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sabato 21 luglio 2018

Love Machine - Times to Come

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock 
Entrare nel mondo dei Love Machine è come fare un passo indietro di quasi mezzo secolo, guardare il loro look e la cover di copertina del nuovo album è tornare al tempo del "flower power", della "summer of love", della folk psichedelia acustica e di tutti quei colori fluorescenti che hanno fatto grande un'epoca musicale divenuta culto tra i '60 e i '70. Diciamo subito che la band di Düsseldorf è irresistibile, terribilmente perfetta, tremendamente a stelle e strisce, esagerata nel ricreare quelle atmosfere vintage, luminosa e abbagliante ma al contempo introversa e cupa, esattamente come un brano dei The Doors, dove rabbia, voglia di cambiamento e ribellione, uscivano da ogni nota in forma lisergica e allucinata. Capitanati da un vocalist spettacolare (Marcel Rösche) e da un sound spiazzante per il suo non essere contemporaneo, la compagine teutonica riesce a sembrare veramente una band di quell'epoca. Senza emulare o copiare i loro maestri, i Love Machine si ritagliano, in un settore quello del vintage rock, uno splendido spazio di originalità da far impallidire band come gli ottimi Church of the Cosmic Skull, con composizioni assolutamente inaspettate, mescolando rock, psichedelia, folk pastorale e il country di sopravvivenza alla Johnny Cash, unendo storie da crooner solitario alla Leonard Cohen, con un velato gusto musicale latino ed il magico spirito acido dei Jefferson Airplane, l'immancabile krautrock, un tocco hawaiano alla Elvis, quello più sperimentale, senza mai dimenticare il salmodiare del re lucertola che rende più sofisticato ed attraente l'intero 'Times to Come'. Alla loro terza prova discografica, i nostri risultano una band stratosferica, al di sopra della media, con una fantasia retrò davvero invidiabile per coerenza, stile ed un fascino incredibile nel sound e nella composizione, musica liquefatta altamente allucinogena. Un'erudizione sul genere pazzesca, un'indole oscura su note abbaglianti e luminose, aprire la mente pensando, musica stellare senza tempo, i Love Machine meritano veramente un altare a due passi dall'olimpo musicale, grazie ad un album formato da brani che sono gemme assolutamente luminose! Due i brani top, "Blue Eyes" e la velvettiana "Times to Come". Nostalgici ma geniali. (Bob Stoner)

(Unique Records - 2018)
Voto: 80

lunedì 18 giugno 2018

Sons of Alpha Centauri - Continuum

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
A chi pensava che la band fosse definitivamente scomparsa dalle scene, ecco che i Sons of Alpha Centauri spiazzano tutti e tornano alla ribalta ad oltre dieci anni di distanza dal precedente lavoro. 'Continuum' è il titolo del nuovo album della band inglese, contenente otto song strumentali, aperte dalla spettrale "Into the Abyss", una breve song dal piglio post-rock affidata interamente ad un giro di sola chitarra. Poi, ecco "Jupiter", una traccia che sembra muoversi tra blues rock, post e progressive, in una melliflua song che si muove timidamente tra chiaroscuri elettrici. Decisamente più aggressiva "Solar Storm" che, al pari di una tempesta solare, si lancia in una roboante cavalcata stoner/post metal che trova nel suo corso un break atmosferico in stile Riverside, capace di mitigare la veemenza del quartetto britannico. Con "Io" le cose tornano ad adombrarsi, affidandosi ad una ritmica compassata in cui il problema principale è, come spesso accade, la mancanza di un vocalist in grado di conferire maggiore dinamicità ad una proposta che rischia alla lunga ahimè di annoiare. E cosi, questo brano non decolla realmente mai e procede stancamente fino a "Surfacing for Air", un intermezzo di quasi due minuti che introduce a "Interstellar", un pezzo notturno, che parte in sordina e fatica ad emergere almeno fino a due terzi quando i toni si fanno finalmente più aspri. Sebbene abbia una durata minore rispetto alle precedenti, non arrivando nemmeno ai tre minuti, "Orbiting Jupiter" è una song interamente suonata al pianoforte, sicuramente piacevole ma non poi cosi coinvolgente. Si arriva ai minuti conclusivi di "Return Voyage" che ci consegnano gli undici minuti finali di questo 'Continuum', in una traccia che tra parti atmosferiche e squarci elettrici, ha modo di rievocare lampi dei Pink Floyd, con la sola differenza che la band più famosa del mondo, poteva contare anche sulla performance di un cantante dietro al microfono. Qui c'è ancora parecchio da lavorare per togliersi di dosso scomodi paragoni con i maestri del psych/space rock ma anche e soprattutto con l'alternative dei Tool. Peccato, dopo dieci anni mi sarei aspettato qualcosa di decisamente superiore. Per ora è solo un album carino come ce ne sono tanti in giro. (Francesco Scarci)

(H42 Records/Electric Valley Records/Robustfellow - 2018)
Voto: 65

https://sonsofalphacentauri.bandcamp.com/album/continuum

Les Lekin - Died With Fear

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock, Godspeed You! Black Emperor
Il secondo album dei Godspeed You! Black Emperor di Salisburgo si apre con una obnubilante galoppata interiore, assolutamente ed emozionalmente lisergica. Basso e batteria indistricabilmente avvinghiati, la chitarra come una sorta di delirante propaggine onirica. Ombre di nuvole meccaniche tratteggiano il profilo semantico dei suoni. Qualcosa a metà tra il Neil Young di 'Change Your Mind' e gli Ozric Tentacles di 'Erpland'. A passo uno. Rigorosamente a passo uno. Nel prosieguo, la riverberante "Inert" appare invece più post/something, tumultuosa ma dialetticamente centrifuga. Diametralmente opposta, seppure altrettanto post qualcosa, la successiva "Vast", sillogistica, persino circolare tanto nella melodia quanto nella dinamica sonora. L'epos si innalza, lentissimamente ma inesorabilmente, nella conclusiva "Morph", sonicamente desertica eppure volonterosamente tersa e nevrile, protesa verso la deliquescenza del (lunghetto, ammettiamalo) climax finale. Ascoltate questo disco, strafatti di peyote, mentre immaginate voi stessi che saltellate da un cactus all'altro tentando di sfuggire ad una fittissima pioggia di tarantole azzurrognole. (Alberto Calorosi)

