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mercoledì 14 gennaio 2015

My Shameful - Hollow

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Shape of Despair, Thergothon, Skepticism
Dagli amici russi della MFL Records, giunge tra le mie mani il nuovo lavoro dei finlandesi My Shameful, band che probabilmente ho già incontrato sulla mia strada in un passato assai remoto. Il trio scandinavo arriva con 'Hollow' alla sesta release in quasi 15 anni di militanza nell'underground (del 2000 i loro primi 3 demo), non scostandosi musicalmente di molto rispetto ai precedenti funerei lavori. 'Hollow' include otto tracce per poco più di un'ora di musica devota agli abissi profondi, senza dimenticarsi tuttavia di propinare violente sfuriate death. Ecco quanto accade già nella ritmata opening track, "Nothing Left at All", song dall'aura macabra e dotata di una certa atmosfera mefitica che rende la lugubre proposta dei nostri, più accattivante e meno ostica da digerire. Stiamo parlando di funeral doom quindi difficile attendersi una certa dinamicità di fondo, che trova modo di manifestarsi qua e là in selvagge galoppate che fanno da contraltare a laceranti e lunghi tratti di buio pesto, che ci fanno letteralmente sprofondare nelle tenebre. Marziale è l'incedere della title track, in cui la corrosiva voce di Sami Rautio, squarcia l'avanzare offuscato e dilatato del combo nordico. Le nuvole si addensano ulteriormente con "And I Will Be Worse", traccia che mostra un ottimo songwriting e buone soluzioni melodiche nelle linee di chitarra e che non disdegna nemmeno un paio di accelerazioni, ben assestate come un pugno nello stomaco. "Hour Of Atonement" si conferma pesante e claustrofobica più delle altre, offrendo anche una certa dissonanza di fondo a livello ritmico che già avevo percepito nella seconda traccia. Con i primi 3 minuti e trenta di "The Six" si continua su questo binario costituito da ritmiche ossessive e deprimenti; poi un intermezzo ambient mi consente di distaccarmi cerebralmente da quell'universo che lentamente mi stava inghiottendo e di ripartire con delle ritmiche un po' più ariose, passatemi il termine, e devastanti. Dopo due minuti di suoni lontani, attacca "Murdered Them All", brano dalla melodia definitivamente più catchy che in un disco funeral doom, magari stona un po', ma che in questo contesto consente di prendersi una bella boccata d'ossigeno, prima di inoltrarsi alla scoperta delle ultime due canzoni. "No Greater Purpose" è la settima song, lunga e deprimente, mentre la conclusiva "Now And Forever" ci concede gli ultimi catartici e strazianti minuti di un lavoro che certamente farà breccia tra i fan della band e tra gli amanti di un genere, non cosi accessibile alle grandi masse. Un macigno sullo stomaco. (Francesco Scarci)

(MFL Records - 2014)
Voto: 70

martedì 13 gennaio 2015

Release The Long Ships - Wilderness

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze Strumentale
Dall'Ungheria ecco arrivare il progetto Release The Long Ships, misteriosa one man band dedita a un post rock strumentale. Il disco si apre con “Mist Pillars”. Song magnetica, ingorda di attenzione. Abusa di chitarre che distorcono le melodie, facendole diventare ballerine ubriache dalle ritmicità distoniche. L’intercalare sussurrato, è solo una proiezione anterograda all’epilogo metal. “Snow”: per chi non è mai stato in Giappone, si tolga i vestiti e indossi un chimono e sandali di legno, preparandosi ad inchini beffardi d’innanzi a tocchi sonori che presto sconvolgono le atmosfere che profumano di pesco, per diventare belve inferocite, il cui pasto sono solo timpani vergini a tortuosità impreviste. Sotto al chimono, spero abbiate tenuto i vostri abiti dark che odorano di borchie e di pelle nera. Vi faranno sentire a casa. “So Murmured the Wide Seas”. Seguo questa traccia che è senza inizio e senza fine. Nessuno può trovare questa via, a meno che, non se ne voglia scoprire la mappa, tra rovine oceaniche e maledizioni così ben descritte dal fondale offuscato che dipana rumori, poi suoni, poi velleità, sino a tracciare con le ultime sonorità un manto che oltraggia il senso e l’equilibrio. Questo brano termina scostante, così come è iniziato. Trovarne il senso, sarebbe renderlo contro natura. Lo abbandono. “Aether” è estasi metallica, oscillante. I suoni divengono cavi d’acciaio vibrante, il sottofondo mescola un reiterare ritmicamente orientale. L’uscita di scena dei suoni è prematura, nostalgica. Viene da allungare le braccia per trattenere il più a lungo possibile questa essenza in musica. “I Am the Sun”. Non posso che ammansire le palpebre. Chiudere gli occhi. Cercare la provenienza dei suoni. Inutile. Le sonorità sono talmente eclettiche, da creare una dimensione sonora multipla, per poi, scemare. D’improvviso gongola la musica. Per un attimo ancora, romanza su se stessa la musica. Poi il gongolio e il romanticismo si fondono in destreggi metallari che ne salvano l’anima dark senza nessuna pietà per i pregressi. Colpi inflitti e mortali annientano ogni intenzione aliena dal metal. “The Heart of Mountain”. Questo brano è un baccanale di note che sembra calare come nebbia densa su terra arata. Scava la musica. Rimangono in superficie i pensieri. Si fondono i pensieri alla terra, come un ossimoro improbabile, che sublima come foschia in un cimitero di anime erranti. Chiude “I Have Never Seen the Light”. La premessa è di un requiem metallico, sospinto da eclissi sonore sospiranti. Respiri corti. Suspance come suoni. Attese contratte e poi destate da rivoli animosi mascherati in suoni suadenti. Contrazioni. Gorgheggi strumentali. Mescolanze afrodisiache. Nulla ora mi impedisce di perdermi e vorrei che il brano non finisse. Il compendio è silenzioso. I brani sono strumentali e troppo brevi. Bellissimi. Fossi in voi li aggiungerei nella playlist del Black Friday. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 80

