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martedì 6 gennaio 2015

Celesterre - A Blooming Spring

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
Con il loro ultimo lavoro 'A Blooming Spring', i Celesterre si fanno portavoce dell'umanità in un concept EP dalle tinte apocalittiche e sibilline. Dopo il lavoro d'esordio omonimo del 2012, il quartetto olandese propone un genere che parte dall'heavy metal per arrivare a toccare altri stili. La trama del concept - sviluppato in 5 brani - prende in considerazione l'estinzione umana a causa dell'inesorabile approssimarsi della Terra, nella sua rotazione intorno al Sole. Ogni brano tratta questo catastrofico evento da un diverso punto di vista. "Celesterre Burns In Gold", nella quale la band si pone a rappresentare l'umanità intera, vede il nostro pianeta letteralmente inghiottito dall'enorme disco d'oro che è il Sole, immaginando una realtà ustionata dalle radiazioni solari. "The Droning Earth" descrive invece il pianeta come scosso da convulsioni febbrili, in terremoti che muovono gli oceani, a simboleggiare un genere umano rigettato dalla Terra come una malattia. In "A Blooming Spring", la fine dell'uomo è arrivata...il cancro è stato estirpato a fuoco, la primavera di una nuova era è descritta, alimentata dalla morte nel ciclo vitale e resa da questa rigogliosa. "Vegetation Terror" vede la natura dilagare e allungare le sue dita frondose su tutto ciò che prima apparteneva all'uomo, e inconsapevole si riappropria di ciò che le era stato tolto. "Dust" interpreta chiaramente la frase: polvere eravamo e polvere ritorneremo. La coscienza umana dona il proprio corpo, trasformato in vita dai microrganismi, affinché nutra la terra, prima che essa si fonda con il sole... Sebbene queste tematiche non rappresentino una novità dal punto di vista concettuale, s'inseriscono comunque tra i punti di forza di questo lavoro e, grazie a un songwriting d'effetto, seppur appesantito dall'uso di termini eccessivamente ricercati e un incedere talvolta criptico, rendono questo EP strutturato e non banale. La opening track da il via alle danze con un arpeggio acustico subito accompagnato dal basso, il tutto circondato da inquietanti feedback. L'arpeggio prosegue poi sovrapponendosi all'attacco della strofa e andando con essa in controtempo. La prima strofa cantata s'apre subito con declamatoria veemenza, contrappuntata dalle parti corali nel grido "Burn!". Il chorus, meno aggressivo e preceduto da un ponte interessante nel quale il basso esce allo scoperto, distende ritmica e parti accordali. Dopo il secondo chorus un assolo misurato e non virtuosistico precede la parte finale, caratterizzata da ritmi serrati alla batteria, tappeto di basso e chitarre ritmiche e una voce secondaria più delicata, che s'alterna a samples di registrazioni parlate tratte da documentari scientifici, prima che il pezzo termini improvvisamente. Un discreto pezzo d'apertura che non dona ancora però un'idea completa dello stile della band. La seconda traccia si scaglia improvvisa con un ritmo quasi tribale e delle vocals immediate, che appaiono nella loro distribuzione un po' scollate dalla musica. Con degli effetti resi in un'interpretazione stravagante, che punta a creare una sorta di polimorfismo vocale. Il chorus, più disteso, spezza quasi il ritmo a creare un inno non privo di drammaticità ed epicità. Poi il ritmo s'anima nuovamente per le nuove due strofe, ciascuna dalla differente base strumentale, prima del nuovo chorus che porta con sé una variazione nell'arrangiamento, oltre che un'efficace pausa improvvisa. Nella struttura complessiva il pezzo ricalca il precedente, ma si differenzia nelle code del finale, che è qui più strutturato e interessante. Un brano che non aggiunge molto di nuovo a quello d'apertura se non una maggior omogeneità e coerenza strutturale, nonché una maggiore fluidità. E' solo con la title track, brano fra i più significativi dell'EP, che la band esce allo scoperto per quella che è. Suoni di uccelli e ronzii d'api precedono ritmi distesi contrappuntati da pause, che rendono questo inizio a blocchi accattivante. Questo incedere più aperto e cadenzato permea tutto il brano, e il cantato, più asservito e amalgamato alla musica, risulta più efficace. A metà brano il riff iniziale viene variato e alternato a scariche di grancassa e basso ove prima vi erano pause, su questa base si staglia un assolo, che viene poi abbandonato a se stesso a fungere da introduzione a una parte acustica, sostenuta da un bel giro di basso, che ricorda i germogli dei primi Opeth in "Black Rose Immortal". Davvero bello questo passo quasi sussurrato da parte di strumenti, voce ed effetti sonori. La parte finale ricalca la struttura del brano precedente, ma in veste più "ragionata". Il quarto brano esordisce con una chitarra "ronzante" cui si aggiunge poi la seconda per un effetto creato da trilli cromatici simili a quello del volo di un calabrone, il tutto preceduto da pochi blocchi introduttivi. Poi un altro blocco interrompe tutto, cui segue una coda di sirena creata dalla lead guitar e un grattare secco della ritmica che simpatizza