(Tonzonen Records - 2017)
Voto: 80

https://leslekin.bandcamp.com/album/died-with-fear

mercoledì 6 giugno 2018

Tusmørke - Fjernsyn I Farver

#PER CHI AMA: Psych/Space Rock, Yes, King Crimson
Il traguardo del sesto album non è cosa da poco. Ci sono riusciti i norvegesi Tusmørke con questo 'Fjernsyn I Farver' (che starebbe per "Televisione a colori") e il carico di musica folk psych prog rock che esso si porta. Sei i brani a disposizione dei nostri per cercare di stupirci con le loro melodie funamboliche che sembrano provenire direttamente da fine anni '60. Lo dimostra immediatamente la title track posta in apertura al disco, in cui flauto, percussioni varie e un cantato stravagante (in lingua madre) irrompono e dichiarano apertamente l'amore della band per i signori del calibro di King Crimson, Yes o Jethro Tull (ma più per un'assonanza legata all'utilizzo dei flauti), giusto per citare alcuni degli act più famosi ai quali i Tusmørke si ispirano. Notevoli i giochi di luce che l'ensemble riesce a creare, tra rallentamenti e accelerazioni psych rock, in cui il pallino del gioco è tenuto costantemente dai synth e da una voce non poi cosi facile da digerire. "Kniven I Kurven" conferma l'importanza del flauto nell'economia della band: esso apre infatti la song, mostrando un'ampia sinergia con le percussioni e un sound in generale che mi proietta indietro nel tempo di almeno una cinquantina d'anni, ove le chitarre sembrano invece relegate in secondo, anzi terzo piano. La traccia ha un incedere che potrei definire banalmente allegro, tuttavia manca di una spinta che la riesca realmente a rendere cooinvolgente. Il quintetto di Oslo prosegue con la propria proposta in "Borgerlig Tussmørke", un brano che appare come l'ideale colonna sonora di una fiaba, anche se il coro a metà brano sembra preso in prestito da "Hey Jude" dei Beatles. Che i nostri non siano degli sprovveduti lo si evince anche dalla debordante e sabbatiana "3001", una canzone che prende le distanze dalle altre song, sebbene l'intro risuoni come un videogames anni '80. La traccia si snocciola come un classico dei Black Sabbath, con addirittura la voce del frontman a voler emulare quella del buon vecchio Ozzy e un break a poco più di metà brano, che fa sprofondare il sound dell'act scandinavo in una porzione psych doom. Molto in stile Carlos Santana invece l'inizio di "Death Czar", cosi caraibica nei suoi suoni fragili e psichedelici, soprattutto a livello percussivo, con un finale più rock oriented che ne rigenera le sorti. "Tøyens Hemmelighet" è l'ultimo pezzo di questo disco, che vuole raccogliere una mistura di suoni funk e folk, evocandomi un che dei Carnival in Coal nel loro album 'French Cancan' ed in particolare nella cover di "Fucking Hostile" dei Pantera. Ascoltare per credere. (Francesco Scarci)

martedì 24 aprile 2018

Eloy - The Vision, the Sword and the Pyre - Part 1

#PER CHI AMA: Space Rock
Parzialmente giustificato dal fatto che l'avanzare dell'età spesso rimuove certe inibizioni, pervenuto alla settantaduesima primavera Bisteccone Bornemann, generalmente conservativo, rilascia il suo album più spericolato e (forse a tratti involontariamente) divertente. Spiega tutto la perentoria ouverture "The Age of the Hundred Years's War", un po' goth-metal con tanto di vocine nella testa, un po' nu-metal, un po' outtake di 'Angel Dust', quello dei Faith No More. Nel prosieguo, "The Call" (featuring una sensuale e chiacchierante Alice Merton as Giovanna d'Arco) è un hard-rock soft-blueseggiante post-Destination alla "What Do You Want From Me?" (Pink Floyd), la ozric-tentacolare "The Ride by Night... Towards the Predestined Fate" è una specie di tecno-psych ballad con percussioni, la vocina robottina di "Early Signs... From a Longed for Miracle" (ma che pistakkio di titoli, nevvero?), perfettamente adatta al contesto, vi sembrerà fuoriuscita direttamente da "Metromania", la carmina-burattinosa, sbellicante "The Sword... the Dawning of the Unavoidable" farebbe impallidire Luca Turilli, se soltanto Luca Turilli avesse una carnagione. Canzoni come "Chinon" e "Les Tourelles" vi sembreranno ciò che esattamente sono, vale a dire autoindulgenti riempitivi, nell'ordine più e meno medievaleggianti. Quello che conta è che dopo sessantadue minuti (quelli di 'Ocean 2', l'album più lungo finora, erano cinquantasette) vi sarete inspiegabilmente divertiti, ciò che vi sconsiglio di affermare a voce alta ad un concerto, per esempio, dei Blind Guardian. Rischiereste di fare la stessa fine della eroina protagonista di questo scalcinatissimo concept. (Alberto Calorosi)

(Artist Station Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Official4Eloy

martedì 13 marzo 2018

Aikira - Light Cut

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal/Post Rock
Il post rock italico va a gonfie vele: a casa nostra abbiamo leve di caratura ormai internazionale, e penso ai Thank U for Smoking, ai Valerian Swing che si aggiungono a band più borderline quali Klimt 1918 e Sparkle in Grey, giusto per citare qualche gruppo a caso. Vorrei aggiungere un altro nome a quelli appena citati, un nome che pian piano sta venendo fuori, soprattutto dopo aver rilasciato il nuovissimo 'Light Cut'. Sto parlando dei marchigiano/abruzzesi Aikira, nati inizialmente come side project di Fango e di El Kote, rispettivamente chitarra e batteria degli hardcorers Vibratacore, per soddisfare i loro impulsi più onirico-intimisti. E proprio per dar voce al bisogno di dilatare quanto più possibile la loro musica, pur mantenendo in seno una forte dose di aggressività, ecco completarsi la line-up con Andrea alla chitarra e, dopo una serie infinita di avvicendamenti, Lorenzo al basso (ma nel disco suona Giuseppe Pirozzi), per una formazione strumentale dedita ad un post-metal con venature post rock, che si traduce a distanza di quattro anni dal precedente album omonimo, in questo secondo capitolo. L'album si apre con la nervosissima ritmica di "Etera", altalenante nel suo incedere tra ritmiche frenetiche e gelidi fraseggi di chiara estrazione post rock, tra richiami sognanti, tunnel psichedelici e frangenti malinconici che ci conducono alla più roboante "Yonaguni", una song che parte con una serrattissima anima post black che palesa un'irrequietezza di fondo che agita il quartetto. Per fortuna nostra, la furia distruttiva che catalizza l'attenzione nei primi secondi della canzone, lascia posto a suoni che sottolineano ancora una volta l'inquietudine che imperversa nei solchi di questa release, tra suoni discordanti, momenti atmosferici e riverberi che mi consentono di non avvertire l'assenza di un cantato, mostrando pertanto la personalità ben delineata dei nostri. L'incipit oscuro di "Vantablack", unito ad una ritmica angosciante, mi regala attimi di grande fascinazione, dove vorrei sottolineare la performance di basso e batteria su tutto il resto. "Voyager" è un brano meno sperimentale che vanta tuttavia robuste linee di chitarra e atmosfere sagaci. "Elemental 3327" è invece un breve intermezzo che vede la partecipazione di Davide Grotta, responsabile della registrazione del disco, in veste di guest star al pianoforte (lo troveremo anche nella tenebrosa conclusione di "Elemental 06", dove si diletterà col theremin). Con "Drive", l'ambientazione si fa più soffusa, rilassante ma non troppo, perchè l'aria da li a poco, si renderà più pesante e cupa, con suoni che richiamano quei landscape sonori desolati assai cari ai Cult of Luna. I quasi nove minuti catartici di "Something Escapes", oltre ad avere un lungo incipit in bilico tra suoni ipnotici e space rock, vedono una seconda ospitata, ossia la voce sussurrata di Emanuela Valiante, ad aumentare, quasi ce ne fosse bisogno, lo stato di alterazione emozionale generata dai suoni liquidi ed alieni rilasciato dai quattro musicisti. Nel frattempo arrivo ad "Alan", penultima song di un album sempre ricercato nelle sue strutture e melodie, un disco che necessita sicuramente di svariati ascolti prima di poter essere masticato al meglio, in quanto le sperimentazioni soniche unite alle contaminazioni noisy e droniche dell'album, lo rendono un lavoro di classe e grande speranza per far uscire definitivamente la musica italiana dai ristretti confini nazionali. Ultima menzione per il mixing affidato ad Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments) presso il Waiting Room Studio di Bologna, a sancire l'eccelsa di quest'ennesimo prodotto made in Italy. (Francesco Scarci)