Haddah - Through The Gates Of Evangelia

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Dark Tranquillity, Alligator
Inforcate le mie nuove cuffie Bose (un po' di pubblicità ogni tanto ci sta anche bene), mi metto all'ascolto degli Haddah, band lombarda, che dopo quasi 14 anni, un EP e un paio di promo, giunge finalmente a esordire anche sulla lunga distanza, grazie alla sempre più attiva Beyond Productions. 'Through The Gates Of Evangelia' si presenta subito come un album arrogante, non in senso negativo sia chiaro, ma in termini musicali si tratta di un selvaggio e arrembante esempio di death metal schizofrenico che si srotola lungo le nove scarnificanti tracce che arrivano a strizzare l'occhiolino anche al death/metalcore. Niente di nuovo musicalmente, se non belle sgaloppate, bei riffoni, un cantato che si divide tra il growling e lo screaming (ottima la porzione corale di "The War of Wars"), ritmiche sghembe di scuola Infernal Poetry, qualche sverniciata di stampo swedish, frequenti cambi di tempo e un sound comunque dotato di una buona carica di groove. Le tracce, tutte più o meno brevi (assestandosi sui 3.30 minuti), scivolano via che è un piacere, facendosi notare nella anthemica "Apostasy" o nella più Dark Tranquillity oriented (era 'The Mind's I') "Get Down All the Demons". In definitiva 'Through The Gates Of Evangelia' è un disco a cui non si può chiedere granchè, se non una mezz'ora di puro divertimento e devastazione. Rocciosi. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 65

lunedì 12 gennaio 2015

Manilla Road - Out of the Abyss

#FOR FANS OF: Heavy/Epic/Power
I often rant about the undeserved fame of certain artists, whilst other, more worthy acts are left to fade away into obscurity. Thankfully, Kansas' Manilla Road never really 'faded into obscurity' - they just never received the recognition that they rightfully deserve and, even after 37 years, remain criminally underrated. Their 1988 classic "Out of the Abyss" is getting the remastering treatment soon, and though I don't think it needs any polishing, it may do the band good to boost the acknowledgement of such a phenomenal release. With regards to the remastering; the only aspect of this album which could be improved is the production quality. But remember, this was recorded 26 years ago, and the sound is certainly exemplary for the period. Well, what to say about this beast that hasn't already been said? It's a total all-out power/thrash assault. The epic scope of previous Manilla Road albums had been set aside (though not completely) to make way for a more grimy and evil timbre; the fantastical and ethereal lyrics substituted for a bit more blood and gore; and the music itself less melodic, more direct and definitely more thrash-oriented. Speedy numbers like "Black Cauldron", "Midnight Meat Train" and the title track display characteristics that would make the likes of Carnivore or Heathen blush, whilst showing more musical prowess than anything Slayer ever cranked out. The mid-paced stompers like "Slaughterhouse" and "Rites of Blood" are where the 'Road really shine. Mark Shelton's riffs get a lot more room to breathe and almost force the listener to bang their heads, especially in the former track (at the 2:01 mark). Speaking of Shelton: his vocals still have the vibrato and melodic shine that was so present on "Crystal Logic", but he now employs a far grittier scream where necessary - seriously contributing to the evil atmosphere this album exhibits. The real highlight of this album (which is almost worth the price of the album all by itself) is the utterly insane opener, "Whitechapel". This grotesque tribute to Victorian murderer Jack The Ripper is an 8-minute balls-to-the-wall thrash-fest. Keeping the energy level high, the drum rhythms blazing and the riffs vicious whilst remaining musically interesting for this length, is a feat one simply must behold. It remains utterly unjust how such a prolific band, who have released countless albums over their 37-year-career, can still be so overlooked in the metal community. However, Manilla Road have released quality material in their current state for aeons, so whatever their magic formula is, let's hope it does not waver. Now buy this album, you lowly peasant. (Larry Best)

(Shadow Kingdom Records - 2014)
Score: 90

domenica 11 gennaio 2015

Light – Cult of Light

#PER CHI AMA: Death/Dark Doom, Tiamat, Atrocity
I Light sono una band tedesca da venerare ed amare senza remore. Proprio come riporta il titolo del loro primo album, 'Cult of Light', questa band berlinese può divenire un vero e proprio culto. Uscito con l'aiuto della Black Warcult Productions nel 2014, questo scrigno di pesanti gioielli metallici potrebbe risultare uno dei migliori ascolti dell'anno appena passato. Il trio teutonico si descrive come un classico gruppo death metal old school ma i riferimenti della band, come da loro stessa ammissione, si trovano nei Tiamat, nei Celtic Frost, nei Samael e seppur in maniera molto personale, anche nel modo di suonare heavy psichedelia dei Monster Magnet. I Light hanno una marcia in più e suonano sì death metal ma con venature allucinogene che ne caratterizzano fortemente il suono, trasformandolo in veri e propri viaggi psichici con visioni metalliche futuriste e d'avanguardia, al pari di Voivod e Annihilator. Magari non sono viaggi di pura follia ed estasi come quelli del Kraut Rock ma sempre di musica cosmica si parla. La psichedelia virata in un versante metal dalle tinte fosche, dolorose e gotiche come quelle glaciali che resero i Type o Negative e gli Atrocity degli eroi. Devoti ossessivi ad un sound ipnotico, tagliente e pesante quanto lo era quello dei primi Isis nelle loro avventure post core, i tre musicisti tedeschi generano mostri sonori macabri, in continua evoluzione pur rimanendo saldamente ancorati alle radici storiche del death vecchio stile, sfornando brani compatti e catartici come pochi altri sono riusciti a fare negli ultimi tempi. L'album è folgorante, per certi aspetti piacevolmente accessibile e sempre in continuo movimento, e per cui segnalerei le song "Contrast", "Ceremony" e "Ritual" . Il metal come non te lo aspetti con richiami industrial in stile Misery Loves Co., rivisitati in veste lacera e drammatica, la claustrofobia musicale dei Bolt Thrower, il magnetismo dei Tiamat, interpretati da una stupenda voce decadente, micidiale e omicida. Sin dall'inizio il disco trasmette buone sensazioni, una sorta di idea cinematografica di un film horror ambientato nel cosmo, dove la presenza di qualcosa di letale sorprenderà e distruggerà i passeggeri all'interno della navicella che solca lo spazio infinito. Un album che abbatte i confini del death più classico per espatriare verso lidi futuristi, allucinogeni, violenti e modernisti. Una gioia per palati fini, amanti di thrash, death, gothic, alternative e psichedelia, il tutto tritato in un unico corposo cd, composto da undici brani deliziosi tutti da gustare ad altissimo volume. Una vera rivelazione! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