per stilemi thrash. Questa introduzione vale tutto il brano, che prosegue infatti senza notevoli novità ad aggiungersi agli episodi precedenti, eccetto i ritmi incalzanti, la ripresa del tema iniziale e una chitarra solista tematica che si destreggia in assoli che accompagnano strofe e chorus. Un pezzo comunque buono, che si affianca alla title track per importanza e vi aggiunge la presenza di parti solistiche di chitarra molto corpose e virtuosistiche, anche se si distacca da essa per il finale tronco, accostandosi invece alla chiusura del brano iniziale. L'ultima traccia appare come un'evoluzione della sezione strumentale centrale della title track. Il testo è essenziale e minimale, ma nel suo parlato, ad aggiungersi alla guest vocal femminile (Miriam), s'impone come il pezzo con le vocals più riuscite. Centrale qui però risulta la musica (punto di forza della band) e il tutto ne trae vantaggio. Non si può parlare di vero e proprio brano, ma sicuramente questo pezzo di chiusura ha il ruolo di finale per tutto l'EP e l'annesso concept. Sicuramente una conclusione d'effetto che lascia il segno. Già dal primo brano i Celesterre si presentano come una band controversa, nella proposta del genere, nel rapporto fra tematiche affrontate e musica, per arrivare agli indiscutibili pregi e agli evidenti difetti. La scelta di toccare caratteristiche del doom e del black partendo da una solida base heavy è sicuramente coraggiosa e non comune, se poi aggiungiamo a questo tematiche permeate da fatalismo e amore per la natura, unite a un'accusa implicita all'umanità per il suo operato, ci si trova certamente di fronte a molto materiale, musicale e non, da plasmare. I nostri son riusciti con successo solo in parte in questa impresa. Sicuramente nel complesso il lavoro suona abbastanza omogeneo, con brani che sconfinano più di altri verso generi differenti (come il riff principale poi variato in "A Blooming Spring", accompagnato da lente cadenze ritmiche che rimandano a caratteristiche doom o lo sviluppo finale di "Celesterre Burns In Gold" che varia il riff principale con una base ritmica in blast beat strizzante l'occhio al black), sempre con una certa continuità negli arrangiamenti e una buona capacità compositiva. Non mancano poi gli effetti sonori introduttivi a suggerire ambientazioni naturali, riprendendo le tematiche trattate, anche se non vi è mai una fusione completa tra queste allusioni e ciò che comunica la musica. La controversia più grande vi è però nel cantato che, seppur s'inserisca in uno stile di formazione heavy, suona quasi come un declamato, e ciò potrebbe anche risultare interessante, non fosse per alcune parti che tradiscono un'insufficiente padronanza nella tecnica vocale del frontman Wouter Klinkenberg (che ha però il merito di essere autore di musica e testi oltre che chitarrista). Critiche negative non possono invece certamente esser mosse alla sezione strumentale che, con una base ritmica di basso (Jason van den Bergh) e batteria (Tim Zuidema), solida e dall'ottima abilità strumentale, riesce a presentare bene a livello esecutivo il materiale musicale. Lo stesso dicasi per la sezione delle chitarre (del già citato frontman e Floris Kerkhoff), buona sia nella sua parte ritmica che in quella solista, senza sforare in tecnicismi fine a se stessi e senza esser troppo banale, con l'unico neo di esser talvolta un po' meccanica nelle parti soliste più semplici e non valorizzata dal sound generale poco pulito a livello di registrazione. Quest'ultima suona molto "vera" come fosse una presa diretta, e comunque presenta un sound generale buono, anche se in alcuni punti alcuni strumenti e la stessa voce vengono quasi inghiottiti dalle frequenze degli altri strumenti (come il sole farà con la terra in questo concept). L'artwork è tratto dal dipinto di Frederic Edwin Church (1826-1900) "Rio de Luz" e si sposa all'immaginario che suscita il testo di "Vegetation Terror" con una certa efficacia, anche se nella sua grazia e raffinatezza idilliaca spiazza l'ascoltatore circa l'impressione che scaturirà secondariamente dall'ascolto della musica che, soprattutto per via delle vocals, risulta cruda e pe(n)sante tanto quanto si pongono disincantati e profetici i testi. Una nota di demerito va al logo, assolutamente non coerente al carattere di band e songwriting, non attinente a livello cromatico e grafico rispetto allo sfondo e dal sapore "standard font". In ultima analisi ci si trova di fronte all'arduo compito di mettere sul piano della bilancia pregi e difetti. Purtroppo alcuni difetti pesano più di taluni pregi e la valutazione che ne scaturisce è una media tra una sezione vocale che non raggiunge la sufficienza e una sezione strumentale che supera una valutazione buona. Prendendo poi in considerazione la breve durata del lavoro e il fatto che si tratta di un secondo capitolo nel curriculum dei Celesterre non è possibile forzare la mano nella valutazione, ma è augurabile un superamento dei difetti che porti un cambiamento strutturale e innalzi il livello di una band dalle buone potenzialità. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 65