venerdì 16 febbraio 2018

Visionoir - The Waving Flame Of Oblivion

#PER CHI AMA: Dark Wave/Progressive
Diciannove anni fa compravo la cassetta di 'Through the Inner Gate', demotape di debutto di Alessandro Sicur, allora accompagnato da Mattia Pascolini, in questo progetto denominato Visionoir. Quasi cinque lustri di silenzio, e poi dall'oggi al domani, ecco arrivarmi a casa il cd d'esordio della band friulana, 'The Waving Flame Of Oblivion', uscito autoprodotto lo scorso ottobre. Ebbene, quando si dice che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, immagino che sia soprattutto applicabile al buon Alessandro che è scomparso dai radar per diverso tempo per dedicarsi ad altri progetti. La proposta musicale del mastermind di Udine prosegue laddove aveva iniziato in quell'esordio del '98, affinando però tecnica e suoni, ma continuando comunque a proporre un rock dark avanguardistico sorretto da pesanti inserti elettronici che si palesano sin dall'opener "Distant Karma", esotica suite strumentale che si muove tra lunghi trip psichedelici, fughe di chitarra e splendide melodie space rock. In "The Hollow Men" esordiscono anche dei samples vocali che ritroveremo lungo tutto il disco ma che in realtà non sono altro che le voci registrate di alcuni grandi poeti del '900 (in questo caso T.S. Eliot), mentre le chitarre in simbiosi con i synth, orchestrano elaborati intrecci di musica progressiva volta ad intrattenere con eleganza gli ascoltatori, grazie a giochi ritmici in chiaroscuro, saliscendi chitarristici e una bella dose di cambi d'atmosfera. L'unica cosa che alla fine mi fa storcere il naso è proprio l'utilizzo di quella voce robotica un po' troppo asettica per i miei gusti. Niente di cosi grave, visto che l'inizio di "7ven" mi esalta non poco, evocandomi i primi Depeche Mode, anche se poi le melodie mediorientali griffate dai riff di Alessandro, regalano momenti di totale distacco dalla realtà, collocandoci in una qualche kasbah marocchina. "The Discouraging Doctrine of Chances" è narrata dal poeta americano Ezra Pound, e mostra una ritmica più aggressiva, anche se i giochi di luce delle chitarre, in uno stile vicino agli Orphaned Land, vengono smorzati dai gentili tocchi di tastiere. Il disco è intrigante, inutile girarci intorno e "Shadowplay" dimostra ancora la sapienza e l'originalità con cui il polistrumentista friulano, si (e ci) diletta con una miscela di rock progressive settantiano e suoni decisamente cosmici che ci introdurranno alla terza song "cantata", questa volta da Antonin Artaud, in una traccia più compassata, seppur mostri una certa liquidità nella sua effettistica e un'aura comunque più intimista rispetto alle precedenti. Un pizzico in più di malinconica invece la ritroviamo in "Coldwaves", che perde gli ultimi residui metallici dei Visionoir a favore di sonorità a cavallo tra shoegaze e post rock che diventeranno più palesi nella sorprendente "A Few More Steps", declamata questa volta dal buon vecchio Dylan Thomas in un incedere dapprima nostalgico, quasi drammatico e che alla fine tramuterà in sonorità più ansiogene. Il nono e ultimo pezzo è affidato alla bonus "Godspeed Radio Galaxy" che condensa in oltre 11 minuti tutto il repertorio electro-rock dei Visionoir, tra derive prog, larghi spazi d'atmosfera, partiture heavy e una bella dose di personalità che pensavo fosse andata perduta in questi ultimi vent'anni. Ben tornato Alessandro. (Francesco Scarci)

sabato 3 febbraio 2018

Kayleth - Colossus

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet, Cathedral, Kyuss
Continua con il nuovissimo 'Colossus', il concept sci-fi dei veronesi Kayleth, ormai di casa da anni qui nel Pozzo dei Dannati. Il secondo lavoro, sempre edito dall'Argonauta Records, ha da offrire sessanta minuti di sonorità space/stoner, che non sono certo la più facile delle scampagnate da fare, soprattutto se ci sono ben 12 pezzi da affrontare. Si parte con "Lost in the Swamp" dove, accanto alla consueta ritmica ribassatissima, fanno capolino i synth ispirati del bravo Michele Montanari, mentre la voce di Enrico Gastaldo si muove sempre in bilico tra il buon Chris Cornell e qualcosa degli svedesi Lingua. Da sottolineare la preziosa performance alla sei corde di Massimo Dalla Valle, a districarsi tra riffoni pesantissimi e brillanti assoli. Bel pezzo, l'ideale biglietto da visita per questa nuova release del combo veronese. Si prosegue con "Forgive" e la sostanza non cambia: ottimo e vario il rifferama, abbinato all'imprescindibile componente eterea dei synth, e la voce di Enrico che questa volta cerca modulazioni vocali alla Kurt Cobain. "Ignorant Song" è un bel tributo agli esordi dei Black Sabbath, in grado di sprigionare una dose di energia sufficiente a scatenare un bel pogo. Diavolo, da quanto non se ne vedono. E allora lanciamoci via veloci ad assaporare la tribalità della title track (bravo a tal proposito Daniele Pedrollo dietro le pelli), una song più lenta ed oscura, in cui sottolineerei ancora il lavoro ritmico (le linee di basso di Alessandro Zanetti rilasciano traccianti da paura) e solistico dei nostri. "So Distant" è breve, veloce, uno schiaffone in faccia tra riff tonanti e l'elettronica ubriacante dei synth, con il frontman che canta principalmente su un tappeto ritmico sostenuto dal solo incessante battere del drummer. Forse un modo per cercare un contatto con gli alieni, quello proposto invece dal cibernetico inizio affidato a "Mankind's Glory", song ipnotica che evoca un che degli esordi dei Cathedral, in una song dal forte potere magmatico. Al giro di boa, ecco il lisergico inizio di "The Spectator" (dove io ci sento un che dei Pink Floyd uniti ai Linkin' Park, sarò pazzo?) pronto ben presto a lasciare il posto al più pesante stoner tipico della band italica. Altra mazzata in volto e siamo giunti a "Solitude", altra perla che vede nuovamente nella band di Lee Dorrian e soci (ma che affonda le proprie radici nel suono desertico dei Kyuss), i propri riferimenti musicali in una scalata musicale da brividi. Si conferma la bontà del songwriting, la produzione cristallina amplifica inevitabilmente la resa sonora ed una potenza che non resta a questo punto che assaporare anche dal vivo. Si arriva nel frattempo alla più lenta e ritmata "Pitchy Mantra", più litanica delle precedenti, ma essendo collocata più in fondo alla scaletta, sembra aver meno da dire. E questa è probabilmente la debolezza di un disco che negli ultimi suoi pezzi, pare smarrire la verve dei primi brani, anche se "The Angry Man" ritrova smalto e brillantezza, nella sapiente coniugazione di psichedelia e blues rock. "The Escape" è il penultimo pezzo del cd, e il vocalist sembra voler provare altre soluzioni vocali (Soundgarden) che si stagliano su di una matrice ritmica costruita egregiamente dai cinque musicisti veneti, in una traccia che mostra ulteriori sperimentalismi sonori al suo interno. In chiusura troviamo "Oracle", traccia più soffice e seducente delle altre che conferma quanto di buono fatto fino ad oggi dai Kayleth. Con un paio di pezzi in meno mi sa tanto che 'Colossus' me lo sarei goduto al meglio, da tener ben presente per la prossima volta. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2018)
Voto: 80