sabato 10 gennaio 2015

Stormhold - The Lost World

#PER CHI AMA: Melo Death, Arch Enemy, Dark Tranquillity
Devo sapere assolutamente una cosa: ma i tecnici del suono dell'est Europa hanno tutti le orecchie felpate o sono perdutamente innamorati delle produzioni simil-MIDI marchio di fabbrica del pop italiano anni '80? No perchè, in tutti (e dico tutti) i CD provenienti dalla ex Unione Sovietica che ho ascoltato recentemente, permane quel gusto vagamente kitch stile “Al Bano e Romina”, nei suoni ovviamente, così plasticosi da risultare ad un millimetro dall'orlo del baratro del ridicolo. Scusate lo sfogo, ma capirete...era dovuto. Bando alle ciance, parliamo di questo CD, debut album del gruppo Bielorusso degli Stormhold; composto da sette tracce per una durata totale di 36 minuti, i sei ragazzi ci propongono un Melodic Death Metal che abbiamo già sentito proposto da una miriade di altri gruppi (In Flames, Dark Tranquillity, Nevermore, Arch Enemy, At the Gates ecc ecc.). Diciamo che, la presenza massiva delle tastiere, invece che giovare all'economia delle composizioni, rende il tutto un po' troppo stucchevole anche quando una maggiore dose di aggressività non avrebbe guastato. Infatti la formazione sa stare sulle proprie gambe e lo fa anche piuttosto bene, ma sono proprio le scelte di dubbio gusto a “rovinare”, passatemi il termine, il lavoro. Non sono e non voglio di certo essere io a giudicare le decisioni del gruppo, ma da semplice ascoltatore alcune cose mi fanno davvero imbestialire. Questo perchè potremmo essere qua a parlare di tutt'altro disco, se solo fossero state fatte alcune valutazioni differenti dal solo punto di vista del “gusto” musicale. Le canzoni ci sono, ed alcune sono davvero belle, altre degne di nota, tuttavia nel complesso il disco non mi convince più di tanto. Punto primo: i suoni. Come diavolo si fa a produrre un disco, nel 2014, di una band sulla carta molto valida, con dei suoni del genere e mandare a rotoli il lavoro e la fatica di anni? Suoni freddi, slegati, volumi completamente sbilanciati, assoli di chitarra quasi da intuire. Ho ascoltato DEMO registrati meglio. Punto secondo: la scelta delle tastiere. A mio parere l'uso massivo delle keys fa perdere appeal all'intera proposta. Senza tastiere e con una produzione e dei suoni molto più aggressivi, ci troveremmo di fronte davvero a un disco davvero buono. Per questo, ho cercato di valutare le canzoni tralasciando gli altri aspetti, basandomi solamente sul valore delle stesse, per cui mi sento di consigliare senz'altro l'ascolto di “Wind of Freedom” e “Another Day”, oltre che della conclusiva e assai notevole “Inside My Mind”. Peccato, peccato, peccato!! Vorrà dire che vi aspetterò con ansia, miei cari Stormhold, alla prossima release: magari un po' più cattivelli, sotto tutti i punti di vista. (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 65

https://www.facebook.com/pages/Stormhold

Grisâtre – Paroxystique

#PER CHI AMA: Blackgaze, Burzum, Nortt
Terzo full lenght per la one man band francese Grisâtre, attiva sin dal 2006. Uscito per la Dusktone Records sul finire del 2014, l'opera al nero dell'artista transalpino Rokkr non lascia dubbi sulle sue intenzioni. Carico di forza emotiva sulla falsariga degli Alcest, si apre con un mid-tempo, "Meditation", dalle atmosfere decadenti e gotiche, chitarre lievi, epicità e tanta malinconia, song che merita in grande stile questo titolo. Cambiano i toni in "Contemplation", pezzo che mostra i suoi muscoli pur mantenendo una certa originale eleganza, la stessa che marchia a fuoco lo stile della band per tutta la durata del cd. Batteria in accelerazione, ritmo veloce e suono maestoso, screaming violentissimo, chiaro scuri notevoli e cambi di tempo per una performance di oltre diciassette minuti, a confermarsi come un lungo viaggio introspettivo e decadente, pieno di insidie e buie emozioni. Infinito e devastante. Drone music, degna del gran maestro Klaus Shulze sul calare del terzo brano, contornato da synth profondissimi e arpeggio cristallino appena accennato, per un momento di intimità sonora di tutto rispetto prima della drammatica discesa nei meandri più disperati dell'anima di "L'Astre Gris", inno glorioso al black metal d'atmosfera di oltre diciotto minuti con influenze classicheggianti che fanno echo ai primi Dimmu Borgir e alle intuizioni mistiche dei grandissimi Nortt, passando sempre per quell'oscura, vorticosa, gelida e minimale espressività del miglior Varg Vikernes. La chiusura dell'opera è affidata al brano che regala il titolo al disco: un lungo romantico e tenebroso assolo lo apre e si riappropria delle atmosfere più fosche e grigie espresse fin qui dal polistrumentista francese, che ne fa a ragione il suo cavallo di battaglia. Ampliando in questo brano gli orizzonti della sua musica, mescolando le carte, focalizzando il suo modo di vedere e comporre. In 'Paroxistique' il sound si fa rarefatto e più umorale, i chiaro scuri si infittiscono condensando tutti i canoni delle sue capacità compositive in un pezzo di struggente e commovente espressività. Un salto nel buio, il vuoto che riempie, la ricerca di una dimensione onirica inattaccabile, il rifugio perfetto per un'essenza superiore. (Bob Stoner)

