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domenica 19 ottobre 2014

The Bastard Sons - Roads

#PER CHI AMA: Hard Rock Blues
No, non sto per scrivere una recensione sulla band italiana omettendo la divinità greca che ne completa il nome, quindi mettete pure giù i forconi e le torce perché non ho perso il senno. Questi cinque bastardi provengono dalla vecchia York (Inghilterra) e si sono formati nel 2011. 'Roads' è il loro secondo EP ed pieno zeppo di suoni al limite hard rock e metal. Un mix che sapientemente dosato può dare ottimi risultati, quindi immaginate la mia frenesia nell'accendere il fido impianto Hi-fi e aspettare i primi giri del cd. "O' Brothel where Art Thou" apre l'EP con tutta la birra che la band ha in canna, quindi ritmica veloce e riff grossi, ma con la classica equalizzazione che fa l'occhiolino al popolo hard rock sparso nel mondo. Assoli old stile e doppio pedale nei punti giusti aiutano il brano a stare sempre in alto, senza incappare in cali di tensione che permettono all'ascoltatore di cambiare traccia o andare al bancone a prendesi la sesta o settima birra. Il vocalist è aggressivo, non ha un'estensione vocale degna di nota, ma punta tutto sul timbro graffiante, a volte un pelo troppo strozzato. "Sobre la Muerte" è il brano più riuscito, ritmica meno veloce, ma tanta botta e headbanging spinto a più non posso. Gli arrangiamenti sono stati fatti ad arte, alternando momenti più distesi che poi permettono di apprezzare al meglio l'accelerazione. Gran musicisti i The Bastard Sons, dove gli axemen trascinano la composizione dei brani, ma drummer e bassista non sono da meno. La ritmica è in continua evoluzione durante tutti i brani, sempre pulita e precisa, feeling non sempre facile da trovare. In generale i suoni sono abbastanza moderni, non ripudiando però la vecchia scuola che tanto ha insegnato negli ultimi vent'anni. Peccato per "Season End" che poteva essere sviluppata maggiormente, invece che essere tagliata a poco più di un minuto di durata. Batteria e voce carichi di effetti creano grande atmosfera, un fertile terreno per le tastiere che dominano e puntano sul fattore emotivo di chi si immerge nell'ascolto. Se la band l'avesse sviluppata maggiormente con un attacco di quelli che fanno tremare i muri, probabilmente avremmo avuto la traccia perfetta. Gli inglesi ci sanno comunque fare e questo EP non lascia dubbi, inoltre fa ben sperare nel fatto che non siano ottusamente chiusi nel genere, ma si possano aprire ad altre influenze, abbracciando vecchio e nuovo. Dai ragazzi, fatto l'EP ora datevi da fare con un vero e proprio album. (Michele Montanari)

Storm Breeder - The Knave

#FOR FANS OF: Progressive/Thrash Metal, Vektor, Abysmalia
When thinking of the term ‘One-Man Band,’ it is quite rarely used to describe Thrash acts so Australia’s Storm Breeder are in very rarified air on this debut. The most apparent factor on the album is Ben Petch’s obviously skilled guitar playing on here which is the main highlight to many of these songs as the skill-set featured here is quite varied and dynamic with just about all the main songs here ranging over seven minutes, one clocking in at nine and only one at five minutes so there’s a lot of material to get through here. The progressive influences come from the incredibly varied tempo changes and dynamics that occur throughout most of the tracks here given that their extended running time allows for such experimentation and variety to happen, while also utilizing the more renown part of Progressive Metal of incorporating the chugging guitar rhythms for its main weapon of attack here which is at times fitting to the music, while others are such radical departures that they cause the music, however well-written and composed they are to stick out quite readily throughout. Despite the length being a big factor here, the music does have a tendency to remain far-too low-key and down-tempo when it really should be a lot faster so the plodding energy can have a lowered effect on the music as a whole here when it really fails to muster any kind of energy for the music on hand. Still, the majority of the tracks here being quite good does make-up for those flaws. The title track immediately sets things in motion with a slew of proficiently arranged rhythms, challenging drum-beats and various tempo changes that showcase the talent on hand while giving off a clear view of what’s to come. A huge misstep after that fine opener, ‘Blood Stained Crown’ nearly eschews thrashing paces for simple riffs, melodic dirges and an energy level that rivals your average ballad for its extended running time, barely keeping the interest in there. The massive epic ‘Scarlet Shade of Death’ is little better with a slew of light, melodic guitars, female vocals and simple riffs throughout a near-ten minute romp that occasionally features a few harder segments but really keeps the lighter sections in play until the finale when it really thrashes away with abandon to save it, but it’s still barely eight minutes into this. Thankfully, ‘March of the Damage Men’ gets back into the energetic riffing with plenty of up-tempo patterns, technically-complex arrangements and plenty of melody while still keeping this going along nicely which makes for a more enjoyable track overall. ‘Mechanised Extermination’ opts for more industrial influences in terms of cyber-sounding keyboards and pounding drumming alongside tight, marching guitars for another rather enjoyable track here. Offering a bit of a further departure from the norm, ‘Demoniacal’ offers the kind of plodding pace, lush keyboard histrionics and melancholic vibe that recalls Gothic Metal at times, a strange choice on a straight-up Thrash record and does have a love/hate relationship to it: it’s a good song as it’s written but just seems like such a left-handed turn from the rest of the material it doesn’t mesh well with anything else. The instrumental ‘A Cold Day in Hell’ serves well as a fine break in the action with its lighter pace and plodding rhythms keeping this short and to the point. Starting off with a bang, ‘Revelation’ carries the better elements in here along with quite a few rather engaging segments that switches things up nicely and ends this on a positive note. Overall, this one isn’t that bad and has some rather decent moments to make for a rather engaging if flawed listen. (Don Anelli)