giovedì 21 dicembre 2017

Clouds Taste Satanic – The Glitter of Infinite Hell

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Space Rock
Avere la genialità dalla propria parte non è cosa che appartiene a tutte le bands. I Clouds Taste Satanic ne sono intrisi fin dal loro esordio, geniali e unici lo sono infatti sempre stati, release dopo release. Non sbagliano un colpo i nostri e con questa nuova lunga uscita, 'The Glitter of Infinite Hell, si confermano splendidi sia nei contenuti sonori quanto nel proporre il solito, spettacolare e caratteristico artwork. Il quartetto di New york ci delizia così di un'altra chicca galattica, proveniente dagli inferi e diretta verso lo spazio più profondo ed infinito. Doom, stoner e space rock strumentale spinto all'ennesima potenza, senza plagio né contagio ma una semplice interpretazione originale di un genere musicale ampio e vario, in un suono unico e riconoscibile tra i tanti cloni che trascinano di diritto i Cloud Taste Satanic all'ingresso dell'Olimpo dell'impero psichedelico pesante. In questo lavoro infatti, la psichedelia è resa ancor più intrigante, misteriosa e carica di tensione, in un flusso continuo di stati emotivi che s'intrecciano tra allucinazione e ansia, un viaggio infernale sempre sorretto da un'angoscia che dilata le pupille e agita il sangue di chi ascolta. "Greed", "Treachery", "Violence" e "Wrath", quattro brani incredibili, tutti della durata colossale che si aggira intorno ai 18 minuti. 'The Glitter of Infinite Hell' supera per intensità e bellezza anche il suo, seppur ottimo, predecessore. Musica strumentale che macina rimasugli rock degli anni settanta e li mescola allo space e allo stoner attuale con costruzioni cinematografiche e un'attitudine doom, difficile da spiegare, ma assai facile da adorare, in un rituale che si ravviva ad ogni uscita, caratterizzato da chitarre mastodontiche, cavalcate e mid tempo infiniti, e un lavoro alle sei corde davvero esagerato. Tutti i fantasmi dei miti che hanno fatto grande la musica del deserto e del destino, si presentano all'altare dei Clouds Taste Satanic ad applaudire una costruzione musicale che li evoca, li elogia ma non li copia, anzi li riveste di nuovo e costruisce un nuovo credibile ponte tra passato e futuro, un collegamento fatto con le note e le intuizioni originali di questi quattro musicisti provenienti dalla Grande Mela, in un concetto sonoro che è sinonimo di ottime produzioni e tanta originalità, pur mantenendosi fedele al proprio genere. Dimenticate tutto il resto e fatevi rapire da questa nuova creatura demoniaca, il diavolo vi piacerà come non mai! (Bob Stoner)

sabato 25 novembre 2017

Void Generator - Prodromi

#PER CHI AMA: Psych/Stoner/Krautrock
I prodromi sono delle avvisaglie, dei fenomeni che costituiscono un segno premonitore; mi piace come parola e la trovo azzeccatissima per essere il titolo della quarta fatica dei Void Generator, band nostrana che conferma il buon stato di forma della scena psych-stoner italica e che verosimilmente preannuncia la crescita esponenziale di un movimento musicale sempre più in fermento nel nostro paese. Il disco include quattro song monumentali, di cui solo la prima non sfiora il quarto d'ora, ma si assesta su un più umano sette minuti di durata, il cui sound anticipa il carattere quasi da jam session di questo 'Prodromi'. La song in apertura, "40 Kiloparsecs", mostra immediatamente il carattere cosmico psichedelico del disco, con suoni che sembrano provenire dallo spazio profondo e una musica che potrebbe essere l'ideale colonna sonora per un viaggio intergalattico, con i suoi riverberi, i rumori e le voci rarefatte in sottofondo, ove pulsano anche un basso propulsivo e un drumming serrato, pronti a fiondarci nell'iperspazio. Cosi si entra in quello spazio avente un numero di dimensioni geometriche superiore a tre, perdendo i sensi in "Sleeping Waves", un brano che ci culla nella spedizione interstellare attraverso un wormhole che ci porta in quadranti diversi della nostra Galassia a saggiare suoni e colori di mondi alieni e sconosciuti, che fatichiamo probabilmente a comprendere, ma che evocano vibrazioni, sentori, pulsazioni, elucubrazioni, sperimentazioni che in passato sulla Terra, hanno appartenuto a band come Pink Floyd o alle improvvisazioni cosmico-minimaliste dei Tangerine Dream. Difficile spiegarvi come il disco dei Void Generator riesca ad evolvere nelle successive song, se non sono ben chiare nella vostra mente le origini di un genere, etichettato semplicisticamente come space-krautrock. Dovete aprire le vostre menti, prepararvi ad un incontro con suoni non convenzionali, perché raggiunto l'altro capo della Galassia, sarà impossibile far ritorno sulla Terra, a meno che non si entri in un tesseract, ove modificare il tempo e lo spazio per tornare a ritroso attraverso il tunnel spaziale, sperimentando la ridondanza di suoni che martellano il cervello e ci spingono fino all'ultimo baluardo da superare prima del collasso definitivo all'interno del buco nero generato dal suono dei Void Generator. Tutto più chiaro ora? Se non lo fosse, cosi come credo, sappiate che le elucubrazioni di questa recensione, sono il frutto dell'ascolto ad elevato volume di questo lisergico disco; provare per credere. (Francesco Scarci)

(Phonosphera Records - 2017)
Voto: 85

domenica 27 agosto 2017

Alchemist - Tripsis

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Avantgarde, Voivod, Ewigkeit
Li amo da sempre, forse perché sono stato il loro primo fan fin dal lontano 1992, quando uscì il folle 'Jar of Kingdom'. Dopo tre lustri, gli australiani Alchemist hanno rilasciato il loro canto del cigno, una musica sempre contraddistinta da un extreme avantgarde costituito da elementi rock, psichedelici inseriti in un contesto death metal, a deliziare le mie insaziabili orecchie. 'Tripsis' è il sesto lavoro per l’act australe, uscito per la Relapse Records, che ci ha lasciato gli ultimi nove brani della band di Camberra. L’album si apre alla grande con “Wrapped in Guilt”, song che inizia con una certa vena space rock, simile alle produzioni degli Ewigkeit, per poi viaggiare su un mid tempos in pieno Alchemist style, con la voce mai completamente growl di Adam Agius, a dominare la scena. Dal secondo brano in poi, si capisce che la band è in forma smagliante, sfoderando una prova strumentistica dei singoli, davvero notevole (ispiratissima la batteria). Il quartetto crea melodie stranianti su un tappeto ritmico quasi tribale (questa sarà alla fine, la costante dell’album). La release degli aussy boys, riprendendo là dove aveva lasciato nel 2003 con 'Austral Alien', regala melodie aliene, capaci di miscelare nelle proprie note death, psichedelia, gothic, industrial, elettronica con suoni mistico-tribali propri della tradizione aborigena. “Nothing in no Time” ci spalanca la porta ad un nuovo mondo, grazie alla meravigliosa timbrica del basso di John Bray, in grado di creare atmosfere suggestive, lugubri e oscure; le chitarre schizoidi delle due asce poi, fanno poi il resto, originando, con il loro groove seventies, emozionanti turbinii mentali, girandole di colori e chiaroscuri tenebrosi. Il disco degli Alchemist prosegue in questo modo, spiazzando continuamente l’ascoltatore con trovate geniali: psicotici riffs graffianti, elementi progressive, ubriacanti samples e lampi di creatività, ci consegnano una band all’apice della propria evoluzione stilistica, che con quest'album ha voluto mostrare il proprio lato più speed/thrash orientato, mantenendo comunque, quella brillante vivacità che da sempre ne ha contraddistinto il sound. Gli Alchemist hanno continuano a percorrere imperterriti la loro personale strada che gli è valso l’appellativo di “surfthrash band”. Geniali. (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2007)
Voto: 85

