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mercoledì 18 dicembre 2019

Calendula - Hiveminds - De Brevitate Vitae

#PER CHI AMA: Post Metal/Stoner
Li avevamo lasciati su queste stesse pagine in occasione dell'uscita di 'Aftermaths': era il lontano 2012. Ora i Calendula tornano sulla scena con un po' di novità in seno alla band. A quanto pare infatti, i nostri sembrano aver virato il tiro primordialmente black/crust/hardcore di quel disco, verso un sound più intimista. Questo è ciò che si evince dall'ascolto dei primi minuti di questa single track di oltre 25 minuti, che dà il nome al lavoro, ossia 'Hiveminds – De Brevitate Vitae'. Certo, il retaggio passato vive sempre nelle note di questi musicisti, palesandosi qua e là sottoforma di riff post-metal, atmosfere melmose in pieno stile sludge, schitarrate stoner, o più rade e sguaiate grida hardcore, senza tralasciare anche una certa vena psych che va a collidere con un più atmosferico post-rock. Insomma, l'avrete capito, saranno pure venticinque minuti di musica, ma quella dei Calendula è una proposta un po' atipica, che ha modo di strizzare l'occhiolino anche all'alternative, soprattutto in ambito vocale, con il frontman a testare nuove linee vocali che vanno ad affiancarsi anche a momenti di spoken words. La proposta della band è davvero interessante, stralunata quando al quattordicesimo minuto le chitarre sembrano in preda al delirium tremens o quando la band ricorda di essere transitata in passato in territori black, che al minuto sedicesimo diventano doom, in quella che resta comunque una nevrotica cavalcata corredata da molteplici stili musicali, e che al diciottesimo (sembra quasi una telecronaca di una partita di calcio) sembrano sforare anche nel math e poco dopo nuovamente nel black. Questo per dire che alla fine 'Hiveminds - De Brevitate Vitae' è un lavoro complesso che necessita di grande attenzione e pazienza per essere goduto appieno. Forse non vi piacerà subito, ma dategli più di un'opportunità e non ve ne pentirete affatto. (Francesco Scarci)

mercoledì 11 dicembre 2019

I Maiali - Cvlto

#PER CHI AMA: Noise/Post-Hardcore
Devo ammetterlo: il nome della band mi aveva fatto pensare ad uno di quei gruppi punk più interessati a scandalizzare che a confezionare un’opera in grado di stupire e rivolgersi ad un pubblico eterogeneo. Fortunatamente I Maiali, formazione romana attiva dal 2016, hanno infranto i miei pregiudizi con 'CVLTO', il loro debut album partorito quest’anno dopo un lungo travaglio, vuoi perché questa creatura luciferina è stata concepita là dove scorrono lo Stige e il Flegetonte, vuoi perché i ragazzi hanno preferito prendersi tutto il tempo necessario per lasciar maturare le loro idee. Se la seconda ipotesi è quella giusta, possiamo affermare che è valsa la pena aspettare.

Prodotto da Phil Liar (Monolith Recording Studio), masterizzato presso gli studi americani di Mistery House Sound e pubblicato per Overdub Recordings, 'CVLTO' si compone di dieci tracce roventi come i gironi infernali che evoca fin dall’introduttiva “Ave”, con la quale questo sulfureo concentrato di post-hardcore e noise-rock, inizia subito a scorrere nelle viscere dell’incauto ascoltatore come un filtro che abbia il potere di mettere a nudo i demoni nascosti in tutti noi. Gli ingredienti di questa pozione malefica? Versare copiosamente nel calderone le percussioni incazzate di Angelo Del Rosso, aggiungere le linee nevrotiche del basso di Matteo Grigioni e i taglienti riff della chitarra di Daniele Ticconi e non dimenticare la fondamentale formula magica recitata, urlata e bestemmiata da un mefistofelico Francesco Foschini.

Man mano che i brani si susseguono come una raffica di pugni nello stomaco, ci si rende conto che a colpire non è soltanto la furia sonora (qualità che fortunatamente non manca nel panorama noise e hardcore nostrano), quanto la personalità del quartetto nel destreggiarsi tra reminiscenze di quel rock graffiante e al tempo stesso accessibile che ha fatto le fortune di Marlene Kuntz e Il Teatro Degli Orrori, mantenendo i piedi sempre ben piantati nell’underground e gli occhi puntati verso gente come Nerorgasmo e Negazione. Il risultato è un sound compatto, moderno e dinamico, che si mantiene sempre accattivante, nonostante la rabbia selvaggia sprigionata in “Carne”, le atmosfere cupe di “Abbandono” e la schizofrenia di “Danza come Manson”.

“Adora il cvlto, adora il cvlto” grida ossessivamente il cantante nell’irresistibile title-track, perfetta sintesi dei contenuti di un disco zeppo di riferimenti a rituali poco ortodossi che garantiranno alla band le consuete accuse di oscure venerazioni. Ma qual è il culto oggetto di tanto fervore? E che c’entra il maiale, sbattuto in copertina nell’inquietante artwork del maestro Coito Negato?

Nulla in 'CVLTO' è stato scelto per caso o al solo scopo di scatenare le ire dei paladini di presunte radici nazionali: il rapporto morboso e al tempo stesso contradditorio tra l’uomo e la simpatica bestia, quotidianamente servita sulle nostre tavole malgrado sia il simbolo per eccellenza di impurità, sporcizia e istinti animaleschi, sembra una metafora di una triste consuetudine della nostra società, ossia l’ostentazione fanatica di valori e principi puntualmente rinnegati e sacrificati sull’altare delle nostre ambizioni e dei nostri bassi istinti. Ed è forse proprio questo l’unico culto che onoriamo fanaticamente: l’ipocrisia. (Shadowsofthesun)


(Overdub Recordings - 2019)

martedì 19 novembre 2019

Mur - Brutalism

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Post-Black
Periodo prolifico per la Les Acteurs de l’Ombre Productions, che in poco più di due mesi, ha rilasciato un considerevole numero di release (e il meglio sembra che debba ancora venire). Questi Mur, da poco nelle mie mani, sono in realtà un side-project di act francesi quali Today is the Day, Glorior Belli, Mass Hysteria, Comity e Four Question Marks. 'Brutalism' è il loro debut sulla lunga distanza, sebbene i primi vagiti dei nostri risalgano al 2014 con un EP autoprodotto. Il risultato mi sembra piuttosto buono visto che non sembra il classico lavoro del roster LADLO Prod. La band infatti ci aggredisce con il sound intenso e fresco di "Sound of a Dead Skin" che pare coniugare il post-hardcore con una più sotterranea vena black, espressa probabilmente solo a livello di screaming vocals e di una robusta cavalcata conclusiva al limite del post-black. Ma questa è solo una delle sfaccettature espresse dal sestetto francese in questo lavoro, viste le disturbanti contaminazioni elettroniche disseminate un po' ovunque e un sound comunque più radicato negli estremismi hardcore che black. Ovviamente, bisogna mettere in conto che l'ascolto del disco non sia la classica passeggiata domenicale, viste le influenze rivolte al versante punk/hardcore. È bene quindi prepararsi mentalmente alla "rozzaggine" sonora di "I Am the Forest" o al più imprevedibile approccio catalizzante di "Nenuphar", dove rock, doom, hardcore, black, grind, post ed electro-noise si fondono all'unisono in una miscela polverizzante di suoni. La quarta song dal titolo lunghissimo, che vi risparmio per cortesia, è in realtà il classico raccordo tra la terza e la quinta traccia intitolata "Third", singolo apripista di 'Brutalism'. Scelta più che mai azzeccata viste le stranezze iniziali, le devastanti aberrazioni musicali, le dirompenti vocals, le stranianti ritmiche che probabilmente identificano "Third" come brano più violento e riuscito del disco. Ma le sorprese non finiscono certo qui, c'era da aspettarselo, visto lo stralunato e folle incedere di "My Ionic Self", una proposta non proprio alla portata di tutti, anzi direi da proibire assolutamente ai più deboli di cuore. Mi sa che dovremmo farcene una ragione perchè l'impressione è che man mano si vada verso la conclusione del disco, le sperimentazioni si facciano ben più presenti: "Red Blessings Sea", pur essendo più controllata nella sua furia, ha un impianto ritmico un po' malato. L'incipit elettronico "I See Through Stones" sembra quasi evocare la sigla di 'Stranger Things', prima di evolvere in dirompenti schiamazzi noise industrial black. La cosa che più mi sorprende è che il caos profuso dai Mur alla fine suona sempre piacevole e dinamico e questo è un grosso punto a favore della compagine francese. Un altro pezzo assai interessante (e forse il mio preferito) è rappresentato da "You Make I Real", una traccia emotivamente instabile, dotata di ottimi arrangiamenti e atmosfere apocalittiche che ci introdurranno all'epilogo di "BWV721", l'ultimo atto ambient/noise di questo inatteso 'Brutalism', graditissima sorpresa di fine anno. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 76