(Dusktone Records - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/pages/Grisatre

giovedì 8 gennaio 2015

Cepheide - De Silence et De Suie

#PER CHI AMA: Black Depressive/Cascadian, Panopticon
'De Silence et De Suie' è il demo cd dei parigini Cepheide, che hanno esordito nel 2014 con questo 4-track di black depressive dalle tinte atmosferiche, che sembra rifarsi al sound degli australiani Woods of Desolation. Quattro song dicevamo, che si aprono con la desolante melodia di "A La Croiseue Des Aimes", dove urla lontane e chitarre malinconiche inquadrano immediatamente la proposta dei nostri. Devo essere sincero, il primo titolo che ho accostato ai Cepheide è stato il debut album degli In the Woods, 'Hearth of the Ages', vero capolavoro black. Poi, a poco a poco vengono fuori altre influenze che finiscono per arricchire e non poco, la musica del trio di Parigi. Un pizzico di blackgaze, sfuriate cascadiane a la Panopticon, e la voce, inequivocabilmente suicidal black, delineano in soldoni le caratteristiche principali della band transalpina che è già matura per approdare alla Pest Productions, la scuderia cinese orientata a questo versante sonoro. "Là Où Les Idoles Demeurent" parte piano con un'angosciante melodia di fondo (ideale per il suono di un carillon), prima di lasciar posto a un funesto e caotico attacco black, in cui a (con)fondersi nel marasma sonico ci sono chitarre (in tremolo picking), un drumming impazzito (opera di Orkham) e uno screaming lancinante, con la ritmica forsennata, che corre e deraglia dai suoi binari. La registrazione casalinga aiuta a mantenere un approccio totalmente raw all'intero lavoro: ne è testimone l'infausta "L’Homme Ruin" in cui la voce, totalmente indecifrabile, si infrange negli angusti anfratti chitarristici del duo formato da Destresse e Spasme (quest'ultimo anche vocalist), creando un'ambientazione che lascia il fiato corto, che preme sullo sterno e genera un'ansia spaventosa. La song, sconfortante al massimo, ci prepara ai conclusivi otto minuti di disperazione, offerti da "Deluge", song che strizza l'occhiolino al sound dissonante dei Deathspell Omega; una musica esangue che poco spazio concede alla melodia, ma che si concentra solo alla macerante decadenza di questi ragazzi. Morenti. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

mercoledì 7 gennaio 2015

Lelahell - Al Insane... The (Re)Birth of Abderrahamane

#PER CHI AMA: Death/Black, Pestilence, Nile
Quando mi è arrivato questo CD per l'ascolto, ho subito analizzato la copertina e non ho avuto dubbi riguardo il genere di composizioni che mi si sarebbero presentate: musica pesante e veloce, quel che si dice un bel disco “mazzata”. Questo perché il logo dei nostri riporta agli standard di certe band gore/death e, perché no, anche ad alcuni lavori di black melodico. Aprendo il libretto faccio però una scoperta alquanto inattesa: il gruppo proviene infatti dall'Algeria, ed alcuni testi sono scritti addirittura in lingua araba. Personalmente, è la prima volta che mi capita di ascoltare un gruppo algerino, che suona un genere così “europeo”, per non dire quasi prettamente “scandinavo”. Sorpreso, ma senza alcun tipo di preconcetto, mi appresto all'ascolto e vengo subito assalito, dopo una breve intro strumentale, da una pioggia di doppia cassa e blast beat che per un momento mi lasciano a dir poco stordito. Mai mi sarei aspettato una furia simile: i richiami a gruppi tipo Nile e Pestilence sono ben presenti, i ritmi sono serratissimi e noto anche qualche rimando a gruppi black metal storici (Mayhem e Marduk su tutti). Strumentalmente i tre algerini viaggiano a mille, le capacità ci sono e non si perde occasione per mostrarle. Il growl è a volte furioso e poco comprensibile, in altre occasioni invece si riesce a capire qualche parola (ci sono anche testi in francese, oltre all'inglese e alla lingua madre). I suoni risultano cristallini, netti, non troppo freddi e questo sicuramente è un punto a favore della band, perché posso affermare tranquillamente che la produzione risulta essere ottima, ad un passo dalla perfezione assoluta (ascoltare la traccia "Hypnose" per credere). Il ritmo viene tenuto costantemente altissimo, solo l'intermezzo strumentale "Imzad" ci concede di riprendere fiato; l'ascolto, ve lo anticipo, non sarà dei più semplici, poiché la proposta è davvero estrema. La già citata pulizia della produzione però rende il tutto più digeribile, anche se serviranno non meno di una decina di ascolti per cogliere le sfumature di questo lavoro, che merita tutta la vostra attenzione. Nonostante in qualche punto si venga colti dalla sensazione di già sentito, i valori ci sono e vengono a galla senza troppa fatica: i ragazzi sanno il fatto loro, sanno suonare, sanno cosa suonare e cercano di farlo con una perizia che raggiunge il maniacale in quasi tutti i passaggi del lavoro. Non posso fare a meno di consigliare l'ascolto di “Al Intissar”, “Voices Revealed”, “Hypnose” e la notevolissima “Am I in Hell?”. Lavoro che tutti gli amanti del genere non dovrebbero lasciarsi sfuggire, in quanto come per il sottoscritto, sarete piacevolmente sorpresi da una nuova scoperta in ambito estremo. Buonissimo lavoro, da scoprire scendendo all'inferno con i Lelahell!! (Claudio Catena)

(Self - 2014)
Voto: 75

The Pit Tips: the Best of 2014

Larry Best

Exodus - Blood In Blood Out
Psychostick - Revenge of the Vengeance
Noble Beast - Noble Beast
Overkill - White Devil Armory
Freedom Call - Beyond

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Kent

The Haunting Green - S/t
Wrekmeister Harmonies - Then It All Came Down
Horseback - Piedmont Apocrypha
Wolvhammer - Clawing Into Black Sun
Grouper - Ruins
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Claudio Catena

Mastodon - Once More Round the Sun
Judas Priest - Reedemer of Souls
Overkill - White Devil Armory
Exodus - Blood In Blood Out
Cannibal Corpse - A Skeletal Domain
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Stefano Torregrossa

Primus - Primus & The Chocolate Factory + The Fungi Ensemble
Aphex Twin - Syro
Lost Ubikyst In Apeiron - Abstruse Imbeciles Nailed On Slavery
Phish - Fuego
Meshuggah - I (Re-issue)
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Bob Stoner