https://alchemistband.bandcamp.com/album/tripsis

domenica 23 luglio 2017

Da Captain Trips - Adventures in the Upside Down

#PER CHI AMA: Space Rock/Jazz/Psichedelia
Non amo particolarmente le band strumentali, si sa. I Da Captain Trips lo sono ahimè interamente e questo è un bel problema per il sottoscritto ma soprattutto per la band che con me ha pensato bene di condividere il proprio album. Tuttavia, il loro stralunato modo di suonare supplisce egregiamente all'assenza di un cantante, fortunelli. 'Adventures in the Upside Down' d'altro canto è un lavoro tutto strano già dalla sua copertina, da quella figura sottosopra allo stesso titolo capovolto, che ancor oggi quasi mi sfugge quale sia realmente il lato giusto per guardare la cover del cd, infine ad un sound tutto particolare contenuto in questa seconda fatica della band italiana. "The Calm And The Storm" apre il disco con la sua musica liquida e lisergica con evidenti richiami agli anni '70, ovviamente riletti in chiave moderna, contaminata da una forte componente space rock liberata nei synth che riempiono la seconda parte del brano. "Manta" è la seconda tappa del viaggio ma anche il pesce protagonista della copertina dell'album dal momento che costituisce un tutt'uno con quell'uomo in procinto di affrontare il suo avventuroso viaggio. La musica strizza in modo più o meno evidente al krautrock e alle suggestioni elettro prog che ne hanno caratterizzato il genere negli anni d'oro. Si prosegue con "Revelation", song più vellutata che riprende visioni cosmiche e suoni ancestrali che sentii per la prima volta nel debut album degli australiani Alchemist, 'Jar of Kingdom', con sonorità che sembrano evocare il canto delle balene, complici i meravigliosi passaggi jazzati affidati al suono del sax di Lee Relfe, guest dei gallesi Sendelica. I suoni proseguono nella loro inebriante delicatezza ed eleganza, con il battito di "Dear Zahdia", song dal mood sicuramente vintage, dinamica e melodica nel suo incedere affidato ad un grande lavoro di sintetizzatori, prima della più lenta e suadente "Trepasses Bay". La traccia non è affatto male, però è sicuramente quella che ha scaldato meno il mio cuore, al contrario della successiva "Peaceful Place", song incollata alla precedente ma assai più piacevole e virtuosa grazie al suo sound riverberato e alle sue splendide atmosfere psichedeliche, con dei tratti che mi hanno ricordato addirittura i The Doors nelle loro visioni più caleidoscopiche. In chiusura ecco il brano più lungo del lotto, "Mother Earth": una chitarra acustica dal vago sapore folk apre il pezzo, seguita da percussioni tribali. La sensazione è quella di essere lontani da casa, magari sulla spiaggia a contemplare le stelle di notte, mentre un fuoco regala il suo bagliore nel buio della notte.

(Phonosphera - 2017)
Voto: 75

https://dacaptaintrips.bandcamp.com/

martedì 4 luglio 2017

Antigone Project – Stellar Machine

#PER CHI AMA: Electro/Space Rock, New Order, Depeche Mode, The Mars Volta
La Dooweet Agency ci presenta il nuovo lavoro degli Antigone Project, uscito a maggio di questo caldo 2017. La band parigina, contraddistinta da una spiccata personalità e da idee variegate, giunge al secondo full length dopo una prima prova che si era rivelata già convincente e coinvolgente. Il mix di elettronica e rock presentato dalla band, rappresenta una formula vincente nonostante le evidenti influenze, echi compositivi che sfiorano i confini sonori di band blasonate come New Order, Depeche Mode, The Music, IQ, Antimatter e parte della musica elettronica/industriale alternativa di casa Project Pitchfork e Skinny Puppy. Devo ammettere con gioia che, nonostante la marcata venerazione per queste band, il cd risulta veramente efficace e comunque suona originale e fruibile all'ascolto. "Poison" apre le danze e mi sembra di rivivere il mito del primo album dei The Music, con una superba voce dalle doti eccelse. "Schizopolis" trasuda EBM da tutti i pori e proietta la band in un atmosfera sintetica alla Gary Numan. "III" è una ballata sulfurea giocata tra synth wave ed etereo dream pop. In realtà, l'album è assai vario, caratterizzato com'è da un suono assai compresso e sintetico, anche quando si parla di rock, o di indie trafitto dalla tecnologia, di un pop lacerato dall'elettronica più trasversale, rumorosa e shoegaze come si sente in "Mantra Nebulae". I puristi del suono castigheranno quest'album per la sua sonorità inusuale (che resta comunque una caratteristica fondamentale della band) centrifugata in un low-fi sotterraneo ed astratto. Cosa che al contrario, affascinerà gli ascoltatori più aperti che gioiranno sulle note di "Raphe Nuclei", così immensa nel suo ricordare i giorni più malinconici dei migliori Radiohead. Robotici, glamour, violenti, acidi e danzerecci, gli Antigone Project rivendicano un posto al sole in una fascia di mercato dove pochi osano confrontarsi, proponendo la loro formula originale di musica controcorrente, appassionata e trasversale. Una band geniale che coniuga rock ed elettronica con la stessa affinità progressiva che ha contraddistinto band come i The Mars Volta, grazie a composizioni sonore che meritano grande rispetto, una voce da brivido (eccezionale a tal proposito Frédéric Benmussa) che cavalca tutti i brani dell'album con una maestria tale da far impallidire chiunque, una rivelazione assoluta che con una produzione mainstream rischierebbe di svettare sopra ogni tipo di classifica alternativa mondiale. Perla assoluta. (Bob Stoner)

mercoledì 28 dicembre 2016

Mare Cognitum - Luminiferous Aether



#FOR FANS OF: Progressive Black Metal, Darkspace
Interesting old album this one. I want to like it, and I kinda do but it's just a bit headache inducing. Perhaps one of those releases where you find the concept/general idea really good, but the execution leaves you wanting.

The most obvious description with 'Luminiferous Aether' is a hi-fi, somewhat maximalist Darkspace. Whereas those swiss guys do a fantastic job conjuring up a cold, lifeless universe populated sparsely by primal, unyielding alien evil, Mare Cognitum basically get something closer to a darker Mass Effect universe. Somewhat grim still, but here the nebulae are in that blazing false colour we're used to, the explosions are bright yellow, and the sound effects are physics defyingly-loud and vibrant.

I have no problem with this- I'm a cheerful guy myself and am perfectly happy to lose myself in a musical version of a jam packed space opera. The main problem is basically that there's not enough dynamics, and there's not enough riffs.