https://ladlo.bandcamp.com/album/brutalism

sabato 9 novembre 2019

Nouccello - S/t

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
Al giorno d'oggi è sempre più complicato scrivere le recensioni. Questo lavoro mi è arrivato infatti privo di qualsiasi informazioni, giusto un cd inserito in una foderina trasparente con una scritta sopra, Nouccello. "E chi diavolo sono questi" è stata la mia prima domanda? I Nouccello ("che razza di moniker è questo" è stata la mia seconda) è una band formatasi da un paio d'anni da ex membri di Straight Opposition e Death Mantra For Lazarus ("ma dove diavolo vivo che non conosco nessuna di queste band", il terzo quesito di oggi). La proposta musicale del terzetto pescarese è un hardcore cantato in italiano che si presenta con le note nevrotiche dell'opener "Piano B", una song oscura pervasa da un profondo senso di irrequietezza, che mi conquista immediatamente, sebbene quello proposto non sia proprio il mio genere preferito. "Vertigine" è più litanica a livello vocale; qui ciò che apprezzo maggiormente è il drumming, cosi tentacolare e presente, soprattutto nella sua marziale conclusione. Devo dire che a colpirmi è anche la facilità con cui il trio italico riesce a cambiare umore all'interno di brani cosi brevi (tra i tre e i quattro minuti di durata media) ma intensi. "Aternum, Pt. 1" è un pezzo strumentale che funge verosimilmente come sosta di ristoro prima di imbarcarsi all'ascolto delle successive e dinamitarde song. Arriva infatti "Lo Spettro" e vengo investito dalla violenza punk di voce e ritmica, in quello che è un pugno diretto e incazzato in pieno stomaco. "Episodio 5: Trappola in Mezzo al Mare" si srotola in modo narrativo con un melodia di fondo malinconica, pur mantenendo inalterato lo spirito ribelle della band. "Specchio Riflesso" si apre curiosamente con la voce di un ragazzino a dare istruzioni su come suonare "Tanti Auguri a Te" con l'armonica, poi è solo un'esplosione di pura violenza. Ancora stranezze nell'incipit di "Colpisci il Mostro", prima che la song si muova su direttive musicali più ritmate e bilanciate (ancora ottima la performance del batterista), ove sono ancora i cambi di tempo a colpirmi positivamente, perchè la sensazione finale è quella di aver ascoltato quindici brani anzichè otto. A chiudere, le note post-rock di "Aternum, Pt. 2", il secondo capitolo strumentale di questo lavoro omonimo, che mi ha fatto conoscere ed apprezzare una band, fino ad oggi a me totalmente sconosciuta. (Francesco Scarci)

(Vina Records/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 74

https://www.facebook.com/nouccello/

domenica 3 novembre 2019

Lambs - Malice

#PER CHI AMA: Crust/Post-Hardcore
Che fine hanno fatto i Lambs che ho recensito ormai tre anni fa su queste stesse pagine, in occasione dell'uscita del loro EP 'Betrayed From Birth'? Quella era una band di corrosivo post-hardcore/post-black, mentre i Lambs di oggi, sembrano piuttosto una realtà apparentemente più riflessiva, immersa in un contesto più vicino al post-metal. Questo è almeno quanto si evince dalla song posta in apertura di 'Malice', dall'eloquente titolo "Debug" (song che vanta peraltro la partecipazione di Paolo Ranieri degli Ottone Pesante e il musicista genovese Fabio Cuomo). Che si tratti quindi di una correzione del tiro da parte della compagine cesenate o che altro? Lungi da me trarre conclusioni cosi frettolosamente, visto che il finale della stessa si lancia verso un primigenio caos sonoro che richiama quello stesso corrosivo suono crust che avevo evidenziato in occasione del precedente dischetto, proseguendo addirittura con un sound ancor più aspro nella successiva "Arpia". La traccia si apre con ritmiche sghembe che strizzano nuovamente l'occhiolino alle band black della scena transalpina, per poi infilarsi in mefitici e fangosi meandri sludge (dove i nostri sembrano trovarsi più a proprio agio) e lanciarsi infine, come un treno fuori controllo, in un'ultima cavalcata dalle tinte oscure, non propriamente nere. È quindi il turno di "Ruins" e qui il ritmo va più a rilento, almeno fino al minuto 4 e 37, quando una grandinata improvvisa si abbatte sulle nostre teste. In "Perfidia", una song lenta e magnetica, i nostri si affidano all'italiano per il cantato e il risultato, devo ammettere, si rivela ben più efficace di quello in inglese. Certo, la song è assai particolare, muovendosi tra crust punk, math, uno sfiancante sludge e schizofrenia pura, risultando alla fine la mia song preferita. C'è ancora tempo per l'ultima sassaiola, quella affidata a "Misfortune", un brano che tuttavia parte piano con un timido esempio di post-rock in stile *Shels, con la tromba di Paolo Ranieri in sottofondo. Come anticipato però, di sassaiola si tratta e non c'è niente da fare, non la si può scampare quando esplode nella sua furia distruttiva. I Lambs cercano di attutirne i colpi, rallentando pericolosamente l'incedere intimidatorio del pezzo. Il giochino riesce alla grande ma alla fine provoca un giramento di testa non da poco, che mi sa tanto che mi accompagnerà per parecchio tempo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2019)
Voto: 72