sabato 8 novembre 2014

Vertigo Steps - Disappear Here In The Reel World: A VS Coda

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
I Vertigo Steps sono un progetto del duo finnico/portoghese formato nel 2007 da Bruno A. (all guitars, keys, programming & samples, music) e Niko Mankinen (lead vocals), che si avvale di Daniel Cardoso (drums, bass, backing vocals ) come session e di altre collaborazioni. 'Disappear Here in the Reel World: A VS Coda', si propone come un sunto del background della band, creando un'antologia che pesca dalla discografia del gruppo dall'album d'esordio 'Vertigo Steps' del 2008, all'ultimo 'Surface/Light' del 2012, passando per 'The Melancholy Hour' (2010). Già dai primi tre brani, che formano ognuno uno step nella discografia dei Vertigo, si può avere un assaggio della crescita del gruppo dagli esordi a oggi. "Fire Eaters" si presenta fra i tre come il brano meno ispirato e dalle tendenze eccessivamente commerciali, soprattutto per quanto riguarda la sezione iniziale e la sua ripresa finale, la parte che sta nel mezzo è invece più interessante, con chitarre acustiche, note stoppate e sovrapposizioni vocali a creare un alone sonoro dal gusto più sperimentale. Purtroppo una produzione che privilegia troppo la sezione chitarristica toglie respiro alla parte vocale e gli altri strumenti. "Silentground" alza il tiro e la posta in gioco, con un sound più omogeneo e idee negli arrangiamenti e nei temi più interessanti, pur mantenendo strutture e atmosfere simili al brano d'apertura. Eccellenti sono le prestazioni della chitarra solista, come le suggestioni melodiche e le scariche elettriche che porta con sé. Solamente con "Railroads of Life" viene però completato il viaggio attraverso questo ideale trittico d'apertura che passa in rassegna gli archivi della band dal 2008 al 2012. Il pezzo si apre con una chitarra acustica che inaugura una delle semi-ballad più belle di quest'antologia, essa dialoga con il caldo registro basso del vocalist e viene puntellata da interventi delle chitarre soliste. All'esplodere della seconda sezione del pezzo stupiscono anche le registrazioni di dialoghi parlati e gli interventi di una voce femminile dal sapore orientale. In "The Swarming Process" un'introduzione accattivante cattura subito l'attenzione. Un brano davvero interessante, che mischia arrangiamenti metal a un atteggiamento post rock e a una linea vocale dal timbro suadente e levigato, malgrado l'uso del registro alto del vocalist. Il giro di basso che domina la strofa iniziale è davvero efficace tanto da risaltare come il punto di forza su un pezzo dai molti spunti intriganti. Un'altra semi-ballad si affianca a Railroads of Life. "The Porcupine Dilemma", il cui titolo rimanda subito alla band fondata dall'eclettico Steven Wilson, si presenta in ultima analisi come un pezzo enigmatico, infatti quello che può sembrare un brano orecchiabile e immediato nasconde vie traverse percorse dalla struttura e dal sound che portano subito l'ascoltatore a fermarsi e rimandare il pezzo da capo. Intro e autro portano con sé tocchi cristallini di triangolo, e una strofa ruvida ma malinconica che sfoga nella parte centrale del pezzo il un grido corale supportato da un muro di chitarre ritmiche dagli accordi ostinati. Chitarra acustica, armonici naturali e piatti accompagnano l'apertura di "INhale". La voce si muove su un registro medio-basso quasi esalato e leggermente filtrato nella parte iniziale e la struttura è costituita in un crescendo continuo che domina sempre più imponente fino al finale. Difficile definire semi-ballad una struttura così aperta e semplice che si muove in linea retta, il suo tramonto altrimenti ripetitivo viene giustificato e valorizzato da tale struttura a sovrapposizione sonora. "Through Sham Lenses", con una bella chitarra in clean iniziale, si presenta come un pezzo dalle forti influenze di band come gli U2, specie nelle vocals, il tutto trasportato nella stile proprio della band. Un pezzo che senza troppe pretese prende con molta efficacia già dal primo ascolto. Da un fade in esplode "The Spider & The Weaving", un pezzo che lascia poco spazio ai ragionamenti e s'impone per la sua possente fisicità. La potenza della batteria domina, le chitarre l'attorniano dialogandovi, la voce prolunga questa forza. Inaspettatamente il brano viene spezzato da un intermezzo di piano dal sapore malinconico, per poi riprende nel finale l'iniziale forza poi sfumando questa volta in fade out. "Silent Bliss", brano dal sound molto moderno e curato, non riesce a imporsi ulteriormente a livello compositivo, passando leggermente inosservato, certo è che questo assaggio tratto dall'ultimo lavoro dei nostri trova il suo perché in un alone sonoro ricco di riverbero che permea musica e voce. "Someone (Like You)" è la prima vera ballad dell'album. Dall'arrangiamento nella prima parte minimale e nella seconda più pieno, dai cori e dalle sovrapposizioni vocali e infine dall'andamento ritmico andante ma calmo, s'intuisce l'intenzione di creare un'esperienza istintiva, fatta di impressioni sonore più che di strutture tematiche distinte e sfoggio di perizia tecnica fine a se stessa. I brividi sono assicurati già all'apertura di "Nothing At All". Magistrali l'interpretazione del vocalist e la sua versatilità nel muoversi tra registri bassi e caldi e falsetti morbidi. Tutta la prima sezione si muove calma tra chitarre clean minimali e samples dai suoni di batteria elettronica e un piano che incanta e adombra il tutto contemporaneamente in un'atmosfera strana e surreale non priva di un lucente fascino. La seconda sezione si rivela più piena nell'arrangiamento, espediente strutturale che rimanda nel brano precedente. Dal nulla nasce "Synapse (Sleepwalking Metaphorms)", che assieme a "Railroads of Life", "The Swarming Process", "The Porcupine Dilemma" e "Nothing at All" sale sul podio dei 5 brani più validi e interessanti di questa raccolta. Dolce chitarra acustica, interventi corali come aure pulsanti di suono, brandelli di registrazioni di dialoghi prima dell'entrata di basso e batteria. La voce si sovrappone alla chitarra clean dell'inizio e a questo morbido tappeto della sezione ritmica. Finché non esplode la granata del chorus dalla chitarra ritmica che strizza l'occhio al metal. L'ultima parola va alla chitarra solista che chiude la porta al chorus per aprirla a una ripresa della strofa iniziale. Questo rapporto cangiante tra esplosione e implosione tra queste sezioni portanti costituisce l'ossatura del brano. L'assolo di chitarra centrale, supportato da una forte ritmica derivata dal chorus si fonde a essa, in una metamorfosi impercettibile che porta alla lunga coda delle chitarre in larsen. A chiudere questo notevole excursus tra la discografia della band vi è "Sunflowers/Remissions", e mai titolo poté meglio descrivere questo gioiello strumentale cui le chitarre acustiche e le elettriche in clean, dai molteplici timbri, donano linfa vitale. Il pezzo in realtà è strutturato in due parti, divise da una frase parlata, quasi sussurrata, per lasciare infine spazio alla musica dove le parole non possono arrivare. I Vertigo Steps hanno la freschezza e lo stile di band come gli Alter Bridge unite alla sensibilità espressiva e la cura nel sound di band come i Porcupine Tree. Grazie a questo viaggio negli archivi del gruppo dagli esordi agli ultimi lavori è possibile notare una maturazione nella qualità del sound, specie per ciò che concerne gli equilibri tra le molteplici traccie nel mixaggio. L'artwork si mantiene sempre raffinato ma moderno e dall'alta professionalità. Malgrado gli eterogenei spunti stilistici la band riesce a creare comunque uno stile personale e omogeneo, anche considerando la discografia nella sua interezza. L'originalità, seppur calibrata alla fruibilità di un ascolto da parte di un ampio spettro di pubblico proveniente da più generi, appare sempre in modo ragionato e mai disorientante, riuscendo comunque a dare un tocco di classe a questo progetto che unisce idealmente il freddo nord europa al caldo sud. (Marco Pedrali)