Opeth - Pale Communion
Edda - Stavolta come mi Ammazzerai?
Monster Magnet - Milking the Stars: a Re-imagining of Last Patrol
Peter Murphy - Lion
Twilight - III Beneath Trident's Tomb
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Mauro Catena

Fire! Orchestra – Enter
Motorpsycho – Behind the Sun
Riccardo Sinigallia – Per Tutti
Pontiak – Innocence
Combat Astronomy – Time Distort Nine
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Francesco Scarci

Scar Symmetry - The Singularity
Sólstafir - Ótta
Lost Ubykist in Apeyron - Abstruse Imbeciles Nailed on Slavery
Ne Obliviscaris - Citadel
Fallujah - The Flesh Prevails
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Yener Ozturk

Goatwhore - Constricting Rage of the Merciless
Decapitated - Blood Mantra
Cannibal Corpse - A Skeletal Domain
Gorgasm - Destined to Violate
Eyehategod - Eyehategod
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Roberto Alba

Sólstafir - Ótta
Morbus Chron - Sweven
Behemoth - The Satanist
Deathtrip - Deep Drone Master
Mysticum - Planet Satan
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Michele "Mik" Montanari

The Slaughterhouse 5 - Alban B. Clay
YOB - Clearing the Path to Ascend
Thom Yorke - Tomorrow's Modern Boxes
Mastodon - Once More Round the Sun
1000 Mods – Vultures
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Don Anelli

Cannibal Corpse - A Skeletal Domain
Exodus - Blood In Blood Out
Accept - Blind Rage
Hatriot - Dawn of the New Centurion
Overkill - White Devil Armory

martedì 6 gennaio 2015

Corr Mhóna - Dair

#PER CHI AMA: Black/Death Folk, Enslaved, Solstafir
I Corr Mhóna sono band irlandese proveniente da Cork, che ha sfornato un album autoprodotto particolarissimo, ricco di sfumature e richiami inneggianti al mondo celtico, cantato interamente in lingua gaelica con un sound evocativo e intenso, un artwork pregevolissimo, di ottima fattura. Dotati di una buona tecnica compositiva, i nostri, dopo un demo e un EP del 2009, ritornano con questo lavoro complesso e ricercato dedito a un atmosferico folk metal dalle tinte epiche e guerriere. Molte le influenze acustiche riprese dalla musica celtica irlandese che donano malinconia e magia alle composizioni, di chiara matrice progressive black metal. Ispirate e convincenti nella loro maestosità, le tracce rispecchiano nelle parti più introspettive e sulfuree, le atmosfere mistiche dei primi Ulver e In the Woods, per poi farsi più aggressive e ricalcare i passi black dei maestri norvegesi Enslaved ed il prog folk metal degli Amorphis. Mi piace pensarli come una rielaborazione della blasonata band francese dei Northwinds, che propone un miscuglio geniale di folk celtico, prog rock e Black Sabbath, solo che i nostri quattro menestrelli suonano più oscuri, veloci e moderni. Le ambientazioni sono cariche di grigie suggestioni con una costante propensione all'opera metal in grande stile. I Corr Mhóna mostrano affinità anche con gli islandesi Solstafir ed il modo con cui sviluppano i loro brani appare sempre trascendentale, astratto e riflessivo, sia nel canto pulito che nel growl o nello screaming, senza mai scadere nel banale urlato. Gli attacchi sonici, in ottimo stile symphonic black, non degenerano mai e risultano sempre sotto controllo, ben bilanciati, e ben inseriti nei pezzi, ampliando in questo modo gli orizzonti della musica, senza farne perdere i confini, mantenendo un equilibrio di melodie entusiasmante. L'album, indicato per un solo pubblico di iniziati, estimatori e intenditori, ha bisogno di numerosi ascolti per essere apprezzato nei minimi dettagli, per scoprire il duro lavoro che si cela dietro a ogni singola traccia, e per entrare nel mondo fatto di battaglie, visioni mistiche e sciamaniche di questa band. "Daìr", con il suo magnifico intermezzo di canto corale, oltre ad essere la traccia che dà il titolo all'intero lavoro, è un brano di oltre quindici minuti posto a chiusura del cd che risulta essere la traccia simbolo di un album straordinario, sicuramente al di sopra della media. Sette brani variopinti per quarantacinque minuti di saghe celtiche degne dell'eroe leggendario Cù Chulainn, immersi nelle foreste dei druidi alla ricerca del sapere magico... Corr Mhóna... orgoglio d'Irlanda! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Ghost Bath - Funeral

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Shoegaze
La Pest Productions continua la sua ricerca di talenti e questa volta lo fa direttamente a casa propria, andando a scovare i Ghost Bath nella semi sconosciuta città di Chongqing, una delle quattro municipalità indipendenti della Cina, considerata peraltro uno degli agglomerati urbani più grandi al mondo che raccoglie milioni di immigrati dal resto del paese. Probabilmente il senso di disagio che si respira in questa metropoli, l'inquinamento e una miriade di altri problemi che popolano le grandi città cinesi, devono essersi riversate nella musica quanto mai straziante del quartetto dagli occhi a mandorla. Undici piccole gemme di un depressive black che verrà ricordato soprattutto per le ottime linee melodiche piuttosto che per le lancinanti grida dei due vocalist, a tratti davvero insopportabili. Un vero peccato perché le premesse sono a dir poco stupefacenti: "Torment", la opening track, ci offre infatti un sound all'insegna del suicidal black miscelato allo shoegaze, con le urla belluine dei cantanti, appunto, a rovinare il tutto. Le ariose chitarre, i fraseggi malinconici, le atmosfere drammatiche suggellano una prova davvero convincente che si tramuta in poesia più cupa nella successiva "Burial", una mesta sepoltura che trova sfogo nello stridore vocale dei malefici vocalist. "Silence" è un semplice arpeggio di un paio di minuti che straripa in una cascata emozionale nella successiva "Procession", song che si arricchisce di ulteriori influenze derivanti dal Cascadian black metal, una splendida cavalcata in mezzo ai boschi, attraversando fiumi e cascate, scalando montagne e raggiungendo la vetta dei nostri sensi. Splendida. Ma è una bellezza incompiuta che avrebbe tratto maggior beneficio se, anziché udire l'ululato assurdo nel microfono, magari si fosse sussurrato, narrato o cantato in modo pulito o con uno screaming decisamente più convenzionale. La cosa drammatica è che 'Funeral' avrebbe in effetti le carte in regola per essere un signor album, per piacere ai fan di Alcest, Deafheaven o Shining indistintamente. Il problema, e mi spiace averlo più volte sottolineato, risiede nella performance, a dir poco mediocre, dei due cantanti. Se siete in grado però di superare lo scoglio delle urla belluine, vi garantisco che vi innamorerete delle song celestiali fin qui descritte, per continuare con "Dead", passando dalla delicatissima "Sorrow", l'elettrizzante "Calling", e la più desolante "Continuity", fino alle un po' più sconclusionate song finali in cui i Ghost Bath si perdono per strada. Per concludere, a parte suggerire un cambio di ugola e una migliore produzione, quello dei Ghost Bath è un disco che va testato, nella speranza di un futuro migliore. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