https://lambsit.bandcamp.com/album/malice

sabato 26 ottobre 2019

Treehorn - Golden Lapse

#PER CHI AMA: Stoner/Noise Rock, Post-Hardcore, Melvins, Unsane, Big Black
Gli appassionati di storia come me (appassionato suona meglio di nerd) si saranno sicuramente imbattuti nel termine “epoca d’oro”, usato per identificare l’apice di una civiltà, di una nazione, di una corrente di pensiero o artistica. Si tratta di fasi determinate dal contemporaneo verificarsi di condizioni favorevoli e che possiamo ritrovare anche su scala più piccola, come ad esempio nelle nostre vite: a tutti è capitato di attraversare un periodo particolarmente propizio durante il quale si saranno presentate occasioni lavorative, realizzazioni personali e conquiste sentimentali. Certo, nulla dura in eterno, l’epoca d’oro è destinata ad esaurirsi e magari ci saremo poi ritrovati a raccoglierne le macerie: è una legge storica ed è probabilmente il motivo per cui dovremmo soffermarci a godere di quei brevi momenti in cui tutto fila liscio, momenti d’oro appunto. In 'Golden Lapse', i Treehorn non raccontano di epoche d’oro, anche perché basta dare un'occhiata alle notizie di cronaca o scorrerne i commenti sui social per capire che sarebbe fuori luogo: l’intervallo di tempo di cui parlano potrebbe essere quello trascorso tra il 2014 a oggi, passato lontano dai palchi e senza dare segni di vita. Cinque anni di assenza sono praticamente un eone e un gruppo viene considerato spacciato per molto meno, tuttavia questa pausa è servita a far germogliare le idee del trio di Cuneo (zona dove peraltro non sembra mancare il terreno fertile per del sano rock pesante, basti pensare a Ruggine, Cani Sciorrì e Dogs For Breakfast), portando lo stoner/grunge del precedente 'Hearth' ad un nuovo stadio di evoluzione, ossia questi dieci pezzi stortissimi e furibondi che non appartengono completamente né allo stoner, né al grunge, né al noise o all’hardcore: sono dei Treehorn e tanto basta, i quali hanno miscelato questo e quel genere secondo una personale ed esplosiva formula. La prima traccia “The Recall Drug” mette subito in chiaro le intenzioni della band: è un missile sparato a velocità ipersonica verso coordinate tutte sbagliate e di cui è impossibile determinare la rotta, ma che sicuramente si schianterà su ciò che incontra. Pezzi come “Virgo, Not Virgin” (un richiamo a “Taurus, not Bull” presente su 'Hearth'), “The Same Reverse” e “Damn Plan”, si sviluppano tra spericolate cavalcate del più classico stoner rock ed improvvise destrutturazioni noise, dove la chitarra si lancia in tormentosi riff sghembi, sorretta dalle percussioni massicce e da un basso cupo e fangoso; in 'Golden Lapse' però c’è anche spazio per composizioni meno intricate e non per questo scontate o meno adrenaliniche, come “Onlooker” and “Hell and His Brothers”. “A Shining Gift” sembra essere uscita dopo un tamponamento a catena tra Unsane, Melvins e Big Black, mentre "Modigliani", che si apre con un feroce giro di basso, si avvicina invece al più malato post-hardcore, manifestando punte di estrema sofferenza e anche malinconia. Dopo il breve intermezzo atmosferico di “Lapse”, scandito da rade note di chitarra, ecco la conclusiva e pachidermica “Coward Icons” che tira le somme di tutto il lavoro. Quale sia il motivo conduttore dell’album è difficile stabilirlo: un invito al “carpe diem” probabilmente, tuttavia “Lapse” si può tradurre anche con “sbandamento morale” e i titoli di molte canzoni, così come l’artwork luciferino, potrebbero giocare sull’ambiguità del termine. In questi cinque anni di “ghosting”, ai Treehorn è accaduto quello che molti avrebbero sperato succedesse ai Tool negli ultimi tredici: trovare i giusti stimoli, le giuste energie, la coesione di tutti gli elementi della band, l’ispirazione più pura e quel pizzico di “machissenefrega, noi suoniamo” che è terreno fecondo per l’opera di un musicista. 'Golden Lapse' è un lavoro spaccaossa che gode di freschezza, suoni potentissimi e un efficace songwriting, il tutto magistralmente enfatizzato da una produzione fantastica (registrazione a cura di Manuel Volpe e master di Enrico Baraldi, scusate se è poco): prendetevi un attimo di tempo per ascoltarlo e vi garantisco che sarà il vostro momento d’oro. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Brigante Produzioni/Vollmer Industries/Taxi Driver Records/Canalese*Noise/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 80

lunedì 23 settembre 2019

Kora Winter - Bitter

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math, Between the Buried and Me
Un paio d'anni fa, proprio in questo periodo, mi apprestavo a recensire 'Welk', secondo EP dei berlinesi Kora Winter. La band teutonica torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, 'Bitter', il vero debutto su lunga distanza per i nostri cinque musicisti. Forti dell'esperienza maturata in tour con gente del calibro di Rolo Tomassi o The Hirsch Effeckt, la band ci offre otto isterici pezzi che proseguono con la proposta già ascoltata in passato, ossia all'insegna di un imprevedibile math/post-hardcore/screamo. "Stiche II" mette in mostra immediatamente tutto l'armamentario in mano ai nostri, con una dolce melodia su cui s'incagliano i vocalizzi psicotici (in lingua tedesca) del frontman; a dire il vero, il brano sembra più una intro che un pezzo vero e proprio, visto che è con "Deine Freunde (Kommen Alle in Die Hölle)" che emerge più forte la struttura canzone e con essa tutto il delirante approccio post-hardcore nelle partiture più ritmate e melodiche, che fanno da contraltare alla più ruvida e acida componente estrema della band, che sembra coniugare in poche ma efficaci accelerazioni post black, anche metalcore e mathcore, in un impasto sonoro davvero pericoloso quanto furente (ed efficace). I brani si susseguono in un altalenante mix di generi: con "Eifer" si parte in quinta, ma poi un chorus ed una linea di chitarra alquanto dissonante, ci conducono in territori stravaganti, quando, fermi tutti, la proposta dei Kora Winter, si sporca di influenze alternative, con tanto di voci pulite in una sorta di emo un po' ostico da digerire, almeno per il sottoscritto, che da li a pochi secondi, avranno comunque il tempo di abbracciare altri suoni che dire cattivi è dir poco. Ma niente paura, si cambia ancora registro con la spettrale title-track, che al suo interno sfodera sverniciate di violenza estrema, rallentamenti furiosi, aperture al limite dell'avanguardismo e di nuovo montagne di riff e rullanti infuocati, in un'altalena musicale ed emozionale spaventosa (che vede addirittura l'utilizzo di vocals evocative in stile Cradle of Filth). C'è di tutto qui dentro e se non si è abbastanza flessibili di testa, il rischio di switchare al nuovo album dei Tool, potrebbe rivelarsi assai elevato. Ancora suoni stravaganti con l'incipit di "Coriolis", in cui batteria e chitarra (e poi anche voci, in tutte le forme possibili) s'inseguono come in un gioco di guardia e ladri, in oltre otto minuti di frastagliatissime e funamboliche ritmiche che portano i nostri ad ammiccare un po' a destra e un po' a manca, e relegando alla seconda parte del brano, eleganti momenti post metal sulla scia dei connazionali e concittadini The Ocean. Prova convincente non c'è che dire, confermata anche dalla folle proposta di "Wasserbett", un pezzo che col metal, fatta eccezione per le pesanti chitarre, sembra aver poco a che fare. Scendono colate di malinconia, almeno a tratti, per la corrosiva "Das Was Dich Nicht Frisst", tra le song più tecniche dell'album, per questo ancor più complicata e sperimentale, soprattutto nella sua parte vocale. A chiudere quest'intrepida opera prima dei Kora Winter, ecco arrivare "Hagel", un'altra piccola perla che, se non avesse avuto il cantato in tedesco (per me il vero limite della band ad oggi), sarebbe stata ancor più convincente, visti i richiami anche ai Cynic e pure uno spettacolare assolo conclusivo. Per il momento accontentiamoci dell'incredibile portento sonoro offerto dai nostri, in attesa di altri sconvolgimenti futuri. (Francesco Scarci)