They're pretty intertwined problems, I think. There's enough bands that stay in a forteissmo dynamic for 70 minutes straight and pull it off because good riffs flow from one to the next- things build, despite staying fully loud the whole time. That doesn't really happen here; most of the songs have very promising sections but then there's a tendency to wander off into aimless blasting where nothing much happens, where nothing much progresses. Call it New-Metallica syndrome if you want; you get the feeling that you could cut 25% of each song quite comfortably.

Things just float on in these overtly layered tunes until the songs end. I found myself drifting in and out of focused listening fairly often with this- there's just not enough to grab your attention for the whole album. I reckon a few parts like the album intro would've been a good addition. Mellow parts, when done properly don't have to be soppy or an Opethian exercise in song lengthening; they can make the songs flow better and establish new moods, they can draw a listener's attention back to the song. I'd refer to Spectral Lore's mind boggling 'III', an album of similar ambition and scope, but one that use dynamics one hell of a lot better.

I know I've whinged about this album for much of the review - but honestly I don't hate it or anything. You flick to any particular part of it and for a few minutes you'll be all "jeez, this is pretty cool" as your mind imagines some super futuristic space battles with all sort of mind blowing, space-time shattering weaponry. Problem is a few minutes later you'll likely be absentmindedly checking your email. Worth a look if you're into big, spacey BM - you may well like it more than me. Personally I think I'll stick with Darkspace. (Caspian Yurisich)

lunedì 21 novembre 2016

Howling Giant - Black Hole Space Wizard

#PER CHI AMA: Stoner, Monster Magnet
Bello scoprire ancora gemme in un mondo, quello stoner, che definire inflazionato è un eufemismo. Ancora più bello se sono completamente inaspettate, come questo EP (che, come lascia presagire il titolo, dovrebbe avere presto o tardi un successore) degli Howling Giant, power trio proveniente da Nashville, Tennessee, terra di grandi musicisti e grande musica, anche se prevalentemente di altro genere. Prima parte di un concept album a tema sci-fi, questo 'Black Hole Space Wizard' mette in fila quattro pezzi di hard-psych-space rock di livello assoluto. Chitarre ultra sature, bassi distorti, batteria dalla potenza devastante, groove assassini, tre voci che s'intersecano senza mai perdere efficacia, il tutto confezionato con un suono e una produzione di altissimo livello. Fin dall’iniziale "Mothership" si rimane rapiti dalla compattezza del suono, arricchito da un hammond caldissimo, e da una scrittura che rimanda ai migliori Monster Magnet, quelli di 'Dopes to Infinity'. A colpire è la maturità con cui gli Howling Giant approcciano la materia, e la personalità con cui non hanno paura a misurarsi con modelli tanto ingombranti. Nello spazio di una ventina di minuti mettono in mostra una personalità già formata e sfaccettata, una perizia strumentale e un songwriting dal respiro davvero sensazionale (i sette minuti di "Clouds of Smoke", vero capolavoro del disco, sono in questo senso inarrivabili). C’è spazio anche per la sfuriata stoner-metal di "Dirtmouth", lanciata a folle velocità, dove i tre dimostrano di trovarsi comunque a loro agio. Se son rose prepariamoci ad una fioritura senza precedenti, per il momento, se le coordinate sono minimamente di vostro interesse, procuratevi questo dischetto e godetene appieno. (Mauro Catena)

giovedì 15 settembre 2016

Pervy Perkin - .ToTeM.

#PER CHI AMA: Metal Prog Sperimentale, Devin Townsend
Geni, folli, temerari o cos'altro diavolo sono questi spagnoli Pervy Perkin? La band di Madrid ci spara un mattonazzo di quasi 80 minuti (60 dei quali raccolti in sole tre canzoni) fatto di sonorità progressive che vanno a scomodare Porcupine Tree, Riverside e Devin Townsend, giusto per citare solo alcuni dei nomi più eclatanti che ho individuato durante l'ascolto di '.ToTeM.', visto che poi il disco trova modo di prendere strane pieghe sonore e finire per involarsi in territori che di metal hanno ben poco. La prima testimonianza la si raccoglie con la lunga opening track: "I Believe" dura infatti ben 15 minuti che oltre ad evocare la band di Steven Wilson e soci in sonorità marcatamente prog, trova anche il modo di sprigionare un che dei Queen, ispirarsi ad uno dei molteplici progetti di Mike Patton e nel medesimo frangente anche di fare il verso agli Opeth, quest'ultimi forse per il solo uso delle growling vocals in una matrice prog. La traccia comunque ha le sue pause, tant'è che la sensazione percepita è quella di aver ascoltato almeno 3-4 pezzi visti i cambi ritmici in cui incappa. Dopo il primo ascolto ciò che rimane è l'impressione di aver a che fare con una band davvero originale e pure preparata tecnicamente, il che non guasta di certo in un genere complicato da suonare come questo. Da sottolineare l'aspetto corale delle vocals, cosi come la bravura del frontman, tale Dante The Samurai, in versione clean dietro al microfono. Sostenuto un primo allenamento con la song iniziale, l'intermezzo trip hop di "The City" (stile Portishead per capirci) e la successiva "KountryKuntKlub", traccia che almeno nei primi secondi sembra citare gli Anathema, ma poi sfocia in realtà in un folle (e sottolineerei folle) pezzo country, non ci resta che affrontare la maratona di 26 minuti di "Mr. Gutman", introdotta da un altro intermezzo trip hop. Eccoci quindi al cospetto di questa infinita canzone, dove mi aspetto francamente di sentirne delle belle: l'intro sembra di quelle affidate ad aprire una favola, della serie "once upon a time...". Poi la musica imbocca altre deliranti strade in bilico tra space rock, blues, il teatro dell'assurdo di "zappiana" memoria, colonne sonore, fino ad una ricerca musicale più avanzata, che vede nel prog di Yes o Rush altri mondi esplorati da questi pazzi ragazzi iberici. La song è davvero complessa, si rischia a tratti addirittura di perderne il filo conduttore, soprattutto se si passa dall'hard rock al death metal nel giro di pochi secondi, facendo tappa nel funk alternative dei Primus e l'attimo successivo stiamo già ascoltando musica elettronica, improvvisazioni swing e mille altre diavolerie che hanno il merito (o demerito, fate voi) di disorientare, anzi no, ubriacare letteralmente l'impavido ascoltatore che ignaro si mette all'ascolto di '.ToTeM.'. Probabilmente non vi avrò raccontato esattamente tutto quello che vi ritroverete ad ascoltare in questo brano, però voi pensate a qualsiasi cosa fuori dagli schemi e verosimilmente la incontrerete qui, in quella che è la song più incasinata mai ascoltata in tutta la mia carriera di recensore. Qui ce n'è davvero per tutti i gusti e forse proprio qui potrebbe risiedere il limite dell'album, in quanto alla fine il rischio è quello di non accontentare nessuno o solo quei pochi dalle vedute assai ampie. Certo, i riferimenti musicali all'interno del disco sono vastissimi e serve aver mangiato un'enciclopedia della musica per poterli cogliere tutti. Uno psicotico intermezzo noise e si arriva scossi a "Hypochondria", una song dove i nostri, non paghi del casino fin qui creato, si mettono ad emulare i Pungent Stench con un death malato che comunque qualche secondo più tardi sarà già evoluto nel sound dei System of a Down, a seguire nei Between the Buried and Me o nei Cynic e infine ci si lancia verso sonorità aliene (mancavano solo queste d'altro canto). Direi in generale che il motto dell'act madrileno sia "chi più ne ha, più ne metta", visto che i cinque non si fanno mancare neppure scariche grind (ma è solo questione di decimi di secondo). È il momento dell'intermezzo industrial, tale contaminazione mancava all'appello. Siamo quindi giunti al mostro finale, cosi come in un qualche videogame anni '80. La prima citazione di "T.I.M.E. (Part 1 The Experiment)" spetta ai Radiohead, ma non temete, 20 minuti sono lunghi e c'è il tempo di ascoltare tutto e il contrario di tutto. Eccomi difatti accontentato perché i nostri calano un bel rifferama potente, ovviamente tranciato per lasciar posto a voci sofferenti coadiuvate dalla sola batteria in un pezzo hard rock. Ma i nostri soffrono a non sorprendere i fan, e già in sottofondo si percepisce il desiderio di inserire qualche altro elemento che da li a poco rivoluzionerà completamente l'incedere del pezzo, statene certi. I Pervy Perkin sono fatti cosi, e in questi ottanta minuti ho imparato a conoscerli e ad apprezzare la loro proposta schizofrenica, forse perché un po' schizofrenico lo sono pure io... (Francesco Scarci)

