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martedì 6 gennaio 2015

Celesterre - A Blooming Spring

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
Con il loro ultimo lavoro 'A Blooming Spring', i Celesterre si fanno portavoce dell'umanità in un concept EP dalle tinte apocalittiche e sibilline. Dopo il lavoro d'esordio omonimo del 2012, il quartetto olandese propone un genere che parte dall'heavy metal per arrivare a toccare altri stili. La trama del concept - sviluppato in 5 brani - prende in considerazione l'estinzione umana a causa dell'inesorabile approssimarsi della Terra, nella sua rotazione intorno al Sole. Ogni brano tratta questo catastrofico evento da un diverso punto di vista. "Celesterre Burns In Gold", nella quale la band si pone a rappresentare l'umanità intera, vede il nostro pianeta letteralmente inghiottito dall'enorme disco d'oro che è il Sole, immaginando una realtà ustionata dalle radiazioni solari. "The Droning Earth" descrive invece il pianeta come scosso da convulsioni febbrili, in terremoti che muovono gli oceani, a simboleggiare un genere umano rigettato dalla Terra come una malattia. In "A Blooming Spring", la fine dell'uomo è arrivata...il cancro è stato estirpato a fuoco, la primavera di una nuova era è descritta, alimentata dalla morte nel ciclo vitale e resa da questa rigogliosa. "Vegetation Terror" vede la natura dilagare e allungare le sue dita frondose su tutto ciò che prima apparteneva all'uomo, e inconsapevole si riappropria di ciò che le era stato tolto. "Dust" interpreta chiaramente la frase: polvere eravamo e polvere ritorneremo. La coscienza umana dona il proprio corpo, trasformato in vita dai microrganismi, affinché nutra la terra, prima che essa si fonda con il sole... Sebbene queste tematiche non rappresentino una novità dal punto di vista concettuale, s'inseriscono comunque tra i punti di forza di questo lavoro e, grazie a un songwriting d'effetto, seppur appesantito dall'uso di termini eccessivamente ricercati e un incedere talvolta criptico, rendono questo EP strutturato e non banale. La opening track da il via alle danze con un arpeggio acustico subito accompagnato dal basso, il tutto circondato da inquietanti feedback. L'arpeggio prosegue poi sovrapponendosi all'attacco della strofa e andando con essa in controtempo. La prima strofa cantata s'apre subito con declamatoria veemenza, contrappuntata dalle parti corali nel grido "Burn!". Il chorus, meno aggressivo e preceduto da un ponte interessante nel quale il basso esce allo scoperto, distende ritmica e parti accordali. Dopo il secondo chorus un assolo misurato e non virtuosistico precede la parte finale, caratterizzata da ritmi serrati alla batteria, tappeto di basso e chitarre ritmiche e una voce secondaria più delicata, che s'alterna a samples di registrazioni parlate tratte da documentari scientifici, prima che il pezzo termini improvvisamente. Un discreto pezzo d'apertura che non dona ancora però un'idea completa dello stile della band. La seconda traccia si scaglia improvvisa con un ritmo quasi tribale e delle vocals immediate, che appaiono nella loro distribuzione un po' scollate dalla musica. Con degli effetti resi in un'interpretazione stravagante, che punta a creare una sorta di polimorfismo vocale. Il chorus, più disteso, spezza quasi il ritmo a creare un inno non privo di drammaticità ed epicità. Poi il ritmo s'anima nuovamente per le nuove due strofe, ciascuna dalla differente base strumentale, prima del nuovo chorus che porta con sé una variazione nell'arrangiamento, oltre che un'efficace pausa improvvisa. Nella struttura complessiva il pezzo ricalca il precedente, ma si differenzia nelle code del finale, che è qui più strutturato e interessante. Un brano che non aggiunge molto di nuovo a quello d'apertura se non una maggior omogeneità e coerenza strutturale, nonché una maggiore fluidità. E' solo con la title track, brano fra i più significativi dell'EP, che la band esce allo scoperto per quella che è. Suoni di uccelli e ronzii d'api precedono ritmi distesi contrappuntati da pause, che rendono questo inizio a blocchi accattivante. Questo incedere più aperto e cadenzato permea tutto il brano, e il cantato, più asservito e amalgamato alla musica, risulta più efficace. A metà brano il riff iniziale viene variato e alternato a scariche di grancassa e basso ove prima vi erano pause, su questa base si staglia un assolo, che viene poi abbandonato a se stesso a fungere da introduzione a una parte acustica, sostenuta da un bel giro di basso, che ricorda i germogli dei primi Opeth in "Black Rose Immortal". Davvero bello questo passo quasi sussurrato da parte di strumenti, voce ed effetti sonori. La parte finale ricalca la struttura del brano precedente, ma in veste più "ragionata". Il quarto brano esordisce con una chitarra "ronzante" cui si aggiunge poi la seconda per un effetto creato da trilli cromatici simili a quello del volo di un calabrone, il tutto preceduto da pochi blocchi introduttivi. Poi un altro blocco interrompe tutto, cui segue una coda di sirena creata dalla lead guitar e un grattare secco della ritmica che simpatizza