(Ethereal Sound Works - 2014)
Voto: 80

domenica 14 settembre 2014

Structural Disorder - The Edge of Sanity

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Opeth, Dream Theater
Gli Structural Disorder sono una band progressive metal di Stoccolma, formatasi nel 2011. Dopo l'esperienza del primo EP, 'A Prelude to Insanity' (2012), offrono il loro primo full-lenght, 'The Edge of Sanity'. Un intro di sussurri e percezioni sonore scaglia direttamente l'ascoltatore a ricevere un pugno nello stomaco da "Rebirth", brano che lascia il segno per la sua immediatezza non priva di struttura. Scariche a blocchi dai ritmi irregolari si fondono alle striature progressive dalla tastiera di Jóhannes West, creando un connubio che sta a metà strada tra band come Meshuggah e Dream Theater. La voce di Markus Tälth passa dalle vocals pulite a un growl gutturale in un'alternanza tra i due stili che rimanda al frontman dei connazionali Opeth. Alla fine del cantato un lungo strumentale fa conoscere subito l'altra faccia più melodica e progressiva di questa band. E' ora la fisarmonica ad accompagnarci nel terzo brano "Peace of Mind", assieme alla voce pulita del vocalist. Questo duetto che rimanda a una vera e propria ballad spiazza positivamente, soprattutto per la collocazione del brano, ma a poca distanza dall'entrata di un'acustica ecco presentarsi a noi un pezzo bipartito, la cui seconda sezione è introdotta dalle tastiere che continuano anche successivamente all'entrata di tutti gli altri strumenti un giro ipnotico. Davvero dolci e intime le lyrics per un pezzo che trascende la classica semi-ballad metal, incontrando un genere quasi pop/rock. Il pezzo successivo, "The Longing and the Chokehold", dopo la perla minimalista precedente, è quasi come il risveglio da un sogno. Un riff rombante e aggressivo e una ritmica incalzante permettono appena di abituarsi al viaggio che sta per iniziare, per uno dei pezzi più significativi del cd. Nelle lyrics è il puro male a serpeggiare nella mente e a far tremare le membra, in una crisi psico-fisica interpretata da una linea strumentale potente e statuaria, impreziosita da molti stacchi e cambi d'atmosfera e da vocals altrettanto multiformi. Fantastico lo stacco di tastiere dopo il trillo alle chitarre a metà brano. Il finale, che è quasi una parata a ritmi cadenzati incessanti, rimanda a capisaldi death quali 'Deliverance' degli Opeth. "Funeral Bells" si dimostra un pezzo altrettanto aggressivo del precedente, ma le vocals, molto meno asservite alla musica, interpretano il testo in modo maggiormente espressivo. Alcune parti, come l'inizio, risultano quasi avantgarde e le altre, molto dirette e ruvide, strizzano l'occhio al thrash. Adrenalinica la parte finale, dal rombante tappeto di doppia cassa e la prolungata cesura vocale growl. E' il momento del primo strumentale dell'album. "Sleep on Aripripazol", nome curioso, derivante dal farmaco con il quale si curano schizofrenia e disturbo bipolare, quanto mai azzeccato visto che la band svedese presenta proprio due facce distinte nella sua musica: una dolce e l'altra aggressiva. Ed ecco un pezzo introdotto da un cadenzante ritmo di valzer in tempo ternario, in cui la fisarmonica (vero tocco di classe della band) fa da protagonista, assieme a scale cromatiche discendenti, arpeggi di tastiera e una base solida e dall'incedere pesante degli strumenti ritmici. Un intrigante stacco di basso di Erik Arkö e divagazioni melodiche di ogni sorta, accompagnano l'ascoltatore per un brano chiaramente e volutamente ipnotico. Chitarre in delay introducono "Corpse Candles", poi blocchi e poi ancora un cantato dolce ma intrigante e sofferto, mai sentito precedentemente nel cd. Parti in growl impreziosiscono momenti taglienti in un brano altrimenti più leggero nelle vocals, ma non certo nelle lyrics, che toccano riferimenti all'inferno dantesco. Di nuovo ritornano chitarre in delay e poi un calmo tema di fisarmonica con un basso davvero in rilievo e dal caldo suono, sulla base creata dalla batteria, poi un alternarsi di parti solistiche distribuite tra chitarra clean, basso e fisarmonica. Davvero meraviglioso l'assolo di chitarra conclusivo sulla potente base creata da batteria, basso e chitarra ritmica. Un brano davvero particolare e inaspettato che si affianca per importanza al quarto di quest'opera e forse lo supera. Subito l'inizio di "Child in the Ocean" riporta, prepotenti, le grigie e melanconiche immagini di 'Damnation' (Opeth). Ma poi l'associazione viene subito contraddetta da una sezione rabbiosa, crossover, quasi gridata dal vocalist verso la fine, e poi un altro cambio d'atmosfera, chitarre acustiche e cori dalle venature quasi pop/rock, e di nuovo le atmosfere iniziali, senza un attimo per abituarvisi. Un pezzo coraggioso, dato che può fare impazzire un'amante della varietà (come il sottoscritto), come far ubriacare e spiazzare chi non ama particolarmente le contaminazioni. "Sins Like Scarlet"...quando l'ascoltatore pensa di aver già ascoltato tutto ecco che viene stupito ancora da questo breve intermezzo sonoro parlato. Vengono ripresi temi e parti di testo già sentite precedentemente ma in veste nuova e distorta. Con inquietanti ambientazioni sonore e una recitazione da parte del vocalist che ricorda addirittura le stravaganze surreali di Mr.Doctor, vocalist e fondatore della band italo-slovena Devil Doll. Introdotto da una sezione strumentale, "The Fallen" si presenta con un materiale concettualmente simile a "Rebirth" ma una struttura più scorrevole, libera e dai contorni meno netti e di più d'ampio respiro. Un tema in delay di chitarra che viene poi ripreso da tutto l'insieme strumentale. Un assolo di chitarra ben confezionato precede uno stacco e una sezione sussurrata atmosferica minacciata da basso, scariche di chitarra ritmica e un ritmo cupo di batteria che continua fino al ritorno della parte iniziale a chiudere la struttura tripartita. Ora un secondo strumentale affascina le nostre orecchie. Una stupenda chitarra elettrica solista dipinge "But a Painting", un quadro fatto di suoni. Un momento breve ma intenso che riporta alla mente le evocative immagini create da Brian May nell'indimenticabile "Bijou, Queen" e incorona con un'aura di rispetto questa magnifica prestazione chitarristica. "Pale Dresses Masses", penultima traccia, con il suo incipit di delicate note stoppate alla chitarra clean accompagna in un'atmosfera completamente diversa, quasi prog rock e nel suo liricismo offre vedute di più ampio respiro. Le lyrics si fanno più distese, forse perché una mente tormentata ha finalmente trovato pace in ricordi belli e lontani che vivono di nuovo. La title track chiude quest'opera molto vicina a un masterpiece. E' un sunto di tutto ciò che è questa poliedrica band, rappresentandone il punto d'arrivo e la risoluzione del concept, la cui musica verso la fine è cambiata fino a toccare generi molto lontani da quelli proposti inizialmente. Nella parte iniziale dominano cori e ritmi distesi, fino a raggiungere uno stacco improvviso e tornare alla band che ha aperto il cd. Ancora un cambio d'atmosfera con l'improvvisa entrata di una chitarra acustica, la fisarmonica e poi un coro polifonico. Poi un ritorno al tema principale e un nuovo stacco con chitarra clean a note stoppate con delay, prima della parte conclusiva che chiude definitivamente quest'album di ben 70 minuti. Come una vera e propria suite, questo imponente pezzo si presenta come il più lungo del cd e dell'opera il più significativo. Possedere questo lavoro significa aver tra le mani un potenziale compositivo e discografico enorme, specie se considerata la giovane età dell'ensemble. La varietà del lavoro è davvero un punto di forza e denota una maturità a una voglia di sperimentare notevoli. Anche le capacità tecniche dei musicisti, come la batteria del non ancora citato Kalle Björk o la chitarra e piano di Hjalmar Birgersson, sono molto al di sopra della media, che pure, tra le band scandinave, è molto alta. L'unico margine di miglioramento, oltre che nella creazione di un sound il più personale possibile, sta nel songwriting, che spesso risulta un po' oscuro nei concetti e dispersivo nell'espressione, appunto doveroso, semplicemente mirato al miglioramento di una già ottima band. Molto semplice e d'impatto nella sua modernità l'artwork di Anton Näslund e Joel Sjömark, professionale il lavoro di mixaggio e produzione a cura di Scott Crocker. Una band che sicuramente merita di stare nella collezione di ogni appassionato di progressive nel senso più ampio e positivo del termine. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 85