(Paragon Records - 2013)
Score: 70

https://myspace.com/stormbreeder

sabato 18 ottobre 2014

Necroart - Lamma Sabactani

#PER CHI AMA: Black/Dark/Doom, Rotting Christ, Sadness, primi Anathema
A cadenza quasi di un lustro da ogni uscita (2005, 2010 e ora 2014), tornano i Necroart, che ben avevano figurato sulle pagine del Pozzo dei Dannati all'epoca della precedente release, 'The Sucidal Elite'. Quattro anni se ne sono andati: mentre io ho perso qualche capello in più e ho messo su un po' di pancetta, il sestetto pavese sembra essere in ottima forma e non risentire dei segni del tempo. 'Lamma Sabactani' è un altro album all'insegna dell'oscurità più profonda che ancora una volta miscela black, death e doom, non dimenticandosi anche di piazzare qualche sonorità etnica. Già infatti nella title track, posta stranamente in apertura, si sentono arabeschi richiami di atavica memoria "moonspelliana". I nostri avviano poi i motori e si lanciano nella loro personale descrizione dei demoni che albergano la loro anima intrisa di morte. Il sound delle chitarre è sporco cosi come l'intera produzione di questo nuovo lavoro, le cui ritmiche potrebbero essere tranquillamente definibili rock dalle tinte progressive. Se non fosse inftti per alcune sfuriate estreme e per l'utilizzo rutilante del drumming, o le vocals che si dimenano tra lo scream, il growl e il narrato, questo disco potrebbe essere etichettato in altro modo. L'atmosfera caliginosa è comunque l'elemento portante di questa release e si conferma in tutte le tracce assai decadente, non nel senso più ruffiano che talune volte acquisisce questo termine, ma le song sono tutte assai tetre e asfissianti nella loro vestigia e i richiami musicali col passato si spingono ai primi Rotting Christ, ai Sadness di 'Ames de Marbre', agli Anathema di 'Pentecost III' (ascoltate "The Demiurge" per capire anche l'utilizzo delle vocals, cosi come fatto da Darren White all'epoca), ma anche addirittura a King Diamond, almeno a livello di ambientazioni (penso ad "Agnus Dei", traccia da cui è stato estratto anche un videoclip). In qualche traccia (la già citata "The Demiurge" e "Redemption", una specie di ballad dai toni foschi e pacati) fa anche la comparsa una eterea voce femminile, che appartiene a Gaia Fior del Coro dell'Arena della mia Verona, che già aveva collaborato in passato con i nostri. La seconda parte del disco, già a partire da "Redemption", sembra muoversi su sonorità più rilassate: "Stabat Mater" sembra suonata all'interno di una chiesa per l'effetto magniloquente dato dalle sue tastiere, dall'impronta liturgica data al suo incedere e dalla performance in stile preghiera dei due vocalist. Le conferme di un approccio più blando, arrivano anche dalla spettrale "Of Ghouls Maggots and Werewolves" e dalla conclusiva malata "Cyanide and Mephisto", un sensuale e sessuale outro che chiude brillantemente 'Lamma Sabactani'. Speriamo ora di non dover attendere un altro quinquiennio prima di avere buone nuove dai Necroart, non vorrei immaginarmi con un neonato in braccio a recensire il prossimo album. (Francesco Scarci)