Celesterre - A Blooming Spring

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
Con il loro ultimo lavoro 'A Blooming Spring', i Celesterre si fanno portavoce dell'umanità in un concept EP dalle tinte apocalittiche e sibilline. Dopo il lavoro d'esordio omonimo del 2012, il quartetto olandese propone un genere che parte dall'heavy metal per arrivare a toccare altri stili. La trama del concept - sviluppato in 5 brani - prende in considerazione l'estinzione umana a causa dell'inesorabile approssimarsi della Terra, nella sua rotazione intorno al Sole. Ogni brano tratta questo catastrofico evento da un diverso punto di vista. "Celesterre Burns In Gold", nella quale la band si pone a rappresentare l'umanità intera, vede il nostro pianeta letteralmente inghiottito dall'enorme disco d'oro che è il Sole, immaginando una realtà ustionata dalle radiazioni solari. "The Droning Earth" descrive invece il pianeta come scosso da convulsioni febbrili, in terremoti che muovono gli oceani, a simboleggiare un genere umano rigettato dalla Terra come una malattia. In "A Blooming Spring", la fine dell'uomo è arrivata...il cancro è stato estirpato a fuoco, la primavera di una nuova era è descritta, alimentata dalla morte nel ciclo vitale e resa da questa rigogliosa. "Vegetation Terror" vede la natura dilagare e allungare le sue dita frondose su tutto ciò che prima apparteneva all'uomo, e inconsapevole si riappropria di ciò che le era stato tolto. "Dust" interpreta chiaramente la frase: polvere eravamo e polvere ritorneremo. La coscienza umana dona il proprio corpo, trasformato in vita dai microrganismi, affinché nutra la terra, prima che essa si fonda con il sole... Sebbene queste tematiche non rappresentino una novità dal punto di vista concettuale, s'inseriscono comunque tra i punti di forza di questo lavoro e, grazie a un songwriting d'effetto, seppur appesantito dall'uso di termini eccessivamente ricercati e un incedere talvolta criptico, rendono questo EP strutturato e non banale. La opening track da il via alle danze con un arpeggio acustico subito accompagnato dal basso, il tutto circondato da inquietanti feedback. L'arpeggio prosegue poi sovrapponendosi all'attacco della strofa e andando con essa in controtempo. La prima strofa cantata s'apre subito con declamatoria veemenza, contrappuntata dalle parti corali nel grido "Burn!". Il chorus, meno aggressivo e preceduto da un ponte interessante nel quale il basso esce allo scoperto, distende ritmica e parti accordali. Dopo il secondo chorus un assolo misurato e non virtuosistico precede la parte finale, caratterizzata da ritmi serrati alla batteria, tappeto di basso e chitarre ritmiche e una voce secondaria più delicata, che s'alterna a samples di registrazioni parlate tratte da documentari scientifici, prima che il pezzo termini improvvisamente. Un discreto pezzo d'apertura che non dona ancora però un'idea completa dello stile della band. La seconda traccia si scaglia improvvisa con un ritmo quasi tribale e delle vocals immediate, che appaiono nella loro distribuzione un po' scollate dalla musica. Con degli effetti resi in un'interpretazione stravagante, che punta a creare una sorta di polimorfismo vocale. Il chorus, più disteso, spezza quasi il ritmo a creare un inno non privo di drammaticità ed epicità. Poi il ritmo s'anima nuovamente per le nuove due strofe, ciascuna dalla differente base strumentale, prima del nuovo chorus che porta con sé una variazione nell'arrangiamento, oltre che un'efficace pausa improvvisa. Nella struttura complessiva il pezzo ricalca il precedente, ma si differenzia nelle code del finale, che è qui più strutturato e interessante. Un brano che non aggiunge molto di nuovo a quello d'apertura se non una maggior omogeneità e coerenza strutturale, nonché una maggiore fluidità. E' solo con la title track, brano fra i più significativi dell'EP, che la band esce allo scoperto per quella che è. Suoni di uccelli e ronzii d'api precedono ritmi distesi contrappuntati da pause, che rendono questo inizio a blocchi accattivante. Questo incedere più aperto e cadenzato permea tutto il brano, e il cantato, più asservito e amalgamato alla musica, risulta più efficace. A metà brano il riff iniziale viene variato e alternato a scariche di grancassa e basso ove prima vi erano pause, su questa base si staglia un assolo, che viene poi abbandonato a se stesso a fungere da introduzione a una parte acustica, sostenuta da un bel giro di basso, che ricorda i germogli dei primi Opeth in "Black Rose Immortal". Davvero bello questo passo quasi sussurrato da parte di strumenti, voce ed effetti sonori. La parte finale ricalca la struttura del brano precedente, ma in veste più "ragionata". Il quarto brano esordisce con una chitarra "ronzante" cui si aggiunge poi la seconda per un effetto creato da trilli cromatici simili a quello del volo di un calabrone, il tutto preceduto da pochi blocchi introduttivi. Poi un altro blocco interrompe tutto, cui segue una coda di sirena creata dalla lead guitar e un grattare secco della ritmica che simpatizza per stilemi thrash. Questa introduzione vale tutto il brano, che prosegue infatti senza notevoli novità ad aggiungersi agli episodi precedenti, eccetto i ritmi incalzanti, la ripresa del tema iniziale e una chitarra solista tematica che si destreggia in assoli che accompagnano strofe e chorus. Un pezzo comunque buono, che si affianca alla title track per importanza e vi aggiunge la presenza di parti solistiche di chitarra molto corpose e virtuosistiche, anche se si distacca da essa per il finale tronco, accostandosi invece alla chiusura del brano iniziale. L'ultima traccia appare come un'evoluzione della sezione strumentale centrale della title track. Il testo è essenziale e minimale, ma nel suo parlato, ad aggiungersi alla guest vocal femminile (Miriam), s'impone come il pezzo con le vocals più riuscite. Centrale qui però risulta la musica (punto di forza della band) e il tutto ne trae vantaggio. Non si può parlare di vero e proprio brano, ma sicuramente questo pezzo di chiusura ha il ruolo di finale per tutto l'EP e l'annesso concept. Sicuramente una conclusione d'effetto che lascia il segno. Già dal primo brano i Celesterre si presentano come una band controversa, nella proposta del genere, nel rapporto fra tematiche affrontate e musica, per arrivare agli indiscutibili pregi e agli evidenti difetti. La scelta di toccare caratteristiche del doom e del black partendo da una solida base heavy è sicuramente coraggiosa e non comune, se poi aggiungiamo a questo tematiche permeate da fatalismo e amore per la natura, unite a un'accusa implicita all'umanità per il suo operato, ci si trova certamente di fronte a molto materiale, musicale e non, da plasmare. I nostri son riusciti con successo solo in parte in questa impresa. Sicuramente nel complesso il lavoro suona abbastanza omogeneo, con brani che sconfinano più di altri verso generi differenti (come il riff principale poi variato in "A Blooming Spring", accompagnato da lente cadenze ritmiche che rimandano a caratteristiche doom o lo sviluppo finale di "Celesterre Burns In Gold" che varia il riff principale con una base ritmica in blast beat strizzante l'occhio al black), sempre con una certa continuità negli arrangiamenti e una buona capacità compositiva. Non mancano poi gli effetti sonori introduttivi a suggerire ambientazioni naturali, riprendendo le tematiche trattate, anche se non vi è mai una fusione completa tra queste allusioni e ciò che comunica la musica. La controversia più grande vi è però nel cantato che, seppur s'inserisca in uno stile di formazione heavy, suona quasi come un declamato, e ciò potrebbe anche risultare interessante, non fosse per alcune parti che tradiscono un'insufficiente padronanza nella tecnica vocale del frontman Wouter Klinkenberg (che ha però il merito di essere autore di musica e testi oltre che chitarrista). Critiche negative non possono invece certamente esser mosse alla sezione strumentale che, con una base ritmica di basso (Jason van den Bergh) e batteria (Tim Zuidema), solida e dall'ottima abilità strumentale, riesce a presentare bene a livello esecutivo il materiale musicale. Lo stesso dicasi per la sezione delle chitarre (del già citato frontman e Floris Kerkhoff), buona sia nella sua parte ritmica che in quella solista, senza sforare in tecnicismi fine a se stessi e senza esser troppo banale, con l'unico neo di esser talvolta un po' meccanica nelle parti soliste più semplici e non valorizzata dal sound generale poco pulito a livello di registrazione. Quest'ultima suona molto "vera" come fosse una presa diretta, e comunque presenta un sound generale buono, anche se in alcuni punti alcuni strumenti e la stessa voce vengono quasi inghiottiti dalle frequenze degli altri strumenti (come il sole farà con la terra in questo concept). L'artwork è tratto dal dipinto di Frederic Edwin Church (1826-1900) "Rio de Luz" e si sposa all'immaginario che suscita il testo di "Vegetation Terror" con una certa efficacia, anche se nella sua grazia e raffinatezza idilliaca spiazza l'ascoltatore circa l'impressione che scaturirà secondariamente dall'ascolto della musica che, soprattutto per via delle vocals, risulta cruda e pe(n)sante tanto quanto si pongono disincantati e profetici i testi. Una nota di demerito va al logo, assolutamente non coerente al carattere di band e songwriting, non attinente a livello cromatico e grafico rispetto allo sfondo e dal sapore "standard font". In ultima analisi ci si trova di fronte all'arduo compito di mettere sul piano della bilancia pregi e difetti. Purtroppo alcuni difetti pesano più di taluni pregi e la valutazione che ne scaturisce è una media tra una sezione vocale che non raggiunge la sufficienza e una sezione strumentale che supera una valutazione buona. Prendendo poi in considerazione la breve durata del lavoro e il fatto che si tratta di un secondo capitolo nel curriculum dei Celesterre non è possibile forzare la mano nella valutazione, ma è augurabile un superamento dei difetti che porti un cambiamento strutturale e innalzi il livello di una band dalle buone potenzialità. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 65