(Auf Ewig Winter - 2019)
Voto: 76

https://korawinter.bandcamp.com/album/bitter

giovedì 4 luglio 2019

Breach - Kollapse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Hardcore/Post-Punk
Non ricordo esattamente quando ascoltai 'Kollapse' per la prima volta. Ho iniziato a nutrirmi di post-metal quando mi fu consigliato 'Oceanic' degli Isis nel 2007 e da lì iniziai una caccia a tutto ciò che aveva “post” nell’etichetta, setacciando gruppi dagli elenchi di Wikipedia (sì, sono triste, lo so) o pescando album dai blog e credo di essere inciampato nei Breach così, mentre cercavo roba dei loro “vicini di casa” Cult Of Luna. 'Kollapse' era uscito nel 2001, sempre quell’anno i ragazzi di Luleå avevano capito che oltre era impossibile andare e si erano sciolti. Fu amore al primo ascolto e nel giro di poco tempo mi procurai 'Venom' (2000, altro disco allucinante), mentre solo più tardi avrei apprezzato a ritroso 'It’s Me God' (1997) e 'Friction' (1995). C’è qualcosa di malsano nel furibondo hardcore altamente contaminato dei Breach, un’energia selvaggia e ingovernabile che pochi altri gruppi riescono a trasmettere in modo così tangibile (vedi i Botch, band dal percorso simile): è come un’unione instabile tra forze contrapposte e, benché la loro uscita di scena sia definitiva (reunion lampo nel 2007 conclusa con la distruzione della strumentazione), non stupisce che ancora oggi siano una delle formazioni più influenti per gli amanti della scena post-hardcore e metal. 'Kollapse' è il canto di un cigno malato e incazzato nero per esserlo, un cigno che probabilmente sa di essere prossimo alla dipartita. È quella sottile malinconia che affiora qua e là tra le macerie a rendere questo album unico, straziante a livelli quasi insopportabili e profondamente introspettivo, malgrado quei chitarroni pesanti, le rullate tribali di batteria e quel basso che sembra voler fare tutto a pezzi. Anche la copertina minimal grigia, con l’aereo appena stilizzato e cristallizzato nell’attimo prima dello schianto, trasmette una sensazione di catastrofe imminente ed inevitabile: è facile leggervi tristi presagi relativamente al futuro della nostra società. Basta la traccia di apertura “Big Strong Boss” per farci venire la pelle d’oca: i Breach partono piano, quasi in sordina, lasciando spiazzati chi li aveva lasciati ad evocare demoni in 'Venom'; poi a piccole dosi iniziano a rilasciare gocce sempre più pesanti di disagio e le distorsioni acide a poco a poco, riempiono i precari paesaggi da sogno dell’intro deformandoli in un crescendo di mostruosità da cui non è possibile fuggire. Lo sviluppo dell’album è capriccioso e bipolare: pezzi come “Old Ass Player” e “Alarma” ci riconducono nel pieno delirio dei dischi precedenti e i Breach vi scatenano tutta la loro furia hardcore, o meglio, quel loro particolare hardcore bastardo e contaminato da sludge e da scorie di noise e di rabbia, mentre apprezziamo alla voce un Tomas Hallbom indemoniato più che mai nell’urlare contro un cielo buio e temporalesco. Gli inquieti intermezzi post-rock come “Sphincter Ani”, “Teeth Out” e “Seven”, pur nella loro calma apparente, rappresentano i momenti più disturbanti dell’album, onirici nelle loro atmosfere crepuscolari (in particolare "Teeth Out", in cui fanno capolino persino le delicate note di un glockenspiel), ma rese angoscianti dai nervosi fraseggi di chitarra e pronte a tramutarsi in incubi quando basso e percussioni iniziano ad aumentare di intensità. “Lost Crew” scompagina tutte le carte in tavola: furia punk rock, isteria post-punk e pesantezza metal, influenze mescolate tutte insieme in un cocktail omicida e sparate su un ritmo quasi danzereccio e su cui l’headbanging è obbligatorio. È probabilmente l’apice di un album che si mantiene costantemente su livelli altissimi, soffocandoci nel feroce hardcore di “Breathing Dust”, travolgendoci con la velocissima “Murder Kings And Killer Queens” e facendoci definitivamente impazzire insieme a Tomas, nelle allucinazioni sonore di “Mr. Marshall” (da chi avranno preso spunto i Daughters?). L’album si conclude con la lunga title-track, un pezzo strumentale che per certi versi richiama le sonorità di "Teeth Out", ma che si evolve tra cupi intrecci strumentali e fugaci bagliori di un tramonto lontano, lasciando un tangibile senso di perdita: i Breach si stavano infatti avviando verso l’addio, chiudendo e coronando la loro carriera con questo quadro dai colori stridenti, perfetta espressione di disagio esistenziale e desiderio di ribellione, pessimismo e speranza, emozioni contrastanti sperimentate tutte insieme. (Shadowsofthesun)

(Burning Heart Records - 2001)
Voto: 95

https://www.facebook.com/breachofficial/

domenica 23 giugno 2019

Zambra - Prima Punta

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Post-metal, Breach
Soffocare e resistere. Soffocare nel cemento di periferie infinite, negli scarichi di auto incolonnate lungo dedali di superstrade, nelle folle di centri commerciali sempre più grandi e numerosi. E resistere a questo fiume in piena fatto di rifiuti, indifferenza e degrado che è la nostra società in corsa verso il baratro. 'Prima Punta', primo long playing degli Zambra, è tutto questo: un hardcore plumbeo e soffocante, brutalizzato da influenze metal e contaminato da escursioni post-rock e noise, tanto in grado di far soccombere l’ascoltatore sotto il peso del disagio esistenziale, quanto di suscitare un acuto desiderio di ribellarsi a questa deriva.

L’artwork del disco, raffigurante un’oscura boscaglia in contrasto con bianche montagne sullo sfondo (il cui profilo aguzzo non a caso richiama anche il logo della band di Sesto Fiorentino), potrebbe essere interpretato come un tentativo di esorcizzare le malsane atmosfere urbane che caratterizzano i brani, tuttavia l’andamento a zig-zag dei picchi ci fa pensare anche alla rappresentazione grafica di una tendenza dall’esito funesto.

Ed eccoci ai pezzi: i maestosi riff di “Metano”, una miscela tossica di post-hardcore e sludge,ci accolgono a cazzotti in faccia con quella che potrebbe essere la colonna sonora per una prognosi infausta urlata ad un paziente che non ne vuole sapere di ascoltare i consigli del medico. Comprendiamo che il carburante di 'Prima Punta' non siano i veleni che inquinano l’aria delle nostre città, quanto la rabbia e la frustrazione espresse dall’alternarsi di slanci hardcore dal sapore marcatamente anni novanta e deflagrazioni post-metal degne dei Neurosis di 'A Sun That Never Sets': queste sensazioni generano la scintilla che mette in moto la marcia implacabile di “FoscO” e trasudano dalle ritmiche laceranti di “Ambra”, mentre gli spasmi nervosi di “Rimaggio” evocano suggestioni post-apocalittiche.

Grinta e dinamiche incazzate dunque non mancano nell’album, ma è da sottolineare l’eclettismo degli Zambra nel non appiattirsi unicamente sulla pesantezza sonora e ricercare costantemente intrecci più elaborati, benché sempre al servizio di atmosfere decadenti ed introspettive: ne sono un esempio l’inquietante esperimento noise\ambient di “Yanusz”, l’ipnotica e rituale “Oca Bianca” e lo straziante inno di sofferenza e disillusione che è “Lottarox”. Chiude “Sun Chemical”, brano di oltre sei minuti che ci lascia una triste fotografia del nostro probabile futuro, fatto di tramonti nascosti dai fumi delle ciminiere, dal cemento di squallidi palazzi e dall’acciaio di gru puntate verso il nulla.

'Prima Punta' è un disco istintivo, genuino e che va dritto al sodo, proprio per questo vi entrerà nel cuore. È un grido disperato nella cacofonia di rumori urbani, lo sfogo per il fardello di insofferenza che tutti ci portiamo dentro e di cui vorremmo liberarci: prendiamo esempio dagli Zambra e forse qualcuno inizierà a chiedersi il perché di tutte queste urla e forse non sarà troppo tardi per invertire la rotta. (Shadowsofthesun)

