carnage stessi o forse gli Omega nascono in realtà come un progetto di Mike Crinella degli Ashes of Chaos? Mah, troppo mistero avvolge questa band e il concept del disco che trae ispirazione dal codice illustrato Voynich, scritto con un sistema alfabetico/linguistico ad oggi non ancora decifrato e le cui immagini incluse (piante per lo più) non sono ascrivibili ad alcun vegetale attualmente noto. Creato questo alone di mistero e suggestione (anche a livello grafico sia nella cover che nel booklet interno), ci mettiamo all'ascolto delle quattro infinite tracce che compongono 'Eve'. Da "Arboreis" a "Laudanum", il black proposto dagli Omega si pone con un sound estremo, dilatato e siderale, che nella sua progressione, avrà modo di lasciarsi contaminare anche da doom, ambient e death metal. Se devo dare qualche punto di riferimento da accostare ai nostri, direi in prima battuta gli svizzeri Darkspace, soprattutto per l'utilizzo di quelle atmosfere rarefatte e le screaming vocals effettate in background. Tuttavia il riffing, talvolta troppo ridondante, è palesemente di matrice death e questo potrebbe fuorviare l'idea che vi state facendo del disco. "Sidera" soffia come il vento glaciale dell'Artico, anzi la vedrei bene come colonna sonora per la serie TV 'Fortitude', ambientata nelle fredde e oscure terre delle isole Svalbard, e quell'aurea di mistero che avvolge la song, bene si adatterebbe al tema lugubre della fortunata serie TV inglese, complice anche una produzione non proprio cristallina. Il disco però soffre e si avverte forte quel senso d'inquietudine che trasmette e la voglia di andare oltre alla terza "Mater". Quello che avverto in apertura qui è una certa sensazione di ultraterreno, accentuata dal suono delle campane, dal battito del cuore e dal respiro affannoso di una donna improvvisamente interrotto. Il sound prosegue in maniera ancor più funerea, con un break centrale creato da delle campane che sembrano suonare a lutto. Quest'interruzione funeral gioca sicuramente a favore della traccia, rendendola più varia, atmosferica e pertanto più fruibile all'ascolto rispetto alle prime due, soprattutto perchè il brano procede successivamente con un approccio più melodico e dinamico che rende meno stancante l'ascolto di un lavoro che sottolineo essere estremamente ostico. Soprattutto quando ad aspettarmi ci sono ancora gli oltre 16 minuti di "Laudanum" e le terribili grida che aprono la traccia in un'atmosfera da film horror. La song in realtà divampa in un assalto black/death apocalittico, con le solite ritmiche spigolose, i break doom e le urla aliene che caratterizzano in generale 'Eve'. Insomma un disco complesso, arcigno, complicato, un lavoro non per tutti ma solo per pochi adepti devoti. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 70

https://dusktone.bandcamp.com/album/eve

Monolithe - Nebula Septem

#PER CHI AMA: Death Doom Psichedelico, primi My Dying Bride, Samael
Abbastanza peculiare, ma c'era da aspettarselo, la scelta dei francesci Monolithe di affidare al numero sette, la conduzione del loro nuovo capitolo, 'Nebula Septem': settimo album, sette canzoni della durata spaccata di sette minuti l'una, e le prime sette lettere dell'alfabeto come iniziali dei titoli dei brani contenuti. Sette d'altro canto è un numero speciale, che ha una valenza particolare tra gli altri, anche nelle religioni: sette infatti sono le virtù ma pure i peccati capitali. Sono sette le divinità mitologiche identificate dalla Cabala ebraica, mentre secondo il Corano sette sono i cieli creati da Dio, sette le terre, sette i mari, sette gli abissi dell'inferno e sette le sue porte. Vi garantisco che potrei proseguire all'infinito. E allora concentriamoci su questo lavoro dedito ad un death doom moderno che ha ormai dimenticato i (ne)fasti funeral degli esordi. Il sestetto parigino (peccato non abbiano assoldato un settimo membro almeno per questo disco) attacca con "Anechoic Aberration", song plumbea che continuerà a piacere anche ai più estremisti fan della band, quelli rimasti ancorati al funeral degli esordi. La scorza dei nostri rimane infatti bella spessa, edulcorata se cosi si può dire, da psichedeliche linee di tastiera e da chitarre più ariose che in passato, con le convincenti growling vocals del provvisorio Sébastien Pierre, minacciose e feroci quanto basta. "Burst in the Event Horizon" si mostra ancor più persuasiva dell'opening track, di sicuro suona più pomposa a livello di arrangiamenti, evocando per certi versi il fantasma dei My Dying Bride più ancestrali, e lanciandosi in un lisergico e paranoico giro di chitarra che ci accompagnerà fino alla terza "Coil Shaped Volutions"; originali devo ammettere anche i titoli dei brani che in un qualche modo ci riportano alle visioni interstellari dei primi lavori. Torniamo a focalizzarci sulla song ma soprattutto sui giri di chitarra che si prendono la scena nei primi due minuti della traccia, viaggiando poi a braccetto con le keys e le roboanti vocals del frontman. La melodia non manca, cosi come non mancano i repentini cambi di ritmo e gli assoli da incorniciare tra le migliori cose fatte in ambito doom negli ultimi anni. Certo, l'effetto che questi suoni hanno sul mio cervello, appare molto simile a quello di una paurosa sbornia e il successivo e terribile hangover che da essa ne deriva. Il sound prosegue nel suo incedere pomposo anche in "Delta Scuti" (forse la traccia più rilevante del disco insieme alla deliziosa stravaganza darkwave/electro-pop della strumentale "Gravity Flood"), complice forse un cambio a livello vocale (compaiono qui infatti delle appena percettibili clean vocals) e per una maggior enfasi attribuita alla componente chitarristica, ineccepibile peraltro lungo tutto il lavoro. A colpire qui è soprattutto una componente elettronica più marcata che esalta ulteriormente la riuscita di un brano che ha ancora da offrire un'epica progressione che ci prenderà per mano per condurci attraverso differenti umori e sensazioni, fino alla stralunata "Engineering the Rip". La proposta dei Monolithe si fa ancora più sperimentale e spumeggiante, con la compagine francese a voler emulare i Samael, prima di rientrare nei canonici binari dell'oscura espressione doomeggiante dei nostri; l'assolo finale però è da applausi. C'è ancora tempo di godere della musicalità spiazzante dei Monolithe con "Fathom the Deep", una canzone che a livello ritmico e di atmosfere, sembra essere più distante dagli altri pezzi ascoltati sino ad ora, affidando il suo incedere a spettrali tastiere e a raffinate e sensuali chitarre. Per coerenza con il simbolismo del disco, dovrei attenermi e dare un sette come voto conclusivo, ma credo che andrò oltre, interrompendo qui la concatenazione del numero magico sette e avviandomi invece verso il futuro incombente del numero otto, universalmente riconosciuto come il numero dell'equilibrio cosmico. Sono certo che ci sarà da divertirsi, non vedo l'ora. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2018)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/nebula-septem