(Beyond Production - 2014)
Voto: 75

http://www.necroart.net/

Huldra - Black Tides

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Neurosis
Mi accingo a recensire con gioia ed entusiasmo il quarto lavoro degli Huldra. Ormai, ogni qualvolta la band statunitense se ne esce con qualcosa di nuovo, io sono sempre li, in pole position per scoprire cosa bolle in pentola in quel di Salt Lake City, per capire se i nostri saranno in grado o no di superare i maestri di sempre. E ogni volta devo ammettere che i nostri sfiorano l’impresa nel raggiungere i gods della East o della West coast. Non che abbia già sancito che questo nuovo ‘Black Tides’ non sia all’altezza, anzi ora andiamo giusto a scoprirlo meglio. Si parte con “The Eye of the Storm”, titolo di reminiscenza “neurosiana”, dotata anche di una certa alchimia sonora che richiama inevitabilmente la band di Oakland. Le linee di chitarra si rivelano infatti distorte quanto basta per non guastarne il risultato finale, i suoni tesi e oscuri, le vocals di Matt abrasive come sempre. Solo a metà brano, trovano spazio quelle atmosfere eleganti che strizzano l’occhiolino al post-rock, che già i nostri avevano acuito nel precedente album. Non male, ma dagli Huldra le mie aspettative sono ormai molto alte. Con la title track, le cose sembrano prendere una piega diversa, migliorandone notevolmente l’esito conclusivo. A fronte di un incipit all’insegna dell’ambient, la song scorre tra chitarre in tremolo picking e rabbiosi vocalizzi. Altri dodici minuti che scorrono via rapidi e decisi, alternando sonorità caleidoscopiche che si muovono tra chiari e scuri, in cui vorrei rilevare una forte componente malinconica e un bellissimo finale corale, che ci introduce a “The Sky Split Wide Open”, in realtà semplice interludio che fa da apripista ai quindici minuti di “From Out of the Maelstrom”. Il brano apre con il tamburellare leggero di Chris Garrido dietro le pelli, e una chitarra tenue e gentile che funge da sottofondo. L’eco degli Isis in questo pezzo è assai forte, ma ancor di più l’elemento post-rock dai tratti sognanti, che per più di sette minuti ci accompagna e delizia con le sue raffinate suggestioni strumentali, prima di lasciare il posto alle ondeggianti ritmiche che vedono l’intervento di un synth fine e non invasivo a livello di arrangiamenti e l’utilizzo di qualche clean vocals. A chiudere sulle ali dell'entusiamo il disco, ci pensano i quasi 17 minuti dell’infinita (anche nel titolo) “He Was Compelled To Turn Westward Out of Some Misplaced Sense of Hope”, in cui tutte le influenze del sound degli Huldra affiorano in contemporanea. Isis, Neurosis e Cult of Luna (e forse qualche sentore di The Ocean) si ritrovano infatti nei solchi di questa lunga e ben strutturata song, che viaggia lungo i binari del post-metal desolante, graffiandoci e cullandoci con i suoi suoni marziali, educati, vagheggianti e ipnotici, in cui trova posto anche lo splendido suono di un violino. Ottimo il songwriting, da elogiare la band a livello tecnico, l’unico appunto che forse mi sento di fare in questo nuovo ‘Black Tides’, è che rispetto a ‘Monuments Monolith’, la progressione musicale, nel senso d’innovazione della proposta, è quasi impercettibile. Certo che per chi è un fan della band dell’Utah, poco importa, solo che l’impressione è che questo nuovo lavoro sia una sorta di ottime, e sottolineo ottime, B-sides del vecchio cd. In definitiva, ’Black Tides’ è un gran bell’album, ma mezzo voto in meno rispetto al passato è, per diritto di cronaca, dovuto. Comunque sia, ben tornati amici! (Francesco Scarci)