lunedì 16 giugno 2014

Abstraction - End of Hope

#PER CHI AMA: Power Progressive, Dream Theater, Evergrey
Uno scenario post-apocalittico si delinea innanzi allo sguardo. In copertina sembrano rimaste solo le vestigia di un mondo distrutto e abbandonato dall'umanità. Uomo capace sia di questo che di creare un simbolico album, come gli Abstraction han saputo fare con il loro eloquente 'End of Hope'. Il singolo "Wolf" mette a confronto l'uomo con la bestia, la quale è molto meno crudele con i suoi simili di quanto esso non lo sia con i propri. Una città corrotta in cui l'uomo divora l'uomo con la voracità di un lupo, una foresta nella quale la bestia accoglie l'umano che sappia ascoltare il suo libero canto. La chitarra acustica di Kiril Yanev si fa portavoce del tema di una canzone tradizionale bulgara, mentre la leggenda narrata sembra scaturire da antiche storie mai obliate. Una breve sinfonia orchestrale introduce questo pezzo, che si distacca molto stilisticamente dal resto dell'album, richiamando alla mente band quali gli ultimi Wintersun e Blind Guardian. Ma resta un'impressione superficiale, dato che il sound appare più pulito e asciutto e l'organico più minimale, innestando di fatto la band in un genere che sta a metà strada tra il power e il progressive metal. Il pezzo ruota attorno al tema esposto dalla voce narrante di Mladen Medarov nelle sezioni acustiche, contrapposto ai fraseggi di chitarra elettrica di Pavel Serafimov armonizzati dall'altra di Danail Karjilov nelle sezioni strumentali. Interessante è il gioco contrappuntistico tra flauto e cembalo sul tema acustico. A metà brano un coro interpreta la parte del branco di lupi sulla base a marcia già esposta nella strofa precedente, prima dell'arrivo di un virtuosistico assolo di chitarra che anticipa la ripresa, terminante a sua volta con un finale strumentale dalla ritmica serrata e delle code. Allo scattare del secondo brano l'ascoltatore è catapultato negli anni ottanta, con un incipit che sembra un tributo alla celebre "Two Minutes to Midnight" dei Maiden. "Wondering" si presenta come un pezzo dal testo contemplativo, nel quale è manifesta solo in seguito l'amarezza lasciata da un incolmabile vuoto. Una celata rabbia non sfogata ma interpretata dalla musica con una struttura a blocchi e poi triplette nei chorus con tastiere nello sfondo e una sezione di cori nella parte centrale e finale che rappresenta, a causa dell'incerta intonazione, il vero neo del pezzo. Un brano che a tratti ricorda i Bon Jovi degli esordi, in particolare nelle vocals, nel quale viene inserita una sezione strumentale prog che riprende temi ritmici caratterizzanti lo stile dei Dream Theater, complici però un forzato connubio di stili, un cantato non abbastanza sostenuto ed esplosivo e un songwriting non in linea con le atmosfere musicali, si tratta di un capitolo dell'album poco riuscito. La scacchiera è pronta, le pedine di "The Game" cominciano a muoversi. Le prime a spostarsi sono tre e corrispondono ad altrettante stanze nelle lyrics, le quali esplorano sia il punto di vista dei vincitori che dei vinti, nell'eterna lotta tra chi ha potere e chi non ce l'ha. La terza stanza è un chorus, nel quale è interessante lo scambio tra la voce e un contrastante cembalo synth. Questa struttura ripetuta due volte cede il posto, dopo un intermezzo di cembalo, a uno strumentale che ha molti punti in comune con le sonorità e le ritmiche degli Iron ma strizza l'occhio anche al prog nell'uso di controtempi e poliritmie. Il pezzo si chiude dopo un significativo "GAME OVER" che riporta trama e musica all'inevitabile fato. "The Last Man On Earth" è forse una delle immagini più belle ed evocative dell'opera. E proprio di opera metal si tratta, l'intro riporta potenti alla mente le suggestioni dei Rhapsody of Fire. Chitarra acustica e flauto precedono un coro, questa volta dal sapore epico. I neoclassici fraseggi di chitarra solista strizzano l'occhio a Luca Turilli. Le vocals molto dirette e ruvide qui non disturbano perché ogni riff e ogni sezione strumentale risulta perfettamente incastonata, per un pezzo che sicuramente brilla in quest'album come un gioiello. Samples tratte dalla serie tv 'Kingdom Hospital' dialogano attivamente con la musica in questo strumentale "Piece of Life". Non è necessario dilungarsi sulle prime sperimentazione in tal senso da parte di mostri sacri come i Pink Floyd, nei quali musica e suoni diventavano un tutt'uno; precisando che uno tra i primi brani a introdurre registrazioni vocali parlate e attive nella musica fu "Space-Dye Vest" (Dream Theater, Awake, 1994). "Shattered Pieces" incarna appieno nelle tematiche il concetto espresso dal titolo dell'album. Difficile non pensare a band quali gli Evergrey ascoltandone le idee musicali, dove ad atmosferiche linee di piano e archi son contrapposti potenti e decisi blocchi ritmici. E così i pezzi del puzzle che compongono i sogni vengono sparpagliati a ogni scarica strumentale e la voce si fa portante nell'esporre questa rassegnazione, in modo talvolta troppo monocorde. Ottima la sezione solistica di chitarra centrale che anticipa un parlato accompagnato dal piano, punto di luce che trafigge i nembi di un brano vagamente monodico. Le lyrics di "The Righteous Path" abbandonano sentieri piani e sgombri per seguire vie più anguste e simboliche, cosa che finora mancava nel songwriting dalla band, in cui la bellezza delle tematiche veniva troppo spesso impoverita da un'espressione troppo diretta e prevedibile. Inaspettato è il pizzicato introduttivo e il ritmo ad accentuazione irregolare che ne consegue, per uno dei pezzi più progressivi dell'opera e uno dei più caratterizzanti. Spiazzano i ritmi a singhiozzo di Antonio Velkov, essenziale e magistrale dietro le pelli della batteria da inizio a fine album. Stupisce il primo vero intervento solistico di Ivaylo Rashev al basso, che confeziona un intermezzo con imitazione a due voci alle estremità del campo uditivo e un giro ammaliante su una base calma e suadente che ricorda un suo gemello marchiato John Myung nella multiforme "Breaking All Illusions". Questi a loro volta racchiudono una parte vocale doppiata una una voce parlata distorta, che allarga il campo dei narratori del testo. Ma le sorprese non finiscono, alternati al riff tematico più volte esposto in modo ubriacante, vi sono un assolo di tastiera e un altro intermezzo dal sapore contrappuntistico e questo contrasto da equilibrio compositivo al tutto. Ora è il turno di uno dei capitoli concettualmente chiave del concept, "Requiem for a Dead Planet". Poche parole cariche di significato trasportano attraverso futuro e passato, attraverso una musica graffiante, introdotta da acustica e samples create con autentiche registrazioni della NASA. L'inizio è una grande rullata, che si fa portavoce dei singulti di un pianeta morente, le vocals sono dirette ma questa volta supportate da un coro di milioni di voci che l'atmosfera creata dalle tematiche fa credere di percepire, lamenti di esseri morenti. Mai più espressivo è stato un silenzio, quello strumentale, che lascia il posto nei suoi vuoti a una voce, carpita da trasmissioni radio distorte, dialogandovi attivamente. Questo e molto ancora in un brano che crea un alone lunare profetico, sublime come l'immagine sibillina della tragica sorte del mondo nelle ultime pagine de 'La Coscienza di Zeno'. Quando la narrazione musicale e tematica sembra arrivata al culmine della tensione ecco "Same Again", stelo d'erba accarezzato dal vento, affacciato a un precipizio. L'unica ballad dell'opera acquista ancor maggior forza, nel suo esser conclusiva e solitaria. La voce ruvida e diretta del vocalist acquista qui una commovente morbidezza e assieme alla prima traccia costituisce una delle prestazioni migliori di Medarov, che qui duetta con una bella base di piano pad firmata Serafimov, che si apre assieme alla sua voce ad armonie vaste e irraggiungibili da voce e piano presi singolarmente. Un testo d'amore, distanza e separazione, ispirato al film di Danny DeVito 'The War of the Roses' da cui sono estrapolati dialoghi a creare una samples che accompagna tutto il brano. Un episodio che fa pensare, perchè il contesto rende questo brano speciale e in un certo senso dal taglio inaspettato. Gli Abstraction hanno dimostrato in questo lavoro grande maturità compositiva, una non comune capacità strumentale e una sensibilità viva e lungimirante nelle tematiche. Davvero notevole il lavoro di mix e master, come la qualità della registrazione e la pulizia di esecuzione e sound nella parte strumentale. La sezione vocale si presenta spesso non all'altezza di quella strumentale, in intonazione e impatto d'insieme per quanto riguarda i cori; in sostegno ed espressione per quanto riguarda la solista, che suona spesso troppo di gola e poco agile nel muoversi nel suo registro. La band deve ancora trovare un proprio stile, in quanto le varie e variegate idee musicali risentono spesso di troppo manifeste influenze di altri gruppi. Ciò ha però reso possibile un album davvero ricco di idee e pure ben sviluppate. Anche il songwriting possiede questa varietà, tanto da dover precisare come impropria la definizione univoca di concept per quest'album. Simbolico ed evocativo è l'artwork firmato da Ivan Maslev. Non è un caso forse che il nome "Ninfa" che appare sulla nave riporti alla mente il mito greco di Dafne, trasformata in alloro per sfuggire alle lusinghe amorose del dio Apollo. E in albero è tramutata anche questa barca volante, attraccata a un molo fantasma al di sopra del volo dei gabbiani, tema che rimanda alla moderna arca di Noé di cui tratta "Requiem for a Dead Planet", la cui rotta è lo spazio, la conquista di nuove terre da consumare e l'inevitabile fine dell'umanità, fino a un ultimo e definitivo apocalisse. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 80