(Rockest Records - 2016)
Voto: 85

https://pervyperkin.bandcamp.com/

lunedì 12 settembre 2016

Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi

#PER CHI AMA: Psych/Math Rock Sperimentale
Arnaud Amaury (in italiano Arnaldo Amalrico) fu prima abate, poi arcivescovo nel Mezzogiorno francese nel tardo medioevo. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello di Papa Innocenzo III, da cui fu incaricato di debellare l'eresia dei Catari durante la Crociata albigese del 1209. Il religioso marciò con l'esercito verso la Linguadoca dove poi a Béziers, fece massacrare migliaia di persone in quanto Catari, ma essendo la maggioranza dei cittadini cattolici, perirono anch'essi nell'azione militare. Sembrerebbe leggendaria (e comunque ancora fonte di discussioni a distanza di ben otto secoli) la risposta che fu data in quella circostanza da Arnaud Amaury a un suo soldato che gli chiedeva come distinguere nella soppressione, gli eretici dai cattolici: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi". E proprio da questa controversa risposta, nasce il titolo della quarta release dei Fuzz Orchestra, un connubio di generi e sottogeneri musicali che ben si amalgamano tra loro in una scoppiettante miscela sonora che include otto brani. Brani che sono innescati dal vibrante e dinamico incedere di "Nel Nome del Padre", song che abbina ad una cavalcata puramente metal, atmosfere da film spaghetti-western, corredate da una serie di parti parlate verosimilmente estrapolate da qualche film anni '60-'70 (nel disco ci saranno anche citazioni bibliche, letterarie e molto altro che ho faticato ad identificare). Questa peculiarità contraddistingue l'intero album, con una ricercatezza nei dialoghi offerti del tutto non casuale, orientata a discorsi di carattere politico-religioso che a distanza di cinquant'anni risultano ancora del tutto attuali. Il genere del power trio lombardo si srotola comunque in una musicalità che coniuga una specie di psych-stoner con sonorità a tratti orchestrali ("Todo Modo"), di cui sottolineerei l'eleganza a livello degli arrangiamenti, grazie alla presenza di una serie di ospiti (N. Manzan, M. Santoro, F. Bucci, S. De Gennaro tra gli altri) e relativi strumenti (violino, fagotto, trombone, timpano) di tutto rispetto, che rendono la proposta dei Fuzz Orchestra davvero di elevato spessore. Lenta e ipnotica, "Born Into This" convince appieno per la presenza dei fiati e per la piega sperimentale che prende nel corso della sua evoluzione strumentale; inoltre il testo non è altro che un riarrangiamento di 'Dinosauria, We', poesia di Charles Bukowski. Decisamente più oscura e angosciante (soprattutto a livello di liriche) "L'Uomo Nuovo", dove i campionamenti noisy sono affidati ad un altro ospite rilevante, Riccardo "Rico" Gamondi degli Uochi Toki. La musica dei Fuzz Orchestra si fa brano dopo brano sempre più aggrovigliante e nella tenebrosa "Una Voce che Verrà", l'atmosfera sprofonda in un baratro da cui la speranza appare fuggita da tempo. Fortunatamente un filo di luce sembra tornare nella successiva "Il Terrore è Figlio del Buio", altro pezzo dannatamente metal (oserei dire speed metal) almeno nella sua prima metà, prima che l'aria si increspi per pochi attimi e che il fuoco divampi nell'incendiario finale che introduce al "Lamento di una Vedova" e ad una fisarmonica che sembra risuonare in una qualche brasserie francese lungo la Senna. Arriviamo ahimè alla conclusione con "The Earth Will Weep", dove altri due ospiti ci stanno aspettando: Simon Balestrazzi (Kirlian Camera tra gli altri) alla piastra metallica e Pl Barberos alla voce, in un brano che sembra mixare tutto quanto fin qui ascoltato in questa incredibile release dedita a metal, noise, colonne sonore, psichedelia, stoner e molto, molto altro. Se siete alla ricerca di qualcosa di fresco, originale o sperimentale, sono certo che 'Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi', potrà di certo fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Woodworm Rec - 2016)
Voto: 85

giovedì 8 settembre 2016

Diana Spencer Grave Explosion - 0

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner, Kyuss, Colour Haze
Il tempo si dilata, rallenta, sussurra. Appaiono orizzonti rossi, sabbia, stelle, spazi infiniti, solitudine. Un deserto oscuro e senza fine, disabitato, dove il tempo perde ogni senso. E invece – sorpresa – siamo a Bari, patria dei Diana Spencer Grave Explosion. Il quintetto sorprende per la capacità di creare straordinarie atmosfere stoner ricche di psichedelia, che sanno trasformarsi, quando serve, in monolitiche architetture di chitarre maestose e headbanging furioso. “Space Cake” gioca su un riffing indovinatissimo, che sa pesare con precisione, distorsione ed effetti, alternandosi tra cavalcate stoner a suon di crash e rullante, e momenti più lisergici. Un piano elettrico dal gusto anni ’70 apre “Avalanche”, guidata da delay spaziali e una melodia riuscitissima fino ad una inaspettata apertura in maggiore. La batteria (che sceglie pattern minimali ma precisi, sullo stile di Brant Bjork) e il basso costruiscono una base solida e granitica su cui poi tastiere (sentite che suoni! assolutamente perfetti) e chitarre hanno ampio spazio di manovra. Sono evidentemente le chitarre a reggere l’intero lavoro, con un sound maturo a metà tra i Kyuss e il kraut rock dei Colour Haze. Ma non è un disco solo stoner, intendiamoci: è l’anima psichedelica dei Pink Floyd e di certi Motorpsycho ad affacciarsi nell’intro della lunga suite conclusiva del disco. “Long Death To The Horizon” riassume in 13 minuti la visione complessiva del quintetto barese, passando da una cantilenante melodia ad uno spirito blues distorto e oscuro, per poi tuffarsi in un oceano stoner di wah e mid-tempo. Il disco si riavvolge apparentemente su se stesso, chiudendo con la stessa magia dell’inizio, tra violini e fisarmoniche di un’improbabile orchestrina. Grande musica, personalità, maturità; ottima produzione; e la capacità, sempre più rara, di far volare l’ascoltatore e catturarlo, dal primo all’ultimo minuto. Se queste sono le premesse, non vedo l’ora di ascoltare il loro full-length.(Stefano Torregrossa)