Grift - Fyra Elegier

#PER CHI AMA: Black, Kampfar
La Nordvis, deliziosa etichetta madre di questa release, ultimamente sta dando alla luce molte interessanti proposte, sempre molto discrete e coinvolgenti, e i Grift sono una di queste. Provenienti dalla fredda Svezia, terra di una sempre più proliferante scena Black Metal vissuto con estrema dedizione, sono attivi dal 2011 ma questo loro EP di debutto è uscito solo nel 2013. 'Fyra Elegier' pare sia stato ben accolto dall’opinione generale di chi come me, cerca e studia l’evolversi del sottobosco scandinavo, ma è e rimane un prodotto di nicchia, con una bassa tiratura di uscite in formato vinile, cd e audiocassetta. i Grift sono uno dei molti gruppi svedesi che stanno delineando il profilo di una seconda e credibilissima genesi di blacksters purosangue. Questo genere che io oserei definire “nuovo”, è in realtà ciò che era sempre stato il Black Metal prima della sua rovina, ossia austerità, introspezione, misantropia e profonda chiusura nei confronti di un mondo che guarda ad un futuro sempre più dannatamente falso e miserabile. Questo 'Fyra Elegier' che tradotto significa “quattro elegie” è composto da quattro canzoni che non stravolgeranno il mondo, ne si auto-proclameranno come virtuosi capolavori dell’anno perché questo “nuovo” modo di sentire e vivere il Black Metal finalmente è disinteressato e se ne sbatte le palle dei media, è pulito e vivo, ha un anima e non necessita di strafare per attirare l’attenzione dei metallari da cheeseburger che se ne stanno su youtube più annoiati dei loro stessi brufoli, né lecca il sedere alle etichette più progressiste e orientate a nuove tendenze shoegaze, nella speranza di farsi preconfezionare un bell’artwork a triangoli e farsi sbattere sul mercato come nuova rivelazione del momento. In questi 24 minuti regnano la quiete e l’armonia, a dispetto della violenza cieca e della brutalità estrema che troppo spesso è fumo negli occhi a nascondere fragilità e povertà di idee all’ascoltatore. Qui si ascolta musica dedicata alla pace eterna, fredda, profonda, una pace che solo la morte sa e può dare, scaturita dall’apertura di un intro di tristi violini che dondolanti, paiono uscire da un grammofono. Successivamente la notte discende su tutto con un cielo costellato di riff generosamente melodici, appoggiati su una batteria che come un cavallo stanco, trotta rovinosamente verso i meandri dell’oscurità assieme al suo condottiero che proclama le ultime memorie. I Grift possiedono un lato malinconico che definisce i tratti della loro musica, ma sono molto lontani dal depressive black, sono più simili ai vecchi Kampfar e ne condividono lo stesso scarno minimalismo, la stessa essenzialità che però in questo caso non è volta a raccontare storie di mitologia nordica, né ha la medesima attitudine nazionalista; qui la cosa che si sente di più, non è l’amore per la propria terra, per la propria storia passata, ma l’amore per la morte, e la rabbia verso la superficialità con cui l’uomo volge ad essa. Mi raccomando, prima di cadere nel più antico e immemorabile silenzio, nella pace ultima, prima che sopraggiunga la fine di ogni cosa… ricordatevi di ascoltate 'Fyra Elegier'. (Alessio Skogen Algiz)

(Nordvis Produktion - 2013)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Griftofficial

venerdì 17 ottobre 2014

Tartharia – Flashback (X Years in Hell)

#PER CHI AMA: Black/Death/Thrash
Eccoci al cospetto di una di quelle band “storiche” per quanto riguarda il movimento underground metal: perché storiche? Beh, essenzialmente per due motivi: il primo riguarda gli anni di militanza del gruppo, che arriva al traguardo del decennale di carriera dando alle stampe questa sorta di “best of”. Raggiungere i dieci anni di carriera per una band sono già un ottimo traguardo di per sé, ma se si suona metal estremo e non si hanno a disposizione i dobloni elargiti dalle major, il valore dell'anniversario aumenta notevolmente. Il secondo motivo riguarda invece un merito che va oltre la longevità di servizio; in questi primi 10 anni, i membri dei Tartharia si sono alternati con una frequenza simile a quella che vede (vedeva?) impegnato Lemmy accendersi Marlboro durante la giornata (per chi non conoscesse i ritmi del Kilmister, posso assicurare che la frequenza è altissima). Non saprei quantificare quanti membri infatti hanno fatto parte della band, comunque molto prolifica con la produzione di album, risultando essere più un ensemble che una band nell'accezione più tradizionale del termine. Originari della Russia, più precisamente di San Pietroburgo, come accennavo, il gruppo ha prodotto diversi lavori, giungendo a questo progetto con un portfolio dal quale pescare, di notevoli dimensioni. Gli anni di esperienza e le diverse personalità operanti nel gruppo hanno portato ad avere, soprattutto, una miriade di “stili” toccati dal sound della band, che partita nel 2002 con influenze chiarissime al melodic Black (Dimmu Borgir, Cradle Of Filth), in seguito, passa al Death/Thrash, al Melodeath fino al metalcore...la cosa chiara è che le idee comunque non erano e non sono proprio limpidissime. Un elegantissimo jewel case ospita il curato libretto, che riporta le note biografiche e le diverse copertine degli album dai quali vengono estrapolate le canzoni che compongono questa compilation; la differenza temporale delle pubblicazioni la fa da padrona in questo CD, che definire “vario” sembra quasi riduttivo, ma tutto sommato non fa affatto sfigurare le primissime canzoni del 2003, che possono godere di una produzione di buonissimo livello. In generale, il disco usufruisce di suoni ottimi, mai troppo freddi, che aggiungono piacere all'ascolto; la cosa che maggiormente si nota, è l'eterogeneità delle composizioni, che vanno a parare un po' da tutte le parti, ma in fondo in fondo senza mai troppa convinzione. Risulta essere questo il maggiore difetto del CD, che per il resto (l'aspetto meramente tecnico e formale) è davvero composto e suonato bene; certo, direte voi, è una compilation cosa ti aspettavi? Da un certo punto di vista, un disco del genere ti fa comprendere il percorso evolutivo della band, la maturazione ecc., dall'altro invece, ti lascia interdetto dinnanzi a così tanta “indecisione” sulla strada da intraprendere. Ad ogni canzone, sembra di essere di fronte ad un gruppo diverso da quello che ha composto e suonato la precedente e quello che ha composto e suonerà la successiva; di fatto, con il continuo alternarsi di elementi, non potevo trovare paragone migliore. Va bene un po' di evoluzione nel corso degli anni, ma così è davvero troppo, perchè il rischio di creare una miscellanea di suoni e note fini a se stesse è molto concreto. La questione è solo mettere a fuoco un po' meglio il bersaglio da colpire. Vi segnalo quelle che per me risultano essere le migliori tracks del lotto: la scurissima “Erotic Mutations” e le notevoli “Rape You Alive” e “Unfear”; il fatto di essere sulla scena da così tanti anni ed essere ancora in piedi, fa guadagnare al voto ½ punto. Per il resto aspetto volentierissimo il gruppo alla prossima release (si parla di 14 Novembre 2014), che sarà un CD con pezzi nuovi fiammanti; come si diceva una volta “rimandàti a Settembre!”...ops, scusate...”rimandàti a Novembre”!!!! (Claudio Catena)