per stilemi thrash. Questa introduzione vale tutto il brano, che prosegue infatti senza notevoli novità ad aggiungersi agli episodi precedenti, eccetto i ritmi incalzanti, la ripresa del tema iniziale e una chitarra solista tematica che si destreggia in assoli che accompagnano strofe e chorus. Un pezzo comunque buono, che si affianca alla title track per importanza e vi aggiunge la presenza di parti solistiche di chitarra molto corpose e virtuosistiche, anche se si distacca da essa per il finale tronco, accostandosi invece alla chiusura del brano iniziale. L'ultima traccia appare come un'evoluzione della sezione strumentale centrale della title track. Il testo è essenziale e minimale, ma nel suo parlato, ad aggiungersi alla guest vocal femminile (Miriam), s'impone come il pezzo con le vocals più riuscite. Centrale qui però risulta la musica (punto di forza della band) e il tutto ne trae vantaggio. Non si può parlare di vero e proprio brano, ma sicuramente questo pezzo di chiusura ha il ruolo di finale per tutto l'EP e l'annesso concept. Sicuramente una conclusione d'effetto che lascia il segno. Già dal primo brano i Celesterre si presentano come una band controversa, nella proposta del genere, nel rapporto fra tematiche affrontate e musica, per arrivare agli indiscutibili pregi e agli evidenti difetti. La scelta di toccare caratteristiche del doom e del black partendo da una solida base heavy è sicuramente coraggiosa e non comune, se poi aggiungiamo a questo tematiche permeate da fatalismo e amore per la natura, unite a un'accusa implicita all'umanità per il suo operato, ci si trova certamente di fronte a molto materiale, musicale e non, da plasmare. I nostri son riusciti con successo solo in parte in questa impresa. Sicuramente nel complesso il lavoro suona abbastanza omogeneo, con brani che sconfinano più di altri verso generi differenti (come il riff principale poi variato in "A Blooming Spring", accompagnato da lente cadenze ritmiche che rimandano a caratteristiche doom o lo sviluppo finale di "Celesterre Burns In Gold" che varia il riff principale con una base ritmica in blast beat strizzante l'occhio al black), sempre con una certa continuità negli arrangiamenti e una buona capacità compositiva. Non mancano poi gli effetti sonori introduttivi a suggerire ambientazioni naturali, riprendendo le tematiche trattate, anche se non vi è mai una fusione completa tra queste allusioni e ciò che comunica la musica. La controversia più grande vi è però nel cantato che, seppur s'inserisca in uno stile di formazione heavy, suona quasi come un declamato, e ciò potrebbe anche risultare interessante, non fosse per alcune parti che tradiscono un'insufficiente padronanza nella tecnica vocale del frontman Wouter Klinkenberg (che ha però il merito di essere autore di musica e testi oltre che chitarrista). Critiche negative non possono invece certamente esser mosse alla sezione strumentale che, con una base ritmica di basso (Jason van den Bergh) e batteria (Tim Zuidema), solida e dall'ottima abilità strumentale, riesce a presentare bene a livello esecutivo il materiale musicale. Lo stesso dicasi per la sezione delle chitarre (del già citato frontman e Floris Kerkhoff), buona sia nella sua parte ritmica che in quella solista, senza sforare in tecnicismi fine a se stessi e senza esser troppo banale, con l'unico neo di esser talvolta un po' meccanica nelle parti soliste più semplici e non valorizzata dal sound generale poco pulito a livello di registrazione. Quest'ultima suona molto "vera" come fosse una presa diretta, e comunque presenta un sound generale buono, anche se in alcuni punti alcuni strumenti e la stessa voce vengono quasi inghiottiti dalle frequenze degli altri strumenti (come il sole farà con la terra in questo concept). L'artwork è tratto dal dipinto di Frederic Edwin Church (1826-1900) "Rio de Luz" e si sposa all'immaginario che suscita il testo di "Vegetation Terror" con una certa efficacia, anche se nella sua grazia e raffinatezza idilliaca spiazza l'ascoltatore circa l'impressione che scaturirà secondariamente dall'ascolto della musica che, soprattutto per via delle vocals, risulta cruda e pe(n)sante tanto quanto si pongono disincantati e profetici i testi. Una nota di demerito va al logo, assolutamente non coerente al carattere di band e songwriting, non attinente a livello cromatico e grafico rispetto allo sfondo e dal sapore "standard font". In ultima analisi ci si trova di fronte all'arduo compito di mettere sul piano della bilancia pregi e difetti. Purtroppo alcuni difetti pesano più di taluni pregi e la valutazione che ne scaturisce è una media tra una sezione vocale che non raggiunge la sufficienza e una sezione strumentale che supera una valutazione buona. Prendendo poi in considerazione la breve durata del lavoro e il fatto che si tratta di un secondo capitolo nel curriculum dei Celesterre non è possibile forzare la mano nella valutazione, ma è augurabile un superamento dei difetti che porti un cambiamento strutturale e innalzi il livello di una band dalle buone potenzialità. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 65