sabato 20 gennaio 2018

Sunddogs - EP

#PER CHI AMA: Heavy/Alternative Rock
Conobbi Peter Calmasini nel 1995 quando si dilettava ad essere il Kirk Hammett della situazione nei veronesi Aneurysm. Sono trascorsi 23 anni, un sacco di acqua sotto i ponti, tre album passati ahimé quasi inosservati al grande pubblico, lo scioglimento degli stessi nel 2013. Peter però è un tipo che non sa stare fermo e mosso dalla sua continua voglia di suonare, ha trovato in Mirco Beltrame, drummer dei Shelter of Leech, una valida spalla con cui iniziare un nuovo progetto, i Sunddogs. La collaborazione tra i due, coadiuvato dall'ingresso in formazione di altri tre elementi, ha portato a questo primo EP omonimo di quattro pezzi. Si parte con la criptica "Falling Down", in cui i riferimenti mi conducono, grazie alla linea vocale di Giuseppe Trovato, ai System of a Down. L'aria che si respira è decadente e malinconica, testimoniata anche dal fantastico assolo che ci delizia per quasi due minuti, con saliscendi ritmici che inneggiano alla New Wave of British Heavy Metal, il retaggio musicale del buon Peter, che alle chitarre si alterna con l'altrettanto bravo Matteo Faccincani. Mica male, soprattutto per la capacità di evocarmi tempi ormai andati. "Optimistic Ballad" ha un approccio più ruvido a livello di suoni di chitarra e le vocals qui mi convincono molto meno che nella opener, fatto salvo nella parte di quello che dovrebbe essere il ritornello. Il brano pur essendo semplice e lineare, sembra mancare di una certa fluidità e alla fine non mi scalda per nulla il cuore. Già meglio "Without Compromise", che sembra riprendere, almeno inizialmente, le medesime sonorità della opening track, per poi miscelare un alternative rock di scuola inglese (penso a qualcosa dei Porcupine Tree, con la pecca di non avere un cantante all'altezza di Steven Wilson, o anche i Muse), con un sound metallico che richiama a livello ritmico i Black Sabbath. Si arriva alla chiusura affidata al basso di Francesco Consolini che apre "Just Me", un'altra song oscura, in cui a mio avviso la voce del frontman andava tenuta ad un volume più basso; il rischio di sovrastare gli altri strumenti è infatti assai elevato, meglio invece quando assume le sembianze di un sussurro nel buio. Buono come sempre il lavoro alle sei corde, tra solismi vari e parti arpeggiate. Alla fine quello dei Sunddogs è un EP che ci fa capire per sommi capi, la proposta del quintetto veronese, ancora forse troppo confusa tra l'intraprendere una strada piuttosto che un'altra. Il tutto va sicuramente affinato, migliorato nelle parti vocali e reso un po' più sofisticato a livello ritmico, più che altro se si vuole uscire dalla notorietà di confini per lo più locali. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 65

http://www.sunddogs.com/

Backtrack Lane – In Fine

#PER CHI AMA: Indie Rock, Incubus
Devo ammettere che preferivo l'aria più seriosa di 'Black Truth & White Lies', il precedente album dei parigini Backtrack Lane che si ripresentano in pista con un nuovo EP supportato dalla Dooweet Agency. Le doti vocali di Raphael Gatti sono indiscutibili e riconducibili allo stile di cantanti spettacolari come Chris Cornell e Glenn Hughs, e musicalmente la band poteva essere accostata tranquillamente al suono dei più recenti Soundgarden ma in questa loro ultima fatica, i quattro transalpini hanno optato, a mio parere forzatamente, verso una linea orecchiabile e radiofonica che ricorda le cadute dei Queen of the Stone Age nella loro ostinata e non sempre riuscita ricetta/ricerca pop rock. E così, dall'iniziale ottima apertura di "Fifteen Minutes" che fa da ponte perfetto tra i due stili adottati dalla band, ci si avvia verso un frizzante rock venato di blues e pop, ma demotivato e scarico della vecchia adrenalina. Intendiamoci però, mi manca la tensione e l'aggressività di un tempo ma la qualità è tutt'ora alta anche se rivolta ad una forma più sbarazzina di energico rock che fa il verso agli Incubus più trendy quanto ai bravi Kasabian, che loda i coretti dei Blur d'un tempo, trasformado il quartetto della capitale francese in una sorta di brit pop band dalle marcate venature hard blues ("Breaking the Rules"). Il disco è buono ed ascoltabile (fate partire "Underground" e capirete), ben fatto ed equilibrato, piacevole, senza pecche e se staccato dal precedente, risulterebbe proprio un bell'album. Idee nuove ce ne sono ma difficilmente riuscirò a mandar giù quella sottile aria ironica e scanzonata che invade tutto il lavoro, infatuato come sono del loro precedente cd. Questo è il mio modesto giudizio ma ciò non toglie che l'invito ad ascoltare questa release sia sempre valido e ne vale sicuramente la pena, soprattutto a chi cerca una buona dose di energia positiva e scoppiettante in salsa rock da ascoltare lanciato in macchina, magari un sabato sera. Aggiungo inoltre, che se questo EP è un primo passo per rivendicare il nuovo sound di una band che cerca un posto al sole nella musica indie internazionale, non posso far altro che costatarne il valore, dire che è un salto nella giusta direzione e augurare a questi ragazzi che il loro sogno si realizzi. (Bob Stoner)