venerdì 2 maggio 2014

Hundred - The Forest Kingdom - Part One

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Iron Maiden
Gli Hundred sono una giovane band di Kingston, Londra. Con il loro EP d'esordio 'The Forest Kingdom - Part One' propongono il primo episodio di quello che sarà un progetto integrale, attraverso una demo gradevole e diretta, sulla quale incombe però una produzione tecnica del suono non all'altezza del buon spirito musicale del gruppo. Il quintetto inglese riesce in ogni caso a trasportare l'ascoltatore indietro di trent'anni, verso un sound e uno stile heavy britannico di primi anni ottanta, cosa che può essere un pregio o un difetto solamente in merito ai punti di vista. Sicuramente l'atmosfera fantasy, condita da intrighi e mistero che si respira, costituisce l'ingrediente segreto della band, la quale riesce così a dare al genere proposto una visione più personale. La prima traccia, "Twilight in the Forest Kingdom", trascina idealmente nella foresta che si snoda in copertina, la quale è tratta dal dipinto di John Martin 'The Trees'. E così si snodano anche gli strumenti uno a uno a inizio brano, presentando un tema alla prima chitarra, un basso che ne segue l'andamento e una dopo l'altra le altre due chitarre. Nello strumentale che segue sono le chitarre ritmiche a conquistare la scena, preparando alla parte centrale del pezzo, che vede la presenza del vocalist, che appare racchiusa in due strumentali piuttosto ampi, che aprono e chiudono il pezzo. Nella parte strumentale conclusiva le tre chitarre si aprono a libere melodie armonizzandosi e sovrapponendosi a vicenda, mentre la voce accompagna l'incedere melodico con vocalizzi. Colonna portante di questa sezione è un accattivante giro di batteria seguito e imitato dal basso in modo però molto poco incisivo. Assoli virtuosistici dichiaratamente heavy accompagnano al finale, che risulta essere purtroppo vagamente sbrigativo. "The Forest King Marches", seconda traccia dell'EP, si presenta molto più compatta della precedente, in quanto basata su riff più semplici e meglio amalgamati con basso e batteria. Sembra davvero di esser trasportati indietro ai tempi di album come 'Killers' degli Iron Maiden, alle vocals di Paul Di'Anno e alle prime sperimentazioni di quelli che poi sarebbero divenuti classici dell'heavy metal. Forse, in questo pezzo così breve rispetto al precedente, manca il gusto della variazione e la volontà di proporre qualcosa di nuovo, ma d'altra parte il risultato finale ne trae giovamento, in quanto l'esecuzione si presenta più decisa che nel brano d'apertura. Anche le vocals si sviluppano in modo più equilibrato a livello di distribuzione e, pur non gridando alla novità, s'inseriscono in un filone ampiamente battuto ma che, per gli appassionati del genere, è sempre degno d'esser riproposto. Tematiche folkloristiche appaiono nuovamente in "Forest Sorcery", terzo brano del cd. Sembra di esser catapultati verso i miti e le leggende britanniche, in foreste popolate da Druidi contese in battaglie e intrighi contorti come le radici degli alberi, i quali prendono vita e svelano ataviche storie, impresse sulle cortecce come cicatrici nel corso dei secoli. Una linea vocale scaturita dall'idea del riff di chitarra in apertura accompagna questo pezzo, che alterna un cantato sposato a chitarre ritmiche e passaggi solistici di chitarra nella parte iniziale. 4 colpi di sticks introducono un giro di chitarra nervoso ed elettrico, che sarà tema ritmico principale per tutta la durata del brano "The Fortress Awaits", il quale finalmente darà carica e dinamismo a un EP altrimenti sottotono. Forse per la comodità ed l'efficacia di questo riff, che alterna una melodia a scariche a coda vuota, tutta la sezione chitarristica sembra investita di nuova energia e anche l'insieme ne trae beneficio. Il pezzo è semplice e compatto; l'apporto di una comunque discreta tripletta di chitarristi è finalmente valorizzato e non penalizzato da scarsa coordinazione. Perciò la band, chiudendosi per così dire a falange spartana, dà ora quella grinta di cui il vero heavy abbisogna. L'acuto del vocalist che introduce il testo è migliore che in precedenza e la sua prestazione complessiva, per quanto lo stile vocale sia grezzo e spinto in questo brano, convince maggiormente con un cantato qui più corposo e serrato. La batteria, pur dando forse prestazione migliore di sé, viene soffocata dagli altri strumenti, soprattutto nella parte di assoli di chitarra finali, e rimane veramente udibile solo il set di piatti, a discapito di cassa e tom. La conclusione del nostro viaggio attraverso le verdi pianure inglesi avviene con "Over the Plains". In questo pezzo, di più di ampio respiro dal punto di vista delle vocals, abbiamo una melodia più precisa e interessante, che riesce a creare quel senso di liricismo e solennità che furono l'altra faccia della medaglia dell'heavy classico e si sposarono spesso a lyrics storico - letterarie in band come gli Iron Maiden. Un riff di chitarra apre il brano e si capisce subito la volontà di creare delle ritmiche più maestose che serrate. Un po' arrancato suona l'ostinato sul ride nella parte subito seguente, idea interessante quella dell'imitazione ritmica del riff d'apertura, ma che per motivi esecutivi perde efficacia. Nel complesso però il drumming offre un supporto migliore che nei brani iniziali e si sposa più saldamente al torrente in piena di note ribattute al basso, imponendosi più decisa nei ritmi e nei passaggi, i quali hanno però ancora qualche pecca esecutiva. Le chitarre assumono vita propria e cantano gareggiando tra loro nella parte centrale e finale, mescolando assoli con il riff iniziale e scambiandosi incessantemente i ruoli, cosa che unita a un cantato molto più intrigante porterà a un incremento espressivo che sfumerà nel fade out del finale. L'organico strumentale degli Hundred, in particolare per la presenza delle tre asce di Alex Storrson, David Pike e Adamo Corazza, rimanda subito a quello di mostri sacri come i già citati Iron a piena formazione, che includevano chitarristi del calibro di Dave Murray, Adrian Smith e Janick Gers, punti di riferimento per prestanza live e capisaldi della scuola chitarristica heavy. A questi rimanda anche la scelta delle linee di basso e batteria. L'impressione però è quella di essere ben lontani dalle accattivanti basi di batteria rimarcate dalle percussive triplette di basso del duo Nicko McBrain e Steve Harris. Malgrado questo EP suoni come una presa diretta, mancano a tratti quel sostegno ritmico e quella decisione così importanti in live e che fecero la fortuna di band come quella sopracitata. Questo è probabilmente da imputarsi a quello che sembra essere un frettoloso processo di incisione e per questo e per il fatto che si abbia comunque a che fare con una demo, non va escluso dalla propria discografia questo EP d'esordio degli Hundred, che sa regalare comunque e malgrado tutto momenti piacevoli. Soprattutto è interessante l'idea di fondere tematiche folk/power con una musica tipicamente heavy anni '80, dal cantato che pesca  in parte dallo stile vocale del primo vocalist dei Maiden, il quale a sua volta possedeva una vocalità di stampo blues, in parte dalle vocals di matrice scandinava, specialmente nelle soluzioni corali. Un lavoro in conclusione immaturo circa la realizzazione tecnica, ma che offre spunti che vale la pena di sviluppare in futuro e nell'immediato con la seconda parte di questa demo di presentazione, che ci si augura foriera di un salto di qualità nel sound, nell'esecuzione e nella composizione della band. (Marco Pedrali)