(Black Candy Records/Coypu Records - 2018)
Voto: 86

https://zambra.bandcamp.com/album/prima-punta-lp-2018

martedì 21 maggio 2019

Orso – Paninoteca

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Pelican
Sono sincero, con una copertina del genere e un titolo così, ho fatto fatica a prendere sul serio la proposta degli Orso. Tuttavia, alla prova del play sono rimasto piacevolmente sorpreso, a riprova del fatto che non va mai giudicato un album dalla sua copertina. La proposta degli Orso è un post metal sludggione strumentale, pregno di ambienti e di dissonanze che penetrano come lame sotto la pelle. Più si prosegue nel disco poi, più i toni oscuri e maligni entrano nel cervello come una colata di petrolio incandescente. L’incipit "Sloppy Joe" riversa lapilli di lava nei timpani dell’ascoltatore, tra bordate di batteria violente, arpeggi in stile Deathspell Omega da far rabbrividire anche il più efferato metallaro. "Choripan" con i suoi otto minuti abbondanti di ambienti, descrive degli scenari da film, senza privarsi di momenti pesanti dove i distorsori prendono il sopravvento sulle scie dei delay. "Horseshoe" dimostra poi come i quattro ragazzi di Losanna siano in grado di scrivere ottimi riff sludge riuscendo ad ottenere quei landscapes alla Pelican, ma anche alla Melvins, fino a sfociare in sfuriate vicine al post hardcore. In generale, ogni pezzo si svolge come una storia a sé e definisce come un racconto, fatto di pieni e vuoti, di rilassamento e di intensità. Un disco non facile 'Paninoteca', dove la sua seconda parte si dimostra assai più ardua da ascoltare, diciamo che avrei apprezzato fosse durato la metà, in ogni caso non è un difetto che disturba più di tanto, quanto la mancanza di significato. Mi spiego meglio, questo disco non manca di tecnica, non di buone canzoni o di arrangiamenti, semmai manca di un messaggio, tutto quello che sta intorno alla musica. Dobbiamo sempre ricordarci che le canzoni sono fatte per essere ascoltate e che l'ascoltatore ha bisogno di un contesto e di un significato per capire in cosa sta investendo, in questo caso quasi un’ora della sua vita. Ecco 'Paninoteca' non mi pare proprio un messaggio adeguato alla proposta musicale degli Orso; se non avessi ricevuto questo disco dal Pozzo dei Dannati, non mi sarei mai e poi mai lanciato nell’ascolto di un lavoro con un titolo del genere. Sarebbe un disco quasi perfetto musicalmente, con personalità, talento e attenzione ai suoni ma ragazzi, siate più seri, la mollica di pane in copertina non si può proprio guardare. Esistono artisti grafici talentuosissimi, per nominarne un paio STRX e Coito Negato che per un investimento esiguo avrebbero potuto rendere graficamente la vostra musica in maniera decisamente migliore; allo stesso modo in cui avete affidato il mix al chitarrista dei Converge e il master a Magnus Lindberg (Cult of Luna), avreste dovuto curare la parte grafica e il messaggio allo stesso modo. Un vero peccato che penalizza pesantemente il mio voto conclusivo. (Matteo Baldi)

(Czar of Crickets - 2019)
Voto: 62

https://orsoband.bandcamp.com/album/paninoteca

lunedì 13 maggio 2019

Abraham - Look, Here Comes the Dark!

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, The Ocean
Disco uno. Suoni pesanti. Wave. Stoner. Panico. La fine dell'anthropocene, il declino e la conseguente scomparsa del genere umano. Era ora. Disco due. "Phytocene". Immaginate che la specie dominante del pianeta Terra sia ora una gigantesca ortica telepatica e iraconda. Rarefazione, linfa pulsante. Disco tre. "Mycocene". Psichedelia. Spore. Quattrocentomila dopo Cristo. Grosso modo. La Terra è infestata di piccoli bizzarri funghetti del tutto simili a quelli che avete assunto l'altra sera. Disco quattro. "Oryktocene". Pulviscolo. Radiazione di fondo. Erosione. Estinzione totale. Quattro dischi quattro, uno per era geologica. Da oggi fino alla fine del tempo. Centotredici minuti di musica. Un'eternità. Sonorità grevemente concrezionali e limpidamente riverberanti, qualcosa a metà tra una specie di ultra-doom amniotico post-crepuscolare ("To the Ground", per esempio) e una sorta di psych-stoner diffratto e ultrapercettivo ("God Pycellium" per esempio). Di tanto in tanto, divagazioni jazz-core ("Wonderful World" per esempio) e magma-drone ("Wind" per esempio). Estenuante. (Alberto Calorosi)

martedì 16 aprile 2019

Sick Sad World - Imago Clipeata

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Post-metal
A cinque anni di distanza dal precedente 'Murmuration', tornano i Sick Sad World, il moniker scelto dalla band francese, perfetto ad indicare questo nostro mondo triste e malato e testimoniare quanto il paese dei nostri cugini, sia attivo egregiamente un po' in tutti i generi musicali. Si perchè la compagine di quest'oggi ci porta nel mondo del post-hardcore, quello esistenziale ed emotivo. L'ensemble, originario di Nantes, ci offre sei tracce, che nascono dalle cupe tonalità di "The Family" e calano il sipario con "The Rope". L'opener mette comunque in mostra le eccelse qualità del quintetto sfoggiando appunto un tono dimesso, un suono compassato che si muove tra il post-metal e il post-hardcore appunto, con un rifferama compatto che trova in un paio di rallentamenti acustici e nelle sue improvvise accelerazioni, i propri punti di forza. A sottolineare la prova dei nostri aggiungerei anche l'ottima e caustica performance dietro al microfono di Julien, ma in generale, è tutta la proposta dei Sick Sad World a fare breccia nelle mie corde. Anche con la seconda e lunga "Battlefield" infatti, mi lascio travolgere da quelle vorticose ritmiche che prendono spunto dal post-black e si dilatano successivamente in partiture post-rock con tanto di voce pulita e sofferente che esalta ulteriormente la riuscita di questo brillante 'Imago Clipeata'. Devastante l'attacco di "Destroy" ma c'era da intuirlo, visto il titolo. La musica parafrasa alla perfezione la distruzione, probabilmente per quei suoi chitarroni ultra ribassati e quei vocalizzi acidi che li accompagnano. Quello che poi mi sorprende, sebbene non sia proprio una novità, è la capacità di questi musicisti di variare alla grande il tema principale e passare con estrema disinvoltura da scorribande post-core a melliflui rallentamenti o melmose atmosfere sludge. E vi dico che "Destroy" ci riesce alla grande, guadagnandosi il titolo di mia song preferita del disco. Non che la successiva "Echoes" sia da meno, grazie a quel suo magico incipit affidato a basso, piatti e voce in sottofondo, una perla che ammicca, tra gli altri, anche ad un certo dark/post-punk che completa alla grande il quadro di influenze dell'act transalpino. Ah dimenticavo, le melodie incluse in 'Imago Clipeata' sono davvero buone ancora una volta a testimoniare quale e quanta sia la maturità raggiunta dai Sick Sad World giunti ormai alla loro terza release ufficiale. Ancora suoni soffusi in apertura con "Market", voci sussurrate, tocchi di chitarra arpeggiata in quella che forse è la song più malinconica del lotto, anche quando nella seconda metà sembra incattivirsi e pestare maggiormente sull'acceleratore. "The Rope" dicevamo come ultimo atto del cd: un modo di calare il sipario con i controfiocchi grazie ad una song controversa, feroce, seducente, emotivamente instabile, depressa, insomma la summa del triste e malato mondo dei Sick Sad World. (Francesco Scarci)

martedì 19 marzo 2019

Membrane - Burn Your Bridges

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Noise, Time To Burn, Today Is The Day
È evidente che ci sia una forte correlazione tra la musica e il contesto sociale di un paese, e se diamo un’occhiata ai gruppi che negli ultimi anni sono venuti alla ribalta nell’underground francese (in precedenza piuttosto snobbato dalle nostre parti) ci accorgiamo di una realtà parecchio incazzata: i vari Celeste, Time To Burn, Birds In Row e Daïtro, hanno iniziato a portare questo disagio sui palchi dell’Europa ben prima che questo diffuso malessere esplodesse nelle tensioni e nelle confuse proteste che oggi dominano la cronaca d’oltralpe.

I Membrane, terzetto nato in una piccola cittadina di provincia, non hanno goduto della visibilità ricevuta invece da molti altri compatrioti delle scene hardcore e metal, cosa che appare strana vista la carriera quasi ventennale caratterizzata da una vivace attività live, puntellata da periodiche release e ora coronata dall’ultima uscita, questo 'Burn Your Bridges' che nulla ha da invidiare agli album di band più blasonate e che già dal primo ascolto ci travolge come un fiume in piena ingrossato dalle acque di tumultuosi affluenti noise rock, post-metal e post-hardcore. Parliamo di sette tracce dense e scurissime, caratterizzate da ritmiche di batteria telluriche e linee di basso feroci a supporto dei soffocanti accordi di chitarra e del cantato rabbioso, perfetta colonna sonora per un viaggio tra le macerie della vita e le perdite che ognuno di noi deve affrontare.