Kelvin - CD01

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Punk/Hardcore
I Kelvin sono un duo padovano (Anna alla batteria e Woolter alla chitarra e voce, in questo lavoro c'era anche Andrea a dar man forte) nato nel 1999 e che ha all'attivo vari lavori, tra cui questo 'CD01' autoprodotto nel 2001/2002 e poi ristampato dieci anni dopo da MacinaDischi, etichetta fondata dalla stessa band. I Kelvin sono una band storica della zona e questo debutto mette in risalto la genialità di un'idea e del progetto che ha scaturito. Il duo ha preso una base noise/post punk & hardcore, nuda e cruda, ha scarnificato la musica e ha reso livida e rabbiosa ogni singola parola pronunciata. Il cd racchiude diciassette tracce brevi e intense, frammenti che si incastrano a formare un quadro di arte contemporanea dove la tela è graffiata, strappata e umida di sudore e sangue. I suoni sono scarti, vittime di una registrazione DIY (do it yourself), ma sono perfettamente in linea con l'idea della band e del genere. Una registrazione super raffinata avrebbe tolto groove e impatto, di questo ne siamo certi. Ci sono brani come "Go Away" che prendono liberamente spunto da band come i Sonic Youth, ma con suoni accattivanti e voce acuta alla Beastie Boys. Non vi dirò che i riff siano estasianti, innovativi e quanto di più creativo si possa ascoltare, ma c'è botta da vendere e groove. Quello che ti fa muovere, sgomitare davanti al palgo o muovere la testa anche se sei in macchina da solo in mezzo al cazzo di traffico. "Mazurka" invece ha un intro con uno dei preset di tastiera più assurdi di sempre, poi entra la batteria che detta il ritmo con una cadenza militare e la marcia ipnotica e tesa a fil di nervi arriva fino alla fine. Il vocalist declama versi come un despota davanti alla folla vittima e sottomessa. Un viaggio allucinante, breve si, ma che vi lascerà sicuramente una retrogusto in fondo alla gola. Amaro, acido oppure metallico, non importa, ora siete pronti a sentire altri brani dei Kelvin. (Michele Montanari)