Last Leaf Down - Bright Wide Colder

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative, Katatonia
Continua l'onda lunga proveniente dalla Svizzera, a conferma del brulicare di band che si muovono all'interno del territorio elvetico. Gli ultimi che hanno polarizzato il mio interesse (non posso certo dire gli ultimi arrivati in quanto la band è in giro ormai dal 2003) sono i Last Leaf Down, quintetto del Canton Argovia che ha catturato fin dagli esordi l'attenzione della Lifeforce Music, portando la band a rilasciare sotto l'egida della label tedesca anche questo secondo 'Bright Wide Colder'. Le coordinate su cui si muovono questi ragazzi sono quelle dell'alternative/post rock/shoegaze di scuola "katatonica", che si palesa già nella opener track, "Purple Skies", con riverberi di chitarre (ben 3!) che s'intrecciano, nel corso del brano, con la voce pulita e riflessiva del frontman Benjamin. La cadenza del pezzo è lenta (ma ciò varrà un po' per tutti i brani), a tratti sognante, sicuramente malinconica, ma questa alla fine sarà la peculiarità dell'ensemble di Beinwil. Con "Blind Mind", le influenze proveniente dagli ultimi Katatonia si fanno più importanti, soprattutto se pensiamo all'approccio vocale del comunque bravo Benjamin. La musica è ipnotica, suadente, notturna, intimista e non vede quasi mai accelerazioni che possano rompere l'architettura alquanto collaudata del combo svizzero. Tutto procede con una certa linearità di fondo, il che dimostra fondamentalmente che i pezzi funzionano, anche se quello che si può rimproverare all'act elvetico è forse una certa similitudine musicale lungo i 13 brani del disco. Francamente, avrei preferito qualche song in meno a fronte di una maggior ricercatezza sonora, ma qui stiamo facendo sicuramente i puntigliosi, visto che 'Bright Wide Colder' è comunque un buon lavoro che vede i suoi punti di forza nella parte centrale del cd. A partire dalla sesta traccia, "Cold Wind", triste ma efficace nelle sue decadenti melodie, per proseguire con "Existence", che richiama ancora Renkse e soci soprattutto nelle partiture vocali. Altra menzione va a "Suspire", probabilmente il mio pezzo preferito, criptica, tribale per quel suo poggiarsi su di una vertiginosa porzione di batteria e con quelle sue celestiali atmosfere che uniscono melodie eteree con una certa sapienza compositiva ed un ottimo songwriting. Si prosegue con "Not the Same", un pezzo che mostra a tratti un carattere più rude, pur mantenendo intatta la proposta musicale dei nostri, che si muove su pattern ritmici pur sempre emozionali. Niente male anche "Dust", con quel suo depressive rock assai convincente. Da qui in poi, il disco sembra perdere un po' di verve, ecco perché forse sarebbe stato meglio puntare su una manciata in meno di brani. Sia chiaro, non stiamo parlando di chiaviche di canzoni: se "Anything" evoca chiaramente gli Anathema, ma qui qualcosa manca a livello di fluidità del brano, le conclusive "Youth" e "Transcend" suonano forse un po' troppo ridondanti rispetto alle precedenti tracce. In definitiva, 'Bright Wide Colder' è un buon album che segna la seconda tappa per i nostri alla ricerca di una maggiore notorietà. Ben fatto, poteva essere fatto addirittura meglio, ma per questo sttenderei il terzo disco. (Francesco Scarci)

(Lifeforce Music - 2017)
Voto: 75

http://lastleafdown.ch/

Púrpura - Storm I

#PER CHI AMA: Post Metal
Progetto decisamente interessante quello del duo valenciano dei Púrpura, che pur proponendo in questo 'Storm I', un post metal, devo ammettere che questo non si rifà ai soliti nomi noti e il risultato conclusivo non può che beneficiarne. Solo cinque i pezzi a disposizione per 27 minuti, in cui comunque i nostri ne combinano di tutti i colori. Mi piace l'approccio di "Voices", traccia che apre il disco, vellutata nel suo incedere, pur risultando roboante a livello ritmico, con le vocals acide tipiche del post hardcore, a sbraitare nel microfono. Il sound è fosco, cupo, tribale, ma genera una tale goduria nell'anima che non ho fatto altro che ascoltarla e riascoltarla. Proseguo sempre più incuriosito con "Two Skies", song ancor più spinta verso le viscere della terra, se esistesse l'etichetta, direi che si tratta di una sorta di funeral post metal. Ma ancora una volta, il risultato finale è sorprendente e assai piacevole da ascoltare, cosi vario e pittoresco con quel continuo incrociarsi di un basso killer con la batteria dotata di un piglio ancestrale. Il fatto che non troppo spazio venga concesso alla voce e molto invece alle atmosfere mutevoli del brano e più in generale del disco, mi fanno godere come un riccio. Un bridge strumentale, "Disruption", e siamo ahimè già alla quarta "True God", l'ultima vera traccia dell'EP, visto l'esigua durata (2.28 minuti) della conclusiva "Remain". E analizziamola "True God": lunga apertura di basso, vera star del disco, e poi man mano inserimento di batteria e chitarra, in una song forse più lineare delle precedenti ma che comunque ha pur sempre qualcosa da dire e regalare ai sensi nel suo incedere forse un po' troppo asfissiante e marziale, ma che da metà brano in più, sarà in grado di cambiare registro e con le consuete variazioni di tema, tempo, mood, è in grado di offrire qualcosa alla fine di ricercato e personale. Bravi, però la prossima volta aggiungete almeno un altro brano altrimenti cosi godo solo a metà. (Francesco Scarci)

(Nooirax Productions - 2017)
Voto: 75

https://purpura.bandcamp.com/releases

Norse - The Divine Light Of A New Sun

#FOR FANS OF: Black Metal, Deathspell Omega, Xasthur
Few bands are able to completely capture a truly unnerving and dangerous aesthetic, let alone hold to it long enough to conjure ghastly paranoid entities twixt the snares. Norse creates such destruction in the ears of this listener that it sneakily unhinges the screams of past pains carried by the now deceased that continue to haunt the house in which I still reside.

Norse is an example of an Australian band on an entirely separate level. This down under duo explores the truly disturbing in the raw and brutal black veins of Xasthur and Benighted in Sodom with a twist that calls forth the unique dissonance experienced in Demilich's 'Nespithe'. Through fantastic production that accentuates a deep bombastic bass center, Norse employs the raunchy four-stomp Immolation rhythm in a grim and primal, at times tribal, atmosphere of disorientation. Discordant squelching guitar notes touch the timbres of your ears and tumble into the lowest parts of the register, feeling as though being hooked through the cheek and dragged to Hell by your ripping face. “Supreme Vertical Ascent” immediately contorts its elements of evil into a machinery of punishment that never lets go as grainy melody in the second riff yearns to embrace its beauteous notation, but is left displaced to dissonance. This deprivation occurs frequently through the album, as when the captivating and unusual opening to “Drowned By Hope” spaghettifies the mind in a singularity's pull to its avant-garde evacuation in the center of a fresh star.