lunedì 4 luglio 2016

Cosmic Letdown – In The Caves

#PER CHI AMA: Psych/Space Rock/Shoegaze
Secondo album per questi alfieri russi della psichedelia: si stenta a credere che sia passato solo un anno, tanta e tale sembra essere l’evoluzione nel suono, ma anche nell’artwork e nell’immagine, dall’esordio autoprodotto 'Venera', risalente al 2015. Se il primo disco era un’interessante quanto straniante declinazione space-shoegaze del verbo psichedelico, in 'In the Caves' questi cinque ragazzi sembrano aver percorso davvero tanta strada. Abbandonato il cantato in lingua madre, il nuovo lavoro mette in fila cinque composizioni per lo piú strumentali nel segno del miglior psych rock disponibile su piazza. Un suono chitarristico stratificato e avvolgente, steso su un drumming potente, vario e mai banale, il tutto innervato da strumenti a corda indiani e una voce femminile che fa capolino qua e là per innalzare il livello di coinvolgimento che arriva facilmente a toccare vette di rapimento estatico. Laddove l’esordio aveva una struttura più convenzionale e rimandava in maniere piuttosto esplicita a band quali Warlocks o Black Angels, per questo 'In the Caves' provate a pensare agli Spacemen 3 o ai primi Spiritualized alle prese con lunghe improvvisazioni ispirate alla musica mediorientale e avrete solo una vaga idea di questo meraviglioso dischetto, destinato a fondere la vostra mente nello spazio di una quarantina di minuti. La struttura di questi brani è decisamente piú libera ma non per questo la musica appare sfilacciata o poco coesa, al contrario il risultato è quello di un corpo unico, un fluire continuo e coerente di pura ispirazione – ecco perchè appare superfluo indicare una o più tracce come migliori rispetto ad altre - ben supportata da capacità tecniche e inventiva al di sopra della media. Può sembrare abusato, ma un termine come “viaggio” è in casi come questo perfettamente calzante per descrivere l’esperienza sonora mesmerizzante prodotta dai Cosmic Letdown. Se avete anche solo una minima dimestichezza con il genere, o se volete semplicemente abbandonarvi ad un’esperienza totalizzante, non dovete farvi sfuggire questo autentico gioiello. (Mauro Catena)

domenica 17 gennaio 2016

Wows - Aion

#PER CHI AMA: Post Metal/Doom
I WOWS sono un’interessante realtà veronese, una band formatasi nel 2008 che ha subìto una profonda metamorfosi passando dall’alternative rock allo sludge/doom. Tutto questo è avvenuto con calma e razionalità, infatti a cavallo tra il 2012 e il 2013, i nostri hanno registrato a Londra 'War on Wall Street' , un ottimo cd che univa sonorità brit, noise e post punk in modo abbastanza personale. Le sonorità oscure si facevano già spazio tra gli arrangiamenti e le melodie, mentre il vocalist Paolo dava già prova di potenza e tecnica. La band si è lanciata subito in un susseguirsi di live show che li ha portati in giro per l’Italia, aprendo così anche concerti a band nostrane di un certo rilievo. Nel frattempo il pubblico ha cominciato a conoscere la nuova band, grazie anche alla visibilità dei vari video prodotti e pubblicati anche dai portali multimediali, ma intanto i WOWS pensavano ad altro, meditavano una metamorfosi interna, una fusione delle sonorità che ogni singolo elemento del gruppo ascoltava ed amava. Il singolo “Monster Eye”, lanciato nel 2013, infatti sembra un coming out, quattro minuti scarsi che anticipano il lato in ombra dei WOWS, uno stato emotivo irrequieto che non vede l’ora di esplodere e dichiararsi al mondo. Questo accade con 'Aion', il loro nuovo cd, pubblicato da Argonauta Records, dove le otto tracce costruite ed eseguite con precisione e tantissima emotività, sono cariche di lentezza e distorsioni ispirandosi ad ISIS, Amenra, Tool e Cult of Luna. La scena musicale è stata parecchio influenzata da questi mostri sacri e lo si vede dal crescente numero di progetti nati di recente, questo vale anche per i WOWS che non sono rimasti impassibili di fronte alla profondità del post metal. La line up attualmente è formata da sei elementi, appunto Paolo alla voce, Marco e Matteo alle chitarre, Pierluca al basso e l’ultimo acquisto Kevin Follet ai synth e samples. Un piccolo esercito necessario per creare il sound perfettamente calibrato del gruppo, che non lascia niente al caso. Basti pensare alla copertina di 'Aion', un'opera su tela del pittore marchigiano Paolo Girardi che ha realizzato un artwork dai toni tenui, ma apocalittico allo stesso tempo. L’album apre con l’intro “Alexithymia”, un tappeto drone inquietante, pochi beat industrial e un mood ambient che sembra preannunciare l’apocalisse, infatti la traccia si collega direttamente alla successiva "Chakpori", dove la batteria incalza insieme a chitarre e basso per un fraseggio ipnotico, rude che echeggia di delay. Le distorsioni non sono eccessivamente sature come quelle degli Ufomammut o dei Sunn O))), questo permette alla song di avere maggior melodia e più groove. Grandi riff che accelerano per poi rallentare, creando un intreccio ipnotico che attanaglia la mente dell’ascoltatore. Il tutto è perfettamente abbellito dalla grande emotività della voce che trasmette mille sfumature di rabbia, ansia e agitazione interiore che con poca empatia è facile da rivivere sulla propria pelle. Un breve riff di basso permette alla band di lanciarsi verso il finale, un mid-tempo cattivo e possente come non pochi, con tanto di screamo che potrebbe devastare e annientare, tutto questo a pochi minuti dall’inizio dell’album. Poi è la volta di “Nemesi”, probabilmente la mia traccia preferita, sempre oscura, ma con un tono epico a cui difficilmente è difficile sfuggire. Il cantato è inizialmente più disteso, anche i riff di chitarra sono più puliti, ma è solo una preparazione all’esplosione che nei quasi otto di minuti di traccia non tarderanno ad arrivare. Infatti la struttura compositiva si libera dallo schema strofa-ritornello per concentrarsi nel creare tappeti sonori che crescono, si fermano e ripartono improvvisamente. La batteria e il basso hanno un ruolo fondamentale, infatti il largo uso di fusti e tocchi decisi alle corde creano atmosfere che difficilmente si pensavano possibili a questo livello di produzione. Bisogna dire che i WOWS hanno lavorato tantissimo sul suono e grazie all’utilizzo di strumentazioni vintage, il risultato è stato raggiunto perfettamente in “Abraxas” che chiude questo magnifico album e lo fa con lo stile oramai consolidato della band veronese, quindi riff pensati e lenti in puro doom, sfruttando quanto di meglio è stato fatto dagli anni '70, ma rivisto in chiave moderna. Che dire, 'Aion' è un album che lascia piacevolmente colpiti, soprattutto se si va a leggere la storia della band che l’ha prodotto e alla sua evoluzione. Un masterpiece da avere con una copertina che è un’opera d’arte e dal contenuto altrettanto pregiato. Dimenticavo, se volete regalarvi un viaggio sensoriale, non perdetevi uno dei loro concerti, meritano dall’inizio alla fine. Una band giovane che fa dell’umiltà e dell’attitudine un dogma che può solo far bene alla scena musicale. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 80