L’ipnotico arpeggio di chitarra e le due voci supplicanti che ci accolgono nella prima traccia “Stand in the Rain” ci ingannano con la loro sacralità: l’apparente catarsi termina dopo un minuto e mezzo, spezzata da un riff tonante che possiamo tranquillamente accostare a quelli dei Neurosis più indiavolati: dei Membrane colpisce proprio la disinvoltura nell’accostarsi ad alcuni mostri sacri e la capacità di combinare diverse influenze in modo omogeneo e dare spazio ad elementi che coprono un ampio spettro musicale, dal furioso hardcore di “Childhood Innocence” agli isterismi ritmici di “Battlefield”, brano a cavallo tra noise e sludge, lanciato all’inseguimento dei Today Is The Day e dei Breach.

Ritroviamo una chiara ispirazione a Scott Kelly e compagni in “Burn Your Bridges”, breve traccia che funge da spartiacque dell’album a cui dà peraltro il nome, con i tristi accordi di chitarra pulita e le voci ora sussurrate, ora lancinanti nell’esprimere il bisogno di “bruciare i ponti” con un passato doloroso o forse con un presente alienante. Scendiamo la china, o meglio, precipitiamo a folle velocità durante “Fragile Things”, dove fanno capolino influenze post black metal e crust, e affrontiamo la tempesta di “Windblown”, altro pezzo di pura disperazione da percorrere tra grida strazianti, percussioni implacabili e le dure sferzate di chitarra e basso. In chiusura troviamo “At Long Least”, che si apre con un angoscioso giro di basso prima di consumare l’ultimo e più pesante carico di rabbia, che al minuto 3.20 raggiunge il limite del sopportabile.

Efficace, diretto e ben prodotto, 'Burn Your Bridges' è un disco che colpisce subito al cuore, in cui dominano le fiamme della ribellione in contrapposizione alla dilagante oscurità del disagio esistenziale e della depressione: difficile dire quale dei due elementi alla fine trionfi, ma l’energia trasmessa dai Membrane va letta come un invito a reagire anche nei momenti più bui. Insomma, i ponti da bruciare e le paure da sconfiggere sono prima di tutto dentro di noi. (Shadowsofthesun)


martedì 12 febbraio 2019

Winter Dust - Sense by Erosion

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Post Metal, Cult of Luna
Di band post rock ne è pieno il mondo, ma sono poche quelle che sanno davvero trasmettere qualcosa e i Winter Dust figurano esattamente tra queste. La carica emotiva dei pezzi contenuti in 'Sense by Erosion' è infatti davvero potente e riesce a smuovere anche quegli animi impietriti dalla routine e dalle ore passate davanti al pc. Una vera cura per l’anima quindi. Le chitarre stratificate in mille layer psichedelici tessono a volte una trama di seta ed in altri casi strati di ferro, come una cotta di maglia impenetrabile. Complice la proficua vena post-hardcore, caratteristica fondante della band, che s'insinua nelle soavi linee melodiche come acido muriatico, la struttura, gli arrangiamenti, nonché la resa su disco della musica dei nostri, risultano sempre brillantemente bilanciate grazie all'opera dietro alla consolle di un egregio Enrico Baraldi. Una fusione tra Sigur Ros e Russian Circle, tra Cult of Luna e Mogwai con violente esplosioni vocali, laceranti grida disperate che rompono la magia degli eterei affreschi allucinogeni per innalzare lo stato mentale ad un’altra dimensione e per allargare violentemente la percezione. Notevole e mio preferito il brano "Duration of Gloom", che nei suoi nove minuti di durata passa per tutti gli ambienti che i Winter Dust riescono a dipingere, divenendo cosi il brano più rappresentativo del disco. Una menzione d’onore anche alla chiusura affidata a "Stay" con i suoi soffici ambienti di pianoforte che ci cullano fino alla fine del disco. Ascoltare i Winter Dust è come starsene stesi sull'erba, con il viso proiettato a guardare le stelle di notte e avere la netta sensazione di vedere i movimenti degli astri, di capire come si sfiorano nella loro eterna danza e di sapere che in fondo, non siamo altro che degli ammassi di cellule su una roccia lanciata nello spazio a centomila km/h. (Matteo Baldi)

(Dischi Sotterranei - 2018)
Voto: 80

lunedì 11 febbraio 2019

Flying Disk - Urgency

#PER CHI AMA: Noise Rock
Il trio volante, dopo quattro anni dal fortunato 'Circling Further Down', torna con il nuovo album 'Urgency', prodotto e distribuito da Brigante Records, Scatti Vorticosi e Edison Box. Dal lontano 2010 la band ha fatto parecchia strada, suonando in tutta Italia e affacciandosi oltre confine per brevi ed irruenti incursioni noise punk rock/post-hardcore. La band piemontese ha scelto otto brani per raccontare chi sono oggi i Flying Disk e cos'è successo in questi quattro anni frenetici. "One Way To Forget" inizia in maniera dirompente con un gran riff scaccia noia, la chitarra elettrica si destreggia con un sapiente uso delle corde, distorsore e influenze anni novanta che fanno sorridere noi vecchie rocce, ma che fortunatamente ammaliano ancora. Il nervosismo della sezione ritmica non è li per fare solo presenza, si prende la responsabilità di spingere e far sentire la botta del buon rock. Tre minuti che fanno da ottimo biglietto da visita per l'ensemble cuneese che dimostra subito di aver fatto i compiti senza diventare però il classico secchione anticipatico della scuola. Poi arriva "Straight", che attacca come i vecchi Verdena con quell'attitudine che vien voglia di ondeggiare la nostra estremità superiore per godere al meglio di un brano che andrebbe ascoltato davanti ad un palco improvvisato in mezzo al pubblico; qui la band pesta come una forsennata e noi saltiamo a tempo in un tripudio di sudore e polvere. In "Hammer" anche il basso si prende il suo spazio fin dal riff iniziale, pesante e distorto fino a quando il brano non sfocia in un break che ricorda "Sabotage" dei Beastie Boys. Non è ancora finita perché il pezzo evolve e si lancia in un finale da ballad che abbassa la tensione fino alla sua chiusura. Devo dire che l'elemento che contraddistingue il trio piemontese è il cantato, una ventata di freschezza che se ne frega dei tecnicismi e si butta a capofitto negli arrangiamenti strumentali con un'inclinazione che ricorda il college rock oltre oceano. Il volo pindarico di 'Urgency' si chiude con "100 Days" che non perde un colpo e viaggia come una scheggia impazzita che si è staccata da un modulo lunare, prendendo il largo verso l'infinito. La canzone rallenta con i suoi suoni dilatati, la batteria riduce i bpm e il cantato quasi sussurra le ultime strofe. Cala il sipario. Non accendete ancora le luci, vogliamo guastarci ancora 'Urgency' finchè le note riecheggiano nei nostri neuroni. (Michele Montanari)