“Telum Vitae” swims through its bass groove as though Lamb of God donned corpse paint to create black metal with hardcore chest-pounding tenacity. Through the immense build comes a theatrical take on breakdown beating while the bass rejoinder in the song's second movement creates an unmistakable measure of satisfaction to compliment its insane release of aggression. The vocals crackle through the center, bass curves upward in a hulking groan, and guitars and drums drown in a swamp of blending set to endlessly intoxicate an audience with such shameless sin.

'The Divine Light of a New Sun' flows and ebbs like a rusty swing set at an abandoned school, irradiated with malice and haunted by terror. Despite its dissonant core, this calamitous black metal assault combines well with its powerful low end to sound like a full and heady extreme metal release, as displayed in the end of the title track, the Gothenburg aesthetic opening of “Synapses Spun As Silk”, and in the proximity that “Arriving in Peace, Pregnant with War” holds to grindcore. Norse takes an approach that refuses to confine itself to one genre. Instead, the music naturally and organically mutates as it searches for the boundaries of its own intensity and technicality.

It's been a long time since I have heard such a legitimately unnerving and disturbing album, something that makes a spine quiver and adrenaline pump due to such a genuinely heinous sound that diminishes and drives its deprivation so destructively downward. It truly is a pleasure to feel such evil enter your ears and undulate under your skin, an intoxicating venom that exudes omnipotence. Norse has created quite the concoction in 'The Divine Light of a New Sun' and is sure to crush you in its immense and inescapable gravity. (Five_Nails)

mercoledì 17 gennaio 2018

Antigama - Depressant

#FOR FANS OF: Grindcore, Terrorizer, Napalm Death
Since I am working with the guys from The Pit of the Damned, I have been discovering bands that I haven't even had an idea existed. Some are good and some are bad, regardless, these new discoveries had given me the experience to expand my taste when it comes to extreme metal. Antigama, a grindcore band hailing from Warsaw, Poland, is one of the new bands that I had come across in this experience. As an extreme music enthusiast, I had also found a reason to love grindcore because of its aggressive, furious, and pounding musical assault. And Antigama is what grindcore music is all about.

After seven studio records and loads of split releases, the band had mastered the realm of the genre and had crafted numerous of killer materials since their creation way back in the year 2000. 'Depressant' is the band's third EP release, since 2012, and it was unleashed last November 9th of 2017 under the flag of Polish Selfmadegod Records. Musically, nothing on this EP is that superb in construction and execution. There is no technical guitar work present, no strenuous vocal lines found, and no intricate drum work provided. But who needs those in grindcore music anyway?

'Depressant' is just the right album for those of you who just want to go out there and start a fucking pit and have fun. The EP carries 19 minutes of pure grindcore standard quality pleasure. The guitar section in here is straight up built for a fucking destructive wall-of-noise onslaught. With its fast grinding riffs that have bits of standard death metal riffing and some mid-paced crusty Celtic Frost chugging that's catchy as fuck, these offering will fucking slay anything in its path. Now the tracks in this opus never really include too many riffs to them, as the band preferred working with 3-5 riffs instead, but the outcome of a grind material is always better this way as is shown in the result of this EP. Yeah, I am one of those who believes that riff quantity does not supersede the quality or memorability of a release.

Bass section's presence can also be easily noticed in this proposal. Sure, there is a distinct Napalm Death and Terrorizer influence in the manner of playing the bass, but Antigama took that bass line behavior to next level, as the sound is definitely way more down-tuned than in any other contemporary band in the genre these days. What the band produced here is a fuzzy wall of noise, but still, it sustains a sense of heaviness and wickedness. The drumming is also pretty satisfying to the ears. Drummer's blasts are tight and precise, and his double bass work during more mid-paced moments of the tunes, is also pretty indulging. Normally, one can get bored with the fast drum assault in grindcore, but the execution of the dude behind the kit here is quite precise. He knows his ability, and where he is good at, that he does not overdo anything which might ruin it all.

I also love the back-and-forth high-low vocal screaming and grunting of the band's vocalist. The frontman has that crude and rusty voice shrieking in the old punk fashioned way which conveys a primitive feel to the whole offering. It is the classic cherry on top of the cake, if I may describe it. The Ep's production is also splendid for a Grindcore release. It’s crisp, it’s easy to perceive, and the listeners can hear every instrument, especially the bass. Everything in 'Depressant' sounds great because of the solid production, unlike most EPs from grind bands these days, this album isn’t discordant or difficult to decipher. One can immediately distinguish each instrument and what they’re trying to do.

Concluding, Antigama had put out a fine example of a release with 'Depressant' that precisely defines what a good grindcore offering is all about. It's pretty fucking straightforward and the band did not exaggerate anything. I am really glad that I discovered the band, and I am quite excited to hear more from them in the future. If you fellas have not yet grabbed a copy of this EP, I suggest that you go and purchase a copy now. This is an excellent grindcore release that sick bastards, like me, will really enjoy. (Felix Sale)

(Selfmadegod Records - 2017)