giovedì 16 ottobre 2014

Antethic - Origin

#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient/Drone
Prima di leggere il titolo del brano, picchetto col piede un ritmo incalzante. Aspetto un tempo indefinito affinché i suoni trasducano in musica. Ma mi sembra che la mia attesa possa propagare i propri tempi all'infinito. "Time Forward" è un buon preludio ritmico, ma asettico. Non rimane che aspettare che passino questi sette minuti tra un rumore ed una ripetizione dai timbri noiosi. Unghie che graffiano pavimenti invisibili, che lasciano tracce organiche sui ciotoli di questa "Cheliuskin". Avanti due passi. Indietro tre passi. Sensazione confermata e riconfermata da queste sonoritá degne di un horror a basso costo. "Old Maui Girls". Distorsioni elettroniche graffiano una melodia mielosa, compenetrandola. Non sono certa che vi piacerá convertire il black ambient in un catrame travestito da tinnuoli ripetuti sino alla nausea. A sorpresa, quando avevo abbandonato le speranze di ascoltare, soggiacendo al subire quest'album, parte "This Game Has No Name". Finalmemte si respira. Le ripetizioni sono ormai una certezza, ma cambiano i suoni, le pause, i sofismi distorti e troppo artefatti, in favore di un pezzo che fa lievitare sensazioni e piacere in un ascolto psichicamente accattivante. Incredibile! La seconda parte dell'album, sembra scindersi dalla prima. "Morning Glory". Ora è ascendente il suono. La corrente dei rumori confusi, è controbilanciata da musica vitale appieno, meno distorta, tecnicamente strumentale. Concludo l'ascolto di quest'album con "White Whale", che definire ghiaccio bollente, sarebbe il piú riduttivo tra gli ossimori. Vi lascio con qualche immagine. Ferro che batte su ferro. Ghiaccio che s'infrange su ghiaccio. Correte veloci a perdifiato lungo una strada che non porta a nulla, se non all'inizio del labirinto della vostra coscienza. Ecco fatto. Avete tra le mani 'Origin'. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Antethic