(Brigante Records/Scatti Vorticosi/Edison Box - 2018)
Voto: 75

https://flyingdisk.bandcamp.com/album/urgency

venerdì 18 gennaio 2019

Anna Sage - Downward Motion

#PER CHI AMA: Hardcore, Converge
Grazie a Wikipedia, oggi ho scoperto che Ana Cumpănaș o Anna Sage era il nome di una prostituta austro-ungarica di origine rumena, soprannominata "la donna in rosso", che si rese famosa, non solo per aver aperto un bordello a Chicago, ma anche per aver aiutato l'FBI nel beccare il gangster John Dillinger. Forse affascinati da questa storia, i quattro ragazzi di Parigi devono aver scelto questo monicker per dare vita alla loro band che con l'EP 'Downward Motion', arrivano al loro secondo atto dopo l'EP del 2014 intitolato 'The Fourth Wall'. La band propone un feroce concentrato di hardcore sparato a tutta forza già dall'iniziale "Last Dose", una song che non lascia molto spazio alla melodia ma che anzi si diletta con un sound all'insegna della distruzione più totale. Due minuti e venti di ritmiche tese, voci rabbiose al vetriolo e rallentamenti apocalittici, che disorientano non poco l'ascoltatore. Con "Goddess", le cose non cambiano più di tanto: vi troviamo suoni dissonanti, vocals che tra urla varie, si danno una ripulita e trovano modo di fare l'occhiolino al post-hardcore, con un approccio più ruffiano. Non fatevi ingannare però, i nostri non devono essere proprio dei gentiluomini, anzi mi verrebbe da dire che sono crudeli violentatori della loro strumentazione che solo in un'apertura atmosferica, sembrano riuscire ad essere più avvicinabili. Per il resto, quelle che ascoltiamo, sono ritmiche di difficile digestione, che si muovono tra rallentamenti sludge e sfuriate metalcore. Ancor più fangosa la terza "When Prophecy Fails", che nella melodia di chitarra posta in sottofondo, sembra evidenziare un briciolo di umanità che pensavo non esistesse nelle corde dei nostri. Ma ripeto, non fatevi fregare, il quartetto transalpino ha un che di malvagio nel proprio sound, il che lo reputo estremamente seducente e caratterizzante. Non è però la solita solfa distruttiva quella che ascoltiamo nelle note nude e crude di questo 'Downward Emotion', la band infatti, nel suo rabbioso incedere, ha la capacità di catalizzare la nostra attenzione con un sound che vanta contenuti interessanti. L'incalzante interludio in posizione quattro del cd, fa da ponte con le ultime due canzoni del dischetto, gli ultimi sette minuti e qualcosa fatti di riffoni controllati, cattivi abbastanza per suggerirmi che ci sono punti di contatto tra gli Anna Sage ed i Converge ad esempio, e che "Missing One" è forse il pezzo più martellante, seppur più cadenzato, del disco. "Rope", l'ultima scheggia impazzita di questo 'Downward Emotion', è invece la song più incazzata delle sei qui contenute, sebbene a metà brano, i nostri espongano un vertiginoso cambio di ritmo, una tirata di freno a mano che provoca il più classico dei testa a coda in tangenziale, per gli ultimi novanta vertiginosi secondi di questo EP, che delineano la grande capacità dei nostri a muoversi sia su tempi serratissimi che su mid-tempo più ragionati. Sicuramente dei tipi da cui diffidare. (Francesco Scarci)

martedì 18 dicembre 2018

Mate's Fate - Eve

#PER CHI AMA: Metalcore/Post-Hardcore
Non sono mai stato il fan numero uno del metalcore. Scrivo da quasi vent'anni e francamente credo di averlo visto nascere, crescere e morire, per poi vederlo nuovamente riapparire molte altre volte. Tuttavia, ogni tanto mi piace avvicinarmi a qualche realtà meritevole del panorama metalcore mondiale e vedere a che punto stanno le cose, quali progressioni sono state fatte nel corso degli anni. Quest'oggi ho pensato di dare un ascolto ai francesi Mate's Fate per capire lo status del genere. 'Eve' è il debutto sulla lunga distanza del quintetto di Lione, dopo l'EP d'esordio dello scorso anno, 'A Home for All'. Il nuovo lavoro, rilasciato in un elegante digipack, contiene 10 song, che dall'iniziale "Alone" alla conclusiva "Eve", avranno modo di dirci di che pasta sono fatta questi giovani musicisti. Dicevamo di "Alone", l'opening track del disco: è una song che miscela egregiamente il metalcore con il post-hardcore, probabile retaggio dei nostri in un tempo non troppo lontano. Cosa aspettarsi? Beh, il classico rifferama potente e melodico tipico del genere, le vocals rabbiose, graffianti, e a tratti anche pulite, del frontman Matthieu, ed un ottimo lavoro dietro alla batteria, cosi come una ricerca di parti atmosferiche volte ad ammorbidire la proposta dell'ensemble transalpino. Ci riescono infatti con il più morbido attacco di "Peace", in cui la parte da leoni sembrano farla invece voce e batteria, la prima che si muove su molteplici tonalità, la seconda decisamente fantasiosa e tecnica. Le chitarre comunque crescono col tempo, ma non rappresentano la parte preponderante del pezzo se non dopo metà brano, quando divengono finalmente il vero driver del flusso sonoro dei nostri, col vocalist qui in veste di growler incallito. "Empty" è il classico brano con drumming sincopato e ritmiche sghembe, urla sguaiate ma anche vocals ammiccanti ai vari Tesseract o Architects. Muoviamoci su "Sadness", dove troviamo il featuring di Elio dei The Amsterdam Red-Light District, altra alternative punk rock band francese, in una song sicuramente carica di groove e melodie dal forte sapore catchy, in cui è interessante ascoltare i due vocalist duettare insieme. Il disco prosegue su questi binari fino al termine, non presentando particolari sussulti o trovate che mi inducano a pensare che il metalcore stia percorrendo nuove strade sperimentali. Probabilmente, l'eccezione alla regola è offerta da "Proud", una song dal mood malinconico che ho apprezzato più delle altre, o l'eterea (nel prologo e nel suo bridge) "Different", che proprio nel suo titolo sembra nascondere quel desiderio di sentirsi diversa dalle altre canzoni sin qui ascoltate e che alla fine, la pone di diritto in cima alle mie preferenze di 'Eve'. Ultima menzione per la title track, bella oscura, sebbene un cantato quasi rappato, davvero coinvolgente e più carica emotivamente parlando. Insomma, cose buone ed altre meno, alcune trovate interessanti sono spendibili per sottolineare la bontà di questa release, considerato poi che si tratta di un debutto, non possiamo che stimolare la band lionnese non solo a proseguire su questa strada, ma a cercare qualche variazione al tema, che spingerebbe i nostri a ritagliarsi un piccolo posto nell'iper inflazionato mondo metalcore. (Francesco Scarci)

martedì 27 novembre 2018

Ingrina - Etter Lys

#PER CHI AMA: Post Metal, Milanku
Ero preoccupato del fatto che 'Etter Lys' fosse un album strumentale (cosi riporta nei tag bandcamp) vicino a derive post-metal e post-hardcore; vista una durata che sfiora di sei secondi l'ora, la paura di annoiarsi, devo ammetterlo, era forte. Fortuna mia che questi oscuri Ingrina siano dei burloni, visto che già dall'opener, "Black Hole", il vocalist della band si abbandona a degli urlacci che supportano egregiamente un sound potente e carismatico, forte di una componente ritmica costituita da ben due batterie e tre chitarre. Le fondamenta di certo sono quelle del post-metal e la scelta di una cosi possente armata di musicisti, sembra evocare anche la formazione dei Cult of Luna. Fatto sta che il suono dei transalpini è godurioso, è raccomandabile peraltro di beneficiarne in cuffia, per assaporare tutte le sfaccettature di siffatta musica che tende a privilegiare la componente strumentale, tenendo ben presente l'importanza di avere una voce in seno alla band. I brani partono spesso in sordina, "Fluent" lo testimonia, ma poi crescono in intensità e ardore attraverso pluri-stratificazioni soniche deflagranti, urla disperate ma anche straordinarie aperture post-rock che smorzano una ferocia che ogni tanto sembra uscire dai binari del post e virare verso forme musicali più estreme. Niente paura perchè i nostri hanno una notevole padronanza del genere che propongono, quasi ineccepibile (lascio uno spiraglio di beneficio del dubbio) oltre ad un grande gusto per melodie in grado di generare una certa emotività di carattere malinconico. "Coil" è il terzo pezzo del disco e qui la monoliticità post-metal sembra cedere il posto ad un carattere più arioso ed etereo, in una sorta di post-rock e shoegaze, caratterizzati da ottime percussioni, vocals decisamente più diradate e giri di chitarra che sublimano in epiche fughe strumentali e rallentamenti atmosferici. Ragazzi, un pezzone dove tutto è straordinariamente bilanciato, potenza e melodia, rabbia e atmosfera, vocals e chitarre. Diverse sono le similitudini anche in "Resilience", piccola gemma strumentale incastonata in questo 'Etter Lys', mentre "Leeway" sembra strizzare l'occhiolino, in modo intermittente, un po' ai Cult of Luna e ai Rosetta, in un altro pezzone che mostra arrangiamenti da urlo, eccellenti partiture strumentali e momenti di grande atmosfera in grado più volte di indurmi brividi lungo la schiena. Si arriva ai quasi sedici minuti della suite "Surrender" e gli Ingrina mettono in mostra le loro capacità dronico ambientali in un pezzo che fa della sperimentazione il proprio punto di forza. L'andamento è lento, cantava qualche tempo fa un noto cantante italiano, e l'incedere della song emula proprio quell'ondivago avanzare, attraverso l'eccellente commistione di percussioni e chitarre che regalano sprazzi di grande classe musicale, che per certi versi, connette i nostri ad un'altra grande ex band della scuderia Tokyo Jupiter Records, i canadesi Milanku. Fatto sta, che a me questo disco piace, parecchio, lo trovo affascinante, creativo, intenso, regala grandi speranze per la vitalità del genere, un po' spentosi nell'ultimo periodo. L'ultima fatica è affidata a "Jailers", roboante nel suo incipit, cosi spettrale e magnetica nei rimanenti minuti che collocano questo 'Etter Lys' nella mia personale top three dell'anno in ambito post. Un piccolo capolavoro? Beh, manca davvero poco. (Francesco Scarci)