domenica 14 gennaio 2018

The Wake - Earth’s Necropolis

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dissection, Unanimated, Cradle of Filth
In Romania, quelli della Loud Rage Music hanno un certo fiuto nell'assoldare le band. Dopo i Kultika, ma prima ancora Grieving Mirth e Bereft of Light, tanto per fare qualche nome, ecco arrivare il duo rumeno/teutonico dei The Wake, da non confondere con gli omonimi finlandesi di inizi anni 2000. I nostri, sotto gli pseudonimi V e XII, ci guarniscono le orecchie con il debut 'Earth’s Necropolis' e la loro miscela di black melodico che vede nell'incipit strumentale "Proem" un buon punto di partenza per fornire fuorvianti indicazioni dal sapore dark doom sulla proposta musicale della band. Quello che posso sottolineare è un approccio musicale che guarda alla scena black scandinava come punto di riferimento. Questo diviene però palese solo nella seconda "Isolated Illusion", song dotata di un sound tagliente e melodico quanto basta per scendere a facili paragoni con bestiacce quali Unanimated e Dissection. Buono l'apparato ritmico, sempre ben bilanciato tra glaciali sfuriate black e squarci pregni di melodia che smorzano la violenza intrinseca nelle note di questi due musicisti. I brani sono diretti, secchi e brevi: "Lost Painting" dura tre intensi minuti, una tempesta il cui elemento portante, oltre allo screaming belluino del vocalist, è sicuramente il basso. Si corre sui binari di un tumultuoso post black con "Cadavers", una traccia che nei momenti più oscuri e ritmati, ha un che dei Cradle of Filth nelle sue corde. Si procede spediti e si arriva alla più criptica "Ship Of Hope" che vede il featuring al microfono di Joshua Kabe Ashworth dei christian metallers americani Society's Finest. "The Painter Of Voices" è un altro pezzo convincente che ammicca alla scena svedese, mentre le successive ed arrembanti "Earth's Necropolis" e "Trial Against Humanity" vedono altre due partecipazioni eccellenti: Michael Pilat, ex dei The Ocean nella prima e Costin Chioreanu dei Bloodway nella seconda a dare il loro prezioso contributo. In definitiva, 'Earth’s Necropolis', pur non inventando nulla di nuovo, si propone come un disco interessante per gli amanti di sonorità abrasive ma melodiche in ambito estremo. Concluderei, elogiando la lugubre cover del disco a cura di Travis Smith che in passato ha prestato i suoi servigi a gente del calibro di King Diamond, Death, Opeth, Devin Townsend e Katatonia, giusto per citarne alcuni. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2017)
Voto: 70

Kultika - Pursuance

#PER CHI AMA: Post Metal/Progressive, The Ocean, Riverside
Ecco una band che ho amato sin dal loro esordio, i rumeni Kultika. Accasatisi presso la Loud Rage Music, il quintetto di Timisoara rilascia un nuovo EP di due pezzi, intitolato 'Pursuance', come apripista ad un nuovo album schedulato per questo 2018. Un bel modo comunque per dire al mondo che la band è presente, è in forma e ha voglia di stupire. "Do You Want To See The Splendor" è la prima song, suadente, rilassata e atmosferica che per più di otto minuti ha modo di offrire le proprie melodie di pianoforte prima e di chitarra poi, attraverso un riffing convinto, riflessivo ed intimista, ed un intreccio vocale tra clean vocals, voci femminili e un growling davvero notevole. I punti di riferimento guardano ai teutonici The Ocean (anche come impianto vocale) soprattutto per quell'alternanza vocale che si muove lungo le ispiratissime linee di chitarra che trovano ancora modo di corazzarsi, gonfiarsi e spingere verso una cavalcata finale quasi al limite del post black, salvata tuttavia da orchestrazioni da brivido. Una song quasi da 10 e lode. Passo ahimè alla seconda e ultima "Unburden Me", un pezzo in acustico che mostra tutta l'eleganza di cui i Kultika sono dotati, complici una splendida voce maschile e delle atmosfere sognanti e raffinate che lasciano intuire una possibile svolta dei nostri verso lidi progressivi che ammiccano a Porcupine Tree e Riverside. I miei complimenti... (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2017)
Voto: 80

sabato 13 gennaio 2018

Stass - The Darkside

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal/Doom
Stass is a death metal quintet at the helm of Crematory's Felix Stass and Paganizer's Rogga Johansson. For fans of both Crematory and Paganizer, you guys have already a clue of what Stass' music is all about. Indeed, it is pretty much a fusion of the traditional Swedish melodic death metal and gothic metal with a soft touch of doom elements.

Those who dig the Gothenburg sound and Scandinavian approach extreme metal, will find the band's debut full-length album 'The Darkside' enjoyable. In fact, even enthusiasts of a more doom-laden music and gothic flavored extreme metal music will take a lot of pleasure on this album. However, I personally deemed this record mundane and lacking of a heavy punch. But my judgment on this offering does not mean that the whole record is not worthy to listen to.

Tracks like "Warriors Land", “Crawling from Ashes” and “The Final Disease” are foot tapping and catchy into the ears of the listeners, though it has some pretty bland characters. The warmongering spark of the guitar riffs that are accompanied by hasty and pitiless means of the tenacious drum work, brings forth a very bellicose manner to the mentioned songs. That evident blend between modern death metal and the presence of the raw essence of the genre during the early to mid-90s, can be found on the songs that I had indicated above. Perhaps, if the rest of the tunes in this offering had the same characteristics with "Warriors Land", “Crawling from Ashes”, and “The Final Disease”; the album would have been an entirely solid offering.

“Angel of Doom”, like the three songs I had uttered, is also an upside on this full-length. Its very sludgy and gloomy segments give a very nasty and hostile undercurrent to the song. The haunting mood of this one brings to mind a very similar sound that is found in the music of Candlemass and Paradise Lost. And though that unilluminated ambiance topped the whole nature of the track, its Swedish death metal feel can still be felt strongly throughout its whole playing time.

Outside the four catchy songs I mentioned, the rest of the tracks in the album are boring and to some extent frustrating due to the lack of savagery and atrociousness that a band labeled as death metal should have. I have the highest respect for both Felix and Rogga, as these two had accomplished numerous excellent recordings with their respective bands in the past, but what they had produced with Stass is just not that memorable and convincing enough to make 'The Darkside' a worthy album that should stay in every metalheads' collection shelves in a long time.