mercoledì 15 ottobre 2014

Dead Mountain Mouth - Viae

#PER CHI AMA: Avantgarde, Post, Arcturus, Devin Townsend
Torna la one man band francese dei Dead Mountain Mouth, che non solo avevamo conosciuto con il precedente album, 'Crystalline', ma anche con un altro progetto parallelo, quello dei A Very Old Ghost Behind the Farm. Il polistrumentista di Tolosa, Lundi Galilao, torna questa volta con un EP, ahimè in sola uscita digitale, di tre lunghi pezzi che confermano il sound vertiginoso del mastermind transalpino. Le danze si aprono con "Mortify", lunga song di circa 10 minuti che nel suo lento avanzare mi ha evocato le ultime cose dei nostrani Ephel Duath, anche se in una versione un po' meno jazz, ma più proiettata verso i lidi della delirante psichedelia degli Oranssi Pazuzu, che già avevo menzionato nella precedente recensione. Quello che mi spinge ad accostare il progetto dei DMM alla band di Davide Tiso, è il sound astrale e disarmonico delle chitarre, alla continua ricerca di un qualcosa di sfuggente anche per l'artista patavino. Il risultato che ne viene fuori, è comunque un qualcosa al di sopra della media, che combina sonorità scevre da ogni sorta di etichetta con influenze e retaggi post, space rock e progressive. Con "Lamb", Lundi si lancia in una propria rilettura del genere estremo in cui questa volta a fondersi nell'intelaiatura, in realtà non più tanto estrema dell'act francese, si ritrovano un pizzico di elettronica e suoni cyber industriali, anche se tuttavia relegati in secondo piano con pazzesche fughe in territori, ai più, sconosciuti. Le vocals si muovono tra il growl, lo screaming e sperimentazioni avantgardiane (simil Arcturus), mentre la musica nella seconda metà del brano, imbocca strade ancor più stralunate, tra il cinematico e l'ambient, abbracciando ancora una volta la follia di Devin Townsend e altre sperimentazioni di un mondo nascosto, che testimoniano l'eccelso lavoro del mago di Tolosa. "Science and Wilderness" chiude il trittico di song spettacolari che costituiscono questa release, che auspico possa trovare quanto prima una distribuzione fisica. Non posso infatti pensare di rimanere senza il cd di 'Viae', un lavoro che mostra anche nella sua terza epica traccia (con qualche eco dei Bathory più ispirati, incredibilmente mescolati con post e non so che), quanto spazio sia ancora disponibile per offrire sonorità inusuali, innovative e all'avanguardia, che possono proiettarci in nuovi mondi tutti da scoprire... Eccellenti! (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 85

The Hong Kong Sleepover - Bolscevik Firecracker

#PER CHI AMA: Thrash/Hard Rock, Metallica, Motorhead, Anthrax
Se c’è una cosa per cui sono grato a questi quattro ragazzoni di Macomb, Illinois, è di avermi portato a conoscenza della tecnica che dà il nome alla band, della quale pare fosse un appassionato anche il compianto presidente JFK. Lascio ai lettori il gusto di soddisfare la loro curiosità in merito. Per il resto, di novità, dentro il loro terzo album, ce n’è pochina. Se dovessi descrivere la musica degli Hong Kong Sleepover direi che potete immaginarvi una cosa come 'Garage Days Inc.' dei Metallica con Lemmy Kilmister alla voce, il tutto però non così raffinato... Del resto, già una prima occhiata all’artwork (un tuffo negli anni '90, mancavano solo le figurine di Ruben Sosa e del Cobra Tovalieri) è evidente la totale dedizione dei quattro a pochi e semplici principi base, ovvero birra, ragazze, stivali, in tutte le possibili declinazioni (ragazze con stivali, ragazze che bevono birra etc...). Tutto si puó dire fuorchè gli HKS non siano totalmente e completamente onesti. Onesto, infatti, è il termine che mi viene per descrivere queste canzoni senza fronzoli, dai riff serrati e groovy, la ritmica solidissima, le chitarre sature e sporche come si conviene, con gli assoli “giusti” e la voce roca e gorgogliante. In altre parole, un disco di classico, ruvido, metal americano, per di piú orgogliosamente DIY. Onesto, appunto. Disco che si snoda lungo 11 brani né lunghi né corti, né brutti né particolarmente belli, che si lascia ascoltare anche se, man mano che i pezzi sfilano ci si chiede che senso possa avere, dopotutto, un album del genere. E l’illuminazione arriva, inaspettata, al minuto 1:26 della traccia numero 7, “Draw the Line”, quando parte un ritornello che dice, piú o meno cosí: “hey, hey, hey, hey”. La visione che si staglia davanti ai miei occhi è quella di un raduno di bikers con baffi a manubrio, intenti a roteare un pugno in aria al ritmo di questo “hey, hey, hey, hey”, mentre l’altra mano stringe saldamente una bottiglia di Miller Highlife, rivolti verso il palco dove gli Hong Kong Sleepover ci stanno semplicemente, onestamente, dando dentro. Ecco, forse è questa la chiave: se siete biker dell’Illinois, se avete sempre voluto esserlo, o anche solo se ancora oggi vi capita di uscire di casa il sabato sera indossando un gilet di pelle, questo è il disco che fa per voi. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