(Adapt Records - 2014)
Voto: 60

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mercoledì 9 aprile 2014

Vangough - Between the Madness

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Dream Theater, Opeth
I Vangough vengono dagli Stati Uniti, e propongono un progressive rock dall'anima davvero coinvolgente e passionale, ma anche sperimentale e vario, merito sicuramente del vasto background dei musicisti che hanno creato quest'album, 'Between The Madness', terzo full-lenght della band. Quest'impressione permea l'intero lavoro, che porterà l'ascoltatore a percorrerlo tutto d'un fiato attraverso le sue 12 tracce, legate da un concept profondo e ben strutturato. E impressione è forse la parola più adatta a descriverne le modalità d'ascolto, dove la musica diventa luce e colore come anche ombra e monocromia. I pezzi sembrano nati dall'estro di un pittore che dipinge in melodie, armonie e ritmo sulla tela della partitura ed è originale il tocco dell'artista. Il concept album di questa band fa ripercorrere un atto dopo l'altro le passioni e le sofferenze umane. Attraverso la voce narrante del vocalist, che sa come infondere al suo ottimo timbro colori dolci così come aggressivi, attraverso una sezione strumentale che merita di essere analizzata nel particolare oltre che nell'insieme, che è quanto di più espressivo e magnetico la vera musica possa dare. 

È davvero difficile spiegare quest'opera senza toccare uno per uno i brani che la compongono: l'opening track, "Afterfall", cattura per il suo carattere cangiante e la scorrevolezza della linea vocale, che qui è resa dal vocalist particolarmente sentita e sofferta. Complici anche un ottimo arrangiamento della parte ritmica strumentale e una grande varietà di spunti tematici che, toccando tutti gli strumenti, mantengono viva l'attenzione su un pezzo che sicuramente rompe il ghiaccio in maniera più che decisa ed efficace. Profondo e angosciante il songwriting, che riesce, con parole poetiche, a descrivere la sofferenza di un uomo e una donna, compagni di vita, dopo una grande perdita, quella di un figlio. Il testo dipinge con vivide immagini e desolate sfumature la disperazione di queste due anime, fino alla preghiera finale, che ha nel suo crudo realismo una potente forza evocativa. 

L'album prosegue con "Alone", brano che mescola con gusto ed efficacia atmosfere diverse e contrastanti. Dopo il raffinato intro, il brano si fa teso e potente: chitarre ritmiche distorte eseguono incollate al basso un riff possente, subito seguite da una precisissima linea di batteria, in un gioco di controtempi che ricorda i colleghi Meshuggah per le ritmiche, che vengono presto variate e alternate a escursioni chitarristiche. Introdotta da vocalizzi sul precedente tema inizia quasi subito la prima strofa, che cambia totalmente le carte in tavola. Il cantato si fa più suadente di ciò che ci si potesse aspettare e la prima strofa si presenta descrittiva: vicoli illuminati di notte dai lampioni, un'atmosfera onirica e cupa come la solitudine del protagonista. Il tutto circondato da una musica che va oltre il genere proposto dal gruppo, in un coinvolgente giro di basso di Jeren Martin che si staglia su una batteria dal groove eccentrico, sovrincisioni corali poste nei punti giusti che dialogano con il solista e un leggero accompagnamento di piano sullo sfondo. Dopo un cambio ritmico vi è una sezione strumentale che contiene una delle parti più espressive e commoventi dell'album, dove una chitarra leggermente distorta, quasi jazz, è accompagnata solamente dal piano elettrico, su cui poggiano anche gli archi, per un gioiello strumentale che ricorda le suggestioni fusion del John Petrucci solista, per un brano che può senza dubbio esser considerato un masterpiece. 