Overall, Stass had come up with a prosaic record with their debut 'The Darkside'. Yes, there are a few decent songs in this release but the rest of the tracks are nothing but a bunch of uninteresting and forgettable materials. But I am not giving up on this band yet. For all one knows, these guys might pull something off good in the future that'll make Stass a more interesting band to keep on my radar. After all, it's Felix and Rogga that we are talking about here. (Felix Sale)

(Mighty Music - 2017)
Score: 60

Kaunis Kuolematon - Vapaus

#PER CHI AMA: Death Doom, Insomnium, Black Sun Aeon
Dall'infinita distesa di lande finlandesi, ecco sbucare i Kaunis Kuolematon, con il loro secondo Lp, 'Vapaus', arrivato a distanza di tre dal fortunato debut, 'Kylmä Kaunis Maailma'. Ci troviamo al cospetto di un quintetto che abbraccia membri ed ex di Sinamore, Routasielu ed End of Aeon, tanto per citare qualche nome, non certo degli sprovveduti pertanto, bravi qui a proporre un bell'esempio di death doom cantato in lingua madre. E 'Vapaus' alla fine, affianca e sorpassa la performance del debutto dei nostri grazie ad una prova carismatica, tipica delle band finniche. I ragazzi di Hamina impressionano lungo i nove brani di questo lavoro, mostrando energia, passione e devozione per un sound che passa in rassegna altre grandi realtà locali, e penso ad Insomnium e Swallow the Sun, non dimenticando le lezioni passate di Amorphis e Black Sun Aeon. E allora dopo la suggestiva intro (che vede peraltro proporre le parole del poeta finlandese Eino Leino), ecco immergermi nel granitico ma assai melodico sound di "Eloton", pezzo assai compatto che vede la presenza di una gentil donzella a smussare le possenti growling vocals del bravo Olli. Il disco prosegue con la più dinamica "Hurskas", massiccia a livello ritmico, quanto assai fresca in termini melodici. Uno splendido break spagnoleggiante le conferisce poi quella marcia in più per prendere le distanze dai maestri e per coltivare una proposta tutta propria, dando largo respiro alle chitarre e a delle melodie che salgono d'intensità e aprono alla più drammatica "Yksin" e ad un'altra chitarra acustica da brividi. Proprio in questo, i cinque musicisti finnici cercano il cambio di marcia rispetto ad altre band che propongono questo genere: una voce pulita, opera di Mikko ed un lento e inesorabile giro di chitarre che richiamano gli Amorphis di 'Elegy', sebbene il rifferama sia qui decisamente più compassato. Poi ecco tuonare "Tuhottu Elämä" (song da cui è stato anche estratto un video), dove maggiore spazio viene concesso alle brillanti clean vocals di Mikko. Quello che continua a convincere è quell'alternanza tra atmosfere più pesanti e tirate a momenti più rilassati ed onirici, proprio come accade verso metà brano che preannuncia un finale da urlo, avvolto in una spirale di affascinanti melodie. Con "Ikuinen Ikävä" si ritorna a suoni più canonici per il genere, ma la traccia si conferma comunque dotata di un certo spessore e di una velata vena cibernetica, pur rimanendo ammantata di una spessa coltre nostalgica. "Ikaros" ripropone l'alternanza vocale tra i due frontman su di un tappeto ritmico costantemente in bilico tra death e doom, proposti però in chiave emozionale. Siamo ormai sul finire, ma c'è ancora tempo per la splendida "Arvet", che ammiccando ai Throes of Dawn, mette in luce ancora una volta le capacità canore del bravo Mikko. A chiudere, ci pensa la più melliflua e darkeggiante "Sanat Jotka Jäivät Sanomatta", ultimo atto di un signor album che merita assolutamente tutta la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Haminian Sounds - 2017)
Voto: 80

Abhordium - Omega Prayer

#PER CHI AMA: Black/Death, Belphegor, Behemoth
La Finlandia non è solo patria di band dal suono ricercato, folk, prog o power avanguardistico, è anche il luogo d'origine di mostri sacri quali Impaled Nazarene, Horna, Behexen e Azaghal, tutta gente che sa di certo come far male. A quest'ultimo stuolo di band black/death si aggiungono anche gli Abhordium, band che arriva con questo 'Omega Prayer', al traguardo del secondo Lp, proponendo un concentrato sinistro di blackened death metal. Nove i pezzi a disposizione del quintetto di Salo per mostrare i muscoli e la malignità che contorna i pezzi qui inclusi. Si apre con la ritmica frenetica di "The Chronology of Decadence" che sembra individuare nel techno death, la sfera in cui la compagine finnica si muove. In realtà, nell'apocalittico sound perpetrato dai nostri, ci sento un che degli ultimi Immortal unito a un death tiratissimo e brutale che si confermerà anche nelle successive "Channeled be My Hate" e "Asebeia", due brani diretti, killer e brutali, che non lasciano scampo. Si continua a pestare sul pedale e il canovaccio non sembra cambiare nemmeno con "Obsidian Chamber" e "Perpetual Desertification", altri due esempi di come si possa suonare veloci, ferali e assassini, proponendo un death metal che in un qualche modo sembra comunque contaminato dalle melodie glaciali del black svedese, quello dei Setherial e dei Dissection per intenderci, o di gente come Behemoth o Belphegor. Insomma, credo che sia piuttosto semplice da inquadrare la proposta del tutto genuina dei cinque musicisti finlandesi che tuttavia hanno qualche cartuccia in canna da sparare: proprio in quest'ultima citata "Perpetual Desertification", song più compassata delle precedenti, il tiro cambia e va rallentando, colpendo il bersaglio peraltro con dei chorus quasi dal sapore liturgico/esoterico che frizzano il mio giudizio conclusivo sull'album, spingendomi ad una più approfondita analisi del disco, e riponendo per qualche minuto nel cassetto, i miei giudizi su un lavoro che fin qui era risultato troppo monocorde. E di fatti, le sorprese sono dietro l'angolo anche con la marziale "At the Highest Temple" che contribuisce a rendere ancor più interessante il cd, che troppo velocemente e ingiustamente, avevo bollato come semplicemente death metal. Spettacolare infatti la traccia, cosi atmosferica nel suo incedere spettrale e orrorifico. Si torna a mietere vittime con un approccio più death oriented, all'insegna di blast-beat belluini con "Dreary Touch of the Void" e "From the Depths I Slithered", sebbene le vocals si muovano invece in territori più devoti allo screaming del black. Peccato che le sperimentazioni si siano già perse, torneranno però nell'ultima title track che ci informa che gli Abhordium hanno tutte le carte in regola per poter offrire qualcosa di originale e che spesso soffermarsi in superficie è quanto di più sbagliato ci sia al mondo. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 70