(Tokyo Jupiter Records - 2018)
Voto: 85

https://ingrina.bandcamp.com/album/etter-lys

lunedì 26 novembre 2018

Tritonica - Disforia

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Alternative
I Tritonica sono un power trio formato da chitarra/basso/batteria che hanno debuttato l'anno scorso a Roma con un EP e quest'anno ha pubblicato questo 'Disforia', full length prodotto da Dischi Bervisti. Il digisleeve cartonato a due ante è caratterizzato da un artwork astratto con spruzzi di colore potenti, dove i colori blu e rosso predominano. Se in psichiatria la disforia è l'alterazione dell'umore con una predominante inclinazione verso la depressione, i Tritonica esprimono tale concetto attraverso undici brani in bilico tra post-hardcore, alternative ed influenze grunge/stoner. Nel loro percorso attraverso la psiche umana, la band romana sprigiona ansia e terrore con la opening track "al-Ghazālī", dove le granitiche distorsioni e le dissonanze ad irritare i nostri neuroni, la fanno da padrone. Un brano veloce e rude, che urla contro il progresso e l'industria tramite ritmiche affannate e discontinue che si dilatano nell'intermezzo psichedelico. Se la parte strumentale richiama i Bachi da Pietra, il cantato in italiano confonde le idee, assomigliando prima a Cristiano Godano, diventando poi più rabbioso e incontrollato per enunciare un testo impegnato e accusatorio. "Alchimia del Fato" si sintonizza su frequenze diverse, ballando a lungo intorno al falò della vita alla ricerca del proprio io su un tappeto di funghi allucinogeni che cresce e monta verso il riff distorto che ne chiude il viaggio dopo circa sette minuti. Lo schema appena visto continua anche con "Jimi" che dopo un incipit soave e lisergico, si lancia in una progressione hard blues con pattern improcrastinabili e riff di chitarra e basso dall'impatto devastante in pure stile desert rock. Vari stop and go si susseguono lasciando spazio ai fraseggi di basso inizialmente quieti e leggeri che trasmutano in maniera oscura verso il finale. 'Disforia' è un concept album complesso a livello lirico, strumentalmente là dove serve, che si rilassa poi per dare spazi di riflessione alla mente che vive battaglie intestine di continuo. Solo alla fine, si arriva all'accettazione della pazzia che ci circonda e "Mimonesis" lo fa senza l'uso di parole, con continui sbalzi di decibel in una lunga e struggente sessione di jam che sembra morire ogni volta, ma invece riprende sbattendo la coda come un pesce che vuole aver salva la vita. A tutti i costi, perché è l'istinto di sopravvivenza a guidarci. (Michele Montanari)

(Dischi Bervisti - 2018)
Voto: 75

https://tritonica.bandcamp.com/album/disforia

mercoledì 21 novembre 2018

Avast - Mother Culture

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Deafheaven
Sono passati quasi due da quando recensii il primo album dei norvegesi Avast. Era infatti il 25 dicembre del 2016 quando pubblicammo, sulle pagine del Pozzo, la recensione dell'EP omonimo della band. Due pezzi che mi avevano colpito per quella loro selvaggia ed inquieta emotività di fondo. Oggi, i ragazzi di Stavanger tornano con un nuovo capitolo, 'Mother Culture', che tocca temi scottanti e d'attualità come quelli dei cambiamenti climatici, che cosi da vicino ci stanno coinvolgendo, dagli incendi della California alle concomitanti furibonde nevicate della East Coast, arrivando alle devastanti calamità che da poco hanno colpito anche il nostro paese. Su questi temi e il rapporto natura-uomo, ecco insinuarsi la musica degli Avast, attraverso sei pezzi di un blackgaze che risponde con forza e convinzione alla proposta degli statunitensi Deafheaven. Tutto questo è assai palese sin dall'opener, la title track, che si prende la grande responsabilità di aprire l'album. Signori chapeaù. La song è debordante, una maligna cavalcata post black (e con qualche ricamo hardcore), che nei suoi attimi di quiete, cede ovviamente il passo ad aperture eteree degne del miglior post rock d'autore e ad atmosfere che ricordano da vicino quelle degli Alcest. Un pezzone insomma, che trova conferma nell'esplosività di "Birth of Man", passando però prima attraverso le ispirate note strumentali della suadente e splendida "The Myth". La terza traccia conferma tutto l'ardore palesatosi nell'opening track, forse qui ancor maggiore; ci pensano però i break acustici a spezzarne la furia e stemperarne gli animi. E le chitarre tremolanti del duo formato da Ørjan e Tron, abbinate al drumming furente di Stian ed ai vocalizzi al vetriolo di Hans (peraltro anche bassista), rendono 'Mother Culture' un disco davvero degno di nota. "The World Belongs to Man" ha un piglio decisamente più orientato verso il post metal: affascinanti le linee melodiche, le ferali urla del frontman, cosi come le sfacciatissime accelerazioni post black di metà brano e il malinconico tremolo picking nella seconda parte del pezzo, in una salita emotivamente incandescente che avvicina i nostri ai miei preferiti di sempre, i nostrani Sunpocrisy. Arriviamo nel frattempo a "An Earnest Desire", song dalla quale i nostri hanno estratto il loro notevole video in bianco e nero, un viaggio dall'alto su desolate spiaggie, accompagnato dalle splendide sonorità blackgaze del quartetto norvegese. Ahimè, siamo già all'ultimo pezzo e "Man Belongs to the World" sancisce quel doppio filo che vede l'uomo legato alla natura e viceversa, in un'ultima galoppata, decisamente più ritmata delle precedenti, dove l'essere più controllati non significa per forza essere meno convincenti. Forse il pezzo perde un po' in fatto di imprevedibilità, ma il bel break acustico a metà brano, mette d'accordo tutti sulla qualità eccelsa degli Avast (anche in termini di produzione) e non fa altro che aumentare il mio desiderio di ascoltare quanto prima una nuova gelida proposta musicale dei quattro scandinavi. Nel frattempo, vi suggerisco di procedere in ordine, ascoltare il debut EP, e poi consumare questo 'Mother Culture' nel vostro lettore preferito, non ve ne pentirete di certo. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records/Karisma Rec - 2018)
Voto: 80

https://avastband.bandcamp.com/