Godhunter - City of Dust

#FOR FANS OF: Doom/Sludge
This work is highly political, reminiscent of the American protest folk music of the 1960s, such as Bob Dylan and Country Joe and the Fish. The subject matter of "City of Dust" focuses not on general social issues, but rather sharply on issues in the state of Arizona (primarily Tucson), which leads to the conclusion that this is where these guys are from--otherwise, why would they care, unless of course these issues they write about are things which have affected them profoundly and directly? My major complaint with most records in this genre is that they usually omit lyric sheets, leaving it up for the listener to try to and decode the message. I was most impressed in that not only did Godhunter include lyric sheets, but they've provided footnotes as well, that clearly point to the circumstances of inspiration for each piece, and what it's about. Collectively, the footnotes alone add up to a half a page just by themselves. This is a very politically and ecologically aware piece, which to my experience, is not very common subject matter for metal. As I alluded to in my opening, this kind of informed protest has traditionally been the realm of folk music. The included footnotes include several books the listener is recommend to read, to help develop a better understanding of the issues the songs on this release address. Here are the recommendations: "War is a Force That Gives Us Meaning" - CHRIS HEDGES; "Rats in the Walls" - HP LOVECRAFT (short story--also the title of the second song here); "Cadillac Desert" - MARC REISNER; "Hope Dies Last" - STUDS TERKEL; "Blood Orchid" - CHARLES BOWDEN; and "La Calle" - LYDIA R. OTERO. I can see why metal would provide a more emphatic form of protest than acoustic folk. Subtlety this days tends to get lost in the noise of all the TV soundbites and the 24/7/365 news cycle that we’re all immersed in today, that didn't exist in the 1960s. Information traveled a lot slower then, so people responded pretty well to, and actually understood wry sarcasm in music. Less so these days: besides, metal has always been the best musical medium for expressing frustration and anger at things, and this guys have got that going in spades. No posing here: No Venom-like pseudo-glam fake Satanism is used here for the sake of getting publicity. These guys are REAL: they are sincere and committed to their message, and deathly serious about what they have to say. Now enough on the inspiration and on to the music itself (and there's a lot more to be found in the references on the lyric sheets. Make sure that you have them in hand when listening to this). Godhunter gives us a doomy sludge sound worthy of 'Black Sabbath's Volume 4' with a bit of 'Down II' tossed in, a sprinkling of Sleep, and a vocal style which is a cross between that of the lead vocalist of Texas Hippie Coalition and Phil Anselmo. There are 8 tracks on "City of Dust" (subtitled "A Conversation Between Hope and Despair"): (1) "Despite All"; (2) "Rats in the Walls"; (3) "Brushfires"; (4) "Snake Oil Dealers"; (5) "Shooting Down the Sun"; (6) "Palace of Thorn" (yes, that's not a typo - it says "Thorn"--singular--sans "s"--on the lyric sheet); (7) "City of Dust" (the title track), and closing with (8) "Plague Widow". This is real shit these guys are writing about: no dragons, no knights, no cosmic catastrophes, but real-life, close to home issues that this band really cares about. And these are things that they want their listeners to care about, as well. A couple of the songs include spoken introductions. The album opens (in "Despite All") with an excerpt from a speech given by Chris Hedges under foreboding synth swells (see the reference to his book in the recommended reading list cited earlier in this review): "We live now in a nation where doctors destroy health; lawyers destroy justice; universities destroy knowledge; government destroys freedom; press destroys information; religion destroys morals, and our banks destroy the economy." Track 3, "Brushfires" starts with a speech on civil disobedience Howard Zinn gave in 1971 against the Vietnam War: "Learn to disobey. So you police and you FBI, if you want to arrest people who are violating the law, then you shouldn't be here--you should be in Washington! You should go there immediately: and arrest the President and his advisors, on the charge of disturbing the peace of the world." Of note, the pace changes with the fifth track, "Shooting Down the Sun", which is a dark, deeply emotive and soulful acoustic piece with great raw, melodic vocals. It’s very similar in feeling to Black Sabbath's "Planet Caravan" or "Changes", yet imagine Joe Cocker as a metal vocalist in place of Ozzy Osbourne. In short, if you like a mix of doom and groove metal, these guys will pull you right in, and not let you go. But after you’ve given it a few spins just absorbing the feel and the vibe, sit down with the lyric sheet, and explore the deeper meaning of the songs on "City of Dust.” You'll be glad you did. This is true "Metal with Meaning"--and that's not necessarily a bad thing, at least once in a while. (Bob Szekely)