Inferno Requiem - Nüwa

#PER CHI AMA: Black Old School, Gorgoroth, Setherial
Osannati un po' ovunque, ho deciso di andare controcorrente questa volta e dire che i taiwanesi Inferno Requiem sono dei discreti mestieranti nell'ambito metal estremo e nulla di più. La band è in realtà guidata dal solo Fog, che dopo un paio di EP e un full length, torna alla carica con questo secondo lavoro intitolato 'Nüwa', un concentrato di incandescente black metal old school che attraverso i nove pezzi di questa release, si diletta nel rilasciare minimalistici riff di chitarra, sorretti da harsh vocals e una sciagurata batteria, frutto di una drum machine da incubo che irrompe schizofrenica nel contesto arcigno del disco. L'apertura affidata alla title track è devastante, con riff infernali in stile scandinavo, con Setherial e Gorgoroth in cima alle referenze del mastermind di Taiwan. Con la seconda "Ten Suns", il sound si fa più atmosferico, essendo più carica la componente tastieristica, ma non temete che anche qui non mancheranno le sfuriate ritmiche. È il turno di "Apocalypse Chaos" ove si continua a viaggiare su ritmi incalzanti, tra grida sguaiate e una batteria che diventa brano dopo brano sempre più inascoltabile. "Nefarious Moaning" si muove più su un black mid-tempo con le chitarre in tremolo picking a dare un tocco di malinconia alla proposta, ma l'effetto non è certo dei migliori. Facciamo un salto indietro nel tempo con l'inutile "The Investiture I", e suoni che potevano essere attuali forse 20 anni fa. Dicasi lo stesso per il caotico sound di "Necrobewitchment", dopo aver sorvolato sull'ambient minimal di "Mephitis Leftover". Insomma, un sound aberrante quello degli Inferno Requiem che di certo non raccolgono la palma di band più innovativa dell'anno, almeno per il sottoscritto. Serve ben altro infatti per sconfinferare il mio interesse. Per quanto mi riguarda, rimandati. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2017)
Voto: 55

https://pestproductions.bandcamp.com/album/n-wa

lunedì 8 gennaio 2018

From Oceans To Autumn - Ether/Return To Earth

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Russian Circle, Isis, Explosions in the Sky
Il post metal è un genere che non può essere delimitato in maniera definita proprio perché le strutture e i suoni propri del metal sono presi e mescolati come colori su una tavolozza atti a creare un dipinto totalmente nuovo. I From Ocean to Autumn (FOTA) hanno preso alla lettera questa caratteristica e il risultato è un disco fortemente atmosferico, carico di emotività e variegato nella composizione. Si parla in realtà di un doppio cd, per un totale di dodici brani e un milione di scenari diversi. Rieccheggiano nelle tracce le influenze di band come Earth, Explosions in the Sky, Russian Circle e personalmente mi è parso di scorgere alcuni elementi del capolavoro 'Panopticon' degli ISIS. Siamo davanti ad un lavoro totalmente strumentale che però non risulta mancare di nessuna componente musicale, i brani sono sostenuti e decisi e a volte sembra addirittura di sentirla una voce, lontana e lamentosa come se arrivasse da dietro le nuvole. Il disco si chiama 'Ether/Return to Earth' ma più che un ritorno sembra proprio una partenza, il lancio di una navicella spaziale diretta verso il pianeta abitabile più vicino alla Terra. Dalla navicella si vede la galassia che è infinita e spettacolare, le stelle sono così da far perdere il senso di sé che dolcemente si prende una pausa e si siede ad ammirare la magnificenza del cosmo. L’orchestralità è forse il maggiore punto di forza del disco, ove si susseguono, negli oltre 100 minuti di musica, un turbinio di ambienti e incastri strumentali come a voler replicare tutte le combinazioni possibili del dialogo tra i vari strumenti. L’esperienza d’ascolto è qualcosa che estranea ed eleva, non c’è niente da capire ne da risolvere, le emozioni sono trasmesse in modo diretto ed immediato, tutto ciò che è richiesto all’ascoltatore è la pazienza di osservare l’evolversi della musica. È come assistere alla formazione di una stella all’interno di una nebulosa, con la materia che si addensa lentamente e gli atomi collidono su se stessi generando energia e calore. Una menzione particolare va a “Medium”, brano diviso in due parti: i primi tre minuti sono densi di suoni sospesi a mezz’aria senza ritmica che però entra incalzante nella seconda parte accompagnata dal crepitare di valvole e dall’ululato dei feedback in un climax sonico terapeutico e rilassante. La song riassume le migliori caratteristiche della musica degli FOTA apprezzabili anche per esteso negli epici brani "Quintessence/Core" e "Stratus/Vapor" che insieme superano la mezz’ora di ascolto. 'Ether/Return to Earth' nella sua grazia eterea rifulge di luce propria e può illuminare la mente vessata dal grigiore della realtà quotidiana in un lavoro completo, chiaro nella sua identità e incredibilmente ricco di atmosfere. Consigliato a tutti gli appassionati di musica sperimentale. (Matteo Baldi)

Культура Курения / Regnmoln - Split album

#PER CHI AMA: Post Punk/Black Depressive, An Autumn For Crippled Children
Dalla glaciale Siberia ecco arrivare il quartetto dei Культура Курения (da tradurre in Cultura Fumante), dalla Svezia invece, la one-man-band dei Regnmoln, per uno split album all'insegna del post black depressive, sotto l'egida della cinese Pest Productions. Due i brani a disposizione della band di Novosibirsk per dimostrare di che pasta sono fatti: "Конфискатор" si presenta come un freddo e malinconico esempio di black mid-tempo, spruzzato di reminiscenze shoegaze e di una mefistofelica aura post rock, che si riflette nella splendida voce in screaming del vocalist Andrey Stashkevich. Ne esce una traccia sghemba, che nel finale vive la sua progressione post black tra cristallini suoni disarmonici e harsh vocals. La seconda, "2015 Холодных Зим", mette in mostra ancora le capacità della band russa nel sapersi districare tra sonorità black e post-punk malinconiche che ammiccano alle prime uscite degli olandesi An Autumn For Crippled Children, tra sonorità intimiste, sfuriate black, break acustici e cambi di tempo magistrali. Ben fatto direi. Mi avvicino a questo punto alla proposta del musicista svedese e la prima cosa che si palesa nelle mie orecchie, è una registrazione a dir poco casalinga, un vero peccato in quanto rende decisamente più difficile godere appieno di un sound che, se proposto con tutti i sacri crismi, poteva regalare maggiori soddisfazioni. Mi abbandono comunque al furente depressive black dell'enigmatico mastermind scandinavo che si diletta in "Kött Och Blod" nel proporre un suono rozzo, ma comunque efficace e pregno di melodia, complici le chitarre in tremolo picking, tra sfuriate black e momenti di calma apparente che proseguono anche nella successiva "Infektioner", song angosciante e non solo per quel suo suono troppo ovattato, ma anche per un mood malinconico che ne contraddistingue i primi 90 secondi, prima che il frontman si lanci in un'arrembante cavalcata di cosmic black, che si pone esattamente a metà strada tra Dissection e Darkspace, proponendo taglienti chitarre in un contesto rarefatto. "Tomma Ord" è l'ultima traccia dall'intro acustico e dalla progressione black mid-tempo. Alla fine, lo split Культура Курения / Regnmoln non è altro che un modo interessante per farsi una cultura di due intriganti band dell'underground europeo. Ma, se solo il nostro amico svedese avesse registrato pensando ad una resa acustica migliore, il mio giudizio finale sarebbe stato nettamente diverso. (Francesco Scarci)