Il concept si sviluppa con "Separation", pezzo nelle cui lyrics si aggiunge rabbia alla sofferenza, dove il male si scontra con il bene e il protagonista chiede disperatamente aiuto tra le convulsioni del suo animo morente. Brano che fonde una forte anima rock, specie nei suoi maestosi chorus, con tendenze avantgarde, lunatiche e instabili, in particolare nelle sezioni strumentali. La trama si avvia verso sentieri tortuosi con "Infestation", un capitolo dell'album piuttosto oscuro e carico di significati simbolici. Nel testo infatti, sono presenti alcune allusioni bibliche, mescolate a spunti personali dai molteplici picchi di genio. Dal punto di vista musicale il brano si presenta come una semi-ballad dalla struttura generalmente tripartita, con una sezione strumentale centrale molto vicina per stile a gruppi prog metal quali i Dream Theater. "Schizophrenia" è un pezzo molto più diretto dei precedenti e anche il testo abbandona qualsiasi filtro mettendo allo scoperto emozioni terribili ormai raffreddate nell'animo di chi le ha vissute. Si presenta come un pezzo vario e dai molti spunti interessanti: la parte introduttiva comincia nervosa e piena e si calma poi nella prima strofa, dal sottofondo melodico quasi inquietante, per poi tornare possente in un continuo gioco di alternanza tra parti calme e acustiche e parti piene e corali ad arrangiamento pieno. Il pezzo, dopo le ultime riprese dei temi principali si scatena in un magistrale assolo dalla forte connotazione conclusiva, con un finale che sfuma in un fade out che accompagna al brano strumentale successivo. 

Brani come la title track trascinano in un mondo dal sapore esotico e ultraterreno, riuscendo solamente con chitarra acustica, violino e violoncello a creare quell'aura misteriosa e lucente che talvolta solo la musica strumentale può evocare. Grande gusto classico in una struttura compositiva aperta dove il bellissimo tema proposto dal violino (di Justus Johnston) viene poi ripreso dal violoncello (di Jose Palacios). Il tutto è accompagnato da una chitarra acustica dal grande riverbero armonico in una variazione e riproposizione di una melodia che riporta alla mente perfino suggestioni rimandanti alla musica slava, complici soprattutto l'uso di scale modali e intervalli eccedenti da parte degli strumentisti ad arco. Questo è l'unico lavoro composto a quattro mani da Withrow e Martin. Uno strumentale che segna idealmente uno spartiacque tra la prima parte dell'album e la seconda, ridonando calma e un barlume di idilliaca spensieratezza all'ascoltatore per il proseguimento del viaggio interiore. 

Oramai la metamorfosi interiore è avvenuta, "Vaudeville Nation" si presenta con un testo cinico e sarcastico, a tratti perfino distruttivo e sprezzante, il cui testo di riferimento è 'Il Signore delle Mosche', di William Golding. Dal punto di vista musicale questo brano si presenta tra i più vicini al genere progressive metal, basandosi su riff davvero possenti e un'atmosfera cupa data soprattutto dalle roboanti chitarre ritmiche sposate a un basso e una batteria che lasciano poco spazio a divagazioni per concentrarsi su un ruolo molto più d'impatto. "O Sister" colpisce dritto nel segno, lasciando semplicemente inebriati di questa esperienza a fine brano. Un pezzo che prende una strada diversa rispetto ad altri capitoli di quest'album, accostando al sentiero sperimentale una ricerca più diretta al cuore dell'ascoltatore. Così per la musica come per le lyrics. Questa canzone è un'elegia, un tributo commosso all'anima di una sorella che se n'è andata via, verso il mare dell'infinito... Così la musica abbandona ogni pretesa terrena e si racchiude nella sua più discreta semplicità accompagnando un canto dolce e disperato al tempo stesso; seguendone l'andamento emotivo. 

La traccia "Thy Flesh Consumed", strumentale come "Between The Madness", trascina per la sua sperimentalità e per l'uso di effetti coinvolgenti e ben resi dall'eccellente lavoro di editing. Vi son presenti affascinanti suggestioni che strizzano l'occhio ai canadesi Unexpect sotto alcuni aspetti (come l'uso delle dissonanze, dell'effettistica, dei violini e del netto e disorientante uso di contrasti dinamici e timbrici). "Useless" riprende alcune tematiche di "Vaudville Nation" ma a livello musicale se ne distacca, proponendo una visione più varia anche in termini stilistici. Addirittura propone all'inizio uno stile quasi funk, con un basso in primo piano, una batteria elettronica e un parlato a più incisi leggermente sussurrato. "Depths of Blighttown" è un pezzo strumentale sinfonico, dall'intro quasi "medievaleggiante" in alcuni spunti armonici, mentre le melodie rivelano un'attrazione per il cromatismo. La parte successiva, introdotta da pizzicati agli archi, espone invece il tema principale, che appare come una variazione della figurazione a due note presente ai violini in "Thy Flesh Consumed". Il pezzo si presenta però, a differenza di quest'ultimo, dalla struttura a ripetizione e variazione tematica (più simile a "Between the Madness"); con una intensificazione nell'orchestrazione, che qui con molte sovrincisioni simula la presenza di un'orchestra vera e propria, al procedere del brano strumentale. 

La track conclusiva, "Corporatocracy", si presenta come un brano cinico nel testo e ipnotico nelle soluzioni strumentali. Il pezzo si fonda infatti su una ripetizione sempre nuovamente arrangiata del riff acustico iniziale (che sotto l'aspetto armonico e dell'incedere cromatico ricorda l'uso delle chitarre negli Opeth) e il quanto mai geniale giro di batteria eseguito da Kyle Haws. Un brano che abbandona qualsiasi ricerca di orecchiabilità per puntare su altro, cioè il coinvolgimento quasi ossessivo dell'ascoltatore in spire musicali avvolgenti, ostinate. Importanti e caratterizzanti sono le percussioni, presenti in questo pezzo in modo più fondante che in altri e influenzanti per approccio anche i giri di batteria intesa in modo classico. Anche il cantato non presenta una linea vocale ben definita, essa segue infatti in questo caso l'incedere musicale, un brano in conclusione non banale, dato che il pezzo finale di un full-lenght ha sempre l'onere di lasciare un'impronta del tutto. Il nuovo album dei Vangough, 'Between The Madness', è l'ultimo progetto in studio di una band che s'impone come una delle più coraggiose, eccentriche e versatili nella scena dell'Oklahoma, e sicuramente crescerà ancora in importanza e popolarità, traendo forza dal contributo e l'esperienza dei migliori musicisti sul campo. Un album consigliabile a chiunque voglia ascoltare un'ottima musica dai contenuti concettuali che manifestano i più reconditi e oscuri sentimenti umani. Un lavoro mirabile e stupefacente, che non fa perdere mai l'interesse all'ascolto e trasporta in un mondo simbolico ma vicino a chiunque sappia ascoltare e capire le cose con apertura e profondità. (Marco Pedrali)

(Self - 2013)

Voto: 95