(The Compound/Battleground Records - 2014)
Score: 90

domenica 12 ottobre 2014

Sedna - S/t

#PER CHI AMA: Post Black Sperimentale, Altars of Plagues
Eccoci finalmente alla resa dei conti. I Sedna li seguo da vicino da qualche anno: era infatti la notte di Halloween del 2011 quando li conobbi e ascoltai per la prima volta, in un piccolo locale nel bresciano. Da li a poco recensii il loro EP, li intervistai in radio e da quasi tre anni attendo con ansia il tanto agognato debutto su lunga distanza. Eccomi accontentato. I tre ragazzi di Cesena rilasciano, dopo qualche assestamento di line-up, un 4-tracks costituito da più di 50 minuti di musica cupa e malefica che incarna l'anima dannatamente maledetta del trio romagnolo. Sarà verosimilmente una certa affinità musicale con i defunti Altars of Plagues, o la vena marcatamente diabolica che ristagna nel sound dei nostri, ma il self/titled dei Sedna è un qualcosa che s'imprime nella testa e marchia a fuoco come l'indelebile segno del diavolo. Ma mettiamo un po' d'ordine a tutte queste frasi che introducono 'Sedna'. Dicevamo delle quattro song che costituiscono il cd, che tra l'altro vanta un artwork in bianco e nero squisitamente angosciante. “Sons of the Ocean” apre il disco con i suoi quasi 20 minuti di sonorità tetre e caliginose: sembra infatti il suono di una nave, nelle nebbie di un porto di mare, quelle che si percepiscono nell'incipit della song, prima che le strazianti chitarre di Crisa prendano il sopravvento e ci conducano nella bolgia infernale. Le ritmiche, soffocanti e serrate, corrono veloci, ammantate da un'aura di tormentata malinconia, che sembra trovare pace, almeno per una manciata di secondi, in un break dai vaghi contorni post rock, spezzato dallo screaming efferato del polivalente Crisa. Il ritmo però va lentamente smorzandosi, sprofondando nei meandri assurdi di un cerchio dantesco, probabilmente l'ottavo, dove dimorano maghi e indovini e dove sonorità al limite del drone, fumoso e psichedelico, potrebbero farne da ideale colonna sonora. L'atmosfera è a dir poco spettrale e nel suo irriducibile climax di risalita, la tensione creata è sicuramente di forte inquietudine. L'epilogo acustico ci introduce a “Sons of Isolation”, traccia il cui inizio mi fa pensare a campane che suonano a morte. Potete ben capire lo stato di angoscia persistente che si è instaurata nel mio io, ormai turbato. E dire che non siamo, per lo meno ancora, al cospetto di sonorità depressive-sucidal, ma i giochi di chitarra e basso (a cura della brava Elyza Baphomet), mettono a nudo l'essenza della mia anima, scaraventandomi in un turbinio di ansie e paure, eccitate come elettroni impazziti, dal sound mefitico dei tre, che arriva da li a poco, a toccare il funeral doom, almeno per pochi istanti. Non temete perchè la furia omicida, dettata dal vibrante drumming di Mattia, instaura la sua feroce dittatura, lanciando i nostri in una cavalcata che ondeggia tra il post hardcore teutonico, lo sludge e il black metal cascadiano. Davvero, niente male. Se poi considerate che un incedere marziale (dal flavour leggermente shoegaze) subentra a mischiare le carte in tavola, potrete ben capire la portata di questa esplosiva miscela raggelante. A grandi passi, come quelli inferti dal drummer sul finale del brano, arriviamo alla psicotica traccia “Life_Ritual” in cui compare, in veste di guest, la litanica voce di Stefania Pedretti, meglio conosciuta per le sue performance negli Ovo e nei BTOMIC. L'effetto sul tappetto ambient drone del brano, è come quello di una strega atta a lanciare il suo peggior maleficio. In “Sons of the Ancients”, in aiuto dei nostri arriva Michele Basso (alias Mike B) dei Viscera///. L'incedere è ancora una volta funesto, ossessivo, macabro pur rivelandoci il lato più intimista dei nostri, che ben presto sfocerà in suoni altalenanti e idiosincrasici, sviscerando l'odio dei Sedna attraverso le vetrioliche vocals di Mike e conducendoci nella nona bolgia, quella dei seminatori di discordia. In definitiva, 'Sedna' è ciò che stavo aspettando da tempo dal trio di amici della Romagna, una miscela di corrosivo ed elegante post black sperimentale. Detto questo, vi lascio ai vostri incubi e io torno nel mio loculo per incontrarli, qui all'interno del Pozzo dei Dannati. (Francesco Scarci)

(Drown Within Records/Unquiet Records - 2014)
Voto: 80

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