Lord Shades - The Uprising of Namwell

#FOR FANS OF: Symph Death/Black
Lord Shades is a French band founded in 2001. Initially, it was a one man project, managed by the current singer and bass player Alex that was the mastermind behind the band´s music, sometimes accompanied by occasional collaborators. Such situation lasted during the demo era, and as soon as the band started to release full albums, new members were added to the band´s line-up. This four-piece line-up has been rather stable during the release of their three albums. 
 
'The Uprising of Namwell' is their last one which closes the trilogy of works based on a fictional universe created by the band members. The storyline of those works covers three different worlds. Firë-Enmek, the land of mortals and a land of suffering, Namwell which is a land of bliss and harmony and Meldral-Nok, a cursed land where only chaos and fire prevail. In this last chapter the main character, Lord Shades, has turned to the dark side and though he has become an evil creature, he is still haunted by almost forgotten memories of his previous life. This is by far the darkest and most chaotic chapter of the trilogy and the concept behind the new album. Taking into account this background, it can guess that the music included in this release must be something dark and epic, but in this occasion variety plays a major role. This is not a standard extreme metal album with an interesting concept behind, mainly because Lord Shades tries to combine different styles, like black, death and symphonic metal, even with certain thrash metal influences to make this complex trilogy a reality. The mixture makes this album an interesting beast, that requires a certain amount of listenings before fully appreciating it. Each song has its peculiar touch, and this can be confusing if you don’t listen to it with an open mind. Anyway, 'The Uprising of Namwell' has a general darker tone than the usual conceptual album with an epic story behind. The last part of this trilogy shows a dark world hit by violence and cruelty, so don´t expect “happy” epic arrangements. A good example of this idea would be the track “Woe to the (Vae Solis)”, which has the aforementioned dark and even decadent atmosphere. This doesn´t mean that this album lacks of beautiful arrangements, because this track is a good example of how Lord Shades successfully introduces atmospheric touches (female vocals and symphonic arrangements), which are a clear contrast to the general tone of track. This gives an extra point of unexpectedness, which is always great. On the other hand, songs like “The Revenge of Namwell” and “Nightly Visions" have a clear stronger tone with a massive death metal influence and they are probably the heaviest tracks of this conceptual work. Regarding the arrangements, the release is very rich in details and the range is quite wide. Those arrangements are usually symphonic-esque, but at certain times they can have a clear folk/ritual tone as it happens with “The Awakening”, which sounds quite close to Middle-East traditional folk music. At the end, the best way to understand the richness and diversity included here, is to check out the long and epic closing track, “A New Dawn”. This song sums up all the Lord Shades efforts in creating an authentic sonic representation of Namwell´s dark universe. 
 
In conclusion, 'The Uprising of Namwell' is a truly ambitious album, both conceptually and musically. The album itself is quite demanding due to its length and complexity, but its worth of it if you like conceptual albums with a wide range of musical influences. Lord Shades has managed to create a worthwhile closure to their epic trilogy. (Alain González Artola)

Fabulae Dramatis - Solar Time’s Fables

#PER CHI AMA: Prog Avantgarde
Riffoni articolati, vocals curatissime, groove e tanta sperimentazione. Potremmo riassumere con queste poche parole 'Solar Time’s Fables', l’ultimo album in studio dei Fabulae Dramatis. Si comincia dall’opener (e singolo) “Agni’s Dinasty”, con la sua ritmica trascinante, la quale passa in rassegna tutte le qualità e peculiarità del sestetto belga, a partire dai bei fraseggi chitarristici. Elemento interessante il continuo interscambio fra i 4 (!) vocalist, dal growl al canto lirico delle voci femminili, che si articolano in innumerevoli intrecci. Arriviamo a percepire una notevole interpretazione vocale, soprattutto nella terza traccia “Heresy”, dove il contrasto vocale maschile-femminile (ad opera di Hamlet e Isabel Restrepo) è accentuato da vere e proprie parti recitate più che cantate. Brano particolare anche strutturalmente, presenta un insolito riff in levare che assume, nella parte centrale, quasi un carattere da ballad, a dispetto dell’introduzione. Da segnalare anche il brano “Sirius Wind”, con l’originale intervento del sax sostenuto da un groove drum-bass, a tratti orientaleggiante. Tante idee e sfumature curate emergono da tutti i pezzi del disco, dai cori e dalle percussioni etniche in “Coatlicue Serpent Skirt” all’elettronica di “Nok Terracottas” o i sitar della strumentale “Forest”. Tutto sempre condito dai pregevoli ricami vocali delle due componenti sudamericane della band, Isabel Restrepo e Isadora Cortina. “Roble Para El Corazon” è il coronamento di questa influenza latina delle due musiciste: trattasi di un vero e proprio tango, con tanto di fisarmonica e violino, rinforzato poi dalla corazza metal della band, che si destreggia bene su queste ritmiche decisamente insolite. Ciò che emerge da questa seconda fatica del “variegato” ensemble, sono sicuramente le numerose idee che riempiono le loro particolari composizioni. Metal e non solo, perché dalla solida base prog, si delineano quelle sfumature e quegli elementi peculiari che animano ogni brano, respirando anche climi “esotici”, rispetto alla fedele spiaggia metallica. Ai Fabulae Dramatis bisogna poi riconoscere il merito di notevole impegno e di grande professionalità, come si può evincere non appena prendiamo in mano il booklet: studiato, preciso e particolareggiato, proprio come il disco stesso. Ascolto consigliato a chi non disdegna un po’ di avant-garde per colazione. (Emanuele "Norum" Marchesoni)