(Macina Dischi - 2011)
Voto: 80

Absinthe River - Echoes of Societal Dysfunction

#PER CHI AMA: Heavy/Hard Rock 
#FOR FANS OF: Heavy/Hard Rock
La schiera di recensori/musicisti del Pozzo dei Dannati si allarga con la release di Bob Szekely e i suoi Absinthe River, trio di Colorado Spring, che debutta con 'Echoes of Societal Dysfunction'. Si tratta di un disco di sette pezzi, dediti ad un heavy/hard rock old school. Accendere lo stereo e far partire "Followers of Dogma" è stato un vero back in time per me, un tuffo nel passato che mi ha ricondotto agli anni '80, quando per la prima volta mi avvicinavo, da pivellino, al metal e magari mi spaventavo dinanzi al riffing dei Metallica di 'Ride the Lightning' o all'assetto ribassato dei Black Sabbath, ecco due nomi non proprio messi lì a caso, anche se non rappresentano certo le influenze cardine del trio del Colorado. Qualcosa di atavico comunque ristagna nel sound dei nostri, cresciuti sicuramente a birra, cicchetti di whiskey e hamburger. La song ringhia che è un piacere e si muove tra l'heavy e il doom con una voce votata all'hard rock. Vista l'intercambiabilità dei vari musicisti polistrumentisti, il vocalist cambia nella seconda song, "Broken Sky" e un eco dei primi Metallica lo avverto, ma anche un che dei Candlemass. Anche se la produzione appare quasi casalinga, le idee e la voglia di divertirsi non mancano di certo al combo composto dal nostro Bob, Rob Rakoczy e Steve Stanulonis. Con la terza "Seeker of the Light", è Bob che torna alle vocals con un cantato simile a quello di King Diamond, mentre la musica gioca a richiamare oscure visioni ottantiane, con un duplice assolo finale, uno più rock oriented e un secondo più vicino al blues rock, a dimostrare comunque una spiccata versatilità della band statunitense. Con "Spirit Journey in Modernity", il ritmo si fa più spettrale e anche un po' più affascinante, e soprattutto meno etichettabile. "Haunted Emotions" è un pezzo di poco più di tre minuti di tenue hard rock che si affida ancora una volta alla sciabolata del suo assolo conclusivo, cosi come la darkeggiante "Swing Doors", tre minuti di suoni all'insegna di synth, programming e chorus femminili, in una traccia dall'andatura un po' sghemba. Diciamo che arrivati alla conclusiva "Aurora (The James Holmes Shootings)", non vi è rimasta alcuna traccia degli Absinth River dei primi tre pezzi, che si erano rivelati decisamente più pesanti. Quest'ultima è una sorta di ballad dal forte sapore settantiano, che si evolverà in pochi minuti, a un suono stile videogame ed infine rock, a completare quindi un disco che forse non fa dell'omogeneità sonora il proprio punto di forza, ma che comunque merita un vostro ascolto e un eventuale download (gratuito) dal sito bandcamp. Stralunati. (Francesco Scarci)


The team of reviewers / musicians of the Pit of the Damned grows with the release of Bob Szekely in Absinthe River, a trio from Colorado Springs, in their original debut 'Echoes of Societal Dysfunction.' It's a release of seven pieces devoted to a heavy / hard rock old school sound. To turn on the stereo and listen to "Followers of Dogma" truly took me back in time: drawing me into the past back to the 80s when for the first time Heavy Metal drew me in. On my first exposure to the genre, I was excitedly frightened by the riffing of the Metallica’s 'Ride the Lightning' or even those of Black Sabbath, two extraordinary bands. The Absinthe River sound is mired in the influences of this early era of metal, certainly grown in beer, shots of whiskey and burgers. The song growls: a pleasurable sound, as it moves between heavy and doom with a voice devoted to hard rock. Given the interchangeability of these multi-instrumentalists, the vocalist changes to Rob Rakoczy in the second song, "Broken Sky" and his voice echoes that of Metallica as well as Candlemass. Although the production seems a bit basement grown, The ideas and desire to have fun shines through with this combo composed of Bob Szekely, Rob Rakoczy and Steve Stanulonis. By the third song "Seeker of the Light", It’s Bob who returns to vocals sung in a style similar to King Diamond, while the music recalls more obscure visions of the 80's with a dual final solo: one more rock oriented, and the second more blues rock. This shows, however, the remarkable versatility of this US band. With "Spirit Journey in Modernity", the pace becomes more ghostly and even a little more fascinating. "Haunted Emotions" is a piece of a little over three minutes of tenuous hard rock that resolves once again to the saber of the final guitar solo. The dark "Swing Doors", roughly three minutes of dedicated synth programming and female chorus, is a track that’s a little skewed: as it is a departure from the style of the earlier tracks, being more pop than metal. And now we’ve come to the finale "Aurora (The James Holmes Shootings)", there is no trace of the Absinthe River sound found in the first three pieces, which proved much heavier. This last tune is kind of a ballad with a strong 70s flavor, which evolves a few minutes into a sound style of videogame rock. Although this CD may not be something to your liking, it definitely deserves your listening and a possible download (free) from the band's website. Thunderstuck.

(Kludgeworks Garage Productions - 2014)
Score: 65


(Reviewed by Francesco Scarci, Translated by Deborah S Szekely and Edited for clarity and flow by Robert E Szekely)